Ulisse - LietoColle

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Ulisse - LietoColle
NUMERO 13: DOPO LA PROSA. POESIA E PROSA NELLE SCRITTURE CONTEMPORANEE
Editoriale di Italo Testa 3
IL DIBATTITO
GLI AUTORI
FUOCHI TEORICI
IN DIALOGO
LETTURE
Andrea Cortellessa 8
Paolo Giovannetti 13
Simone Giusti 18
Ron Silliman 21
Paolo Zublena 43
Alfonso Berardinelli 158
Gherardo Bortolotti 160
Franco Buffoni 162
Anna Maria Carpi 165
Maurizio Cucchi 167
Umberto Fiori 172
Marco Giovenale 174
Andrea Inglese 180
Angelo Lumelli 183
Guido Mazzoni 190
Laura Pugno 195
Fabio Pusterla 198
Andrea Raos 201
Flavio Santi 203
Giuliano Scabia 207
Franco Arminio 278
Nanni Balestrini 280
Mario Benedetti 283
Paolo Colagrande 284
Luigi Di Ruscio 286
Gabriele Frasca 289
Giuliano Guatta 290
Giancarlo Majorino 293
Francesco Osti 298
Luisa Pianzola 300
Rosa Pierno 302
Stefano Raimondi 304
Andrea Sartori 306
Giovanni Tuzet 310
PERCORSI ITALIANI
Giorgio Manganelli
di Filippo Milani 50
Goffredo Parise
di Giulia Rusconi 60
Giampiero Neri
di Victoria Surliuga 66
Elio Pagliarani
di Luigi Ballerini 68
Antonio Porta
di Tommaso Di Dio 73
Giovanni Raboni
di Concetta Di Franza 81
Eugenio De Signoribus
di Rodolfo Zucco 89
Valerio Magrelli
di Federico Francucci 103
Aldo Nove e Tommaso Ottonieri
di Gian Luca Picconi 123
Roberto Piumini
di Milva Maria Cappellini 136
Un excursus sul Novecento
di Plinio Perilli 142
I TRADOTTI
IDEE DELLA PROSA
Giorgio Agamben 211
Alfonso Berardinelli 213
Umberto Eco 218
Jorge Esquinca
tradotto da Damiano Abeni 316
Durs Grünbein
tradotto da Daniele Vecchiato 323
SCENARI EUROPEI
Barbara Köhler
tradotta da Daniele Vecchiato 327
Gianfranco Contini 230
Ermanno Krumm 240
Giovanni Nadiani 247
Sophie Loizeau
tradotta da Paola Cantù 334
AL DI LÀ DEI GENERI
Jérôme Game 264
Jean-Marie Gleize 267
Christophe Hanna 271
GAMMM 274
Ramón García Mateos
tradotto da Matteo Lefèvre 339
Plauto
tradotto da Roberto Piumini 347
Francis Ponge
tradotto da Italo Testa 349
Gustave Roud
tradotto da Pierre Lepori 350
Mark Strand
tradotto da Damiano Abeni e Moira Egan 356
m
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EDITORIALE
DOPO LA PROSA. POESIA E PROSA NELLE SCRITTURE CONTEMPORANEE
Quale idea della prosa si fa avanti nella letteratura contemporanea attraverso forme di scrittura che
sfuggono alle classificazioni tradizionali? E che cosa è, o cosa sarà una poesia che venga dopo la
prosa?
Se il fenomeno che ha portato la poesia verso la prosa – l‘avvicinamento asintotico del
verso alla prosa – è stato variamente indagato nella tradizione novecentesca italiana, resta tuttavia
da esplorare un più ampio orizzonte in cui prosa e poesia interagiscono, si rimescolano, subiscono
contraccolpi reciproci, andando in direzioni del tutto differenti dalla mera torsione prosastica della
poesia attraverso l‘immissione controllata di elementi dialogici, colloquiali, radenti.
Sono necessari allora nuovi viaggi di scoperta, volti a mappare sia le forme già codificate in cui la
poesia si presenta dopo la prosa (prosimetro; poema in prosa; poema narrativo, frammento lirico),
sia gli esiti che danno luogo a forme non classificabili secondo i generi tradizionali, e non
interpretabili secondo una idea meramente prosastica della prosa o meramente lirica della poesia. Si
apre qui un vasto fronte di esperimenti ibridi che includono forme di prosa non prosaiche, prose
sperimentali, prose in prosa… Un campionario di oggetti non identificati, a cavallo tra i generi,
coinvolti in un processo di ridefinizione della lingua e delle sue forme che sembra reinterrogare
radicalmente, e insieme, sia la nostra idea della poesia sia la nostra idea della prosa.
Non è a un partito preso della prosa – quasi si trattasse di stabilire un‘ulteriore storia
progressiva e lineare di oltrepassamenti – cui aderiamo promuovendo questa indagine. Il numero 13
de L‟Ulisse prosegue piuttosto le esplorazioni sulle metamorfosi delle forme poetiche
contemporanee dedicate nei numeri scorsi al teatro di poesia e alla lirica. Non è nemmeno scontato
che l‘esito del rimescolamento in atto non siano proprio forme di scrittura che dalla prosa si
allontanano, fuoriuscendo dal regime e dalla ritmica dell‘ordinario. È invece un compito descrittivo,
anzitutto, che sembra porsi con forza. Molto ancora ignoriamo di come prosa e poesia, nelle
pratiche di scrittura del novecento e della contemporaneità, si connettano e si dinamizzino
reciprocamente.
E questo problema descrittivo diventa tanto più acuto quanto più emerge la consapevolezza
che ad esso si lega un deficit teorico. Non è un mistero che diverse delle categorie che sono state
utilizzate per descrivere alcuni fenomeni di interpolazione tra poesia e prosa – ad esempio ‗poesia
in prosa‘, ‗prosa poetica‘ – abbiamo uno statuto incerto, sia per quanto riguarda il loro assestamento
lessicale e la loro diffusione all‘interno e all‘intersezione delle diverse tradizioni letterarie e critiche,
sia per quanto riguarda la loro consistenza interna, che è spesso apparsa governata dall‘ossimoro, e
quindi paradossale, se non contraddittoria. E pure i tentativi contemporanei di reagire
all‘obsolescenza delle vecchie categorie con strategie di risoluzione tautologica, o di myse en abyme
del problema , segnalano già verbalmente la permanenza di un problema concettuale irrisolto. Non è
peraltro chiaro se questa situazione sia dovuta alla fluidità intrinseca della pratiche che si
dovrebbero descrivere o ad una inadeguatezza della teoria, o ad entrambi i casi. Tanto più che la
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questione poesia/prosa sembra immediatamente legarsi al problema, avvertito da molti come vitale,
e che prevede diverse vie di fuga, del rapporto dinamico, o della transizione, o della ibridazione, o
del superamento dei generi. Certo la poesia è comunemente intesa come genere, o supergenere,
mentre non altrettanto sembra potersi dire della prosa, e tanto meno della prosa poetica, che almeno
storicamente appare piuttosto quale sottogenere poetico. Ma il carattere extragenerico della nozione
di ‗prosa‘ di per sé presa è anche il riflesso del fatto che laddove la poesia emerge nella prosa, o la
prosa nella poesia, è sempre in opera uno spostamento – ed uno straniamento anzitutto del ritmo – il
cui esito non può essere regimentato in anticipo.
Alla ridefinizione del rapporto tra poesia e prosa, all‘analisi teorica della categoria di ‗poesia
in prosa‘ – e della frase nuova come sua unità di base – e quindi alla diagnosi storica della sua
ascesa, della sua differenziazione, e della sua possibile obsolescenza entro i regimi di letterarietà
che si sono succeduti dopo Baudelaire, sono così dedicate la sezione Fuochi teorici, che raccoglie
contributi di Andrea Cortellessa, Paolo Giovannetti, Simone Giusti, Ron Silliman, Paolo Zublena, e
quindi la sezione Idee della prosa, che raccoglie alcuni saggi storicamente significativi di Giorgio
Agamben, Alfonso Berardinelli e Umberto Eco sulla prosimetricità del linguaggio, sulle ragioni
ultime della distinzione tra poesia e prosa (enjambement, rottura tra ritmo sonoro e semantico) e sul
fenomeno della poesia verso la prosa quale momento di ridefinizione dell‘assetto lirico moderno.
Nei Percorsi italiani le trame teoriche fanno da sfondo a tentativi di riattraversamento mirato della
letteratura italiana, dal secondo novecento agli anni zero. I saggi di Luigi Ballerini, Milva Maria
Cappellini, Tommaso Di Dio, Federico Francucci, Concetta Di Franza, Filippo Milani, Plinio
Perilli, Gianluca Picconi, Giulia Rusconi, Victoria Surliuga e Rodolfo Zucco ci accompagnano così
in una vasta e plurale indagine dove vengono prese in considerazione la produzione poetica di
prosatori o la produzione romanzesca di poeti, le diverse forme della presenza della prosa in opere
poetiche, poemi in prosa, nonversi e quasi prose, ma anche della lirica nel corpo della prosa, con
particolare attenzione per l‘opera di Giorgio Manganelli, Goffredo Parise, Giampiero Neri, Elio
Pagliarani, Giovanni Raboni, Eugenio De Signoribus, Valerio Magrelli, Aldo Nove, Tommaso
Ottonieri, Roberto Piumini.
La sezione In dialogo cerca quindi di entrare all‘interno del laboratorio di un campione
significativo di scritture in corso, chiamando un ampio e diversificato gruppo di scrittori italiani –
Alfonso Berardinelli, Gherardo Bortolotti, Franco Buffoni, Anna Maria Carpi, Maurizio Cucchi,
Umberto Fiori, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Angelo Lumelli, Guido Mazzoni, Laura Pugno,
Fabio Pusterla, Andrea Raos, Flavio Santi, Giuliano Scabia – a rispondere ad una serie di domande
sul rapporto tra poesia e prosa nella loro produzione e quindi ad offrire dei campioni testuali che
possano esemplificare tale lavoro.
Ad un allargamento del fuoco d‘indagine all‘ambito delle principali lingue europee sono
dedicati gli Scenari europei, con i saggi di Gianfranco Contini, Ermanno Krumm, Giovanni
Nadiani, sul poème en prose francese, sulla poesia narrativa inglese e sulla Kurzprosa tedesca, e
quindi la sezione Al di là dei generi, dove i saggi di Jerome Game, Jean-Marie Gleize e Robert
Hanna sulle poetiche dell‘evento e della nudità integrale, che puntano al di là di poesia e prosa
anche con l‘ausilio di nuove tecniche rappresentative, sono accompagnate da una campionatura, da
parte di Alessandro Broggi, dell‘esperienza del laboratorio/rivista di scrittura di ricerca GAMMM.
Infine la parte dedicata agli Autori raccoglie nelle Letture scritture in prosa di Franco
Arminio, Nanni Balestrini, Paolo Colagrande, Luigi Di Ruscio, Gabriele Frasca, Giuliano Guatta,
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Giancarlo Majorino, Francesco Osti, Luisa Pianzola, Rosa Pierno, Stefano Raimondi, Andrea
Sartori, Giovanni Tuzet, e nei Tradotti testi di Jorge Esquinca (tradotto da D. Abeni), Durs
Grünbein e Barbara Köhler (tradotti da D. Vecchiato), Sophie Loizeau (tradotta da P. Cantù),
Ramón Garcia Mates (tradotto da M. Lefèvre), Plauto (tradotto da R. Piumini), Francis Ponge
(tradotto da I. Testa), Gustav Roud (tradotto da P. Lepori), Mark Strand (tradotto da D. Abeni e M.
Egan).
Italo Testa
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IL DIBATTITO
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FUOCHI TEORICI
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ANDREA CORTELLESSA
LA PROSA COME FORMA DEL LIMITE
[…] Interrogare dalla porta novella età addentrantesi; onde con
un attimo, pur il contiguo, prendibile; propiziarla rimorsi per
tenuissime colpe, l‟illusione complementare, picasse pennellate
aspre vivide ristorative, con dispregio di quanto offertoci, lodi al
vendere, superstizioni augurali. Meglio sicché ogni ultimo del
penultimo, non aversi regimi oltre industre presagio. Tu
riconsigliarmi dalla statura, o bocca bocca bella con i baffini
furieri, imo sguardo quanto la Fossa, fulmineo l‟inestimabile
sorriso. Hélas. Lo sfincterallasvega. Ingravallo. Ed empiti di
tematiche wagneriane.
Dall‟ombra: Ultime I
Si ricava una pasta di vetro molle e densa che per il variate della
luce prende diverso colore, blu e oro. Formata da molti frammenti
di terre e conchiglie, oggetti fuori uso, che si mescolano insieme
come sabbia. Alla fine rivela una luce propria, che attraversa una
vasta ombra.
Procedimenti: Liceo
Non si può negare che La poesia verso la prosa di Alfonso Berardinelli(1) sia stato l‘intervento
―militante‖ più deciso e influente dell‘ultimo quindicennio. ―Militanti‖, perentorie e retoricamente
attrezzatissime (perentorie perché attrezzatissime), le tesi di Berardinelli sono esposte soprattutto
nel capitolo che polemizza con un classico come La struttura della lirica moderna di Hugo
Friedrich(2). Se il Novecento italiano – inteso come costellazione di stili e di poetiche, o nel suo
complesso come ―ideologia della poesia‖ – è l‘età della lirica moderna (o nuova, come nel titolo di
un‘antologia che fece epoca ma che di quell‘epoca fu anche, stando a questa ricostruzione, il canto
del cigno – Lirici nuovi, appunto: a cura di Luciano Anceschi, 1943), quella descritta da Friedrich
come fondamentalmente derivante dai grandi modelli del simbolismo francese (Rimbaud e
soprattutto Mallarmé), il Secondo Novecento o Contro-Novecento o Post-Novecento è l‘età di una
poesia ulteriore (postmoderna, in un paio di casi si spinge a definirla Berardinelli) che a
quell‘―ideologia della poesia‖ si contrappone rovesciandola come un guanto.
Non limitandosi più alla lirica, appunto, ma riscoprendo – anzitutto – gli altri generi: dalla
narrativa al teatro, dalla satira alla saggistica; e in generale ridando corso a tutte quelle istituzioni
che il Novecento aveva dismesso, preterito o semplicemente aggirato. È il tempo per esempio, lo si
accennava, di una rinascita della narratività (dimensione alla poesia preclusa dalla tendenza
all‘astrazione e all‘analogia, nonché al raddensamento e alla rastremazione, della lirica moderna):
che conosce realizzazioni stilisticamente antitetiche come La ragazza Carla di Pagliarani e La
camera da letto di Bertolucci. È il tempo, insomma, in cui l‘Italia non guarda più alla Francia,
rivolgendosi semmai alla poesia anglosassone: non solo a quella otto-novecentesca ma anche a
quella del passato ―metafisico‖ rimodernato – nel ―parallelo‖ Novecento anglosassone, appunto –
da Eliot (con la decisiva mediazione di Montale).
Berardinelli, con la brillantezza che lo contraddistingue, riassume tutto questo con la
formula che dà il titolo al suo libro: la poesia verso la prosa, appunto. Cioè l‘estensione – anche in
senso quantitativo – della narratività in luogo del raddensamento della lirica; l‘adesione a una
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dimensione più comunicativa e lineare, in definitiva razionalizzante, contro la precedente tendenza
all‘astrazione analogica; la scelta di una lingua meno irta e artificiosa, e al contempo meno eletta e
selezionata. Ma anche la presenza sempre più frequente, all‘interno dei libri di poesia, di veri e
propri inserti in prosa(3).
Se il Novecento ―francesizzante‖ in effetti non aveva fatto altro che ridare vita a uno spettro
ricorrente in realtà da annoverare fra i più resistenti caratteri genetici della cultura italiana di
sempre, Il fantasma di Petrarca (questo il titolo di un intervento recente dello stesso
Berardinelli)(4), il Contro-Novecento ―anglicizzante‖ insegue un contromodello a sua volta di
lunghissima durata, e cioè – volendo parafrasare – il ―fantasma di Dante‖. Ma già riconducendo a
Dante – punto di massima temperatura della mischung plurilinguistica, nonché sede delle più
acrobatiche astrazioni concettuali che la poesia occidentale abbia mai conosciuto (per non dire del
―manierismo‖, direbbe Ernst R. Curtius, delle composizioni enigmistiche e alfanumeriche) –
l‘antimodello del Novecento, è facile capire quanto sia discutibile una simile ricostruzione. Diciamo
che le si presta la definizione che Berardinelli, esordendo, dà del libro di Friedrich: «ha il fascino
indubbio della semplificazione e della sintesi». Eppure per gli anni Cinquanta e Sessanta – quelli di
formazione di Berardinelli, infatti – il modello, complessivamente, tiene. La ―svolta‖ di Montale
(già nell‘ultima parte della Bufera, e poi clamorosamente da Satura in giù) e quella del suo più
credibile continuatore, il Sereni degli Strumenti umani, lo sperimentalismo – principalmente rivolto
ai generi – di Pasolini, Bertolucci e Caproni, l‘esplosione della neoavanguardia di Sanguineti e
Pagliarani, l‘ironia teatralizzata di Giudici: è tutto un movimento, in effetti, verso la prosa (anche se
per Berardinelli il verso della formula è più sincronico che diacronico; e non si stanca di insistere su
quegli autori – da Saba a Penna – che anche nella prima metà del Novecento non si lasciano
ricondurre alla vulgata di Friedrich). Ancora più eloquentemente, sottolinea sempre Berardinelli,
mentre ancora nel ‘54 Pasolini poteva porre il più ―francese‖ dei nostri poeti (al punto di scrivere in
francese parte non disprezzabile della propria opera), Giuseppe Ungaretti, «al centro della storia
della poesia del Novecento»(5), già una decina di anni dopo quel posto gli era con tutta evidenza
stato rubato, nella percezione comune, dal suo grande rivale Montale.
Ma a partire dagli anni Settanta che il quadro appare complicato, in misura tale da non
lasciarsi più ricondurre a questo disegno. È in questo periodo, per esempio, che alcuni poeti di
notevole spessore – penso a Giampiero Neri, Cesare Greppi e Cosimo Ortesta – esordiscono
rinnovando la lezione della linea Rimbaud-Mallarmé, magari attraverso l‘esperienza irripetibile di
un grande ―maledetto‖ di primo Novecento, Dino Campana. Al quale si deve una forma di prosa
lirica altamente formalizzata: quella che ritroveremo, mutatis mutandis, nelle prime prove di Neri e
Ortesta (rispettivamente L‟aspetto occidentale del vestito, 1976, e La passione della biografia,
1977). Se in precedenza prosa poteva essere, insomma, metafora equivalente a quella
dell‘orizzontalità, ora si capisce meglio come sia lecito interpretarla, in corpore vili, anche in senso
diametralmente opposto: ossia, di nuovo, audacemente verticalizzante. Anche un‘autrice cara a
Berardinelli, Amelia Rosselli, in Diario ottuso (testo pubblicato nel ‘90 ma risalente agli anni ‘5468) usa la prosa non certo nella direzione di un‘orizzontalità lineare e razionale del senso:
precisamente all‘opposto.
Ma basti pensare alla parabola del più esemplare poeta italiano di secondo Novecento,
Sereni. Anche la sua poesia è stata letta (per esempio da Renato Nisticò)(6) come
complessivamente indirizzata verso la prosa; e certo un‘opera di svolta come Gli strumenti umani si
colloca – in una data sintomatica come il 1965 – al centro di questo collettivo cantiere italiano.
Eppure negli anni Settanta la ―linea‖ della poesia sereniana si fa molto più complessa e frastagliata.
Si fa sempre più inequivocabile, in particolare, il modello di un altro phare d‘oltralpe, ma stavolta
di secondo Novecento: René Char (che a più riprese Sereni traduce, e al quale nel suo meraviglioso
ultimo libro, Stella variabile, dedica otto straordinari, ―verticali‖ componimenti). Cioè,
precisamente, un grande maestro della prosa. Come grande artefice di prose è Francis Ponge: il cui
esempio è essenziale per Valerio Magrelli(7), ma sul quale anche Sereni riflette in uno dei suoi
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ultimi interventi saggistici, la bellissima conferenza dell‘80-81 Il lavoro del poeta, nella quale
sintomaticamente torna anche un riferimento a Ungaretti(8).
Che dire, poi, di Beckett? Il suo esempio ci fa capire come continuare a ipostatizzare il
valore Prosa – in una direzione o nell‘altra – sia una semplificazione che, per capire la poesia
italiana degli ultimi decenni, potrà essere utile a fini didattici ma, infine, fuorviante. L‘«arcigenere
risonante» costituito dall‘insieme della sua opera – in versi, in prosa, nella lingua verbo-gestuale del
teatro; in inglese, in francese, nello spazio fra le due lingue – ha lasciato tracce decisive in molti
degli autori più interessanti delle ultime generazioni: senz‘altro in Ortesta, soprattutto in Gabriele
Frasca ma anche, per fare un nome dell‘ultimissima vague, nella giovane Elisa Biagini.
In un suo acuto saggio Paolo Giovannetti, già prezioso storico del verso libero, ha ripercorso
le fortune italiane del genere poème en prose. Non è per caso che la traduzione più naturale di
questa dizione in italiano, ―poesia in prosa‖ (che invece Giovannetti giustamente propone), sia
sintagma sentito addirittura come impronunciabile, e comunque non abbia mai goduto di troppa
fortuna – mentre «l‘etichetta con cui si cerca più spesso di ottenere la massima approssimazione
concettuale al denotato baudelairiano, vale a dire ―(piccolo) poema in prosa‖, sconta una
deplorevole asimmetria semantica rispetto alla lingua d‘origine»(9). Il fatto è che ―poesia in prosa‖
è dizione sentita come ossimorica, ancipite e anfibia: e infatti «questa condizione di ―mediatezza‖,
questa ambiguità esibita, questo rinvio a codici complessi, polivoci, è il carattere in qualche modo
fondante della poesia in prosa in quanto genere»(10). Se si torna alla celebre nota prefatoria di
Baudelaire a Arsène Houssaye («le miracle d‘un prose poétique, musicale sans rythme et sans
rime»), si pensa che Baudelaire volesse indicare una ritmica negativa, «un ritmo-zero, ma non per
questo meno efficace e vincolante»: qualcosa che insomma, nei confronti del «sistema versificatorio
esistente», esprimesse «un profondo rifiuto»(11).
Nella tradizione novecentesca italiana, l‘indirizzo baudelairiano è stato per lo più
clamorosamente disatteso: a circolare è stata «un‘idea stilistica, formale della poesia in prosa, in
quanto pagina non versificata ove il non verso viene assiduamente compensato da altro, da ritmi
accessori di natura elocutiva, e da una dispositio artificiosa». È la tradizione del ―capitolo‖, della
―prosa d‘arte‖ dell‘entre-deux-guerres, proseguita però sino all‘attuale panorama orfico e
neoromantico – che ha relegato in subordine la poesia in prosa, «sentita quale residuato
avanguardistico»(12) (era stato infatti nell‘àmbito della cosiddetta ―narrativa futurista‖, infatti –
sebbene Giovannetti salti questo passaggio –, cioè presso il ―secondo‖ futurismo fiorentino di autori
come Ginna, Carli e Corra, che la forma autenticamente sans rythme et sans rime, quella cioè della
tradizione baudelairiana-rimboldina, aveva avuto il suo fuggevole momento di gloria nel nostro
paese)(13). Quest‘ultimo versante, anziché adire la via di un «progetto lirico positivo», fa prevalere
«comportamenti che procedono per sottrazione», che si fondano «sull‘assenza, la béance, lo scarto
rispetto all‘orizzonte d‘attesa»(14). Il saggio di Giovannetti si conclude indicando la poesia in
prosa, genere «marcato dal segno storico della contraddizione», come potenzialmente in grado di
«leggere e denunciare i limiti della lirica moderna, forzandone all‘estremo le potenzialità
conoscitive»(15).
Non è un caso che appunto – al cospetto dell‘irrigidirsi istituzionale del codice lirico, fra la
fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta – la poesia in prosa abbia conosciuto in Italia un
nuovo fervore di ricerca. S‘è detto di Ortesta e accennato a Giampiero Neri(16): straordinario (e per
questo riguardo quanto mai precoce) ―maestro in ombra‖, unanimemente ammesso a canone ma
sempre sforzandosi di annettere una presenza enigmatica ed esorbitante come la sua (sia pure, come
ha acutamente sottolineato Giorgio Luzzi, per via di sottrazione, anziché d‘iperbole e accumulo)
alla scolorita insegna dell‘«Etica del quotidiano»(17); mentre a ogni lettore dovrebbe apparire
evidente come nel suo caso «la questione centrale […] sia nel definire il rapporto tra le scelte
denotative, paratattiche, monosemantiche dello stile – in una sua disarmante forma di purezza
antimetaforica e antilirica per eccellenza – e la quantità delle direzioni investigative che il contenuto
del testo pone»(18).
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Un grande autore di prose ferme che però, a dispetto dell‘opinione degli avversatori, era
anche in grado di narrare era Antonio Pizzuto. Com‘è noto, lo scrittore siciliano distingueva la
narrazione dal racconto sulla base della prospettiva temporale. Se «il fatto è un‘astrazione», nei
termini gnoseologici dell‘allievo di Cosmo Guastella, «raccontare è proporsi di rappresentare
un‘azione, cioè uno svolgimento di fatti ma, anziché rappresentarli, il racconto in ultima analisi li
registra. Personaggi, eventi, dati psicologici, tutto si va pietrificando via via che lo si racconta».
Antidoto alla pietrificazione è allora una prospettiva presente, quella appunto della narrazione: «La
narrazione vince l‘assurdo di tradurre l‘azione in rappresentazioni perché riconosce che il fatto è
un‘astrazione»: «la rappresentazione non è più offerta ab extra, come una planimetria sottoposta al
lettore, ma scaturisce intuitivamente da ciò che legge, con una compartecipazione attiva, direbbe un
tomista in contuizione». La narrazione nei termini di Pizzuto non è più, dunque, «il ritratto»
dell‘azione «bensì una risonanza»(19).
Prose risonanti e al tempo stesso ferme (secondo quella tipica esperienza della
contemporaneità che Gabriele Frasca è solito definire, sulla scorta di Beckett, fremito fermo)(20)
sono spesso quelle di un cultore di Pizzuto quale è lo stesso Frasca(21) (i magnifici Orologi,
parziamente raccolti nella silloge Viceverso(22), e la sezione sette nella restaurata edizione 1999 di
Rame)(23), nonché di alcuni dei poeti del gruppo di «Anterem» (rivista e casa editrice veronese
attiva dal 1976 sino a oggi), fra i quali piace ricordare Rosa Pierno. Dal «dramma percettivo» di
quest‘ultima, evidente sin dall‘esordio Corpi (Anterem 1992), nel cui mosaico ―narrativo‖
«ciascuna tessera […] contiene di già il tutto da narrare»(24), sino alle più recenti prove di Musicale
(Via Herákleia 1999) e Arte da camera (Edizioni d‘If 2004) è una prosa, questa, che si presenta
come un corpo lacerato, e malgrado tutto ancora agitato da irredimibili fremiti fermi. Queste
―inquadrature‖ isolate fotografano con nettezza crudele le posture di un agone in corso. Rispetto
alla figurazione sconvolta di Bacon, pare mutuato il principio della camera ottica, impassibilmente
trasparente, che ostende il dramma corporeo in atto. A essere narrate sono dunque sensazioni, nel
senso deleuziano (mutuato da Valéry) di «ciò che si trasmette direttamente, evitando l‘espediente o
il tedio di una storia da narrare»(25).
In autori come questi si verifica, in ogni caso, una considerazione che Frasca ha svolto a
proposito di Beckett – ma che ha valore generalissimo: per la quale in situazioni di testualità
avanzata non può che prodursi una «prolifica indistinzione dei generi (il permanere dei quali, nei
nostri anni, è una sorta di rigidità cadaverica)»(26). Fare esperienza del limite significa anche
accorgersi che certi steccati tradizionali non hanno più motivo di sussistere.
Andrea Cortellessa
[Da Andrea Cortellessa, La fisica del senso, Fazi, 2006, pp. 39-43.]
Note.
(1) Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Torino, Bollati
Boringhieri, 1994.
(2) Cfr. Id., Le molti voci della poesia moderna [1983], ivi, pp. 23-43. Il capitolo apparve originariamente
come postfazione a contraggenio alla riedizione di Hugo Friedrich, La struttura della lirica moderna. Dalla
metà del XIX alla metà del XX secolo [1956], tr. it. di Piero Bernardini Marzolla, Milano, Garzanti, 1983.
(3) Fenomeno dalle ricchissime implicazioni strutturali e linguistiche al quale ha dedicato un numero
monografico, dal titolo La prosa nel corpo della poesia, la bella rivista «Istmi» diretta da Eugenio De
Signoribus, nel numero 11-12 del 2002.
(4) Cfr. Alfonso Berardinelli, Il fantasma di Petrarca, in Un‟altra storia. Petrarca nel Novecento italiano,
Atti del convegno di Roma, 4-6 ottobre 2001, a cura di Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 37-42.
(5) Pier Paolo Pasolini, Un poeta e Dio [1954], in Id., Passione e ideologia [1960]; ora in Id., Saggi sulla
letteratura e sull‟arte, cit., pp. 1092-1114: 1112; cit. in Alfonso Berardinelli, Quando nascono i poeti
moderni in Italia, in Id., La poesia verso la prosa, cit., pp. 88-110: 93.
(6) Cfr. Renato Nisticò, Nostalgia di presenze. La poesia di Sereni verso la prosa, Lecce, Piero Manni, 1998.
(7) Sino alle ultime, ottime prove – di nuovo in prosa – di Nel condominio di carne, Torino, Einaudi, 2003.
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(8) Inizialmente pubblicata sulla rivista «Incognita» nel marzo del 1982, si legge ora nel numero
monografico su Sereni di «Poetiche» (1999, 3, pp. 331-351) e, nella cura di Bruna Bianchi, nel bel volume
Poeti francesi letti da Vittorio Sereni, èdito dal Comune di Luino nel 2002, pp. 23-37.
(9) Paolo Giovannetti, Al ritmo dell‟ossimoro. Note sulla poesia in prosa italiana, in «Allegoria», 1998, 28,
p. 22.
(10) Ivi, p. 25.
(11) Ivi, p. 29.
(12) Ivi, p. 38.
(13) È anche il caso di rammentare come Marinetti, da sempre seguace di Mallarmé, al momento di tradurlo
abbia sentito la necessità di appiattire uniformemente la dizione italiana di Versi e prose (Milano, Istituto
Editoriale Italiano, 1916) in blocchetti prosastici aritmici. Del libretto esiste una riedizione einaudiana del
1987, con una Nota di Franco Fortini. Rinvio, per una più ampia discussione su questo punto, al mio La
poesia delle avanguardie, in Storia generale della letteratura italiana, cit., vol. X, La nascita del moderno,
pp. 252-285: 273-276.
(14) Paolo Giovannetti, Al ritmo dell‟ossimoro. Note sulla poesia in prosa italiana, cit., p. 30.
(15) Ivi, p. 40.
(16) «Sono d‘accordo con chi ha parlato di una sorta di diffidenza da parte mia nei confronti del verso. È
vero, in certe circostanze, il verso mi è parso, come strumento, meno duttile per dire certe cose che mi
premeva dire e per le quali la forma del poemetto in prosa mi sembrava più adeguata, più flessibile»
(Intervista a Giampiero Neri, a cura di Valeria Poggi, in «Poesia», 1989, 10, p. 25).
(17) Cfr. Giampiero Neri, in Poeti italiani del secondo Novecento, ed. cit., pp. 506-516 (e la nota di Maurizio
Cucchi, ivi, pp. 504-505). Come ha scritto Luzzi, «Forse da lui hanno preso le mosse (ma per lo più senza
accorgersi che il modello era inavvicinabile) talune esperienze di minimalizzazione formale che sono
intervenute nelle generazioni successive» (rec. a Giampiero Neri, Teatro naturale, Milano, Mondadori, 1998,
in «Poesia», 1998, 115, p. 21).
(18) Ibidem. «Il disegno che c‘è dietro l‘esistenza dell‘uomo, il disegno che c‘è dietro la natura, nonostante
la scienza, è ancora misterioso. È affascinante, ti incute soggezione» (Intervista a Giampiero Neri, cit., p.
25).
(19) Antonio Pizzuto, Vedutine circa la narrativa, in Id., Paginette [1964], Milano, il Saggiatore, 1972, pp.
188-189.
(20) Cfr. Gabriele Frasca, Per speculum in ænigmate, in Id., La scimmia di Dio. L‟emozione della guerra
mediale, Genova, Costa & Nolan, 1996, pp. 161 sgg. (specie a p. 206).
(21) Numerosissimi gli interventi di Frasca su Pizzuto. Si veda la riassuntiva (e polemica) Postfazione ad
Antonio Pizzuto, Narrare. Tutti i racconti, a cura di Antonio Pane, Napoli, Cronopio, 1999, pp. 105-124.
(22) Viceverso. Antologia di prosa poetica, curata dall‘animatore della coraggiosa casa editrice milanese
Corpo 10, Michelangelo Coviello (al quale si dovette – nel periodo in assoluto più buio per ogni forma di
sperimentazione – l‘uscita di Coniugativo di Tommaso Ottonieri e Rame di Frasca nel 1984, e del primo
romanzo di Frasca, Il fermo volere, nel 1987), uscì nel 1989: cogliendo proprio la novità della
sperimentazione in prosa di quegli anni. Nove orologi (fra i quali il sesto, settimo e ottavo aggiunti per
l‘occasione) confluiscono in Gabriele Frasca, Rive, Torino, Einaudi, 2001, pp. 13-37.
(23) Nella seconda edizione di Rame (Lavagna, Zona, 1999), la sezione sette (un set per 7 video) figura alle
pp. 53-68. Un‘ulteriore riscrittura è uscita in un volumetto a se stante: Gabriele Frasca, Sette (un set per 7
video), Napoli, D‘If, 2003.
(24) Gabriele Frasca, Accordi a piene mani, introduzione a Rosa Pierno, in Verso l‟inizio. Percorsi della
ricerca poetica oltre il Novecento, cit., pp. 88-91.
(25) Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione [1981], tr. it. di Stefano Verdicchio, Macerata,
Quodlibet, 1995, p. 86. Non è un caso, dunque, che la scrittura di Pierno si confronti sempre – a partire da
esperienze reali nel campo del restauro – con i processi, mentali e fisici, inerenti alla figurazione: dai
Taccuini e Diari di lavoro presenti in Buio e blu (Anterem 1993) alle Didascalie su Baruchello (Edizioni
Gridi 1994), da Interni d‟autore (Edizioni Joyce & Co. 1995) sino al citato Musicale (che si confronta, oltre
che con la musica, terza convocata nel campo intersemiotico, con le partiture grafiche d‘invenzione firmate
da Francesco Pennisi).
(26) Gabriele Frasca, La tegola dal cielo, in «Il piccolo Hans», 64, 1989-90, pp. 206-220: 218.
13
PAOLO GIOVANNETTI
LA POESIA SENZA VERSO
0. Può apparire curioso che un capitolo – seppur breve, seppur collocato in appendice – di un
manuale di metrica sia dedicato a una forma che per definizione è senza verso. Si sta parlando della
poesia in prosa. La sua storia, in effetti molto complessa, dapprima legata quasi solo alla letteratura
francese (cfr. almeno Bernard 1959 e Jechova et al. 1993; ma vedi, per un panorama complessivo,
Utrera Torremocha 1999), è soprattutto la storia di un‘assenza e di una vera e propria scommessa:
come sia possibile fare poesia senza ricorrere a strutture versificate.
Uno sguardo d‘assieme al fenomeno dovrebbe consentire di cogliere per lo meno due grandi
momenti: Il primo, arcaico, che va dal Settecento alla metà dell‘Ottocento, valorizza la prosa
soprattutto in quanto traduzione di un originale (vero o fittizio, poca importa) in effetti versificato,
di cui si restituisce la poeticità antecedente al ritmo. Implicita in questa posizione è una cultura, una
poetica, di tipo sensista, secondo la quale (come per esempio dichiara in Italia Leopardi nello
Zibaldone, in data 14 settembre 1821) il verso è solo uno dei segnali del poetico: la sua assenza non
scandalizza perché è controbilanciata da altri fattori, come la potenza delle immagini, l‘entusiasmo
soggettivo, l‘ispirazione ecc.
Il secondo momento, che può essere considerato in senso forte moderno, comincia con
Baudelaire (siamo intorno al 1860) e con i suoi «petits poèmes en prose», poi intitolati Spleen de
Paris. Questo fase ha una carica polemica e persino nichilistica del tutto ignota agli antecedenti
sette-ottocenteschi, perché Baudelaire svolge un‘opera in effetti distruttiva.
Da un lato, c‘è un attacco nei confronti del romanzo, di cui il nuovo genere vuol costituire la
frantumazione, lo smembramento in unità minori. Tra l‘altro è molto probabile che nel sintagma
«petit poème en prose», petit modifichi l‘intera espressione «poème en prose», significando un
―componimento poetico [lungo] scritto in prosa, reso [però] breve, accorciato‖; e che non accada
l‘opposto, cioè che petit si leghi a poème e che «en prose» modifichi la loro unione, come se
Baudelaire avesse fatto riferimento a ―brevi poesie, scritte in prosa‖. In generale Spleen de Paris è
lo spezzettamento, la miniaturizzazione di un‟unità più grande, di quel lungo poema che ormai è il
romanzo. La prima poesia in prosa è in effetti anti-romanzesca e quindi anti-narrativa.
Dall‘altro lato, c‘è una polemica contro la metrica tradizionale, perché Baudelaire vuole che
l‘assenza del ritmo (i suoi testi sono appunto «senza ritmo») sia ben presente al lettore, sia una
questione sempre aperta nella lettura dei testi.
Ecco, proprio quest‘ultimo punto è quello che rende la poesia in prosa interessantissima per il
metricista. Il rifiuto polemico della metrica e la sua possibile metamorfosi in qualcosa di differente
– al limite, in veri e propri versi dentro la prosa, come vedremo – implica un costante contrappunto
fra ciò che appare e ciò che potenzialmente è, tra la forma non marcata metricamente e una metrica
nascosta che preme dall‘esterno del testo. Il non-metro che la rivoluzione simbolista impone alla
letteratura mondiale ha uno statuto altamente ambiguo, ma certo nella sua forma più consapevole
non si accontenta di essere una bella prosa, di lunghezza limitata, perché vuole che il problema del
verso sia costantemente ridiscusso.
1. In Italia (come è stato esposto in Giusti 1999), le prime forme di poesia in prosa sono formazioni
di compromesso vicine al bozzetto, cioè a una narrazione molto statica: il caso forse più curioso è
quello delle Goccie d‟inchiostro (1879) di Carlo Dossi che, buon conoscitore ed estimatore di
Baudelaire, ne imita soprattutto la concisione. Del resto, una tradizione di succinte prose d‘arte,
―squisite‖ nella forma, è presente nei giornali letterari, e non solo, fra Otto e Novecento anche per
influenza dei romanzi-poemi di D‘Annunzio (si pensi alle Vergini delle rocce, 1895). E sarà forse
con le cosiddette Faville del maglio, appunto dannunziane, che dopo il 1910 un certo tipo di prosa
d‘arte levigata ed elegante finirà quasi per istituzionalizzarsi.
14
Questo sfondo spiega – probabilmente – perché alcune delle più importanti poesie in prosa
delle origini italiane (quelle di Boine, Jahier, Rebora e Onofri, soprattutto) si presentino ricche di
figure ritmiche sin troppo evidenti, di rime cioè e di versi. E si è parlato a loro proposito di un
genere in qualche modo codificato: del cosiddetto frammento (cfr. Valli 1980 e 2001). Il frammento
sarebbe cioè una reazione alla relativa prevedibilità di una forma che in Italia si è precocemente
prestata alla facile commerciabilità ―giornalistica‖. Clamoroso, ad esempio, è questo inizio di uno
dei testi di guerra di Rebora, intitolato Senza fanfara (e pubblicato nel 1917):
Si va per la strada profonda spastata, ingoiata. Confusion d‘ordine; file perdute: barcollii di volumi spossati
ricurvi, spossati e cacciati nel buio dal flutto dei morti che non è libero ancora, che non sarà libero mai, ma non
sa, non sapeva, e marcia e si posa e s‘apposta, perché così vuole qualcuno o qualcosa, perché si deve, si fa, non
si sa - per contro un nemico ch‘è fuori, il nemico che è noi.
Il ritmo è, di fatto, uniformemente dattilico, ternario: a partire dalla sequenza di quindici
sillabe iniziali, che anzi produce perfetti anfibrachi («Si và per la stràda profònda spastàta,
ingoiàta»: -+--+--+--+--+-), seguita da un endecasillabo con ictus di 4a e 7a e un decasillabo
anapestico («Confusion d‘òrdine; fìle perdùte: | barcollìi di volùmi spossàti»). Il passo procede
quindi monotono, con pochissime interruzioni all‘onda dattilica (notevole solo il settenario «ma non
sa, non sapeva») e con una fittissima rete di rime e di altre figure del suono, come ad esempio la
paronomasia («si posa e s‘apposta»). Bandini (1966: 34) ha parlato, a proposito di testi così
costruiti, di «ipocrisia formale»: si tratterebbe cioè di versi mascherati da prosa.
Nondimeno, il loro referente dialettico, l‘àmbito di appartenenza, deve essere colto, più che
nel campo della poesia versificata, nel dominio a cui appartiene la seguente chiusa di una notissima
poesia priva di metro. L‘autore è Montale, il testo è Visita a Fadin (contenuto nella Bufera, 1956,
ma la sua composizione risale al 1943; corsivi nel testo):
Essere sempre tra i primi e sapere, ecco ciò che conta, anche se il perché della rappresentazione ci sfugge. Chi ha
avuto da te quest‘alta lezione di decenza quotidiana (la più difficile delle virtù) può attendere senza fretta il libro
delle tue reliquie. La tua parola non era forse di quelle che si scrivono.
Certo, il primo colon («Essere sempre tra i primi e sapere») è un endecasillabo perfettamente
dattilico, ed è ripreso entro la parentesi («la più difficile delle virtù», ma senza ictus di 1a), mentre
la conclusione è marcata da un settenario sdrucciolo («di quelle che si scrivono»): però non si può
dire che l‘interesse metrico qui sia dominante, che anzi i corsivi sembrano enfatizzare la struttura
saggistica, o narrativo-saggistica, del testo. Quella di Montale è prosa-prosa, anche se elegantissima
e nobilitata da discontinue clausole ritmiche.
I due opposti esiti – quello reboriano e quello montaliano – sono interni al medesimo campo,
insomma. Dal punto di vista del genere letterario, entrambi appartengono al genere della poesia – se
non altro perché oggi si leggono in libri ritenuti di poesia –, anche se la loro forma esteriore è quella
della prosa. Entrambi, poi, chiedono al lettore una risposta in termini di riconoscimento metrico,
positivo o negativo: quasi un gioco a rimpiattino a caccia di versi e rime ora sin troppo presenti ora
sin troppo assenti.
2. Il fatto è che, nel Novecento italiano, questo tipo particolare di forma, altamente problematica ma
in fondo ben caratterizzata, è stata confusa con i prodotti di una tradizione in senso lato
giornalistica. Cominciata almeno con il D‘Annunzio delle Faville del maglio, tra anni Dieci e anni
Quaranta del secolo scorso tale tradizione prosastica ha dato vita a un genere particolare. Le
etichette specifiche sono state moltissime: elzeviro (dal nome del carattere usato per certi articoli in
terza pagina), pesce rosso (dal titolo di un‘opera di Emilio Cecchi, Pesci rossi, 1920), capitolo (la
definizione è di Enrico Falqui: cfr. Falqui 1938) sono le più note. In generale, si potrebbe parlare –
come spesso si fa in Francia con il sintagma corrispondente: «prose poétique» – di «prosa poetica»,
15
vale a dire di una prosa che per certe sue caratteristiche di stile presenta generici elementi di
poeticità.
Si tratta di un dominio quanto mai vario e, certo, persino incoerente (in fondo, dove una prosa
si presenti stilisticamente elaborata, là c‘è prosa poetica). Un esempio molto rappresentativo può
essere fornito dall‘attacco di un bellissimo pezzo di Carlo Emilio Gadda, Una mattinata ai macelli,
contenuto nelle Meraviglie d‟Italia del 1939:
I segni si rincorrono lungo la pista dello Zodiaco: già lo Scorpione abbranca il piatto della fuggitiva Bilancia. La
città, vorace acquirente, alletta al suo mercato indefettibile commissionari e negozianti di porci, mediatori,
macellari ed augusti bovari. È la più popolosa del nord, una delle più ricche, attivissima. Chi non mangia, non
lavora. Qualcosa, in pentola, deve bollire ad ogni costo: perché il martello abbia a cader pieno sul ferro o
adempiersi a un cenno lo smistamento dei veicoli indemoniati senza urti, senza risucchi.
La città si sveglia. Contro il sole già alto le case si levano bianche, ognuna per suo conto, quasi ammodernate
torri, dal verde vivido della pianura, che appare sottilmente ovattata dalle prime sue nebbie: i treni rallentano la
lunga corsa sopra i canali e le rogge, lungo gli stendimenti di infaticabili lavandai.
Una volta detto che, qualche paragrafo dopo, nel testo fa capolino in maniera esplicita l‘io
dell‘enunciatore («Vedo la la strapazzata masnada attendere [...]. Vedo che non tutti i cornuti [...]»
ecc.), proponiamo il confronto con una prosa di Vittorio Sereni, contenuta in una raccolta di poesia,
Diario d‟Algeria. Il titolo è Appunti da un sogno, e il testo risale al 1964:
I due cunicoli, con feritoie, ne farebbero in pratica uno solo se in mezzo non ci fosse uno slargo, una piazzuola
circolare.
Nello slargo, al centro dell‘unico labirinto che i due cunicoli formerebbero, ci sono io.
Vivo simultaneamente la vita che si svolge nei due cunicoli. A ogni feritoia, di profilo, mica guarda dalla feritoia,
c‘è un uomo, soldato o graduato. Ognuno veste la divisa cachi, più chiara quasi bianca quelli di là, inglesi o
americani, insomma nemici, indiscutibilmente nemici.
Dalla parte di quest‘altro cunicolo si apre una botola, no: una porta, una botola messa verticalmente.
Certo, il quarto di secolo trascorso fra i due testi incide molto, e una differenza notevole è data
dalle diverse lunghezze (più di dieci pagine Gadda, poco più di una pagina Sereni): ma è indubbio
che in entrambi i casi siamo di fronte a un racconto al tempo presente in cui l‘elemento descrittivo
svolge un ruolo centrale. Non mancano fattori ritmici in Sereni (l‘attacco è scandito da due
endecasillabi un po‘ faticosi: «I due cunicoli, con feritoie, / ne farebbero in pratica uno solo»), ma è
in Gadda che la metricità assume valori forti, quasi strutturanti, se per esempio pensiamo al
settenario sdrucciolo iniziale seguito da un doppio quinario parimenti sdrucciolo («I segni si
rincorrono | lungo la pista dello Zodiaco»), alla quasi-rima abbranca: Bilancia, o addirittura
all‘esametro presente nel secondo periodo del secondo paragrafo («Contro il sole già alto | le case si
levano bianche»).
Evidentemente, se escludiamo il riferimento alla lunghezza, i fenomeni decisivi che
permettono il riconoscimento di genere sono altri, di natura non formale: il contenuto onirico della
pagina sereniana, il fatto che Gadda stia parlando da osservatore di un luogo viceversa reale con
un‘intenzione di documentazione giornalistica. Dirimente, comunque, è il contesto in cui le due
opere si inseriscono: il componimento gaddiano esce su un quotidiano e poi confluisce in una
raccolta di sole prose, tutte di origine giornalistica; Sereni pubblica i suoi Appunti in un libro che
contiene quasi solo versi, e che tutti considerano ―di poesia‖.
Tutto ciò dovrebbe permettere una piena riconoscibilità delle diverse intenzioni, della natura
storica dei due testi: da un lato un tipo di prosa poetica (un elzeviro) e dall‘altro una poesia in
prosa.
In realtà, ciò non è avvenuto o è avvenuto solo parzialmente, e la cultura italiana, fino a non
molti anni fa (cfr. per esempio Menichetti 1990), ha faticato a distinguere con chiarezza le opposte
intenzioni in gioco. Uno dei nodi non ancora sciolti (ma vedi comunque il classico Beccaria 1964) è
poi la ritmicità ―naturale‖ della prosa letteraria, che non conosciamo ancora bene; ciò ci impedisce
di giudicare la funzione e l‘esatto valore espressivo dei versi che scopriamo in certe prose e che
16
potrebbero essere statisticamente comuni a qualsiasi testo scritto in prosa letteraria. Manca poi una
descrizione convincente, anche teorica, di quel tipo di prosa, ricchissimo di versi regolari e
continuati, che viene praticato da certi narratori ―puri‖, come ad esempio Silvio D‘Arzo (cfr.
Frasnedi 2003) o Vincenzo Consolo (nel suo Sorriso dell‟ignoto marinaio, del 1976, intere
sequenze narrative sono in endecasillabi: cfr. Finzi-Finzi 1978; Consolo 1996).
3. Forse non è per un caso se a partire dagli anni Settanta-Ottanta del Novecento, la poesia in prosa
italiana ha ripreso, ma radicalizzandoli, aspetti della dialettica verso-non verso che l‘aveva
caratterizzata sin dalla sua origine. Il principale poeta in prosa italiano a cavallo tra i due millenni è
Giampiero Neri, il cui componimento forse più noto è il seguente (Pesce d‟acqua dolce, contenuto
in Liceo, 1986):
Lavarello è il nome lombardo di un pesce che vive sul fondo del lago. Ha la testa piccola, come di chi deve
pensare poco. Ma per la forma si adatta alla profondità. Il colore è bianco argento. Sta nei confini dell‘acqua
scura, fredda e si suppone pigro e pacifico.
Sul banco del pescivendolo si vede qualche volta, il corpo coronato dal rosso vivo delle branchie.
che provocatoriamente si presenta come dimesso, privo di stile e sostanzialmente anche di ritmi
convenzionali (ma si badi allo scandito dodecasillabo per anfibrachi: «un pèsce che vìve sul fòndo
del làgo»). Ad esso, va contrapposta un‘opera sperimentale ma antica nei ritmi come Orologio ad
aria di Gabriele Frasca, contenuto in Rive del 2001. Si tenga presente che i punti fermi non hanno
valore solo logico-sintattico, ma servono a scandire anche pause della recitazione:
e adesso cosa. cos‘è che si chiude. vediamo. forse un pugno di minuti. una mezza dozzina fra le nude sequenze
incalcolabili. diciamo qualche attimo dicibile. fra muti lunghi intervalli. adagiato sull‘amo del tempo. a fremere
come la vita ancora fermentasse. in quella spoglia morta appena essiccata fra le dita. in questa gelatina dove
torno. a sommozzarmi ancora nella voglia di trarti via di qua. sperderti torno torno [...]
Si tratta di un testo che, in realtà, è composto di endecasillabi. Non solo: le rime che lo
punteggiano in maniera sistematica producono una struttura metricamente regolare, nella forma di
terzine legate a due a due dalla rima centrale, secondo lo schema ―pascoliano‖ ABA, CBC, DED,
FEF ecc. Per maggior chiarezza, ecco come può essere riscritto il passo citato:
e adesso cosa. cos‘è che si chiude.
vediamo. forse un pugno di minuti.
una mezza dozzina fra le nude
sequenze incalcolabili. diciamo
qualche attimo dicibile. fra muti
lunghi intervalli. adagiato sull‘amo
del tempo. a fremere come la vita
ancora fermentasse. in quella spoglia
morta appena essiccata fra le dita.
in questa gelatina dove torno.
a sommozzarmi ancora nella voglia
di trarti via di qua. sperderti torno [/torno]
Ovviamente, Frasca non è Rebora, e la poesia in prosa di Neri non molto ha a che fare con
quella montaliana. La dialettica di superficie è però la stessa, a confermare che il tema forse
primario della poesia in prosa è il nesso tra apparenza e sostanza, tra ciò che effettivamente
leggiamo e il rinvio a qualcosa che non c‘è, al verso possibile.
Semmai, andrà notato che le due opposte scelte forzano la poesia in prosa in direzioni forse
irriducibili: quella di Frasca è una prosa che deve essere letta ad alta voce, scandendola; quella di
Neri appare all‘opposto silenziosa, di natura quasi soltanto tipografica.
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Su quest‘ultima strada, e anche grazie alla diffusione di forme «post-poetiche» di origine francese e
nordamericana (cfr. Prosa in prosa 2009), oggi si comincia addirittura a parlare di «prosa in prosa».
Con questo sintagma s‘intende segnalare l‘esistenza di opere non versificate, inserite in contesti in
qualche modo ancora ―poetici‖, che però rifiutano ogni richiamo al lirismo e, soprattutto, alla
metrica anche come fenomeno virtuale. La loro natura di opere nate dal montaggio di testi di varia
natura, molto spesso non letterari, produce un effetto desublimante che giustifica il passaggio dal
mondo alto e istituzionale della poesia in prosa a quello privo di legittimazioni nostalgiche appunto
della prosa in prosa. Ne esce in qualche modo rafforzata la silenziosità degli enunciati, la loro
intenzione di costituirsi come «installazioni» mute in attesa di uno sguardo (e non di un orecchio).
Si cita un pezzo, di Alessandro Broggi, Nuova situazione, da Nuovo paesaggio italiano (2008):
I.
Anna è una donna con un uomo, con degli amici che parlano di lei. Che la invitano a cena, che la stimano.
II.
Vivo una relazione felice, ricca e sana: proprio per questo, dopo aver avuto rapporti molto deludenti, posso
affermare che ci sono anche uomini che ci fanno del bene. Certo, la fatica è tanta, ma esperienze come
questa ti aprono gli occhi.
Paolo Giovannetti
[Dal volume: Gianfranca Lavezzi – Paolo Giovannetti, Introduzione allo studio della metrica
italiana contemporanea, in corso di stampa presso l‘editore Carocci.]
Opere critiche citate:
Beccaria, G. L. (1964), Ritmo e melodia nella prosa italiana. Studi e ricerche sulla prosa d‟arte, Olschki,
Firenze.
Bandini, F. (1966), Elementi di espressionismo linguistico in Rebora, in Ricerche (1966: 3-35).
Bernard, S. (1959), Le poème en prose de Baudelaire jusqu‟à nos jours, Nizet, Paris.
Consolo, V. (1996), Per una metrica della memoria, in ―Bollettino 900‖, 2, II semestre,
<www2.comune.bologna.it/bologna/boll900/consolo2.htm> (ultimo accesso, 8 ottobre 2009).
Falqui, E. (1938), Capitoli. Per una storia della nostra prosa d‟arte del Novecento. Antologia, seconda
edizione con postille, Mursia, Milano1964.
Finzi, A. – Finzi, M. (1978), Strutture metriche della prosa di Vincenzo Consolo, in ―Linguistica e
letteratura‖, III, 2, pp. 121-35.
Frasnedi, F. (2003), Pensare ad altro. Saggio su Silvio D‟Arzo, in S. D‘Arzo, Opere, introduzioni di A.
Bertoni, F. Frasnedi, a cura di S. Costanzi, E. Orlandini, A. Sebastiani, Monte Università Parma, Parma, pp.
XXVI-LXXIV.
Giusti, S. (1999), L‟instaurazione del poemetto in prosa (1879-1898), Pensa Multimedia, Lecce.
Jechova, H. et al. (a cura di) (1993), La poésie en prose des Lumières au Romantisme (1760-1820), Presses
de l‘Université de Paris-Sorbonne, Paris.
Menichetti, A. (1990), Testi di frontiera tra poesia e prosa, in Id., Saggi metrici, a cura di P. Gresti e M.
Zenari, Edizioni del Galluzzo, Firenze, pp. 349-66.
Prosa in prosa (2009), con 504 illustrazioni in bianco e nero nel testo, introduzione di P. Giovannetti, note di
lettura di A. Loreto, Le lettere, Firenze.
Utrera Torremocha, M. V. (1999), Teoría del poema en prosa, Universidad de Sevilla, Sevilla.
Valli, D. (1980), Vita e morte del “Frammento” in Italia, Milella, Lecce.
Valli, D. (2001), Dal frammento alla prosa d‟arte, con alcuni sondaggi sulla prosa di poeti, Pensa
Multimedia, Lecce.
18
SIMONE GIUSTI
PERDITA D’AUREOLA:
LA LETTERATURA COME NEGOZIAZIONE E INTERAZIONE
Nel 1857, oltre centocinquanta anni fa, Charles Baudelaire pubblicava il suo libro più importante,
Les Fleurs du mal, quello che Walter Benjamin considera l‘ultimo libro di poesie che ha potuto
conoscere un successo di massa, «l‘ultimo testo di poesia lirica che abbia avuto una risonanza
europea» (Benjamin, 1955, p. 128). Negli anni successivi, mentre continua a scrivere poesie e
traduce i racconti di Edgar Allan Poe, scrive e pubblica su rivista delle brevi poesie in prosa – petits
poèmes en prose – che avrebbero dovuto comporre un volume mai concluso e mai pubblicato in
vita. Questi testi – che in italiano vengono tradotti generalmente con l‘espressione poemetti in prosa
– vengono pubblicati in volume nel 1869. Si tratta di cinquanta frammenti, racconti brevi o
microsceneggiature che insieme compongono un affresco della città di Parigi.
Il testo numero XLVI racconta una storiella, messa in scena in forma di dialogo:
―Ehi! Cosa vedo? Voi qui, mio caro? Voi, in posto così malfamato! Voi, il bevitore d‘ogni quintessenza!
Voi, il mangiatore d‘ambrosia! Davvero, c‘è di che sorprendersi‖.
―Caro mio, voi sapete il mio terrore dei cavalli e delle vetture. Poco fa, mentre attraversavo il boulevard, di
gran carriera, certo, saltellando qui e là nel fango, in mezzo a quel mobile caos dove la morte arriva al galoppo
da ogni parte e simultaneamente, ecco che la mia aureola per un brusco movimento m‘è scivolata dalla testa nel
fango della carreggiata. E non ho avuto il coraggio di riprenderla, ma ho giudicato meno disdicevole perdere le
mie insegne piuttosto che farmi rompere l‘osso del collo. E poi, mi son detto, non tutto il male viene per nuocere.
Adesso posso andarmene a zonzo in incognito, compiere basse azioni, darmi alla crapula come un qualunque
mortale. Ed eccomi qui, proprio simile a voi, come mi vedete!‖
―Ma almeno dovreste far mettere un avviso per questa aureola, o andare alla polizia o reclamarla agli
oggetti smarriti‖.
―Dio mio, no davvero! Mi trovo così bene qui. Soltanto voi mi avete riconosciuto. D‘altra parte la dignità
m‘annoia. E poi penso con gioia che qualche poeta d‘accatto la raccoglierà e se ne incoronerà impunemente. Far
felice qualcuno, che bello! Felice, e soprattutto capace di farmi ridere! Pensate a X., o a Z.! Sarebbe il colmo,
no?‖(1).
Si tratta di una storia aperta a molteplici interpretazioni, che dice poco e lascia molto spazio al
lettore. Siamo in città – siamo autorizzati a immaginare un boulevard parigino di metà Ottocento, e
siamo autorizzati a pensare ad un poeta spaventato e tuttavia affascinato dalla folla, – e assistiamo
all‘incontro tra due persone. Sono due conoscenti: uno sappiamo con certezza essere un poeta,
l‘altro potrebbe essere un lettore, o comunque un amico, uno che è in grado di riconoscere il poeta
anche senza la sua aureola. I due si incontrano in un luogo malfamato, che evidentemente non viene
frequentato solitamente dai poeti ―aureolati‖. Il poeta, sorpreso a frequentare quell‘ambiente,
racconta una storia che sembra avere la funzione di giustificare la sua presenza in quel posto. Egli
racconta di come, durante l‘attraversamento di una strada fangosa e trafficata, abbia perduto
l‘aureola, segno visibile della sua condizione sociale di poeta. Il fatto non sembra turbare il
protagonista, il quale, evidentemente sollevato di un peso, si diverte a pensare al momento in cui
qualche suo collega meno riconosciuto troverebbe le insegne infangate per fregiarsene di fronte ai
concittadini ammirati.
I critici letterari hanno letto la storia prestando attenzione ai suoi risvolti sociali e politici. La
―perdita d‘aureola‖ è divenuta per alcuni l‘emblema delle avanguardie artistiche ed è stata
19
ricondotta al marxismo: la poesia sarebbe una merce, un prodotto da vendere, mentre il poeta,
privato del ruolo di vate, sarebbe un lavoratore, un venditore di forza-lavoro, che assume il ruolo di
antagonista all‘interno di un sistema regolato da leggi economiche (Curi, 1977, p. 11).
Se proviamo a leggere il testo all‘interno del libro e, ancor più in generale, nel sistema
letterario della seconda metà dell‘Ottocento, colpiscono altri elementi. Innanzitutto il titolo, Petits
poèmes en prose – Poemetti in prosa o Poesie in prosa – che mette in rilievo la particolarità del
genere prescelto. Baudelaire, autore di poesie, quando pubblica questi testi sulle riviste tende a
mettere in evidenza la diversità e allo stesso tempo l‘affinità delle sue prose con le poesie.
Innanzitutto i petits poèmes en prose trattano gli stessi temi delle poesie, mettono in scena gli stessi
personaggi e gli stessi ambienti. Come le poesie delle Fleurs du mal, queste prose sono brevi,
concise. E come nelle sue poesie, in questi testi Baudelaire ci parla in modo esplicito del poeta e
della poesia. Si pensi alla famosa poesia L‟albatros, dove il poeta è paragonato all‘albatro, deriso
dai marinai per la sua goffaggine quando si appoggia a terra e invece ammirato dagli stessi quando
vola alto in mezzo alle nuvole. E si pensi a Perdita d‟aureola, con un altro poeta alle prese con un
contrasto, una dualità evidente: da una parte il caos della città, pericoloso ma affascinante coi suoi
luoghi malfamati, dove ci si può mescolare con la folla anonima; dall‘altra l‘ordine di un mondo
regolato da convenzioni, dove un‘aureola è sufficiente a fare un poeta, ad elevare una persona al di
sopra della folla anonima.
Tuttavia, nonostante le affinità, le poesie o poemetti in prosa sono tra di loro radicalmente
differenti almeno per un aspetto: le prime sono in versi, le seconde in prosa. È come se il poeta della
nostra storia avesse scelto di rifugiarsi nell‘anonimato della prosa. Non è forse il verso, l‘a capo, la
versura, il segno distintivo della poesia? Non potrebbe alludere proprio al verso, l‘aureola del
poeta? La vera scommessa del poeta, in questo caso, consiste nel riuscire a fare della poesia senza il
verso; fare della poesia, appunto, in prosa (Giusti, 2005).
La perdita dell‘aureola coinciderebbe con la perdita del verso: una liberazione del poeta sia
dalle rigide strutture compositive della poesia, sia, soprattutto, dagli automatismi comunicativi che
esse rappresentano. Il poeta vero rifiuta cioè di essere un versificatore che soddisfa le aspettative dei
lettori. Egli vuole invece scoprire nuove modalità di relazione col lettore, che deve stupirsi di
trovare la poeticità altrove, in luoghi inconsueti e incredibili, come, ad esempio, nei bassifondi della
prosa.
Una volta accettato che può esistere la poesia fuori dal verso si tratta di lavorare su quegli
elementi che conferiscono gli effetti della poeticità. Essere poeti senza mostrarsi poeti. Ottenere un
effetto sul lettore senza affidarsi a scorciatoie, senza confidare nell‘esistenza di una poesia e di una
poeticità al di fuori della mente del lettore. È il lettore che deve trovare la poeticità e la letterarietà
nell‘esperienza della lettura.
In questo testo – e nell‘intera opera di Baudelaire – possiamo leggere questa transizione da un
mondo in cui esistono la Poesia e la Letteratura ad un mondo in cui esistono dei testi che i lettori,
attraverso la lettura, considerano poesia e letteratura.
Si potrebbe anche dire – usando la terminologia della teoria letteraria (Genette, 1991) – che
con Baudelaire si passa da un regime costitutivo della letterarietà, tipico delle poetiche essenzialiste
– le poetiche classiche, ad esempio, che sostengono una letterarietà per natura o per definizione,
immutabile – ad un regime condizionale della letterarietà, dove la poeticità può essere stabilita solo
da un giudizio di ordine estetico e quindi ‗concordata‘ di volta in volta dall‘autore e dal lettore
(Genette G., 1991). Accettare questo, esserne consapevoli, significa innanzitutto prendere in
20
considerazione la presenza attiva del lettore sulla pagina, accogliendone allo stesso tempo le
capacità percettive e ricettive.
Privato dell‘aureola, l‘autore deve affidare al testo il compito di aprire una trattativa con il
lettore concreto. Il lettore – l‘Hypocrite lecteur – è necessario perché la letteratura esista, per la sua
co-costruzione, per la definizione del quadro di valori e del sistema di significati che fanno sì che
un‘esperienza venga percepita come letteraria. «È la poesia (il testo) che agisce sul lettore: è il
lettore che fa la poesia (il testo). L‘autore ha il compito di mettere in moto il processo di reciproco
riconoscimento della poesia nel lettore, del lettore nella poesia» (Giusti, 2005, p. 20). La letteratura
diventa il luogo della trattativa e della negoziazione dei significati. E il poemetto in prosa intitolato
Perdita d‟aureola può essere il testo in cui diventa visibile e condivisibile questa condizione
instabile e precaria del significato stesso. Perché se non ci si può fidare dell‘aureola, se non
possiamo dire con certezza che quello con l‘aureola è un poeta o un buffone mascherato da poeta,
allora non ci possiamo fidare di nessun altra parola, di nessun altro significato. Siamo chiamati a
decidere ad ogni nuova lettura, ad ogni nuova esperienza.
Simone Giusti
Note.
(1) Traduzione di Gianni D‘Elia (Baudelaire, 1869).
Bibliografia citata:
Walter Benjamin, Schriften. Hrsg. von Theodor W. Adorno und Gretel Adorno unter Mitwirkung von Friedrich
Podszus. 2 Bände. Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1955
Fausto Curi,Perdita d'aureola, Einaudi, Torino, 1977.
Gérard Genette,Fiction et diction, 1991 (Finzione e dizione, tr. Sergio Atzeni, Pratiche, Parma,1994)
Simone Giusti, La congiura stabilita. Dialoghi e comparazioni tra Ottocento e Novecento,Angeli, Milano, 2005.
21
RON SILLIMAN
LA FRASE NUOVA
To please a young man there should be sentences. What are sentences. Like
what are sentences. In the part of sentences it for him is happily all. They will
name sentences for him. Sentences are called sentences.(1)
Gertrude Stein
Il solo ed unico precedente che riesco a trovare per quel che riguarda la frase nuova è Kora
all‟inferno ma anche quello piuttosto forzato.
Avanzerò un‘ipotesi e, cioè, che c‘è qualche cosa come la frase nuova e che, ad oggi, si presenta più
o meno esclusivamente nella prosa della Bay Area. Di conseguenza, questa discussione tende ad
affrontare la questione della poesia in prosa. Ho detto che tende perché, al fine di comprendere
come mai si capisce così poco delle frasi e delle poesie in prosa, è necessaria una certa quantità di
materiale pregresso.
L‘ipotesi di una frase nuova suggerisce una comprensione generale della frase in sé, sullo sfondo
della quale si possa disegnare un‘evoluzione o uno spostamento.
Questo pone un primo problema. Non c‘è un consenso adeguato, nel campo della linguistica, della
filosofia e della critica letteraria, per quel che riguarda la definizione di frase. Per quanto strano
possa sembrare, c‘è una ragione per tutto ciò.
Milka Ivić, in Trends in linguistics, segnalava che i linguisti, a partire dagli anni ‗30, avevano
proposto e via via usato più di 160 definizioni di ―frase‖.
La parola frase è, di per sé, relativamente recente quanto alle proprie origini, stando all‘OED(2),
dato che deriva dal francese del XII secolo. Come sostantivo, l‘OED ne propone 9 definizioni. Tra
le altre:
5) Una porzione indefinita di un discorso o di uno scritto.
6) Una serie coerente di parole in un discorso o in uno scritto, formante l‘espressione grammaticalmente
completa di un singolo pensiero; nell‘uso popolare spesso in quanto porzione di una composizione o di una
dichiarazione che si estenda da un punto fermo all‟altro.
Questa definizione è datata 1447.
Contenuta nella sesta definizione c‘è la notazione che, grammaticalmente, una frase può essere sia
una proposizione che una domanda, un comando o una richiesta, e che contiene soggetto e
predicato, benché uno di questi possa essere assente per ellissi; allo stesso modo l‘OED riconosce
tre classi di frasi: semplici, composte e complesse, e nota che una parola da sola può avere il valore
di frase.
Nel numero di Scientific American del novembre 1978, Breyne Arlene Moskowitz offre una
presentazione sommaria degli sviluppi recenti nella teoria dell‘acquisizione del linguaggio nei
bambini:
Il primo stadio del linguaggio infantile è quello in cui la lunghezza massima delle frasi è di una parola; è seguito
da uno stadio in cui la lunghezza massima è di due parole [...] Nel momento in cui il bambino formula frasi di
due parole con una certa regolarità, il suo lessico può includere alcune centinaia di parole [...] un criterio
importante è l‘informatività, cioè il bambino seleziona una parola riflettendo ciò che è nuovo in una particolare
situazione.(3)
22
Ecco una conversazione abbreviata tra un bambino, allo stadio della parola unica, e un adulto, che
indica la funzione frasale delle singole parole:
B: Car. Car.
A: What?
B: Go. Go.
A. What?
B: Bus. Bus. Bus
A: Bicycle?
B. No!(4)
Ma anche prima dello stadio della parola unica, il bambino si mette a giocare con la prosodia
balbettante di forme di frasi che sono nettamente più lunghe, fino a che gradualmente non vengono
acquisiti i contorni dell‘intonazione di un discorso normale. Questo suggerisce che il bambino sente
le frasi prima ancora che sia in grado di scomporle in unità più piccole – cioè che la frase, in un
certo senso, è un‘unità primaria del linguaggio.
Vale la pena notare anche l‘assenza di uno stadio a tre parole. Dallo stadio a due parole, un infante
entra direttamente nel regno delle frasi a lunghezza variabile.
Infine, si dovrebbe notare con attenzione che Moskowitz sta parlando del discorso, non della
scrittura, una distinzione che sarà sempre più importante.
Ecco un altro esempio di discorso, una conversazione telefonica:
E: Hello?
L: Hi Ed.
E: Hi Lisa.
L: I‘m running around here trying to get my machines done [+] and I‘d like to get it all done before I leave, [+]
so I won‘t have to come back. [-] So that might push us up till near two. How is that?
E: That‘s fine. My only thing is I have to leave here like around 3:15 or so.
L: 3:15. [-] Ok. Let me see how I‘m doing here, [+] then I‘ll give you a call right before I‘m going to leave.
E. Ok. [-] Fine.
L. Okey doke. Bye bye.
E. Bye.(5)
Ed Friedman ha scritto questa conversazione come se avesse fino a 16 frasi distinte. Ci sono almeno
6 punti, in questa piccola sceneggiatura, che avrebbero potuto essere trascritti diversamente (indicati
dai segni + o – inseriti nel testo), ricostruendo così la conversazione come con un minimo di 13 ed
un massimo di 19 frasi. Ci sono, in effetti, 64 modi distinti di trascrivere questa conversazione
senza alterare radicalmente l‘accettabilità di nessuna delle sue frasi.
La qual cosa ci porta alla questione non tanto della frase nel discorso ma, piuttosto, nella linguistica
moderna, come disciplina e tradizione, che normalmente si fa iniziare con il Corso di linguistica
generale di Saussure. In quell‘opera, Saussure fa menzione della frase in sole tre occasioni. Tutte e
tre hanno luogo nella seconda parte del corso, che si occupa della linguistica sincronica.
Il primo riferimento è nel punto in cui viene trattata la localizzazione di unità di delimitazione
pratica del linguaggio. Secondo la citazione, Saussure dice:
Una teoria, condivisa piuttosto ampiamente, individua le frasi come le unità concrete del linguaggio: parliamo
essenzialmente per frasi e, in un secondo momento, isoliamo le singole parole. Ma in che misura la frase
appartiene alla lingua [langue]? Se appartiene al parlato [parole], la frase non può passare per unità linguistica.
Ma supponiamo pure che questa difficoltà sia risolta. Se ci immaginiamo, nella loro totalità, le frasi che possono
essere emesse, la caratteristica che colpisce di più è che in nessuno modo l‘una assomiglia all‘altra [...] la
diversità è dominante, e quando cerchiamo l‘anello che fa da ponte alla loro diversità, di nuovo troviamo, senza
averla cercata, la parola [...](6)
23
La distinzione tra lingua e parlato (langue e parole) è decisiva. Saussure sta analizzando solo uno
degli elementi, la langue, e ponendo la frase nell‘ambito dell‘altro, la rimuove dall‘area di maggiore
interesse per la sua ricerca. Più di ogni altra ragione, c‘è questo all‘origine del fallimento delle
scienze umane moderne nella costruzione di un consenso determinato attorno alla definizione di un
termine così decisivo.
Il secondo riferimento di Saussure mette la frase da parte, un volta per tutte, nel regno della parole.
È nella sezione delle relazioni sintagmatiche, nel capitolo che storicamente divide per la prima volta
il paradigma dal sintagma. L‘asse sintagmatico è quello della connessione tra le parole, come nella
sintassi:
[...] la nozione di sintagma si applica non solo alle parole ma ai gruppi di parole, alle unità complesse di tutte le
lunghezze e di tutti i tipi (composte, derivate, locuzione, frasi intere).
Non è sufficiente prendere in considerazione la relazione che lega insieme le diverse parti dei sintagmi, bisogna
anche tenere a mente la relazione che collega l‘intero con le sue parti.
A questo punto, si deve sollevare un‘obiezione. La frase è il tipo ideale di sintagma. Ma appartiene al parlato,
non alla lingua.(7)
La frase è stata ricacciata nell‘ambito della non-analisi, il regno della parole, ma senza una chiara e
decisa argomentazione. Queste due citazioni congiurano, senza alcuna prova, per il rigetto della
frase come oggetto di analisi critica.
L‘unico altro punto in cui Saussure fa almeno riferimento alla frase è nel problema delle frasi da
una parola e nella questione se posseggano o meno una dimensione sintagmatica. Il linguaggio
usato dimostra qual è il problema a cui dà luogo l‘esclusione dalla linguistica di una teoria della
frase:
Per certo, il linguaggio ha unità indipendenti che non hanno relazioni sintagmatiche né con le proprie parti né
con altre unità. Equivalenti di frasi come sì, no, grazie, etc. sono dei buoni esempi. Ma questo fatto eccezionale
non compromette il principio generale.(8)
Data questa negazione di importanza all‘origine della linguistica moderna, non è sorprendente che
la frase non sia né definita né tanto meno indicizzata ne I fondamenti della teoria del linguaggio,
del 1943(9), di Louis Hjelmslev.
In America, nello stesso periodo, il linguista attivo più influente era Leonard Bloomfield, che, ne Il
linguaggio (1933(10)), definiva la frase come:
Una forma linguistica indipendente, non inclusa in alcuna altra forma più ampia per virtù di una qualche
costruzione grammaticale.
Questa definizione è vuota di ogni criterio interno. La frase è meramente un limite, il punto oltre il
quale l‘analisi grammaticale non può più estendersi. In un certo senso, questa definizione ritorna
alla definizione di frase dell‘OED, come ciò che si trova tra due punti fermi, senza riguardo per ciò
che potrebbe essere.
Ci si potrebbe aspettare un trattamento più congruo in Aspects of the theory of syntax di Chomsky
(1965), almeno nella misura in cui si tratta di sintassi e che quella sintagmatica è l‘unica area in cui
Saussure permette, se non altro, che la frase come questione venga in superficie, e anche perché
Chomsky sta lavorando con concetti come accettabilità, frasi devianti e frasi semplici. Tuttavia la
questione viene sollevata solo nel capitolo prefatorio delle ―metodologie preliminari‖. ―Farò uso del
termine ‗frase‘ per riferirmi alle stringhe di elementi formativi piuttosto che alle stringhe di foni‖.
Un elemento formativo è definito nel primo paragrafo del libro come una ―unità minima
sintatticamente funzionante‖. Il problema delle frasi da una parola o di altre frasi brevi è glissato
allo stesso modo. Ecco che cosa dice rispetto alle frasi semplici:
24
Queste sono frasi di tipo particolarmente semplice che implicano un apparato trasformazionale minimo nella loro
generazione. La nozione di ―frase semplice‖ ha, credo, un importante significato intuitivo ma, poiché le frasi
semplici non giocano nessun ruolo distintivo nella generazione o nell‘interpretazione delle frasi, qui non dirò
niente a riguardo. (11)
Chomsky non ci dà alcuna idea su quale possa essere l‘importante significato intuitivo delle frasi
semplici.
L‘immagine di Milka Ivić delle 160 definizioni di frase nasce dal lavoro di John Ries, che pubblicò
per la prima volta Was Ist Ein Satz? nel 1894, più di un decennio prima di Saussure, per aggiornarlo
poi, a Praga, nel 1931. Nella sua ultima edizione, Ries analizza 140 definizioni, e le ulteriori 20 che
Ivić individua erano critiche all‘analisi di Ries. Simeon Potter segue questo dibattito in Modern
linguistics, che ha un intero capitolo dedicato alla struttura della frase.
La frase è l‘unità principale del discorso. Potrebbe essere semplicemente definita come una minima enunciazione
completa. [...] Quando affermiamo che la frase è una minima enunciazione completa, un segmento del flusso di
discorso tra una pausa e l‘altra, o una struttura ereditata in cui le forme-parole sono sistemate, non stiamo
dicendo tutto quello che si potrebbe dire a riguardo. Ciononostante, queste definizioni sono probabilmente più
praticabili dello sforzo finale di John Ries: ‗Una frase è una unità di discorso grammaticalmente costruita che
esprime il suo contenuto in riferimento alla relazione di quel contenuto con la realtà‘. Potremmo, in effetti, avere
le stesse difficoltà nel definire una frase che nell‘infilzare con il nostro spillo un fonema e, tuttavia, dopo una
certa pratica, tutti riconosciamo i fonemi e le frasi quando li vediamo.(12)
In breve, la storia e la struttura della linguistica come professione inibisce, se addirittura non la
impedisce completamente, l‘elaborazione di una teoria della frase che possa poi essere applicata in
letteratura.
Già alla fine degli anni ‗20, il linguista russo Valentin Vološinov propose la seguente critica in
Marxismo e filosofia del linguaggio:
I principi e i metodi tradizionali della linguistica non forniscono una base solida per un approccio produttivo al
problema della sintassi. Questo è particolarmente vero per l‘oggettivismo astratto [l‘espressione che usa per la
scuola saussuriana], in cui i metodi e i principi tradizionali hanno trovato la loro espressione più distinta e
coerente. Tutte le categorie fondamentali del moderno pensiero linguistico [...] sono profondamente fonetiche e
morfologiche. [...] Di conseguenza, lo studio della sintassi è in un pessimo stato. [...]
Stando ai fatti, tuttavia, di tutte le forme del linguaggio, le forme sintattiche sono quelle più vicine alla forma
concreta dell‘enunciazione [...] uno studio produttivo delle forme sintattiche è possibile solo sulle basi di una
teoria dell‘enunciazione pienamente sviluppata. [...]
Il pensiero linguistico ha perso senza speranza ogni senso dell‟insieme verbale.(13)
Vološinov scavalca la frase più o meno in blocco, scrivendo che ―la categoria di frase è meramente
una definizione della frase come elemento-unità all‟interno dell‘enunciazione e in nessun modo
come entità completa‖.
La funzione della frase come unità interna a una struttura più ampia, in effetti, diventerà
importante quando ci rivolgeremo al ruolo della frase nuova. Ma ciò che è essenziale, qui, è il
fallimento, anche all‘interno di questa analisi critica, di una possibile teoria della frase.
A questo punto, si possono constatare alcune cose riguardo alla frase e alla linguistica:
1) La frase è un termine derivato dalla scrittura, che in linguistica è spesso messa in secondo piano dallo studio
del discorso. Specificatamente, la frase è un‘unità della scrittura.
2) Esiste nel discorso una forma aperta, simile ma non identica alla frase nella scrittura. Seguendo Vološinov, mi
riferirò ad essa come all‘enunciazione.
La differenza essenziale tra l‘enunciazione e la frase è che l‘enunciazione è indeterminata, una catena che può
essere allungata più o meno indefinitamente. Non c‘è nessuna frase invece che non sia determinata e, come tale,
è fissata dal punto fermo.
25
3) La focalizzazione della linguistica sullo sviluppo di una descrizione della langue piuttosto che della parole, il
non affrontare la questione della scrittura, ha reso invisibile la questione della frase.
Se la linguistica non riesce a gestire la frase perché non riesce a separare la scrittura dal discorso, la
filosofia non ha a che fare con il linguaggio in quanto discorso come neppure in quanto scrittura. Il
linguaggio è sia:
1) Il pensiero stesso
a) a volte inteso come vincolato e formale, come nella logica o in un calcolo, per es. l‘―austero schema
canonico‖ di Quine con cui, se solo si fosse conosciuto l‘insieme completo delle eterne frasi corrette, si sarebbe
potuto costruire logicamente la totalità della conoscenza corretta possibile;
b) a volte inteso come non vincolato, come quando il linguaggio viene considerato identico alla somma dei
pensieri possibili, una posizione tenuta da Chomsky nei suoi interventi nel dibattito filosofico.
2) Una manifestazione o una trasformazione del pensiero, anche distinguendosi in modelli vincolati o non
vincolati, essendo Wittgenstein un esempio di entrambi, per i modelli vincolati all‘inizio, nel Tractatus, e poi
non vincolati nelle Ricerche filosofiche, dato che entrambi i testi sostengono che il linguaggio è un travestimento
del pensiero.
Il modello di Wittgenstein, sia nei suoi primi scritti che negli ultimi, è strettamente parallelo a
quello di Saussure. Lo spostamento radicale tra i due periodi è uno spostamento di oggetto e di
scopo – dal dispiegamento di un discorso idealizzato nel Tractatus a un‘esplorazione dei problemi
del significato nell‘uso effettivo del linguaggio nelle Ricerche filosofiche. L‘interruzione arriva
negli anni ‗30 ed è documentata nella Grammatica filosofica e nelle sue appendici. Le sezioni delle
Ricerche qui di seguito mostrano come il suo lavoro più tardo si avvicinasse al tipo di discussione
che fa da contesto per la nuova frase:
498. Quando dico che i comandi ―Prendi lo zucchero‖ e ―Prendi il latte‖ hanno senso, ma non la combinazione
―Latte lo zucchero‖, non significa che la dichiarazione di questa combinazione non abbia alcun effetto. E se
l‘effetto è che l‘altra persona mi guarda con gli occhi sgranati e rimane a bocca aperta, non la considero, sulla
base di questo, un comando a guardare ad occhi sgranati e rimanere a bocca aperta, anche se questo fosse
precisamente l‘effetto che volevo produrre.
499. Dire ―Questa combinazione di parole non ha senso‖ la esclude dalla sfera del linguaggio e quindi mette un
limite all‘ambito del linguaggio. Ma quando si traccia un confine potrebbe essere per ragioni di diverso tipo. Se
si circonda un‘area con un recinto o una linea o quel che sia, lo scopo potrebbe essere quello di impedire che
qualcuno ci entri o ne esca; ma potrebbe anche fare parte di un gioco e per i giocatori sarebbe previsto, per dire,
saltare oltre il confine; o potrebbe mostrare dove la proprietà di un uomo finisce e quella di un altro comincia.
Così se disegno una linea di confine non è ancora possibile dire a che cosa serva. (14)
Una delle cose che rende Wittgenstein (e, più recentemente, Derrida) così utile, suggestivo e
citabile dai poeti è l‘alto tasso di metafore nel suo lavoro. Non tutti i discorsi filosofici sono così –
anzi, la più parte ne rifugge.
A. J. Ayer ha scritto in quest‘altro stile. In Linguaggio, verità e logica, ha cercato di distinguere le
frasi dalle proposizioni e dalle affermazioni, un tentativo classico di compartimentazione della
connotazione:
In questo senso, propongo che ogni struttura di parole che sia grammaticalmente significativa si debba
considerare che costituisca una frase, e che ogni frase indicativa, che sia letteralmente dotata di significato
oppure no, dovrà essere ritenuta come esprimente un‘affermazione. Inoltre, di ogni due frasi che siano
reciprocamente traducibili si dirà che esprimono la stessa affermazione. La parola ―proposizione‖, d‘altra parte,
sarà riservata per le frasi che sono letteralmente dotate di significato. (14)
Questa formula per la frase non è definita meglio di tutte quelle offerte dalla linguistica. Non
propone nemmeno la possibilità di una distinzione tra frase semplice, frase composta o frammento,
poiché non affronta la questione dell‘interruzione completa o di un livello massimo di integrazione
grammaticale del significato. Traccia, però, una linea netta tra le categorie proposte o, almeno,
26
cerca di farlo. Tuttavia, anche l‘accoglimento di questa formulazione succinta ha trovato delle
resistenze:
Ayers dice (a) che il suo uso di ―proposizione‖ designa una classe di frasi che hanno tutte lo stesso significato e
(b) che ―di conseguenza‖ parla di proposizioni, non di frasi, che sono vere o false. Ma, ovviamente, quello che
significa una frase non ci mette in grado di dire che essa è vera o falsa.. [...](16)
I problemi posti dal rendere le frasi sinonimiche, anche solo approssimativamente, alle proposizioni
li si può vedere in una forma estrema in Parola e oggetto di Willard Van Orman Quine:
Una frase non è un evento di dichiarazione, ma un universale [...] In genere, per specificare una proposizione
senza dipendenze dalle circostanze della dichiarazione, noi poniamo [...] una frase eterna: una frase il cui valore
di verità rimane fissato attraverso il tempo e da parlante a parlante. (17)
La critica letteraria dovrebbe servire come correttivo. Diversamente dalla filosofia, è un discorso
con un oggetto materiale chiaramente compreso. Come la filosofia, è una disciplina vecchia di
secoli. Per di più, fortunatamente gode di una buona posizione presso le società occidentali dove,
nelle scuole, la letteratura viene trattata come un‘estensione dell‘apprendimento del linguaggio.
Come ci mette in guardia Jonathan Culler in Structuralist Poetics, la critica letteraria è però lo
studio della lettura, non della scrittura. Se una teoria della frase la dobbiamo trovare nella poetica,
non sarà necessariamente di grande utilità per gli scrittori. Comunque, potrebbe funzionare come
base sulla quale creare una tale teoria.
Per prima cosa voglio prendere in considerazione i New Critics. In parte, perché sono stati talmente
egemoni che, fino a poco tempo fa, tutte le altre tendenze critiche erano definite dai termini secondo
cui vi si opponevano. I New Critics erano fortemente influenzati dalla tradizione filosofica inglese,
con I. A. Richards, per esempio, che giocava un ruolo importante in entrambe le comunità. Inoltre,
René Wellek era un prodotto della scuola linguistica di Praga e, come tale, aveva una completa
dimestichezza con il lavoro di Saussure, da una parte, e di Šklovskij, dall‘altra, entrambi citati con
approvazione nella Teoria della letteratura di Wellek, scritta con Austin Warren.
Queste influenze già suggeriscono che la Teoria della letteratura non conterrà una teoria coerente
della frase. Il modello linguistico saussurriano è implicito nella massima:
Ogni opera d‘arte è, prima di tutto, una serie di suoni dai quali nasce il significato. (18)
Questo non li conduce, come avrebbe potuto fare, verso un esame della sintassi – lasciando stare le
frasi. Ma li mette, in effetti, nella posizione per nulla invidiabile di dover difendere un punto di vista
da cui le loro stesse asserzioni avrebbero potuto essere attaccate facilmente.
Wellek e Warren sono ben consci di questa riduzione, e si difendono con un piccolo gioco di
prestigio, sostenendo che:
Un [...] assunto comune, che il suono dovrebbe essere analizzato in completa separazione dal significato, è
anch‘esso falso. (19)
La Teoria della letteratura non è una teoria della scrittura. In parte, questo è dovuto alla corretta
percezione che non tutta la letteratura è scritta. Ciononostante, Wellek e Warren non riescono ad
affrontare i cambiamenti specifici che occorrono una volta che la letteratura viene sottoposta al
processo della scrittura. Giustificano questo aspetto sostenendo che il testo scritto non è mai l‘opera
―reale‖. Questo dà loro modo, inoltre, di mettere da parte ogni considerazione circa l‘impatto della
stampa sulla letteratura, al di là del riconoscimento piuttosto spiccio della sua esistenza. Viktor
Šklovskij nota l‘importanza di questa esclusione in un‘intervista nel numero dell‘inverno 19781979 di The Soviet Review:
27
Un tempo solo la poesia aveva un suo riconoscimento e la prosa era considerata come qualcosa di seconda
classe, perché sembrava una specie di contraffazione; per molto tempo non venne accettata nell‘arte vera e
propria. Fu lasciata entrare solo quando si iniziarono a stampare i libri. (20)
Se si sostiene – e io lo sto sostenendo – che la frase, in quanto distinta dall‘enunciazione all‘interno
del discorso, è un‘unità di prosa e se la prosa come letteratura e la nascita della stampa sono
inestricabilmente interconnesse, allora si deve affrontare l‘impatto della stampa sulla letteratura,
non solo sulla presentazione della letteratura ma su come la scrittura stessa viene scritta. Questa
sarebbe la componente storica di qualunque teoria della frase.
Wellek e Warren evitano qualunque discussione di questo tipo. Al contrario, dividono la letteratura
in uno schema binario, un lato dedicato alla costruzione della trama e dei personaggi, l‘altro
dedicato al gioco di parola. Parlando in termini generali, questi diventano gli assi della narrativa e
della poesia. Questo schema è parallelo alla divisione saussuriana del linguaggio negli assi
paradigmatico e sintagmatico. Ed è parallelo anche alle strategie dello strutturalismo.
Il gioco di parole, l‘asse paradigmatico della poesia, potrebbe condurre a sua volta verso
un‘indagine sulla frase, ma non lo fa. Gli ambiti verso cui Wellek e Warren lo conducono sono
l‘immagine, la metafora, il simbolo e il mito: gruppi di referenzialità via via più ampi.
Come il New Criticism, lo strutturalismo – e qui intendo la poetica strutturalista – è fondato sul
modello di linguistica costruito all‘inizio da Saussure e poi codificato da Louis Hjelmslev e da
Roman Jakobson. Tuttavia, ha parecchi vantaggi pratici rispetto al New Criticism: non è
pesantemente influenzato dalla scuola filosofica inglese; non si è identificato con un movimento
conservatore in letteratura ed è almeno conscio della critica posta da Derrida alla linguistica
saussuriana.
Lo strutturalismo è arrivato più vicino di ogni tendenza fin qui esaminata al riconoscimento del
bisogno di una teoria della frase. Ma questo non vuol dire che ne sia stata poi sviluppata una.
Seguendo una divisione del discorso, fatta da Wellek e Warren, in tre ampie categorie – quotidiano,
scientifico e letterario – Pierre Macherey, in Per una teoria della produzione letteraria, propone che
il discorso quotidiano sia ideologico, che il discorso scientifico empirico e che il discorso letterario
si sposti avanti e indietro tra questi due poli. Questo modello riecheggia quello fatto da Louis
Zukofsky per la sua opera, che ha come limite inferiore il discorso e come limite superiore la
musica. La revisione di Macherey crea una vera distinzione e la muove abbastanza bene verso
qualcosa che potrebbe essere messo in una teoria contestualizzata dell‘enunciazione, come quella
proposta da Vološinov. Ma le divisioni di Macherey non sono accurate.
Il discorso quotidiano è puramente ideologico ma allo stesso modo lo sono tutti i discorsi
specializzati. Le restrizioni poste su tutte i modi del gergo professionale e del linguaggio tecnico,
sia scientifico che legale, medico o quant‘altro, comunicano la classe in aggiunta ad ogni altro
oggetto del loro discorso. Non esiste qualcosa come un discorso non ideologico o senza un valore
aggiunto.
La Poetica della prosa di Tzvetan Todorov, in effetti, affronta la funzione della frase per circa due
paragrafi. Todorov definisce il significato secondo la formula di Émile Benveniste: ―È la capacità di
un‘unità linguistica di integrare un‘unità di livello più alto‖. In una lezione del 1966 alla John
Hopkins, Todorov dimostra la sua comprensione dell‘importanza della questione dell‘integrazione:
Mentre nel discorso l‘integrazione delle unità non va al di là della frase, in letteratura le frasi sono integrate di
nuovo come parte di articolazioni più ampie e queste ultime, a loro volta, in unità di dimensioni maggiori, e così
via finché non si ottiene l‘opera intera [...] Dall‘altra parte, le interpretazioni di ogni unità sono innumerevoli,
perché la loro comprensione dipende dal sistema in cui sarà inclusa. (21)
Consideriamo, per esempio, come il significato viene alterato quando le stesse parole sono integrate
in stringhe via via più lunghe:
28
Someone called Douglas.
Someone called Douglas over.
He was killed by someone called Douglas over in Oakland. (22)
Dei critici strutturalisti, l‘ultimo Roland Barthes fu il più esplicito nel chiedere una teoria della
frase. Nello stesso simposio con Todorov, arrivò al punto di dire:
La struttura della frase, l‘oggetto della linguistica, viene ritrovata, per omologia, nella struttura delle opere. Il
discorso non è semplicemente aggiungere frasi le une alle altre; è di per sé un‘unica grande frase. (23)
Questa affermazione ha l‘evidente difetto che la frase non è stata affatto l‘oggetto della linguistica e
Barthes era deliberatamente sfacciato nella sua affermazione. Ma c‘è un‘intuizione importante,
ovvero che le modalità di integrazione che riportano le parole alle locuzioni e le locuzioni alle frasi
non sono fondamentalmente diverse da quelle con cui una frasi individuale integra se stessa in
un‘opera più ampia. Questo non solo ci dà una buona ragione per esigere una teoria delle frasi ma
suggerisce, inoltre, che una tale teoria ci porterebbe verso una nuova modalità di analisi dei prodotti
letterari stessi.
In S/Z, Barthes dimostra come dovrebbe procedere un‘interpretazione strutturalista di una storia
specifica. Prende ―Sarrasine‖ di Balzac e lo analizza rispetto a diversi codici. In un certo senso, fa
passare il testo parola per parola ma non spezza la sua analisi in frasi. Al contrario, usa quelle che
chiama lessie, lunghe indifferentemente da una singola parola a parecchie frasi. Lo stesso Barthes
descrive la selezione come ―arbitraria all‘estremo‖, nonostante le tratti come ―unità di lettura‖.
Il suo primo lavoro, Il grado zero della scrittura, in effetti affronta la questione della frase ma in
uno stile fortemente metaforico e con una certa approssimazione, davvero solo un riflesso delle altre
opere fatte in quest‘area negli ultimi 25 anni. Si faccia il paragone con la teoria dell‘integrazione di
Benveniste:
L‘economia del linguaggio classico [...] è relazionale, il che significa che in esso le parole sono il più astratte
possibile nell‘interesse delle relazioni. In esso, nessuna parola ha densità di per sé, è difficilmente il segno di una
cosa, ma piuttosto lo strumento per portare a una connessione. Anziché sprofondare in una realtà interna
consustanziale alla sua configurazione esterna, si estende, appena viene enunciata, verso le altre parole. [...]
La poesia moderna, poiché la si deve distinguere dalla poesia classica e da ogni tipo di prosa, distrugge la natura
spontaneamente funzionale del linguaggio e lascia in piedi solo le sue basi lessicali. Trattiene solo la forma
esteriore delle relazioni, la loro musica, ma non la loro realtà. La Parola risplende lungo una linea di relazioni
svuotate del loro contenuto, la grammatica è privata del suo scopo, diventa prosodia e non è più nient‘altro che
una inflessione che dura solo per rendere presente la Parola. (24)
Qui Barthes sta riportando al piano temporale della storia una proposizione originalmente formulata
da Roman Jakobson per tutta la poesia, che ―la funzione poetica proietta il principio di equivalenza
dall‘asse della selezione all‘asse della combinazione‖. La massima di Jakobson suggerisce che la
supremazia del paradigmatico si estende al punto da imporsi sulle combinazioni, che si suppongono
neutre, del sintagmatico.
Barthes suggerisce che la proiezione del paradigma di Jakobson non sia una costante ma che la
storia abbia visto uno spostamento dal focus sintagmatico a quello paradigmatico e che ci sia stata
una frattura, ad un certo punto, quando qualche massa critica – non identificata specificatamente da
Barthes – ha reso impossibile alle unità di continuare ad integrarsi oltre i livelli grammaticali, per
esempio la frase. È proprio questa breccia – il momento in cui il significante, liberato di colpo dalla
servitù ad una gerarchia integrante di relazioni sintattiche, si ritrova svuotato di ogni significato –
che Frederic Jameson identifica come tratto caratterizzante del postmoderno:
La crisi nella storicità ora costringe ad un ritorno [...] alla questione dell‘organizzazione temporale in genere nel
campo di forze del postmoderno e, in effetti, al problema della forma che il tempo, la temporalità e il
29
sintagmatico saranno in grado di prendere in una cultura sempre più dominata dallo spazio e dalla logica
spaziale. Se, in effetti, il soggetto ha perso le sue capacità di estendere attivamente le proprie pro-tensioni e retensioni attraverso la molteplicità temporale, e di organizzare il proprio passato ed il proprio futuro in
un‘esperienza coerente, diventa abbastanza difficile vedere come le produzioni culturali di un tale soggetto
possano risultare in cose che non siano solo ‗mucchi di frammenti‘ o una pratica del casualmente eterogeneo e
frammentario e dell‘aleatorietà. In ogni caso, sono stati precisamente questi alcuni dei termini privilegiati
secondo cui la produzione culturale postmoderna è stata analizzata (e anche difesa, dai suoi apologisti). (25)
Come fanno le frasi ad integrarsi in unità di significato più alte? L‘ovvio primo passo è verso il
paragrafo:
[...] da un punto di vista decisivo, i paragrafi sono analoghi agli scambi nei dialoghi. Il paragrafo è una specie di
dialogo indebolito, inserito nel corpo di un‘enunciazione monologica. Al di là del dispositivo della ripartizione
del discorso in unità, ovvero i paragrafi conclusi nella loro forma scritta, si trova l‘atteggiamento verso gli
ascoltatori o i lettori ed il calcolo sulle possibili reazioni di questi ultimi. (26)
La definizione di Vološinov non è diversa in modo radicale dalle strategie di ripartizione di alcune
opere contemporanee, come le poesie-saggi di David Bromige. David Antin, nella sua conferenza
all‘80 Langton Street, descriveva il proprio lavoro proprio nei termini di Vološinov, come un
dialogo indebolito.
Ferruccio Rossi-Landi, il semiologo italiano, si focalizza su questo problema più da vicino, quando
propone che il sillogismo sia il paradigma classico dell‘integrazione sovrafrasale. Per esempio, le
frasi ―Tutte le donne una volta erano ragazze‖ e ―Alcune donne sono avvocati‖ porta logicamente
alla terza frase o conclusione, ad un più alto livello di significato, ―Alcuni avvocati una volta erano
ragazze‖. La letteratura, la maggior parte delle volte, procede per soppressione di questo terzo
termine, formando invece catene dell‘ordine delle prime due. Ecco un paragrafo di Barrett Watten:
He thought they were a family unit. There were seven men and four women, and thirteen children in the house.
Which voice was he going to record? (27)
La prima frase fornisce un soggetto, ―He‖, più un oggetto complesso, ―they‖, che potrebbe o non
potrebbe essere ―a family unit‖. La seconda rappresenta una pluralità (―they‖), che potrebbe o non
potrebbe essere ―a family unit‖. La terza di nuovo presenta un soggetto identificato come ―he‖ nel
contesto di una domanda (―Which voice‖) che implica una pluralità. E, tuttavia, ogni integrazione di
queste frasi in una piccola e ordinata narrazione è, in effetti, una presunzione da parte del lettore. Né
l‘una né l‘altra delle ultime due frasi ha un termine chiaramente anaforico che punti indietro, in
modo inequivocabile, verso la frase precedente. Nel paragrafo successivo, Watten esplora il
riconoscimento da parte del lettore di questa presunzione, di questa volontà di ―completare il
sillogismo‖:
That‘s why we talk language. Back in Sofala I‘m writing this down wallowing in a soft leather armchair. A dead
dog lies in the gutter, his feet in the air. (28)
Qui la prima frase si propone, in virtù della propria grammatica, come una conclusione, benché non
sia per nulla evidente di per sé perché sia ―why we talk language‖. La seconda inizia con una
locuzione, ―Back in Sofala‖, che indica uno spostamento da parte del soggetto sia nel tempo che
nello spazio. Ma ora il soggetto è ―I‖. La terza frase, che condivide con le due precedenti solo l‘uso
del tempo presente, è una specie di elzeviro umoristico sul processo stesso: la referenzialità non è
semplicemente morta ma fa la figura di un cadavere attonito. Eppure, appena due paragrafi sopra, la
distanza logica tra le frasi era così grande da spegnere qualunque pretesa, se non la più ambiziosa,
di integrazione lettoriale:
30
The burden of classes is the twentieth-century career. He can be incredibly cruel. Events are advancing at a
terrifying rate. (29)
Rossi-Landi ci offre un altro approccio alla frase. Linguistics and Economics sostiene che l‘uso del
linguaggio nasce dal bisogno di suddividere il lavoro nella comunità e che l‘elaborazione di sistemi
linguistici e quella di una produzione lavorativa, fino ad includere ogni produzione sociale, seguono
dei percorsi paralleli. Da questo punto di vista, l‘attrezzo completato è una frase.
Un martello, per esempio, consiste di una bocca, di un manico e di una penna. Senza la presenza di
tutti e tre, il martello non funzionerebbe. La frasi sono in relazione con le loro sotto-unità in questo
stesso modo. Solo chi produce i martelli avrebbe una qualche utilità dai manici smontati; in questo
senso, senza l‘intero non ci può essere valore di scambio. Allo stesso modo, è a livello della frase
che il valore d‘uso ed il valore di scambio di ogni affermazione si mostrano alla vista. La frase da
una parola del bambino è comunicativa precisamente perché (e nel grado in cui) rappresenta una
totalità. Qualunque suddivisione ulteriore ci lascerebbe con un frammento inutilizzabile e
incomprensibile.
Tuttavia, le stesse frasi più lunghe sono a loro volta composte da parole, molte delle quali, se non
tutte, in altri contesti potrebbero formare delle frasi da una parola adeguate. In questo senso, è la
frase l‘unità cardine di ogni prodotto letterario.
Le produzioni più ampie, come le poesie, sono come delle macchine complete. Ogni frase
individuale potrebbe essere un pistone. Di per sé non ti mette in strada ma senza non si potrebbe far
muovere la macchina.
La frase è un‘unità di scrittura. Tuttavia, l‘enunciazione esiste come unità di discorso
precedentemente all‘acquisizione della scrittura, sia per gli individui che per le società. Le
enunciazioni del Gilgamesh o delle epiche omeriche sembrerebbero essere state tradotte nella forma
di frasi scritte, senza grandi difficoltà, molto prima dell‘avvento della prosa creativa o estetica.
Ciononostante, è la logica ipotattica della frase di prosa, del paragrafo di prosa e del saggio
espositivo a costituire, nel modo più completo, il modello secondo cui la frase viene comunicata,
nelle società occidentali, per mezzo del processo organizzato di educazione. La ―buona
grammatica‖, che non è mai esistita nella vita quotidiana parlata, se non come modello generale,
allo stesso modo è diffusa sul modello di un discorso ―alto‖. (Come notava Šklovskij, la prosa entra
nell‘arena letteraria con l‘ascesa della stampa solo poco più di 500 anni fa; il suo ruolo culturale è
diventato progressivamente più importante con la diffusione dell‘alfabetizzazione nelle classi più
basse). Il linguaggio ―educato‖ imita la scrittura: più l‘individuo è ―raffinato‖, più si può supporre
che le sue enunciazioni avranno le caratteristiche di una prosa espositiva. La frase, ipotattica e
completa, è stata ed è ancora un indice di classe nella società. Di conseguenza, la funzione di questa
unità all‘interno della prosa creativa si dimostra essenziale per la nostra comprensione di come una
frase possa diventare ―nuova‖.
La prosa della narrativa deriva in misura notevole dalla poesia epica narrativa ma si sposta verso un
senso molto differente della forma e dell‘organizzazione. I dispositivi formali esteriori, quali la rima
o la spezzatura del verso, si riducono e le unità strutturali diventano la frase e il paragrafo. Al posto
dei dispositivi esterni, che entrano in funzione per mantenere l‘esperienza del lettore o
dell‘ascoltatore almeno parzialmente nel tempo presente, mentre fruiscono il testo, la narrativa per
lo più mette in primo piano il salto sillogistico, o l‘integrazione al di sopra del livello della frase, per
creare un racconto pienamente referenziale.
Questo non significa che il paragrafo di narrativa sia privo di una forma significativa, anche nelle
narrazioni più avvincenti. Prendiamo in considerazione questo paragrafo da L‟agente segreto di
Conrad:
In front of the great doorway a dismal row of newspaper sellers standing clear of the pavement dealt out their
wares from the gutter. It was a raw, gloomy day of the early spring; and the grimy sky, the mud of the streets, the
31
rags of the dirty men harmonized excellently with the eruption of the damp, rubbishy sheets of paper soiled with
printer‘s ink. The posters, maculated with filth, garnished like tapestry he sweep of the curbstone. The trade in
afternoon papers was brisk, yet, in comparision with the swift, constant march of foot traffic, the effect was of
indifference, of disregarded distribution. Ossipon looked hurriedly both ways before stepping out into the crosscurrents, but the Professor was already out of sight. (30)
Solo l‘ultima, di queste cinque frasi, porta effettivamente avanti la narrazione. Il resto serve per
collocare la scena, ma per farlo nella maniera più formale che si possa immaginare. Ogni frase è
costruita attorno a qualche tipo di opposizione. La prima ci porta dal ―great doorway‖ ad una
―dismal row‖ nel ―gutter‖. La seconda fa contrastare la ―spring‖ con ―raw and gloomy‖ per avere
poi il ―grimy sky‖, ―the mud‖, ―the rags of the dirty men‖ che ―harmonize excellently‖ con i ―damp
rubbishy sheets soiled with ink‖. E così via, addirittura fino alla presenza di Ossipon e l‘assenza del
Professor.
In una poesia, questo tipo di struttura potrebbe essere messa in primo piano efficacemente,
sistemando dei termini chiave in posizione critica lungo il verso, collocando certe opposizioni in
rima quasi identica e magari scrivendo tutto al tempo presente. La narrativa, in genere, ha una
tendenza molto più forte verso il tempo passato. Ma la cosa ancora più importante è che la
mancanza di questi dispositivi di messa in primo piano permette alla capacità sillogistica del
linguaggio di diventare dominante.
È questa condizione della prosa che troviamo anche nell‘opera di Russell Edson, il più noto scrittore
di poesia in prosa in lingua inglese. Questo è da ―The sardine can dormitory‖:
A man opens a sardine can and finds a row of tiny cots full of tiny dead people; it is a dormitory flooded with oil.
He lifts out the tiny bodies with a fork and lays them on a slice of bread; puts a leaf of lettuce over them, and
closes the sandwich with another slice of bread.
He wonders what he should do with the tiny cots; wondering if they are not eatable, too?
He looks into the can and sees a tiny cat floating in the oil. The bottom of the can, under the oil, is full of little
shoes and stockings. (31)
Oltre alla tipologia allucinata della storia, derivata dal surrealismo e dai racconti brevi di Kafka, qui
non c‘è niente di molto diverso dalle condizioni della prosa per come la si può trovare in narrativa.
Se non altro, usa meno dispositivi formali del passaggio di Conrad qui sopra.
In buona parte, ciò che rende Edson un autore di poesia in prosa è dove pubblica. Le poesie in
Edson‟s mentality furono pubblicate per la prima volta in Poetry Now, Oink! e The Iowa Review.
Pubblicando insieme ai poeti, Edson ha assunto il ruolo pubblico di poeta, ma un poeta la cui opera
partecipa interamente delle tattiche e delle unità della narrativa.
Edson è un buon esempio del perché si è arrivati a pensare alla poesia in prosa – anche il nome è
goffo – come ad una forma impura.
Ancora oggi, in America, la poesia in prosa non ha quasi nessuna legittimità. Non c‘è alcuna poesia
in prosa nell‘antologia di Hayden Carruth, The voice that is great within us.
Neppure in The new American poetry di Donald Allen.
Neppure nell‘antologia di Robert Kelly e Paris Leary, A controversy of poets.
La poesia in prosa viene alla luce in Francia. Dal 1699, le regole di versificazione stabilite
dall‘Accademia francese si dimostrarono così rigide che alcuni scrittori decisero semplicemente di
scansarle componendo, piuttosto, in uno stile di prosa ―poetico‖, scrivendo nel XVIII secolo epiche
e pastorali secondo quella maniera. Allo stesso tempo, si andava traducendo, in prosa francese,
poesia di altri paesi. Fu Aloysius Bertrand che, nel 1827, iniziò per primo a comporre poesie in
prosa. Pubblicò quei lavori in un libro intitolato Gaspard de la Nuit. Alla fine del XIX secolo, il
genere era stato incorporato a pieno titolo nella letteratura francese, da Baudelaire, Mallarmé e
Rimbaud.
I francesi trovarono che la poesia in prosa fosse un dispositivo ideale per la dematerializzazione
della scrittura. Erano spariti, una volta per tutte, i dispositivi di forma esterni che tenevano in modo
32
assillante il lettore nel presente, conscio della presenza fisica del testo in quanto tale. Le frasi
potevano essere allungate, stiracchiate anche oltre la già estesa elocuzione che caratterizzava il
verso di Mallarmé, senza mettere il lettore in confusione o distaccarlo dalla poesia. E frasi più
lunghe, inoltre, sospendevano per periodi di tempo più ampi la spinta a concludere, che entra nella
prosa come marchio del ritmo. Tutto ciò era perfetto per contenuti allucinati, fantastici, onirici, per
pezzi con molteplici collocazioni spaziali e temporali costrette in poche parole. Ecco una poesia di
sei frasi di Mallarmé, tradotto da Keith Bosley con il titolo ―The pipe‖:
Yesterday I found my pipe as I was dreaming about a long evening‘s work, fine winter work. Throwing away
cigarettes with all the childish joys of summer into the past lit by sun-blue leaves, the muslin dresses and taking
up again my earnest pipe as a serious man who wants a long undisturbed smoke, in order to work better: but I
was not expecting the surprise this abandoned creature was preparing, hardly had I taken the first puff when I
forgot my great book to be done, amazed, affected, I breathed last winter coming back. I had not touched the
faithful friend since my return to France, and all London, London as I lived the whole of it by myself, a year ago
appeared; first the dear fogs which snugly wrap our brains and have there, a smell of their own, when they get in
under casement. My tobacco smelt of a dark room with leather furniture season by coaldust on which the lean
black cat luxuriated; the big fires! and the maid with red arms tipping out the coals, and the noise of these coals
falling from the steel scuttle into the iron grate in the morning – the time of the postman‘s solemn double knock,
which brought me to life! I saw again through the windows those sick trees in the deserted square – I saw the
open sea, so often crossed that winter, shivering on the bridge of the streamer wet with drizzle and blackened by
smoke – with my poor wandering loved one, in travelling clothes with a long dull dress the color of road dust, a
cloak sticking damp to her cold shoulders, one of those straw hats without a feather and almost without ribbons,
which rich ladies throw away on arrival, so tattered are they by the sea air and which poor loved ones restrim for
a few good season more. Round her neck was wound the terrible handkerchief we wave when we say goodbye
forever. (32)
Qui abbiamo quasi una prefigurazione della frase nuova: l‘assenza di dispositivi poetici esterni ma
non la loro interiorizzazione nella frase, come in Conrad. Mallarmé ha esteso la loro assenza
riducendo il testo al numero minimo di frasi. L‘assenza di enfasi sulla materialità del testo, in questa
maniera, è un esempio di prosa che informa la struttura poetica ed inizia ad alterare la struttura della
frase. Ma si noti che qui non c‘è alcun tentativo di impedire l‘integrazione delle unità linguistiche a
livelli superiori. Queste frasi non ci conducono verso il riconoscimento del linguaggio, ma lontano
da esso.
In Inghilterra e in America, la poesia in prosa non ha messo radici alla svelta. Ciononostante, Oscar
Wilde e Amy Lowell fecero dei tentativi in quella direzione e la presenza di poesie in altre lingue
tradotte in prosa inglese, come la riscrittura dei canti indiani di Tagore, Gitanjali, ebbe una grande
visibilità.
L‘antologia di Alfred Kreymbourg del 1930, Lyric America, ha quattro poesie in prosa. Una è una
cosa lunga e tediosa di Arturo Giovanni, intitolata ―The walker‖. Le altre tre sono del poeta nero
Fenton Johnson. Johnson usa un dispositivo che punta nella direzione della nuova frase. Ogni frase
è un paragrafo completo; le frasi che si susseguono sono trattate ognuna come un paragrafo; due
paragrafi però iniziano con delle congiunzioni. Strutturata in questo modo, quella di Johnson è la
prima poesia in prosa americana con una chiara, anche se semplice, relazione frase-paragrafo.
THE MINISTER
I mastered pastoral theology, the Greek of the Apostles, and all the difficult subjects in a minister‘s curriculum.
I was learned as any in this country when the Bishop ordained me.
And i went to preside over Mount Moriah, largest flock in the Conference.
I preached the Word as I felt, I visited the sick and dying and comforted the afflicted in spirit.
I loved my work because I loved God.
But lost my charge to Sam Jenkins, who has not been too school four years in his life.
I lost my charge because I could not make my congregation shout.
And my dollar money was small, very small.
Sam Jenkins can tear a Bible to tatters and his congregation destroys the pwes with their shouting and stamping.
33
Sam Jenkins leads in the gift of raising dollar money.
Such is religion. (33)
Johnson è chiaramente influenzato da Edgar Lee Masters ma il suo dispositivo frase-paragrafo, in
questa poesia, riporta di continuo l‘attenzione del lettore alla voce del narratore. In inglese, è la
prima istanza di una poesia in prosa che richiama l‘attenzione su un effetto discorsivo o poetico.
Anche se il contenuto referenziale è sempre evidente, l‘uso del paragrafo qui limita l‘abilità del
lettore di distaccarsi dal linguaggio in quanto tale.
E, tuttavia, Fenton Johnson potrebbe anche non essere il primo poeta in prosa americano di una
certa importanza. Ecco, da Kora all‟inferno, il terzo elemento del ventesimo raggruppamento,
accompagnato dal suo commento:
One need not to be hopelessly cast down because he cannot cut onyx into a ring to fit a lady‘s finger. You hang
your head. There is neither onyx nor porphyry on these roads – only brown dirt. For all that, one may see his face
in a flower along it – even in this light. Eyes only and for a flash only. Oh, keep the neck bent, plod with the
back to the split dark! Walk in the curled mudcrusts to one side, hand hanging. Ah well... Thoughts are trees! Ha,
ha, ha! Leaves load the branches and upon them white night sits kicking her heels against the shore.
A poem can be made of anything. This is a portrait of a disreputable farm hand made out of the stuff of his
environment(34)
Qui, senza dubbio, abbiamo delle strategie che riecheggiano la poesia in prosa francese, come per
esempio lo spostamento continuo del punto di vista. Ma ancora più importante: le frasi permettono
solo un minimo spostamento sillogistico verso il livello della referenza ed alcune, come la risata,
non permettono spostamenti di nessun tipo.
Si noti, però, la parola ―portrait‖ nel commento di Williams. Il suo modello qui non è tanto la poesia
in prosa francese quanto la cosiddetta prosa cubista di Gertrude Stein, che già nel 1911 scriveva
Teneri bottoni:
CUSTARD
Custard is this. It has aches, aches when. Not to be. Not to be narrowly. This makes a whole little hill.
It is better than a little thing that has mellow real mellow. It is better than lakes whole lakes, it is better than
seeding.
ROAST POTATOES
Roast potatoes for. (35)
In ―Poetry and grammar‖, Stein dice che non voleva fare poesia con Teneri bottoni ma le è soltanto
capitato. È sufficientemente diverso da ciò che, più tardi, lei chiamerà poesia per suggerirci che è
qualcos‘altro. I ritratti sono ritratti. Il movimento sillogistico al di sopra del livello della frase, verso
un riferimento esterno, è possibile ma il carattere del libro inverte la direzione di questo moto.
Piuttosto che produrre lo spostamento in modalità automatica, e secondo una specie di gestalt, il
lettore è costretto a dedurlo dalle viste parziali e dalle associazioni postulate in ogni frase. Il ritratto
della crema pasticcera è meravigliosamente accurato.
Le frasi meritano qualche analisi in più. Sono frammentarie in un modo che non ha precedenti in
inglese. Chi, se non Stein, nel 1911 avrebbe scritto una frase che finisce nel bel mezzo di una
locuzione preposizionale? Il suo uso delle frasi ellittiche – ―Not to be. Not to be narrowly.‖ – lascia
deliberatamente il soggetto fuori portata. La crema pasticcera non vuol proprio essere un fatto di
sostanza. Ed il pronome anaforico di ―this makes a whole little hill‖ non si riferisce alla crema
34
pasticcera ma alle locuzioni verbali negative delle due frasi precedenti. Similmente, in ―Roast
potatoes‖, Stein usa la preposizione ―for‖ per convertire ―roast‖ da aggettivo a verbo.
Stein ha scritto in abbondanza sulle frasi e i paragrafi. I suoi saggi a riguardo sono essi stessi delle
opere vere e proprie e, al loro interno, lei ci mostra come abbia pensato molto più seriamente di
qualunque altro poeta in lingua inglese circa le differenze ivi affrontate.
Dato il metodo deliberatamente non-espositivo delle sue argomentazioni, mi limiterò qui a citare in
ordine alcuni passaggi che fanno luce sulla questione, nei termini secondo cui l‘abbiamo affrontata
finora. Da ―Sentences and Paragraph‖, una sezione di How to Write (1931):
1) Within itself. A part of a sentence may be sentence without their meaning.
2) Every sentence has a beginning. Will he begin.
Every sentence which has a beginning makes it be left more to them.
3) A sentence should be arbitrary it should not please be better.
4) The difference between a short story and a paragraph. There is none.
5) There are three kind of sentences are there. Do sentences follow the three. There are three kinds of sentences.
Are there three kinds of sentences that follow the three. (36)
Questa ovviamente si riferisce alla divisione della grammatica tradizionale in frasi semplici,
composte e complesse.
Dal saggio ―Sentences‖ nello stesso libro:
6) A sentence is an interval in which there is finally forward and back. A sentence is an interval during which if
there is a difficulty they will do away with it. A sentence is a part of the way when they wish to be secure. A
sentence is their politeness in asking for a cessation. And when it happens they look up.
7) There are two kinds of sentences. When they go. They are given to me. There are these two kinds of
sentences. Whenever they go they are given to me. There are there these two kinds of sentences there. One kind
is when they like and the other kind is as often as they please. The two kinds of sentences relate when they
manage to be for less with once whenever they are retaken. Two kinds of sentences make it do neither of them
dividing in a noun. (37)
Qui Stein sta equiparando le proposizioni, che divide come indicato in subordinate e principali, con
le frasi. Qualunque cosa, alla stesso livello di una proposizione nella catena del linguaggio, è già
parzialmente una specie di frase. Di per sé, si può spostare sillogisticamente come una frase verso
un ordine di significato più alto. Questa è un‘intuizione importante e originale.
8) Remember a sentence should not have a name. A name is familiar. A sentence should not be familiar. All
names are familiar there for there should not be a name in a sentence. If there is a name in a sentence a name
which is familiar makes a data and therefor there is no equilibrium. (38)
Questo spiega, in modo del tutto adeguato, il fastidio di Stein per i nomi. La preoccupazione per
l‘equilibrio è un esempio della grammatica come metro, che ci mette chiaramente in direzione della
frase nuova.
Nella sua conferenza americana del 1934, ―Poetry and Grammar‖, Stein fa alcuni commenti
aggiuntivi che fanno luce sulla relazione delle frasi con la prosa e, quindi, con le poesia in prosa. Il
primo è, credo, la miglior singola affermazione sul problema, almeno per come si presenta ad uno
scrittore:
9) What had periods to do with it. Inevitably no matter how completly I had to have writing go on, physically
one had to again and again stop sometime and if one had to again and again stop sometime then periods had to
exist. Besides I had always liked the look of periods and I like what they did. Stopping sometime did not really
keep one from going on, it was nothing that interfered, it was only something that happened, and as it happened
as a perfectly natural happening, I did believe in periods and I used them. I never really stopped using them.
10) Sentences and paragraphs. Sentences are not emotional but paragraphs are. I can say that as often as I like
and it always remains as it is, something that is.
35
I said I found this out in listening to Basket my dog drinking. And anybody listening to any dog‘s drinking
will see what I mean.(39)
Più avanti Stein fa qualche esempio di frasi che lei ha scritto, anche da How To Write, che
sussistono in quanto paragrafi da una frase e raggiungono il bilanciamento tra la frase non emotiva
ed il paragrafo emotivo. La mia favorita è: ―A dog which you have never had before sighed‖.(40)
11) We do know a little now what prose is. Prose is the balance the emotional balance that makes the reality of
paragraphs and the unemotional balance that makes the reality of sentences and having realized completely
realized that sentences are not emotional while paragraphs are, prose can be the essential balance that is made
inside something that combines the sentence and the paragraph [...](41)
Ciò che Stein intende, circa il fatto che i paragrafi sono emotivi ma non così le frasi, è precisamente
il punto che sottolinea Émile Benveniste: le unità linguistiche si integrano solo verso il livello della
frase ma ordini più alti di significato – come l‘emozione – si integrano a livelli più alti della frase e
si danno in presenza o di molte frasi o, almeno l‘esempio di Stein lo suggerisce, a fronte di certe
frasi complesse in cui le proposizioni dipendenti si integrano con quelle indipendenti. La frase è
l‘orizzonte, il confine tra questi due tipi fondamentalmente distinti di integrazione.
E dunque che cos‘è la frase nuova? Ha a che fare con la poesia in prosa ma non necessariamente
con le poesie in prosa, almeno non nel senso ristretto e circoscritto della categoria. Non ha a che
fare con le poesie in prosa dei surrealisti, che manipolano il significato solo ai livelli ―superiori‖ o
―esterni‖, molto al di là dell‘orizzonte della frase. Neppure con le poesie in prosa non-surrealiste
della varietà americana media, come i monologhi drammatici di James Wright o David Ignatow,
che fanno la stessa cosa.
Sentences di Bob Grenier anticipa direttamente la frase nuova. Con la rimozione del contesto,
Grenier impedisce quasi tutti i salti oltre il livello dell‘integrazione grammaticale. È un caso
estremo di frase nuova. Tuttavia, la maggior parte delle ―frasi‖ di Grenier sono più propriamente
delle enunciazioni e, in questo senso, seguono Olson, Pound e una parte significativa del lavoro di
Creeley. Di tanto in tanto, qualche frase o paragrafo di A Day Book e Presences di Creeley porta i
segni della qualità compressa della frase nuova, nel fatto che le circonvoluzioni della sintassi spesso
suggeriscono la presenza, al loro interno, di forme poetiche un tempo esteriorizzate, benché lì siano
identificate con i tratti del discorso per lo più.
Un altro autore i cui lavori anticipano questa maniera è Hannah Weiner, particolarmente nei suoi
pezzi di prosa diaristica in cui il flusso delle frasi (il loro compimento sintattico, per non parlare
dell‘integrazione in unità più ampie) è radicalmente sconvolto da discorsi ―alieni‖ che l‘autrice
ascrive alla ―chiaroveggenza‖. Sebbene, in generale, la frase nuova non sia stata così visibile nella
East Coast come all‘ovest, qualcosa di molto simile o che vi si avvicina può essere trovato nella
scrittura di parecchi poeti, inclusi Peter Seaton, Bruce Andrews, Diane Ward, Bernadette Mayer
(specialmente nei suoi primi libri), James Sherry, Lynne Dreyer, Alan Davies, Charles Bernstein e
Clark Coolidge.
Un paragrafo dalla sezione XVIII di ―Weathers‖ di Coolidge:
At most a book the porch. Flames that are at all rails of snow. Flower down winter to vanish. Mite hand stroking
flint to a card. Names that it blue. Wheel locked to pyramid through stocking the metal realms. Hit leaves.
Participle.(42)
In altri contesti, ognuna di queste frasi potrebbe diventare una frase nuova, almeno nel senso in cui
potrebbe esserlo ogni frase propriamente disposta e collocata. Ognuna di esse focalizza l‘attenzione
al livello del linguaggio che il lettore ha di fronte. Ma raramente a livello della frase. Per lo più a
livello della locuzione o della proposizione. ―Flower down winter to vanish‖ può essere una frase
grammaticale nel senso tradizionale, se flower è inteso come verbo e la frase come un comando. Ma
―Names that it blue‖ resiste anche ad un tale sforzo di integrazione. Coolidge rifiuta di ricavare
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degli ambiti connotativi dalle parole. Esse sono ancora, in ampio grado, dei readymade
decontestualizzati – salvo che per gli elementi fisico-acustici.
Questo non è un esempio di frase nuova perché opera principalmente al di sotto del livello della
frase. Tuttavia, c‘è un altro elemento importante qui, come risultato: la lunghezza delle frasi e l‘uso
del punto fermo adesso sono del tutto ritmici. La grammatica è diventata, per riprendere le parole di
Barthes, prosodia. Come vedremo, questo è un elemento caratteristico ogni qual volta la frase nuova
è presente.
Ecco, da a.k.a di Bob Perelman, due paragrafi di frasi nuove:
An inspected geography leans in with the landscape‘s repetitions. He lived here, under the assumptions. The hill
suddenly vanished, proving him right. I was left holding the bag. I peered into it.
The ground was approaching fast. It was a side of himself he rarely showed. The car‘s tracks disappeared in the
middle of the road. The dialog with objects is becoming more strained. Both sides gather their forces. Clouds
enlarge. The wind picks up. He held onto the side of the barn by his fingertips.(43)
Qui si notano queste qualità: (1) Il paragrafo organizza le frasi fondamentalmente nello stesso modo
in cui una stanza fa con le righe dei versi. C‘è più o meno lo stesso numero di frasi in ogni
paragrafo ed il numero è abbastanza basso da poter stabilire una chiara proporzione paragrafo-frase.
Perché non si tratta semplicemente del modo in cui, normalmente, le frasi sono organizzate in
paragrafi? Perché non c‘è uno specifico focus referenziale. Il paragrafo qui è un‘unità di misura –
come era anche in ―Weathers‖. (2) Le frasi sono tutte delle frasi: la sintassi di ognuna si risolve sul
livello della frase. Non che queste frasi ―facciano senso‖ nel modo ordinario. Per esempio, ―He
lived here, under the assumptions‖, che avrebbe potuto essere riscritta, o essere derivata, da una
frase come ―He lived here, under the elm trees‖ o ―He lived here, under the assumptions that etc.‖.
(3) Questa continua torsione delle frasi è una qualità tradizionale della poesia ma in poesia è
ottenuta, la maggior parte delle volte, con l‘interruzione della riga o da dispositivi come la rima.
Qui la forma poetica si è mossa negli spazi interni della prosa.
Si prenda in considerazione, come esempio opposto, la prima stanza di ―Carapace‖ di Alan
Bernheimer:
The face of a stranger
is a privilege to see
each breath a signature
and the same sunset fifty years later
though familiarity is an education(44)
Ci sono anche qui spostamenti e torsioni ma, in questo caso, si presentano articolati secondo la
forma poetica esterna: l‘interruzione di riga. In ―Carapace‖, la riga singola è fatta di linguaggio
cosiddetto comune e non ha una torsione o una compressione della sintassi. La torsione, la
proiezione del principio di equivalenza dall‘asse della selezione a quello della combinazione,
produce, in questa istanza, delle incommensurabilità sapienti e levigate con cura e, in ―Carapace‖, si
presenta attraverso l‘aggiunta delle righe, una all‘altra.
a.k.a. , in ogni caso, ha ricollocato l‘interruzione di riga su due livelli. Come si è notato, la
lunghezza della frase ora è questione di quantità, di misura. Ma la torsione, che normalmente è
innescata dalle interruzioni di riga, la cui funzione è quella di potenziare l‘ambiguità e la polisemia,
si è spostata direttamente dentro la grammatica della frase. Ad un livello solo, la frase completata
(sarebbe a dire: non il pensiero completato ma il livello massimo di integrazione linguisticogrammaticale) è diventata l‘equivalente della riga, una condizione che prima alle frasi non era
imposta.
Si immagini come potrebbero apparire le poesie più importanti della storia della letteratura, se ogni
frase coincidesse con una riga.
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Ecco perché una frase normale, come ―I peered into it‖, può diventare una frase nuova, cioè una
frase con una struttura poetica interna, in aggiunta alla normale struttura grammaticale interna. Ecco
anche perché, e come, le righe citate dal quotidiano di Sonoma in ―One Sping‖ di David Bromige
possono diventare delle frasi nuove.
In effetti, un‘aumentata sensibilità verso il movimento sillogistico fornisce alle opere della frase
nuova una capacità molto maggiore di incorporare normali frasi del mondo concreto, dato che qui la
forma scende dall‘intero verso il basso e la separatezza di una frase citata da un quotidiano ne pone
il contenuto referenziale (a) in gioco con la propria formulazione, come nella frase ―Danny always
loved Ireland‖(45), (b) in gioco con le frasi precedenti e successive, secondo quantità, sintassi e
misura, e (c) in gioco con il paragrafo come un tutto, inteso ora non come unità logica o di
argomentazione, ma come quantità, come una stanza.
Vediamo il gioco di questo movimento sillogistico:
I was left holding the bag. I peered into it.
The ground was approaching fast. It was a side of himself he rarely showed.(46)
Questa non è la distorsione sistematica del livello massimo o più alto di significato, come nel
surrealismo. Piuttosto, ogni frase gioca con la frase precedente e quella seguente. La prima suona
come figurativa, a causa dell‘uso deliberato del cliché. La seconda, usando sia una ripetizione della
parola ―I‖ che dell‘anafora ―it‖, la distorce, facendola suonare (a) come letterale e (b) come
narrativa, grazie al fatto che le due frasi si riferiscono in apparenza ad un contenuto identico. Ma la
terza frase, che inizia con il paragrafo successivo, lavora invece a partire dalla direzione che si
potrebbe prendere nel guardare dentro a una borsa, richiamando da lì, per associazione, il senso di
gravità che si avverte guardando in giù, come se si stesse cadendo. La quarta frase sposta all‘esterno
la voce narrante ―I‖ e presenta la sequenza delle frasi precedenti come se conducesse a questa
conclusione umoristica. Questa relazione doppia del movimento sillogistico, che nonostante tutto
non si realizza fino a distogliere il lettore dal livello del linguaggio in quanto tale, è tipica in
massimo grado nella frase nuova.
Inoltre, la struttura interna delle frasi rappresenta, qui, anche il modo in cui problemi come quello
del bilanciamento, normalmente problemi dell‘organizzazione del verso, si proiettano all‘interno
delle frasi. Una frase come ―Clouds enlarge‖ non è meno interessata dal bilanciamento in questione
di quelle di Sentences di Grenier: la parola ―enlarge‖ è una parola normale dilatata(47).
Elenchiamo le caratteristiche della frase nuova e, quindi, leggiamo una poesia controllando la loro
presenza.
1) Il paragrafo organizza le frasi;
2) Il paragrafo è un‘unità di quantità, non logica o di argomentazione;
3) La lunghezza della frase è un‘unità di misura;
4) La struttura della frase è alterata per torsione o per accresciuta polisemia/ambiguità;
5) Il movimento sillogistico è: (a) limitato; (b) controllato;
6) Il movimento sillogistico principale è tra le frasi precedenti e seguenti;
7) Il movimento sillogistico secondario è verso il paragrafo come totalità o verso l‘opera intera;
8) La limitazione del movimento sillogistico mantiene l‘attenzione del lettore a livello del linguaggio o molto
vicino cioè, il più delle volte, a livello della frase se non più basso.
Il mio esempio è la poesia ―For She‖, di Carla Harryman. È un unico paragrafo:
The back of the hand resting on the pillow was so wasted. We couldn‘t hear each other speak. The puddle in the
bathroom, the sassy one. There were many years between us. I stared the stranger into facing up to Maxine, who
had come out of the forest wet from bad nights. I came from an odd bed, a vermillion riot attracted to loud dogs.
Nonetheless I could pay my rent and provide for him. On this occasion she apologized. An arrangement that did
not provoke inspection. Outside on the stagnant water was a motto. He was more than I perhaps though younger.
I sweat at amphibians, managed to get home. The sunlight from the window played up his golden curls and a fist
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screwed over one eye. Right to left and left to right until the sides of her body were circuits. While dazed and
hidden in the room, he sang to himself, severe songs, from a history he knew nothing of. Or should I say
malicious? Some rustic gravure, soppy but delicate at pause. I wavered, held her up. I tremble, jack him up.
Matted wallowings, I couldn‘t organize the memory. Where does he find his friends? Maxine said to me ―but it
was just you again‖. In spite of the cars and the smoke and the many languages, the radio and the appliances, the
flat broad buzz of the tracks, the anxiety with which the eyes move to meet the phone and all the arbitrary colors.
I am just the same. Unplug the glass, face the docks. I might have been in a more simple schoolyard.(48)
Si paragoni questo con la seguente descrizione del testo culturale postmoderno di Frederic Jameson:
Il Significante isolato non è più uno stato enigmatico del mondo né un incomprensibile, per quando ipnotico,
frammento del linguaggio ma, piuttosto, qualcosa di simile ad una frase in completo e autonomo isolamento.(49)
E, tuttavia, ciò che fornisce al pezzo di Harryman precisamente l‘intensità e la potenza che lo rende
degno della nostra attenzione sono i tanti modi in cui le frasi individuali non sono ―in completo ed
autonomo isolamento‖. L‘uso sovraccarico dei pronomi, la ricorrenza del nome Maxine, l‘utilizzo
delle strutture parallele (―I wavered, held her up. I tremble, jack him up‖) o di termini che si
estendono dallo stesso deposito di immagini, in particolar modo dall‘acqua, sono tutti metodi per
favorire un movimento sillogistico secondario al fine di creare o convogliare un‘impressione
generale di unità, senza la quale il blocco sistematico dell‘integrazione delle frasi l‘una con l‘altra,
attraverso il movimento sillogistico primario (si noti come le frasi parallele operino su tempi
diversi, o come la seconda si accenda sul verbo ―jack‖, notevolmente ambiguo e potenzialmente
sessuale), sarebbe banale, senza tensione, un ―cumulo di frammenti‖. Ciononostante, ogni tentativo
di spiegare questa opera come una totalità riconducibile ad un ―più alto ordine‖ di significato, come
la narrazione o il personaggio, è destinato al sofisma, se non all‘esplicita incoerenza. La frase nuova
è un oggetto decisamente contestuale. I suoi effetti occorrono tanto tra le frasi che al loro interno. In
questo modo rivela come lo spazio, tra le parole o le frasi, è molto più della ventisettesima lettere
dell‘alfabeto. Sta iniziando ad esplorare ed articolare proprio ciò che potrebbero essere quelle
facoltà nascoste.
La frase nuova si è resa visibile per la prima volta, almeno ai miei occhi, nella poesia ―Chamber
Music‖ in Decay di Barrett Watten. Ci sono, ovviamente, come ho sottolineato, numerose
anticipazioni di questo dispositivo, come l‘uso del verso nella sua prima poesia, ―Factors
Influencing the Weather‖, o negli ultimi libri dell‘ultimo Jack Spicer. Ma dice molto di più, forse
anche come test della sua reputazione in quanto dispositivo, il suo sviluppo in poco meno di un
decennio attraverso un‘intera comunità poetica. Diversamente dai brevi versi spezzati di Robert
Creely, per esempio, che furono così ampiamente imitati alla fine degli anni ‗60, la frase nuova ha
resistito con successo ad ogni appropriazione di brevetto. In questo senso, è qualcosa di diverso da
uno stile, e di più grande. La frase nuova è la prima tecnica di prosa ad identificare il significante
(anche quello dello spazio vuoto) come luogo specifico del significato letterario. Come tale, inverte
le dinamiche che così a lungo sono state associate alla tirannia del significato ed è il primo metodo
in grado di incorporare tutti i livelli del linguaggio, al di sotto dell‘orizzonte della frase e al di
sopra:
Everywhere there are spontaneous literary discussions. Something structurally new is always being referred to.
These topics may be my very own dreams, which everyone takes a friendly interest in. The library extends for
miles, under the ground.(50)
Ron Silliman
[Da: Ron Silliman, The New Sentence, Roof, New York, 1987; traduzione italiana di Gherardo Bortolotti.]
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Note.
(1) [NdT: Per piacere a un giovanotto dovrebbero esserci delle frasi. Ciò che sono le frasi. Come ciò che
sono le frasi. Nella parte delle frasi ciò per lui è felicemente tutto. Per lui daranno un nome alle frasi. Le frasi
sono chiamate frasi].
(2) [NdT: Oxford English Dictionary].
(3) P. 90.
(4) [NdT: B: Macchina. Macchina. / A: Cosa? / B: Va. Va. / A. Cosa? / B: Bus. Bus. Bus. / A: Bicicletta? / B.
No!]. Adattato da p. 91.
(5) [NdT: E: Pronto? / L: Ciao Ed. / E: Ciao Lisa. / L: Sto correndo di qua e di là per farmi preparare le
macchine [+] e vorrei che fosse tutto fatto prima di partire, [+] così non devo più tornare. [-] E così la cosa ci
potrebbe portare fino a verso le due. Che ne pensi? / E: Va bene. L‘unica cosa è che devo partire da qui
diciamo alle 3:15 più o meno. / L: 3:15. [-] Ok. Fammi vedere come va qui, [+] poi ti faccio una chiamata
appena prima di partire. / E: Ok. [-] Bene. / L: Okappa. Ciao ciao. / E: Ciao.]. Ed Friedman, The telephone
book (Power Mad Press, Telephone Books, 1979), p. 145.
(6) Ferdinand de Saussure, Course in general linguistics, curato da Charles Bally e Albert Sechehaye in
collaborazione con Albert Riedlinger, tradotto da Wade Baskin (McGraw-Hill, 1966), p. 106. I termini tra
parentesi quadre sono miei. [NdT: per l‘edizione italiana si veda Laterza, 1983].
(7) Ibid., p. 124.
(8) Ibid., p. 128.
(9) [NdT: per l‘edizione italiana si veda Einaudi, 1987].
(10) [NdT: per l‘edizione italiana si veda Il saggiatore, 1996].
(11) Noam Chomsky, Aspects of the theory of syntax (MIT Press, 1965), pp. 109-110.
(12) Simeon Potter, Modern linguistics (Norton, 1964), pp. 104-105.
(13) Tradotto da Ladislav Matejka e I. R. Titunik (Seminar Press, 1973), pp. 109-110. [NdT: per l‘edizione
italiana si veda Dedalo, 1976].
(14) Tradotto da G. E. M. Anscombe (McMillan Co., 1953), pp. 138e-139e. [NdT: per l‘edizione italiana si
veda Einaudi, 2009].
(15) (Dover, 1952), p. 8. [NdT: per l‘edizione italiana si veda Feltrinelli, 1987].
(16) J. L. Austin, Sense and sensibilia, ricostruito dalle note manoscritte da G. J. Warnock (Oxford
University Press, 1964), p. 110n. [NdT: per l‘edizione italiana si veda Senso e sensibilia. Marietti, 2001].
(17) (MIT Press, 1960), pp. 191-193. [NdT: per l‘edizione italiana si veda Il saggiatore, 2008].
(18) (Peregrine Books, 1963), p. 153, corsivo mio. [NdT: per l‘edizione italiana si veda Il mulino, 1999].
(19) Ibid.
(20) Vol. XIX, N. 4, p. 99.
(21) ―Language and literature‖ in The structuralist controversy, a cura di Richard Maksey e Eugenio Donata
(John Hopkins University Press, 1972), p. 130.
(22) [NdT: Qualcuno chiamato Douglas. / Qualcuno ha chiamato Douglas. / Fu ucciso da qualcuno chiamato
Douglas lì a Oakland.]
(23) ―To write: intransitive verb?‖ ibid., p. 136.
(24) Tradotto da Annette Leavers e Colin Smith (Hill & Wang, 1968), p. 44-47. [NdT: per l‘edizione italiana
si veda Einaudi, 2003].
(25) ―Postmodernism, or The cultural logic of late capitalism‖, in New Left Review, N. 146, luglio/agosto,
1984, p. 171.
(26) Vološinov, op. cit., p. 111.
(27) [NdT: Pensò che fossero un‘unità familiare. C‘erano sette uomini e quattro donne, e tredici bambini in
casa. Quale voce avrebbe registrato?]. ―Plasma‖, in Plasma/Paralleles/―X‖ (Tuumba, 1979), senza
paginazione.
(28) [NdT: Ecco perché parliamo una lingua. Di nuovo a Sofala, sto scrivendo questa cosa spaparanzato in
una morbida poltrona di pelle. Un cane morto è steso nel canale di scolo, con i piedi per aria]. Ibid.
(29) [NdT: Il fardello delle classi è la carriera del ventesimo secolo. Lui può essere incredibilmente crudele.
Gli eventi stanno avanzando ad un ritmo terrificante]. Ibid.
(30) [NdT: Di fronte al grande vano del portone, una fila malinconica di venditori di giornali, che
distribuivano la loro mercanzia dal canale di scolo, tenendosi lontani dal marciapiede. Era un cupo e gelido
giorno di inizio primavera ed il cielo sudicio, il fango per le strade, gli stracci di quegli uomini sporchi erano
in perfetta armonia con l‘eruzione di fogli di carta umidi, inutili, lordati dall‘inchiosto dello stampatore. I
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poster, maculati dalla sporcizia, guarnivano come un addobbo la spianata del selciato. La vendita dei giornali
della sera, tuttavia, era veloce, in rapporto alla marcia costante e spedita del traffico dei pedoni; l‘effetto era
di indifferenza, di distribuzione trascurata. Ossipon guardò alla svelta in entrambe le direzioni, prima di
uscire nelle correnti che si incrociavano, ma il Professore era già sparito]. (Doubleday Anchor, 1953), pp. 7576. [Per l‘edizione italiana si veda Giunti, 2004].
(31) [NdT: Un uomo apre una scatole di sardine e trova una fila di minuscole cuccette piene di minuscole
persone morte; è un dormitorio annegato nell‘olio. / Tira fuori i minuscoli corpi con una forchetta e li stende
su una fetta di pane; sopra di loro mette una foglia di lattuga e chiude il sandwich con un‘altra fetta di pane. /
Si domanda cosa dovrebbe farsene delle minuscole cuccette, chiedendosi se magari le può mangiare oppure
no. / Guarda nella lattina e vede un gatto minuscolo che galleggia nell‘olio. Il fondo della lattina, sotto l‘olio,
è pieno di piccole scarpe e di calze]. Edson‟s mentality (Oink! Press, 1977), p. 21.
(32) [NdT: Ieri ho trovato la mia pipa e stavo sognando una lunga serata di lavoro, un bel lavoro invernale.
Buttare via le sigarette con tutti i fanciulleschi giochi dell‘estate, nel passato acceso dalle foglie blu-sole, i
vestiti da musulmano e riprendere in mano la mia pipa onesta come un uomo serio che vuole una lunga
fumata senza essere disturbato, per lavorare meglio: ma non mi aspettavo la sorpresa che questa creatura
abbandonata mi stava preparando, a malapena avevo fatto il primo tiro quando mi sono dimenticato il grande
libro da fare, affascinato, commosso, respiravo l‘inverno passato che ritornava. Non avevo toccato la mia
fedele amica dal mio ritorno in Francia, e tutta Londra, Londra nella sua interezza per come me la sono
vissuta, un anno fa, apparve; prima le care nebbie che ci avvolgono strettamente il cervello e hanno lì un
odore tutto loro, quando entrano da sotto il telaio delle finestra. Il mio tabacco sapeva di una stanza buia con
mobili in pelle stagionati dalla polvere di carbone su cui se la godeva il gatto nero e snello; i grandi
caminetti! e la cameriera con le braccia rosse che rovesciava il carbone, e il rumore dello stesso carbone che
cadeva dal secchio d‘acciaio attraverso la grata di ferro al mattino – il momento del solenne doppio colpo del
postino, che mi riportava alla vita! Vedevo di nuovo attraverso le finestre quegli alberi malati nella piazzetta
deserta – vedevo il mare aperto, attraversato così spesso quell‘inverno, rabbrividendo sul ponte del vapore
umido per la pioggerella e annerito da fumo – con la mia piccola amata vagabonda, in abiti da viaggio con un
lungo vestito anonimo colore della polvere di strada, un mantello fradicio che le si attacca alle fredde spalle,
uno di quei cappelli di paglia senza piuma e quasi senza nemmeno un fiocco, che le signore ricche buttano al
loro arrivo, tanto sono stracciati dall‘aria di mare e che le povere amate rimettono in sesto per qualche bella
stagione ancora. Attorno al suo collo era avvolto il fazzoletto terribile che agitavamo quando ci dicemmo
addio per sempre]. The poems (Penguin Books, 1977), p. 217. [Per l‘edizione italiana si veda Mondadori,
2003].
(33) [NdT: IL MINISTRO // Ho imparato perfettamente la teologia pastorale, il greco degli Apostoli e tutti
quei argomenti difficili negli studi di un ministro. / Mi è stato insegnato come ad ogni altro in questo paese
quando il Vescovo mi ha ordinato. / E andai come parroco a Mount Moriah, la parrocchia più grande nella
Conferenza. / Predicai la parola così come la sentivo, visitai l‘ammalato ed il moribondo e confortai chi era
afflitto nello spirito. / Amavo il mio lavoro perché amavo Dio. / Ma persi la mia carica in favore di Sam
Jenkins, che non è stato a scuola quattro anni in tutta la sua vita. / Persi la mia carica perché non riuscivo a
fare gridare la mia congregazione. / E la mia moneta era scarsa, molto scarsa. / Sam Jenkins può fare a pezzi
una Bibbia e la sua congregazione distrugge i banchi a forza di gridare e battere i piedi. / Sam Jenkins è
avanti nel dono di raccogliere moneta. / Questa è la religione].
(34) [NdT: Non c‘è bisogno di essere abbattuti se non sai intagliare l‘onice in un anello che stia al dito di una
signora. Butti via la testa. Non c‘è né onice né porfido su queste strade – solo terra marrone. Con tutto ciò,
dovresti vedere la tua faccia in un fiore insieme – anche con questa luce. Solo occhi e solo per un lampo. Oh,
piega il collo, arranca con la schiena verso il buio spaccato! Cammina tra le croste di fango arricciate da una
parte, con la mano che pende. Ah, ecco... I pensieri sono alberi! Ah, ah, ah, ah! Le foglie pesano sui rami e
sopra la notte bianca sta seduta scalciando con i tacchi contro la riva. // Una poesia può essere fatta con
qualunque cosa. Questo è il ritratto di un bracciante equivoco fatto con le cose del suo ambiente]. Incluso in
Imaginations, a cura di Webster Schott (New Directions, 1970), p. 70. [Per l‘edizione italiana si veda
Guanda, 1971].
(35) [NdT: CREMA PASTICCERA / La crema pasticcera è questo. Ha dei dolori, duole quando. Non essere.
Non essere strettamente. Questo fa tutta una collinetta. / È meglio di una cosina che ha del denso reale denso.
È meglio dei laghi interi laghi, è meglio che seminare. // PATATE ARROSTO / Arrosto patate per].
Writings and lectures: 1909-1945, a cura di Patricia Meyerowitz (Penguin Books, 1971), p. 189. [Per
l‘edizione italiana si veda Liberilibri, 2006].
(36) [NdT: 1) Al proprio interno. Una porzione di frase può essere frase senza il loro significato. / 2) Ogni
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frase ha un inizio. Se lui inizierà. / Ogni frase che ha un inizio fa che sia lasciato di più a loro. / 3) Una frase
dovrebbe essere arbitraria non dovrebbe piacere essere meglio. / 4) La differenza tra una storia breve ed un
paragrafo. Non ce n‘è. / 5) Ci sono tre tipi di frasi ci sono. Se seguono le frasi le tre. Ci sono tre tipi di frasi.
Ci sono tre tipi di frasi che seguono le tre]. (Something Else Press, 1973), pp. 26-32.
(37) [NdT: 6) Una frase è un intervallo in cui c‘è finalmente avanti e indietro. Una frase è un intervallo
durante il quale se c‘è una difficoltà se ne sbarazzano. Una frase è una parte del modo quando vorrebbero
essere al sicuro. Una frase è la loro educazione nel chiedere una pausa. E quando capita vanno a vedere. / 7)
Ci sono due tipi di frasi. Quando vanno. Mi vengono dati. Ci sono questi due tipi di frasi. Ogni volta che
vanno mi vengono dati. Ci sono qui questi due tipi di frasi qui. Un tipo è quando a loro piace e l‘altro tipo è
tanto spesso quanto a loro fa piacere. I due tipi di frasi sono in relazione quando riescono ad essere per meno
con una volta quando sia che sono ripresi. Due tipi di frasi fanno sì che nessuno dei due si divida in un
nome]. Ibid., p. 132 e 149.
(38) [NdT: 8) Ricorda che una frase non dovrebbe avere un nome. Un nome è familiare. Una frase non
dovrebbe essere familiare. Tutti i nomi sono familiari qui dipoiché qui non ci dovrebbe essere un nome in
una frase. Se c‘è un nome in una frase un nome che è familiare vale come dato e quindi qui non c‘è
equilibrio]. Ibid., pp. 166-167.
(39) [NdT: 9) Che cosa avevano a che fare con ciò i punti. Inevitabilmente non importa quanto
compiutamente dovessi tirare avanti la scrittura, fisicamente ci si doveva fermare ancora ed ancora a volte e
se ci si doveva fermare ancora ed ancora a volte allora i punti dovevano esistere. D‘altra parte mi era sempre
piaciuto l‘aspetto dei punti e mi piaceva quello che facevano. Fermarsi ogni tanto non impediva affatto di
procedere, non era niente che interferisse, era solo qualcosa che avveniva, e come se avvenisse come qualche
avvenimento del tutto naturale, credevo nei punti e li usavo. Non ho mai smesso veramente di usarli. / 10)
Frasi e paragrafi. Le frasi non sono emotive ma i paragrafi lo sono. Posso dirlo tanto spesso quanto mi piace
e rimane sempre così com‘è, qualcosa che è. / Dissi che lo avevo trovato ascoltando Basket il mio cane che
beveva. E chiunque ascoltasse un qualunque cane che beve capirà quello che intendo]. Writings and lectures,
op. cit., pp. 130 e 133-134.
(40) [NdT: ―Un cane che non hai mai avuto prima ha sospirato‖].
(41) [NdT: 11) Adesso un po‘ sappiamo che cosa sia la prosa. La prosa è il bilanciamento il bilanciamento
emotivo che dà realtà ai paragrafi e il bilanciamento non emotivo che dà realtà alle frasi e avendo realizzato
completamente realizzato che le frasi non sono emotive mentre i paragrafi lo sono, la prosa può essere il
bilanciamento essenziale che viene fatto dentro a qualcosa che combina la frase con il paragrafo]. Ibid., p.
137.
(42) [NdT: Al massimo un libro la veranda. Fiamme che sono sbarre di neve affatto. Fiore giù l‘inverno per
svanire. Un po‘ mano che accarezza selce a una carta. Nomi che blu. Ruota bloccata a una piramide
attraverso calza i regni del metallo. Colpite le foglie. Participio]. In United Artists Five, dicembre, 1978,
senza paginazione.
(43) [NdT: Una geografia controllata pende in avanti con la ripetizione dei paesaggi. Viveva qui, dai
presupposti. La collina scomparve all‘improvviso, dimostrandogli che aveva ragione. Mi lasciarono con la
borsa in mano. Ci guardai dentro. / Il suolo si avvicinava rapidamente. Era un lato di sé che mostrava di rado.
Le tracce dell‘auto sparivano nel mezzo della strada. Il dialogo con gli oggetti diventa sempre più slogato.
Entrambe le fazioni raccolgono le loro forze. Le nuvole si dilatano. Il vento ti solleva. Si teneva al lato del
granaio con i polpastrelli]. (The Figures, 1984), p. 1.
(44) [NdT: La faccia di uno straniero / è un privilegio a vedersi / ogni respiro una firma / e lo stesso tramonto
cinquant‘anni dopo / anche se la familiarità è un educazione]. Dalla serie ―Celestial mechanics‖ in Cafe
isotope (The Figures, 1980), p. 1.
(45) [NdT: Danny amò sempre l‘Irlanda].
(46) [NdT: v. nota 43].
(47) [NdT: nel testo originale: enlarged].
(48) [NdT: Il dorso della mano che riposava sul cuscino era così sprecato. Non riuscivamo a sentirci parlare.
La pozzanghera in bagno, quella sfacciata. C‘erano molti anni tra noi. Guardai in faccia lo straniero
nell‘affrontare Maxine, che era uscita dalla foresta umida di brutte notti. Venivo da uno strano letto, una
rivolta di vermiglio attratta da cani a gran voce. Ciononostante potevo pagarmi l‘affitto e provvedere a lui. In
questa occasione si scusò. Un accordo che non desse luogo all‘ispezione. All‘esterno sull‘acqua stagnante
c‘era un motto. Lui era più di me forse benché giovane. Sudai agli anfibi, riuscii a rincasare. La luce del sole
dalla finestra metteva in evidenza i suoi riccioli dorati ed un pugno si inchiodava in un solo occhio. Da destra
a sinistra da sinistra a destra fino a che i lati del suo corpo divennero dei circuiti. Stordito e nascosto nella
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stanza, cantava da solo, canzoni severe, da una storia di cui non sapeva niente. O dovrei dire malizioso?
Qualche incisione rustica, svenevole ma delicata in pausa. Esitai, la presi. Tremo, lo tiro su. Intricati
compiacimenti, non riuscivo a organizzarne il ricordo. Dove trova gli amici? Maxine mi disse ―ma eri solo tu
di nuovo‖. Malgrado le macchine e il fumo e le tante lingue, la radio e gli elettrodomestici, il ronzio piatto,
esteso dei binari, l‘ansia con cui gli occhi si spostano per finire sul telefono e tutti i colori arbitrari. Sono
proprio la stessa. Stacca il vetro, fronteggia il porto. Avrei potuto essere in un cortile scolastico più
semplice]. Under the bridge (This Press, 1980), pp. 57-58.
(49) ―Postmodernism, or The cultural logic of late capitalism‖, op. cit., p. 73.
(50) [NdT: Ovunque ci sono delle discussioni letterarie spontanee. Viene sempre riportato qualcosa di
strutturalmente nuovo. Questi argomenti potrebbero essere i miei propri sogni, verso cui tutti mostrano un
interesse amichevole. La biblioteca si estende per miglia, nel sottosuolo]. ―Plasma‖, op. cit.
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PAOLO ZUBLENA
ESISTE (ANCORA) LA POESIA IN PROSA?
Come al solito, quando si maneggiano categorie ambigue come poesia e prosa, il problema è
innanzitutto di definizione. Siccome non è pacifico né che cosa sia la poesia, né che cosa sia la
prosa, tanto meno sarà facile definire la ―poesia in prosa‖, operazione con ogni evidenza preventiva
all‘atto di predicarne l‘eventuale (mancata, o non più attuale) esistenza.
Semplificando al massimo, e limitando altresì al minimo i rimandi alle innumerevoli possibili
autorità, nel concetto di poesia coesistono una definizione sostanziale e una definizione formale:
poesia insomma come scrittura letteraria che si differenzia dal resto per una sua quiddità, oppure
poesia come scrittura in versi. In entrambi i casi il concetto di poesia si oppone a quello di prosa. E
in entrambi i casi la prosa parrebbe definirsi per un deficit rispetto alla poesia: per una minore
―altezza‖, oppure per l‘assenza della versificazione (in primo luogo, dell‘a capo). In un caso e
nell‘altro questa differenzialità della poesia come ci viene presentata dalla tradizione ―teorica‖
riposa su un‘inversione ideologica del rapporto genetico presunto dal senso comune. La distinzione
stessa è, evidentemente, dovuta a una volontà di sottrarre uno scopo (rituale, estetico, ecc.) alla
comunicazione quotidiana.
D‘altra parte lo stesso concetto di prosa può essere definito formalmente e sostanzialmente: ma il
significato formale (l‘oratio proversa, poi prorsa, cioè ‗continua‘: insomma un discorso che va
dritto, diversamente dal versus, che appunto torna continuamente indietro) è largamente prevalente,
mentre quello sostanziale è in primo luogo metaforico (si pensi all‘uso dell‘agg. prosaico). È
appena il caso di notare come questo uso metaforico trovi il suo apice in un celebre luogo
dell‘Estetica di Hegel: «Questa è la prosa del mondo quale appare alla propria e all‘altrui coscienza,
un mondo fatto di finitezza e di mutamenti, inviluppato nel relativo, oppresso dalla necessità, alla
quale il singolo non è in grado di sottrarsi. Infatti ogni vivente isolato rimane nella contraddizione
di essere a sé per se stesso come questo conchiuso uno, ma di dipendere al contempo da ciò che è
altro, mentre la lotta per la soluzione della contraddizione non va oltre il tentativo di questa guerra
permanente»(1). Almeno di lì in poi anche la nozione di prosa ha conosciuto un uso parzialmente
ambiguo, tanto che la formula critica da qualche tempo in voga di una poesia che va verso la prosa
soffre in modo irredimibile della oscillazione semantica dei due concetti: e di fatto viene usata in
modo quasi indifferente per giustificare fenomeni tematici e fenomeni formali.
Se dunque i concetti di poesia e di prosa sono così ambigui, tanto più ambiguo, e anzi senz‘altro
contraddittorio – ma di una contraddizione che non può essere limitata all‘indecidibilità tra due
opzioni – sarà quello di poesia in prosa. Non per niente il pionieristico – e tutt‘ora decisivo – saggio
di Giovannetti sulla questione riprendeva da Riffaterre la constatazione della natura ossimorica del
―genere‖ fin dal titolo(2). È ovvio che la contraddizione, addirittura insanabile, è massima se diamo
un significato puramente formale a ―poesia in prosa‖: forzando al massimo un‘implicatura non poi
così implicita potremmo arrivare a una definizione del tipo ‗discorso in prosa che funziona come un
discorso in versi‘. Ma resterebbe una definizione assai poco soddisfacente. Se d‘altro canto
consideriamo poesia e prosa non solo come contenitori formali, ma come (super)generi, allora il
significato non può che convergere verso la segnalazione dell‘ibridismo della poesia in prosa. Ma
anche in questo caso si hanno complicazioni: se la poesia può essere definita un genere letterario, o
almeno un ipergenere (con i suoi ipogeneri: la poesia lirica, la poesia epica, ecc.), è ben difficile
trovare un‘accezione del genere per prosa, che – lo si è detto – oscilla tra un significato formale e
uno metaforico, e tuttavia solo con molte difficoltà potrebbe essere considerata un iper-ipergenere.
Ecco quindi che dovremmo intendere il lessema complesso poesia in prosa come costituito da due
concetti che vengono impiegati in accezioni diverse: poesia con un valore di genere letterario, prosa
con un valore formale. Si tratterebbe quindi della declinazione in una forma insolita di un genere
letterario che – pur nella sua varietà – ha per tradizione la gabbia formale del verso (la ―poesia in
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poesia‖). Anche questa definizione pone però dei problemi, e uno su tutti: ci si può ancora servire di
poesia come categoria corrispondente a un genere letterario?
Non è questo ovviamente il luogo per riprendere un dibattito mai sopito sui generi letterari. In
un‘epoca di ritorno postmodernista a generi anche stereotipicamente canonici, oggi sembra
lontanissima non solo l‘impurità, l‘―appartenenza senza appartenenza‖ della loi du genre derridiana,
ma in primo luogo il superamento dei generi del secondo modernismo, manifestatosi al massimo
grado nella testualità del Beckett maturo e tardo. Ma si provi a riprendere l‘oggi vituperatissima
condanna dei generi che – lo si può tranquillamente ammettere: con il suo tono un po‘ sacerdotale –
pronunciava Blanchot nel suo Livre a venir: «Seul importe le livre, tel qu‘il est, loin de genres, en
dehors des rubriques, prose, poésie, roman, témoignage, sous lequelles il refuse de se ranger et
auxquelles il dénie le pouvoir de lui fixer sa place et de déterminer sa forme. Un livre n‘appartient
plus à un genre, toute livre relève de la seule littérature, come si celle-ci détenait par avance, dans
leur généralité, les secrets et les formules qui permettent seuls de donner à ce qui s‘écrit réalité de
livre. Tout se passerait donc comme si, les genres s‘étant dissipés, la littérature s‘affirmait seule,
brillait seule dans la clarté mysterieuse qu‘elle propage et que chaque création littéraire lui renvoie
en la multipliant, – comme s‘il y avait donc une ―essence‖ de la littérature. / Mais, précisément,
l‘essence de la littérature, c‘est d‘échapper a toute détermination essentielle, à toute affirmation qui
la stabilise ou même la réalise: elle n‘est jamais déjà là, elle est toujours à retrouver ou à reinventer.
[…] C‘est pourquoi, finalment, c‘est la non-littérature que chaque livre poursuit comme l‘essence
de ce qu‘il aime et voudrait passionnément découvrir»(3). Sostituendo, se si vuole, la nozione, del
resto pure cara a Blanchot (e a Barthes) di scrittura a quella di libro – per evitare una
monumentalizzazione del libro che sostituisca quella tradizionale dell‘opera, lasciando insomma al
concetto, attraverso il nome che lo designa, una plasticità capace di attingere nuove forme quali ci
sono consegnate dai tempi – non dovrebbe sfuggire che questo sciamano dell‘art pour l‟art,
dell‘autoreferenzialità e dell‘autotelismo assoluti, ci indica il non-letterario come essenza dello
spirito di scoperta della letteratura, della sua costitutiva instabilità a cui i generi della tradizione
avevano dato un temporaneo contenimento secondo il principio classicista dell‘ordine. La scrittura
letteraria quindi si esprime come insoddisfazione per ogni determinazione. Di qui la rottura con i
generi che si avverte nella scrittura beckettiana e in quella raccoltasi attorno a «Tel quel».
Questo non vuol dire ovviamente che i generi letterari dagli anni ‘60 in poi si siano dissolti. Anzi.
Sarebbe però ingenuo allo stato attuale considerarli qualcosa di più di dispositivi pragmatici che
inquadrano un patto di lettura tra autore e lettore, o ancor meglio tra autore e lettore implicito
nell‘orizzonte di attesa contemporaneo. Ma questi dispositivi pragmatici sono in primo luogo
sopravvivenze di istituti teorici (e normativi) del passato la cui portata si è spostata dal campo
letterario (e quindi, se proprio volessimo seguire Bourdieu, da ragioni di conflitto circa il capitale
culturale) a quello economico dell‘industria culturale: oggi i generi si definiscono in funzione degli
interessi del mercato editoriale.
In questo senso, se la nozione di poesia in prosa poteva avere un tempo – e certamente ha avuto –
una funzione liberante di ibridismo rispetto a generi ancora fortemente canonizzati, oggi che i
generi sono soprattutto etichette in libreria, e la poesia in primo luogo un concetto la cui
ipostatizzazione ideologica inverte – appunto ideologicamente – la marginalizzazione che la
letteratura che non si vende subisce dal mercato editoriale elevandola nel migliore dei casi a luogo
anodino di resistenza etico-politica, nel peggiore a squisito rifugio irresponsabile da anime belle: se
insomma la poesia non ha più bisogno di libertà perché il mercato le lascia tutta l‘indifferente
libertà che vuole, allora questa nozione (la poesia in prosa) è oggi probabilmente inutile.
E, da questo punto di vista, mi sembrano decisamente meritevoli di essere seguite le tesi di Michel
Sandras, che ha saputo mettere in luce la storicità del ―genere‖ poesia in prosa e la sua funzionalità
al particolare orizzonte di attesa di un dato momento storico. Ripercorriamo il ragionamento di
Sandras(4). La definizione poème en prose si afferma – anche se non nasce – con Baudelaire, e si
adatta, nell‘uso paratestuale degli autori stessi – non della critica – a un novero molto vario di
oggetti letterari. Specialmente per quanto riguarda l‘Italia, si può aggiungere, la sua attualità viene
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meno con il prevalere della prosa d‘arte rondista (legittimata dalla ben più antica tradizione della
Kunstprose, oggetto che – lungi dall‘attentare a essa – raffina la più delibata letterarietà). Il termine
entra nel lessico critico, in Francia, in virtù di due importanti lavori accademici, un‘antologia e una
thèse: Anthologie du poème en prose, introduction, choix et notes de Maurice Chapelan , Paris,
Juilliard, 1946; Paris, Grasset, 1959 (II edizione); Suzanne Bernard, Le Poème en prose de
Baudelaire jusqu‟à nos jours, Paris, Nizet, 1959. Secondo Sandras, questi due lavori ―inventano‖ il
genere poème en prose, sussumendo testi molto diversi tra di loro sotto una sola categoria allo
scopo di creare un genere unitario con la sua relativa genealogia(5): un genere nel quale sia
possibile integrare testi in prosa che, negli anni ‘50-‘60, si presentano – a partire dall‘intentio
auctoris – come poesie (bastino i nomi – e i casi ben diversi tra loro – di Michaux, Char, Ponge e
Frénaud). La fondazione del genere poesia in prosa non viene revocata in dubbio, ma anzi
corroborata, dallo strutturalismo, che non ha difficoltà a vedere forme diverse dalla poesia in senso
stretto come sedi possibili, quantunque non privilegiate, della funzione poetica del linguaggio.
Sandras certo ammette che «Au XIX e siècle comme au XXe, des écrivains, et parmi les plus grands,
comme Mallarmé, ont bien pensé écrire en prose des poèmes, et des lecteurs ont reçu ces textes
comme tels. Il y a eu pour les uns et pour les autres un désir d‘existence du poème en prose»(6): e
questo soprattutto in virtù di una esigenza di liberarsi dalle forme canoniche (e, tra l‘altro, in
parallelo alla nascita della metrica libera). Ma, in fin dei conti, la fondazione accademica di questo
genere è poi servita soprattutto a rendere legittime soluzioni formali di ricerca dalla specola di un
giudizio estetico tradizionale: va bene la prosa che si fa passare come poesia, purché abbia in sé
qualcosa (ritmo, lessico, blanks e raffinatezze tipografiche: tutti tratti compensatori) della poesiapoesia! Di qui l‘interferenza e poi spesso l‘indistinzione tra poesia in prosa e prosa d‘arte, fenomeno
italiano (con la prosa d‘arte largamente ri-prevalente come ovvio nel clima di restaurazione
rondesco, quindi fino al secondo dopoguerra), ma anche francese.
Oggi questa descrizione non è più economica. Non è necessario parlare di poesia in prosa per
legittimare testi che non sono né poetici né narrativi in senso tradizionale, non dopo Beckett e «Tel
quel». Ancora Sandras: «En fait cette répresentation veut ignorer que les poèmes en prose les plus
intéressants, pour nous aujourd‘hui, sont justement ceux qui ont voulu se débarasser du liant
poétique ou qui ont une portée métapoétique»(7). Potremmo quasi azzardare: la poesia in prosa non
esiste più, se non come revival (se non per rifare Baudelaire o Campana). La prosa non ha bisogno
di farsi chiamare poesia per avere una patente di legittimità estetica al di fuori del dominio dei
generi canonici e diremmo, persino, degli ibridi canonici. Esaurita la forza del poème en prose come
possibile «metagenere» onnicomprensivo, si capisce quindi l‘esigenza – talvolta con un alto livello
di consapevolezza teorica, talvolta con un gesto istintivo(8) – di rinominare il proprio lavoro: in
questo senso si colloca l‘operazione sfociata nel volume Prosa in prosa(9), che ricalca la formula
«prose en prose» dovuta a Jean-Marie Gleize. La filiazione francese e anglosassone è in scorcio
ottimamente ripercorsa da Giovannetti nel suo saggio introduttivo(10). La littéralité di Gleize
(trasparenza anallegorica da un lato, e alfabeticità, tipograficità dall‘altro) conduce a una testualità
che si offre come chiara ed enigmatica a un tempo(11). Apparentabile anche alla language poetry
statunitense (Bernstein, Silliman ad esempio), a forme di scrittura concettuale, ai risultati di varie
tecniche di cut up o di montaggio, al googlism (Mohammad), la somma di esperienze contenute in
Prosa in prosa, almeno nel suo asse portante, presenta una scrittura che si nega alla differenzialità
tipica delle poetiche novecentesche, che si serve quindi della lingua d‘uso recependo anche le
varietà più legate ai nuovi media, che si costruisce come sintomale rispetto alla sfera ideologica,
percettiva e patica di un soggetto che a sua volta si sottrae alla monadicità lirica, ma anche alla
venuta dell‘altro tipica di un soggetto dialogico, per restituire semmai una sovrapposizione non
universale tra sociale e individuale. D‘altronde se riconosciamo che – hegelianamente – il compito
della filosofia è apprendere il proprio tempo in concetti, e – per estensione – il compito della
letteratura (della scrittura) è quello di rappresentare il proprio tempo in figure, non potremo non
notare che queste forme ci restituiscono le microesperienze di percezione del tempo e dello spazio
caratteristiche dell‘epoca odierna. Per esemplificare, ha ragione quindi Antonio Loreto a sostenere
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che «La ricerca dell‘―impressione logica‖ che danno graficamente le forme letterarie sulla pagina
può portare a leggere nella prosa lo spettro visivo della modalità percettiva e del supporto tipici
della nostra epoca: lo schermo»(12). Considerazioni analoghe si potrebbero fare sull‘esperienza
della memoria in rapporto ai supplementi di archivio sempre più capienti cui ricorriamo con
crescente frequenza. I nuovi oggetti e le nuove modalità di percezione e di archiviazione si
rappresentano più facilmente attraverso forme linguistico-stilistiche non differenziali: attraverso la
prosa, attraverso ―tecniche di basso livello”(13). E non serve notare come solo un‘estetica che non
pratichi una distinzione netta tra l‘oggetto artistico e l‘oggetto della percezione ordinaria sia in
grado di interpretare a dovere queste forme artistiche.
Non una virtù profetica, ma una lucida intelligenza del suo tempo e degli sviluppi in esso contenuti,
avevano permesso a Theodor Adorno di fare nel 1944 la seguente considerazione, che mi pare
adattarsi ai tempi di oggi e alle loro forme telematiche di pubblicazione, low level quanto e più del
ciclostile: «Oggi, nella cultura di massa, progresso e barbarie sono così strettamente intrecciati, che
solo un‘ascesi barbarica contro quella e contro il progresso dei mezzi sarebbe in grado di ristabilire
il non-barbarico. Non un‘opera d‘arte, non un pensiero ha la possibilità di sopravvivere, in cui non
sia implicito il rifiuto della falsa ricchezza e della produzione di prima classe, del technicolor e della
televisione, delle riviste in carta patinata e di Toscanini. I mezzi più antichi, non rivolti alla
produzione di massa, acquistano nuova attualità: l‘attualità di ciò che non è incorporato,
dell‘improvvisazione. Essi soli potrebbero sottrarsi al fronte unico di tecnica e monopoli. In un
mondo in cui, da tempo, i libri non hanno più l‘aspetto di libri, lo sono soltanto quelli che non lo
sono più. Se l‘invenzione della stampa ha segnato l‘inizio dell‘età borghese, potrebbe essere presto
matura la sua revoca e la sua sostituzione ad opera del ciclostile, il solo adeguato e modesto
strumento di diffusione»(14). Certo, sarebbe un‘ingenuità dire che quel ciclostile oggi è internet, ma
sarebbe altrettanto sbagliato non rilevare che – a dispetto della sua appartenenza al dominio
tecnocratico, e anzi in forza di un suo possibile dialettico contrapporsi alla propria stessa origine –
internet contiene in sé anche quel potenziale ciclostile.
Paolo Zublena
Note.
(1) Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, Torino, Einaudi, 1967, p. 171.
(2) Paolo Giovannetti, Al ritmo dell‟ossimoro. Note sulla poesia in prosa, «Allegoria», X, 28, 1998, pp. 1940, poi in Dalla poesia in prosa al rap. Tradizione e canoni metrici nella poesia italiana contemporanea,
Novara, Interlinea, 2008, pp. 19-45.
(3) Maurice Blanchot, Le livre a venir, Paris, Gallimard, 1959, pp. 272-273.
(4) Michel Sandras, Le poème en prose: une fiction critique?, in Crise de prose, sous la direction de JeanNicolas Illouz et Jacques Neefs, Saint-Denis, Presses Universitaires de Vincennes, 2002, pp. 89-101. Si veda,
sempre di Sandras, anche il precedente Lire le poème en prose, Paris, Dunod, 1995.
(5) Un genere per di più fondato sul precedente illustre dello Spleen de Paris.
(6) Sandras, Le poème en prose: une fiction critique?, cit., p. 97.
(7) Ivi, p. 99.
(8) Tra i poeti apparentemente legati a una autorappresentazione tradizionale di genere, non posso non
pensare alle notevolissime prose e ai «non versi» di Eugenio De Signoribus. E, al di là della autodefinizione
di genere, si dovrà ricordare almeno la scrittura in prosa di Magrelli, Ottonieri, Lo Russo, Bonito, Dal Bianco
e ancor prima quella di Giampiero Neri.
(9) Andrea Inglese, Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Michele Zaffarano, Andrea
Raos, Prosa in prosa, Introduzione di Paolo Giovannetti, Note di lettura di Antonio Loreto, Firenze, Le
Lettere, 2009.
(10) Da cui ho ripreso poco sopra anche la nozione di poème en prose come metagenere (p. 7).
(11) «La prose en prose serait littéralement littérale elle voudrait dire ce qu‘elle dit en le disant en l‘ayant dit
et la prose en prose comme poésie après la poésie si elle existait n‘aurait littéralement, proprement, aucun
sens que le sens idiot de dire ce qui est» (Jean-Marie Gleize, A noir. Poésie et littéralité, Paris, Seuil, 1992,
p. 228.
47
(12) Antonio Loreto, Note di lettura, in Prosa in prosa, cit., pp. 201-213, alla p. 206.
(13) Gherardo Bortolotti, Tecniche di basso livello, Caserta, Lavieri, 2009.
(14) Theodor W. Adorno, Minima moralia [1951], Torino, Einaudi, 1994, p. 49.
48
PERCORSI ITALIANI
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FILIPPO MILANI
MANGANELLI PROSATORE-POETA
Un nuovo tassello di collocazione ardua si è da poco aggiunto alla già intricata composizione del
puzzle-Manganelli: la scoperta di una cospicua produzione poetica che risale agli anni '50-'60 ma
rimasta finora inedita e pubblicata solo nel 2006 da Crocetti. Occorrerà analizzare questi nuovi
materiali e capire in che modo si possa riconsiderare in essi il rapporto tra prosa e poesia, ma
soprattutto l'eventuale influenza di quest'ultima sulle successive tensioni linguistiche
manganelliane. Bisogna innanzitutto evitare di stravolgere la formazione di Manganelli, ritenendo
che sia nato come poeta e solo successivamente si sia trasformato in abile manipolatore della prosa;
ora è certo però che un primo impulso alla scrittura si è manifestato attraverso la forma poetica da
un lato e quella diaristico-critica dall'altro. Infatti, negli anni che vanno dalla fine della seconda
guerra mondiale al 1962 circa si intrecciano alcuni materiali che per gli studiosi di ―archeologia
manganelliana‖ acquistano notevole interesse: le prove poetiche, appunto, databili tra il '48 (le
poesie giovanili inviate al prof. Beonio Brocchieri) e il '62 (stando alla data del testo
cronologicamente più recente); i quaderni di appunti critici che risalgono al periodo '48-'56, e sono
pubblicati parzialmente nel numero monografico della rivista ―Riga‖ (n. 25, 2006).
Materiali di notevole interesse, è vero, ma di difficile collocazione. Da subito la critica si è
posta il problema di utilizzare questi materiali laboratoriali in rapporto all'opera edita di Manganelli.
Già nella postfazione al volume di poesie, Federico Francucci si interroga infatti su ―come usare
queste poesie, come intenderle, cosa farne insomma, e [...] in che maniera modifichino o
arricchiscano l'immagine che ci eravamo fatti sinora‖ 1. del loro autore, giungendo alla conclusione
che fosse necessario adottare una certa cautela sia di fronte ai materiali poetici sia ai racconti e ai
taccuini rimasti finora inediti. La medesima perplessità viene ribadita e confermata da Andrea
Cortellessa quando afferma che ―si tratta, non c'è dubbio, di materiale di estremo interesse per gli
studiosi: i quali lo possono usare, appunto, per capire meglio i testi maturi del loro autore. Ma che,
stavolta, non aggiunge nulla alla sua gloria postuma‖ 2. La cautela è dunque d'obbligo, ma non può
frenare la necessaria curiosità della critica nei confronti del rapporto tra questi esperimenti di
laboratorio e la folgorante maturità dell'esordio hilarotragico, ovvero il modo in cui Manganelli ha
utilizzato gli spunti di queste pagine lungo tutta la sua eterogenea produzione in prosa, recuperando
e rielaborando temi ossessivi e persistenti, oltre che soluzioni stilistiche a lui particolarmente care.
L'abbandono della poesia a favore della prosa rispecchia proprio la necessità di superare i limiti
dell'incipitario incontro con la scrittura, in cui si assiste, secondo Daniele Piccini, a ―una collisione
tra possibilità della forma e del già amatissimo gesto stilisticamente gratuito tra il regesto verbale da
una parte e l'incandescente materia della solitudine e dell'irresolutezza dall'altra, che polarizza e
orienta le possibili scoperte‖ 3. Di conseguenza, annota ancora Piccini, ―i testi ruotano attorno alla
sanguinosa verità dell‘esperienza individuale, a un perno esistenziale, a un‘angoscia propriamente
sentita che l‘autore non elude affatto o mette tra parentesi, esibendola anzi, a partire dal pronome di
prima persona‖4.
All'altezza temporale delle prove di scrittura poetica, Manganelli non ha dunque posto
ancora un discrimine tra l'Io, ―l'incandescente materia‖ autobiografica (―Non sono molto
interessanti / questi scarabocchi del tuo sangue‖5), e la scrittura, il ―gesto stilisticamente gratuito‖
(―l'esigua dolcezza della carta‖, p25). Quella rivoluzione copernicana che spodesterà il soggetto dal
1
F. Francucci, postfazione a G. Manganelli, Poesie, Crocetti, Milano 2006, p. 343.
A. Cortellessa, Giorgio Manganelli: archeologia di un collezionista, in Id., Libri segreti, Le Lettere, Firenze 2008, p.
227.
3
D. Piccini, introduzione a G. Manganelli, Poesie, cit., p. 10.
4
Ibid.
5
Ivi, p. 98. D'ora in poi per le citazioni dal volume di Poesie verrà indicata solo la pagina.
2
50
centro dell'universo psichico e letterario, disseminandolo invece nell'infinito ―catalogo freddo dei
possibili‖ (p98), ―lo sbocciare e il morire simultaneo / dei possibili‖ (p51), non è ancora avvenuta.
Una definizione acuta del rapporto tra la parola e l'io appartiene a Giorgio Agamben, nella
prefazione alla tesi di laurea di Manganelli 6: ―l‘ingresso nel linguaggio (nella scrittura) non è [...]
un gesto neutrale, ma introduce nel soggetto un principio di divisione infinita‖ 7.
A quell'altezza, Manganelli sta per compiere una sofferta metamorfosi da scrittore in
potenza a scrittore in atto, e di tale metamorfosi ha una consapevolezza lucida; lo conferma infatti
una riflessione che si trova nei Quaderni d‟appunti 1954-56: ―La penna ‗resiste‘ di più alla mano
che scrive: la mano è già materia, è fuori di noi‖ 8. Un processo nel quale l'autore si pone a
confronto con la sofferenza psichica e con l‘ossessione per la scrittura è costituito poi dal finale di
un testo di Altre poesie:
Usa il tuo inferno totale:
scalda i moncherini del tuo nulla;
gela i tuoi ardori genitali;
con l‘unghia scrivi il tuo nulla:
a capo.
Qualche anno prima, in una lettera (datata 20/7/1945) alla futura moglie Fausta Chiaruttini,
Manganelli aveva confessato: ―Tutta la mia vita è stata lo sforzo di trovare quel senso, di
ricomporre la pagina agitata in una sintassi o poetica o metafisica o umana‖ 9. La ricerca del senso
della vita attraverso la scrittura diventa ora un imperativo esistenziale, che conduce l'unghia a
incidere il proprio nulla sulla pagina, nel tentativo di ricomporre quello ―sgomento asintattico‖ (così
lo definisce l'autore nella medesima lettera) non lo abbandonava. Le strutture sintattiche, le regole
retoriche, la precisione compositiva si impongono come l'unica via da percorrere per liberarsi delle
proprie angosce e agonie, per ristabilire un ordine, almeno grafico, al caos psichico.
I testi riuniti nel volume di Poesie mostrano una notevole compattezza tematica. Si può
affermare, anzi, che ognuno di essi costituisca una variazione sopra un unico tema: la Morte ―in
tutte le sue forme‖ (p28); un impulso tanatocentrico che senza dubbio anticipa e alimenta quello del
libercolo hilarotragico. Un'ossessiva ―volontà di morte‖ pervade l‘intera raccolta e si delinea come
tema portante dell'opera di Manganelli. Si tratta di un centro tematico totalizzante sul quale si
innestano infinite possibilità di costruzioni verbali, in modo che ogni componimento si configuri
come ipotetica trascrizione tanatologica, ovvero come primo tentativo per sondare quanto la parola
sia effettivamente in grado di scrivere la Morte, di farsi essa stessa lingua morta, annullando le
proprie qualità comunicative. Manganelli si applica a un programmatico sprofondamento nella
propria psiche, accettando per la prima volta il confronto diretto sulla pagina. Lo scrittore esplora
un mezzo espressivo attraverso il quale esternare il proprio malessere, contro l‘onnivora presenza di
un contenuto angosciastico difficilmente domabile: la monomania di Manganelli per la Morte
ingloba la scrittura poetica.
Nel componimento che apre la raccolta, secondo l‘indice d‘autore rinvenuto da Piccini 10, si
trova il nucleo tematico su cui si fonda la ricerca poetica di Manganelli: la pace ―sta tutta nella
bianca / costola del libro, / la pagina rettangolare / virgole, maiuscole‖ (p25), poiché questa è in
grado di placare ―gli argomenti dell‘inferno‖, sebbene la consapevolezza dell‘inevitabile ―morte
amara‖ (figura retorica di memoria montaliana) vanifichi ogni tentativo di addolcire il Destino. Si
tratta di una sorta di testo programmatico-esistenziale, nel quale Manganelli espone un progetto di
6
G. Manganelli, Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del „600 italiano, a cura di P. Napoli,
introduzione di G. Agamben, Quodlibet, Macerata 1999.
7
G. Agamben, introduzione a op. cit., p. 17.
8
G. Manganelli, Appunti critici, a cura di A. Cortellessa, in ―Riga‖ n. 25 (2006), p. 87.
9
G, Manganelli, Circolazione a più cuori. Lettere familiari, Aragno, Torino 2008, p. 23.
10
Vedi nello specifico la ―Nota al testo‖ di D. Piccini in G. Manganelli, Poesie, pp. 247 e segg.
51
scrittura e di vita, anticipando per certi versi il suo testo teorico sulla letteratura del 1967: l‘inferno
del corpo e della mente si scontrano con la pace della finzione letteraria; la letteratura funge da cura
alla disperazione e alla solitudine, ma è anche sintomo dell‘inquietudine; nella letteratura ―tutto è
esatto, e tutto è mentito‖ 11. Solo l‘‖amichevole inchiostro‖ aiuta ad arginare ―gli argomenti del
delirio‖, contrastando ―una antica voglia di dormire‖, una oblomoviana 12 rinuncia a vivere. L‘atto
della scrittura diviene atto di resistenza all‘inferno della mente, tentativo di non abbandonarsi alla
dissoluzione di sé nella malattia:
La mia pace meccanica, asciutta,
tutta in possesso della mano,
la mia pace terrestre
senz‘ira, ignota agli angeli,
sta tutta nella bianca
costola del libro,
la pagina rettangolare
virgole, maiuscole;
elude l‘arguzia della mente
in calme prospettive
gli argomenti dell‘inferno. 13
Tuttavia Manganelli non intende fuggire dall‘inferno; lo vuole affrontare. Accetta la Morte
come prerogativa degli uomini, i mortali appunto (―adediretti‖, per la sua nota definizione), e quindi
paradossalmente come senso ultimo della Vita e della Letteratura: ―dal principio dei tempi, le parole
hanno avuto a che fare con la Fine del Mondo‖:
La vita che non ci appartenne,
un‘ora qualunque, casualmente,
la possiederemo nella morte. 14
****
Questo tema avrà notevole sviluppo nell‘opera di Manganelli: basti pensare al Discorso
sopra la difficoltà di comunicare coi morti contenuto in Agli dei ulteriori e ai dialoghi tra il
protagonista morto-non morto e imprecisate voci in Dall‟inferno (in entrambi i casi è evidente il
riferimento al leopardiano Federico Ruysch). La Morte in Manganelli non solo viene reintegrata
nella Vita, ma diviene oltretutto insopprimibile fondamento di Vita: di un vivere che è per la morte,
come causa e fine; ―la paura della morte‖ tiene in vita: una ―paura ininterrotta‖ come unica ―prova
della mia esistenza‖, ―della mia continuità‖. Per Manganelli è ―la nostra vocazione orizzontale‖
(p63) a renderci vivi: senza di essa non potremmo considerarci uomini mortali, perché privi del
senso primo della nostra Vita, del principio regolatore della nostra carne. L‘uomo in atto non può
considerarsi tale, se non contiene in sé il germe del cadavere in potenza, ―mentre la pubertà della
morte / gli matura addosso, tenera peluria‖ (p30), inestricabile vincolo che sta alla base di qualsiasi
pretesa di vita e di scrittura:
Noi conosciamo la voglia di morire
non c‘è donna più costante
non c‘è carne più docile all‘abbraccio
le unghie prefigurano la morte
le ossa nel centro della carne
conservano altissima costante
11
G. Manganelli, Letteratura come menzogna, Feltrinelli, Milano 1967; qui si cita da Adelphi, Milano 1985, p. 223.
Si ricordi la prefazione dell‘autore a I. Goncharov, Oblomov, introduzione e traduzione di E. Lo Gatto, Einaudi,
Torino 2006.
13
G. Manganelli, Poesie, cit., p. 25.
14
Ivi, p. 52.
12
52
consacrano la voglia della morte. 15
In Hilarotragoedia questa idea di vocazione dell'uomo viene come riconfigurata: non più
―orizzontale‖ bensì ―discenditiva‖, in stretto rapporto con la forma del nostro corpo ―fusiforme
verso i piedi, come si addice a ordigni di scavo, quali sono le talpe dei talloni, con che a noi
medesimi scaviamo la tomba in amica argilla‖ 16. Il destino dell'uomo, perciò, non è giacere in una
tomba-letto in cui consacrare ―la voglia di morire‖, ma sprofondare incessantemente negli abissi del
proprio perituro insieme di ossa e muscoli alla ricerca di quell'irraggiungibile Nulla centrale che lo
sorregge. L‘andamento ossimorico dei versi tiene unite le opposte tensioni alla Vita e alla Morte che
al medesimo tempo lacerano l‘uomo e ne permettono l‘esistenza. Manganelli trova nella figura
retorica dell‘ossimoro, in quanto ―paradosso intellettuale‖ 17, la forma più adatta a sintetizzare la
dialettica delle contrapposizioni irrisolte: ―l‘ossimoro – sottolinea Domenico Scarpa – è un caso di
geometria non euclidea della parola‖ 18, una concordia oppositorum che permea la sintassi
manganelliana e costruisce altrettanti luoghi non euclidei, non-luoghi. In Dall'inferno il
metamorfico personaggio può affermare: ―non ho il sentimento che dovrebbe essere connaturato
all‘inferno, di una definitiva sconfitta; sconfitta che, per essere totale, consentirebbe una sorta di
maligna pace‖19. Anche qui ritornano accostati ―inferno‖ e ―pace‖, opposti che non concordano e
non si eliminano, ma convivono sulla pagina grazie alla duttilità-ambiguità espressiva
dell‘ossimoro: ―maligna pace‖. L‘inferno e il paradiso sono opposti imperfetti perché entrambi si
contengono, scambiandosi addirittura l‘un l‘altro i rispettivi aggettivi che solitamente li
accompagnano: ―solo l‘inferno è onesto‖ proprio perché ―la pace meccanica, asciutta‖ è ―ignota agli
angeli‖; le ―invivibili‖ vite umane sono regolate dalla ―Grazia Casuale‖ che tra tutti i possibili
sceglie ―una morte da morire: / una morte casuale, innecessaria, / distratta, senza te‖. L'ossimoro
permette di scrivere l‘imperfezione, la discordia degli opposti, lasciando aperta una possibile
reversibilità (ad infinitum) tra i due termini dell‘opposizione; in ottemperanza alla sua ostilità
dichiarata contro tutto ciò che è definitivo: le facili interpretazioni, gli enigmi risolvibili, il punto
fermo, la parola ―fine‖.
In tutta l'opera manganelliana ossimori ed enumerazioni caotiche si configurano come
costanti stilistiche attraverso le quali ipotesi e possibilità apparentemente inconciliabili riescono ad
amalgamarsi in una lingua fluida e ―proliferante‖ (secondo Guido Guglielmi), in cui le
contraddizioni convivono senza bisogno di annullarsi a vicenda. I materiali poetici si configurano
come il fondamento delle irrisolte ―contraddizioni del [...] sangue‖ (p. 73), il laboratorio del
cosiddetto ―proto-Manganelli‖ (Andrea Cortellessa), nel quale l'autore ha messo alla prova le
diverse possibilità della lingua, torcendola, disarticolandola, inseguendo una parola-―ombra‖ al di
sotto delle consuetudini linguistiche.
Nelle prime prove poetiche l'incontro-scontro con la parola, con le sue possibilità e i suoi
limiti, si delinea come ―lotta violentissima‖ (così la definiva l'autore in un appunto del 14/6/1955)
per riuscire a districare letteratura e biografia:
la lotta violentissima [...] che si svolge nel mio cervello, nella mia ―anima‖, per sopravvivere, vivere da uomo
per capire attivamente la realtà, vale a dimostrare il carattere marginale dell'io, il polimorfismo della personalità,
costituita da nuclei non distinti, ma che si muovono secondo ritmi ben distinti, seguendo intime vocazioni che non
comprendiamo [...] 20
Tra il '48 e il '62 (a ridosso della stesura di Hilarotragoedia) la scrittura per Manganelli non
poteva che ruotare attorno alla propria angosciosa esistenza, ai demoni e ai fantasmi che affollavano
15
16
17
18
19
20
Ivi, p. 63.
G. Manganelli, Hilarotragoedia, cit., p. 10.
H. Lausberg, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969, p. 212.
D. Scarpa, Oscuro/Chiaro, in ―Riga‖, n. 25 (2006), p. 433.
G. Manganelli, Dall‟inferno, cit., p. 8.
G. Manganelli, da Appunti critici, in ―Riga‖ n. 25, p. 92-93.
53
la sua psiche. L'uomo Manganelli aveva molto ―da dire‖, e voleva esternarlo completamente.
Pullulava di dolorose ―larve‖, che solo attraverso la parola trovavano una forma di pacificazione. Il
mestiere di vivere, come nel caso ―fallimentare‖ di Pavese, non era scindibile dal mestiere di
scrivere: la sua poesia, di conseguenza, risente della necessità di dare voce al fulcro ―angosciastico‖
dell'esistenza: ―dove non c'erano parole, / dove non ci sono parole, / nel centro del centro del
centro‖ (p32). Attraverso la parola poetica Manganelli inizia la discesa negli abissi della psiche, nel
tentativo di estirpare alla radice quel male che lo tormenta, nella catarsi linguistica della propria
personale cognizione del dolore, per ―riportare all'ordine / l'insana avventura dell'esistere‖ (p33).
In questo senso, l'impulso che muove la sua scrittura appare affine al ―mormorio" pavesiano;
in una lettera del 16/9/1945 alla moglie Fausta, Manganelli rivela: ―mi pare, mentre scrivo, di
sentire la mia voce monotona e dolce: una sorta di pronuncia meditabonda e lontana‖ 21. Anche
Pavese ricordava, nel Mestiere di poeta, che i suoi testi poetici si sviluppavano spesso da una sorta
di ―tiritera di parole‖, che lo perseguitava fino alla pagina, in un particolare ritmo accentuativo
anapestico: ―mi scopersi un giorno a mugolare certa tiritera di parole (che fu poi un distico dei Mari
del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo
segnare, rimormorando le frasi che più mi ossessionavano‖ 22. Analogamente, nei testi poetici di
Manganelli è possibile percepire un insistente brusio, un ritmo ossessivo che pervade la scrittura; il
medesimo ritmo poi esteso alla successiva produzione in prosa, secondo uno sviluppo stilistico di
assoluta coerenza e maturità. Quel ―brusio della lingua‖ di cui Roland Barthes scrive:
nel suo brusio, affidata al significante da un moto inaudito, ignoto ai nostri discorsi razionali, la lingua non
perderebbe tuttavia di vista un orizzonte di senso: il senso, indiviso, impenetrabile, innominabile, sarebbe comunque
posto in lontananza come un miraggio, farebbe dell'esercizio vocale un duplice paesaggio, dotato di uno ―sfondo‖; ma,
per evitare che la musica dei fonemi sia lo ―sfondo‖ dei nostri messaggi (come avviene nella nostra Poesia), il senso
sarebbe qui il punto di fuga del godimento. 23
In prima istanza, perciò, la poesia appare come un ritmo fonico pre-significante, a partire dal
quale si organizzano il linguaggio poetico e i suoi multipli significati. Secondo Barthes ―il brusio
della lingua forma un'utopia‖, un non-luogo nel quale è possibile sentire ―la musica del senso‖
prima ancora che quest'ultimo si sia realizzato pienamente e sia logicamente intellegibile. Nel caso
di Manganelli la poesia si configura come la prima utopia, nella quale lasciare piena libertà
all'insistente brusio interiore, e libero sfogo al proprio mugolare ritmico, svincolato da angosce di
senso e di stile.
L'ingombrante Io, il soggetto, diviene perno ―discontinuo e periclitante‖ 24, attorno al quale
vengono attirate tutte le parole, e che si arroga il diritto di decidere il senso e la direzione di ogni
scrittura, esondando dai confini e appropriandosi dello spazio vuoto a disposizione sulla pagina. Per
affrontare ―il polimorfismo della personalità‖, Manganelli affida alla scrittura una funzione di sfogo
per il ―troppo da dire‖ che ingombra l'Io, giocando con la possibile disintegrazione dell‘unità
strutturale del segno linguistico, a partire proprio dalla nozione di arbitrarietà: spezzata la catena (la
linea tratteggiata) che lega le due componenti, entrambe conquistano la possibilità di ampliarsi
all‘infinito senza dover sottostare ad una struttura unitaria e monolitica. La casella del ―significato‖
diventa contenuto di tutti i possibili significati, anche contraddittori; un vuoto che può riempirsi
ogni volta in modo diverso e anomalo; il ―significante‖ diventa invece un contenitore per ogni
possibile sonorità: ―la sensazione è quella di un universo linguistico cui, svuotato della sua
referenzialità, non resta che esibire se stesso, le sue sfumature sinonimiche, i suoi impasti sonori, le
21
G. Manganelli, Circolazione a più cuori, cit., p. 37.
C. Pavese, Il mestiere di poeta [novembre 1934], in Id., Le poesie, a cura di M. Masoero, Einaudi, Torino 1998, p.
109.
23
R. Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, p. 80.
24
G. Manganelli, HT, p. 52.
22
54
sue immense potenzialità‖ 25. In questo modo l‘elemento significante non si relaziona più con le
altre componenti della frase in base alle consuete affinità di senso, ma attraverso liberi legami di
suoni. Si ricordi a questo proposito il concetto di ―cratilismo‖, ovvero la perfetta coincidenza tra
suono e senso 26, non più secondo una logica grammaticale volta alla comprensione e alla
trasmissione di un contenuto, ma secondo una logica delle analogie sonore che creano associazioni
musicali tra elementi fonici, pure sonorità e strutture armoniche svincolate dalla comunicazione di
informazioni e significati, cioè ―una lingua che rinunci ai significati per farsi più ricettiva e
percettiva‖ 27. A questo proposito sono assai rilevanti le riflessioni di Manganelli su Beckett poeta:
Beckett aveva ―qualcosa da dire‖: per uno scrittore, inizio rovinoso. Il problema è, sempre, di trasformare quel
―qualcosa da dire‖ in struttura, in linguaggio; prendere la propria ―verità‖ per i capelli e trascinarla in una regione in cui
il vero non ha alcun privilegio sul falso; trattarla come la convenzione propria di un genere, o uno schema metrico, o
una arguzia allitterativa. 28
Quel ―qualcosa da dire‖ tende dunque a svuotarsi di significato, a farsi costruzione verbale
al servizio della retorica: il significato stesso è figura retorica. A questo proposito Mattia Cavadini
cita una calzante analisi di Hans Robert Jauss sulla moderna ―poesia della poesia‖:
mentre lo sguardo dell‘allegorista medievale cercava e trovava dietro i fenomeni del mondo la patria di ciò che
non è fugace, il poeta moderno viene risarcito dalla perdita della patria trascendente dalla poesia stessa: nella figura
compositiva di una poesia che descrive il suo proprio divenire, l‘esito appare alla fine come ―poesia della poesia‖, che
trova la sua origine in se stessa e perciò è capace anche di sussistere a se stessa. 29
La scrittura poetica di Manganelli si concentra sul proprio divenire, sul proprio farsi poesia;
può essere definita, perciò, come ―poesia della poesia‖, poiché non comunica nient‘altro che se
stessa, ovvero la morte del significato e del messaggio. Giancarlo Alfano ha notato che Manganelli,
adattando alle proprie esigenze lo schema della comunicazione verbale codificato da Roman
Jakobson, preferisca porre la prassi fonatoria al vertice nella gerarchia delle funzioni comunicative:
su tutte le altre è centrale la funzione fatica, quella che lavora sul contatto tra emittente e destinatario, giacché
in questa scrittura si fa questione del rapporto IO-TU, della relazione tra i due poli della comunicazione, e del fatto che
tale rapporto si basa sul puro inter-loquire, ognuno ―loquendo‖ sempre per se stesso. 30
La funzione fatica in Manganelli si discosta dalla definizione classica (―un contatto, un
canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario che consenta loro di
stabilire e di mantenere la comunicazione‖ 31), perché essa gioca con l‘assenza del destinatario, in
un tentativo dell‘Io di mettersi in contatto con un Tu di cui si può solo supporre l‘esistenza e
l‘ordine; scrive Manganelli in Nuovo commento:
il problema del destinatario è insolubile; infatti l‘ordine esiste prima che venga individuato sia il destinatario
che l‘oggetto; esso è un mero ordine. E dunque qualcuno deve definire se stesso come destinatario, ignorando se così
facendo ubbidisce, o prevarica. 32
25
M. Cavadini, Per una lettura allegorica delle allegorie manganelliane, in Le foglie messaggere. Scritti in onore di
Giorgio Manganelli, a cura di V. Papetti, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 46.
26
Vedi per una analisi approfondita sul ―cratilismo‖ F. Dogana, Suono e senso. Fondamenti teorico ed empirici del
simbolismo fonetico, Franco Angeli Editore, Milano 1983.
27
M. Cavadini, Per una lettura allegorica delle allegorie manganelliane, in op. cit., p. 56.
28
G. Manganelli, Qualcosa da dire, in Letteratura come menzogna, Adelphi, Milano 1985, p. 97.
29
H. R. Jauss, Estetica della ricezione, Guida, Napoli 1988, p. 134.
30
G. Alfano, Emblema, in ―Riga‖ n. 25 (2006), p. 340.
31
R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1978, p. 186.
32
G. Manganelli, Nuovo commento, cit., p. 101.
55
A partire da queste premesse, che appaiono valersi dell'analisi di Émile Benveniste sul
rapporto Io-Tu, si genera un cortocircuito nella comunicazione: l‘emittente deve fingersi
destinatario, emettendo suoni che tornano inevitabilmente a lui stesso. A chi dice "io" resta
nient'altro che la sua stessa voce: egli può avere coscienza dei suoni delle parole che emette, ma non
del loro significato, poiché il significato si costruisce solo attraverso la comunicazione con un Tu
vero, un‘alterità che possa apportare contenuti diversi rispetto a un solipsismo comunicativo
autoprodotto.
Nel Discorso dell‟ombra e dello stemma Manganelli porta alle estreme conseguenze questa
posizione, affermando che la nascita del primo testo letterario avvenne quando, casualmente, un
giorno ―qualcuno trovò un segno sonoro, un parassita simile a lettera‖ 33, e a partire da quel suono
ebbe inizio la letteratura scritta. Egli colloca dunque alla base della scrittura i ―segni sonori‖, in
qualità di simboli grafici dell‘oralità, agglomerati di pura voce, segni larvali e ―tautofoni‖.
Anche nella sua personale rilettura di d‘Annunzio, Manganelli sostiene che il poeta dell‘Alcyone
abbia il diritto di diventare un classico non tanto per merito del suo gusto per la bellezza, ―la
sensualità linguistica‖ e ―la fantasia paesistica‖, ma per la splendida manipolazione di un linguaggio
morto e artificialmente composto da ―splendide larve‖:
la lingua di D‘Annunzio è non solo morta; non è mai esistita; è totalmente artificiale, anzi risolutamente falsa:
una ―splendida larva‖. Non lo interessa la qualità comunicativa della pagina, ma unicamente la macchina verbale. 34
Per Manganelli l‘artificiosità della retorica dannunziana ha valore in quanto creatrice di
―oggetti fastosi, lavorati con difficile ambizione, privi di significato e assolutamente inutili‖ 35, frutti
di una arte retorica che lima e tornisce la parola a tal punto da disgregare la componente semantica,
esaltando in sommo grado la componente fonica. La scrittura poetica di Manganelli non ripercorre
però le fastosità dannunziane: ne coglie gli aspetti più giocosi e musicali, attenuandone la solennità
attraverso una tagliente ironia. Ad esempio, il tema dannunziano dell‘incontro amoroso (si pensi
alla leggera e dolce lussuria delle metamorfiche ninfe alcionie, come Versilia o L‟acerba, ―Ti do
due labbra fresche per un pugno / di verdi fave, e il picciol cuore amico!‖ 36), viene stravolto da
Manganelli in un atto di reciproca carnivora consunzione:
Si giace con la donna
per mangiarla.
E la donna consuma i nostri lombi
a farne violenza di guerrieri,
e altri inguini,
e ripete nel sasso del suo grembo
la ferocia paziente di ogni seme. 37
L‘atto sessuale diviene una ―violenza di guerrieri‖. L‘incontro tra il maschile e il femminile
un feroce e inconciliabile accoppiamento tra vegetale (―ferocia paziente di ogni seme‖) e minerale
(―nel sasso del suo grembo‖, in un paragone già pavesiano 38). La violenza del testo si realizza più
che altro sul piano fonico: la prevalenza del suono /r/ anche raddoppiato (―Farne violenza di
guerrieri‖, ―grembo‖, ―ferocia‖), di /g/ gutturale (―guerrieri, grembo, inguini‖), della sorda /z/
(―violenza‖, ―paziente‖).
33
34
35
36
37
38
G. Manganelli, Discorso dell‟ombra e dello stemma, cit., p. 13.
G. Manganelli, Splendide larve in Letteratura come menzogna, cit., p. 74.
Ibidem
G. D‘Annunzio, Alcione, a cura di P. Gibellini, Einaudi, Torino 1995, pp. 242-243.
G. Manganelli, Poesie, cit., p. 37.
Vedi C. Pavese, Le poesie, a cura di M. Masoero, Einaudi, Torino 1998.
56
In una pagina fondamentale di Letteratura come menzogna Manganelli fornisce la
definizione più chiara e completa della sua lingua, del suo interesse per la parola in quanto artificio
letterario e del concetto di retorica:
l‘opera letteraria è un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione. L‘artificio racchiude,
ad infinitum, altri artifici; una proposizione metallicamente ingegnata nasconde una ronzante metafora; disseccandola,
metteremo in libertà dure parole esatte, incastri di lucidi fonemi. Nel corpo della preposizione, le parole si dispongono
con disordinato rigore, come astratti danzatori cerimoniali: tentano l‘ipallage che le colloca in reciproco afelio, il
chiasmo che le dispone in immobilità speculare; si allineano nella scandita processione dell‘anafora, osano la vertigine
dell‘ossimoro, la mite disubbidienza dell‘anacoluto; la tmesi mima l‘attacco schizofrenico, l‘homoteleuton è pura
ecolalia. Reciprocamente, ad una struttura demenziale corrisponde l‘articolazione di una retorica. 39
Questo catalogo di figure retoriche rivela l‘interesse di Manganelli per gli effetti fonetici
prodotti dalla disposizione delle parole sulla pagina e, di conseguenza, per la retorica come
congegno fondamentale nella creazione del ritmo. Manganelli ambisce dunque a costruire strutture
poetiche che possiedano un andamento ritmico e una tonalità autonomi rispetto al senso, rispetto ai
legami logico-comunicativi del significato. Ogni componimento si struttura così come una ―treccia
di nulla‖, costituita da parole organizzate con abilità retorica attorno a un vuoto di significato, e che
restano coese grazie ai nuovi rapporti instaurati tra significanti (―il baluardo d‘una treccia / nella
continuità del niente‖, p51). Nel suo studio sulle varianti e lo stile di Hilarotragoedia, Mariarosa
Bricchi afferma che la poetica manganelliana è centrata sull‘enfasi dell‘impasto inatteso dei termini;
non ha rilievo la parola isolata, bensì ―ciò che può produrre questa parola quando si muove in
mezzo a un contesto di altre parole‖ 40. La studiosa individua tre diversi fattori interagenti nella
lussuosa retorica manganelliana applicata alla prosa:
la selezione di parole inconsuete (ivi incluse quelle desuete, arcaiche o letterarie e, assai più rare, quelle volgari
o dialettali); l‘invenzione di neologismi; la bizzarra fantasia negli accostamenti lessicali. 41
Ecco dunque gli elementi fondamentali della ―bella prosa barocca, ma freddina‖ 42 di
Manganelli, cioè di quell‘―universo proliferante‖ 43 che nasce dalla combinazione tra una rigorosa
tecnica retorica e una fantasia linguistica fuori dall‘ordinario: ―col suo sontuoso spettacolo – ha
scritto Calvino – fatto di sintassi elaborata, di nomi, di verbi e soprattutto aggettivi inaspettati,
l‘arte di far sorgere dal pretesto più insignificante una fontana di zampilli verbali, un vortice di
analogie, una cascata di invenzioni esilaranti‖ 44. Nei componimenti poetici se ne trova un primo
esempio, anche se qui gli ―zampilli verbali‖ non sorgono ―dal pretesto più insignificante‖, bensì da
un dolore vissuto, reale. Ogni parola rappresenta un brandello corporeo, che l'autore sembra
strappare da sé, oggettivando il proprio dolore.
A partire da qui, e valendosi del catalogo di tropi proposto da Mariarosa Bricchi sul lessico e
la sintassi del libro d‘esordio, si può provare ad indagare l‘aspetto significante della parola nella
scrittura poetica di Manganelli. Gli espedienti retorici utilizzati con maggiore frequenza dall‘autore
si suddividono in: accumulazioni, antitesi, ossimori, similitudini, metafore (soprattutto dell‘area
semantica della grammatica). Le accumulazioni caotiche – elenchi di termini a-logici – permettono
di giustapporre elementi eterogenei o sinonimici:
(stanno tutte catalogate le bocche dei morti
39
G. Manganelli, Letteratura come menzogna, cit., p. 222.
M. Bricchi, Manganelli e la menzogna. Notizie su Hilarotragoedia, Interlinea, Novara 2002, p. 36.
41
M. Bricchi, op. cit., pp. 37-38.
42
M. Bricchi deduce questa definizione direttamente dalle parole di Manganelli in una lettera rivolta ad Anceschi:
―Scrivere, scrivere in quella bella prosa che io mi sogno, tutta ricchissime secondarie, barocca ma freddina, neoclassica
ma drammatica, solenne ma oscena…‖.
43
A. Guglielmi, Vero e Falso, Feltrinelli, Milano 1968, p. 161.
44
I. Calvino, introduzione all‘edizione francese di Centuria; ora in G. Manganelli, Centuria, a cura di P. Italia, Adelphi,
Milano 1989, p. 9-13.
40
57
e le mani, scatole, casse, scaffali
mani, bocche, occhiali
arti artificiali
nasi finti, baffi, parole,
saluti buon giorno e buona sera,
ti amo, stanotte, nacque un bambino
ogni cosa catalogata, ogni cosa ha un senso
nella merda centrale della terra) 45
―I cataloghi miti delle cose‖ raggiungono il massimo grado di profondità semantica negli
attributi che accompagnano la parola ―morte‖: ―una morte casuale, inneccessaria, / distratta, senza
te‖ (p34). Il grado zero della catalogazione, invece, si raggiunge quando Manganelli compone
accumulazioni tautologiche, ottenendo un effetto ecolalico ―occorre silenzio, silenzio, silenzio!‖
(p33); ―non verrà, l‘ora delle mani, / delle mani e nient‘altro che delle mani‖ (p41). Un‘altra
variante riguarda le accumulazioni di termini legati da paronomasia, che mette in evidenza
associazioni di tipo fonetico più che semantico: ―ma chiede odio, odio pretende, / per resistere,
rifiutare, esistere‖ (p72); ―certissimi, ugualmente, / la folata, il folletto, il mulinello‖ (p83).
L'enumerazione ha il compito di realizzare un ritmo che procede contemporaneamente verso l‘alto e
il basso (―catalevitante‖), in una sorta di disposizione museale degli oggetti, posti uno accanto
all‘altro lungo infiniti scaffali. Manganelli manifesta un tale espediente facendovi esplicito
riferimento: ―si enumerano‖, ―si redigono cataloghi‖, ―i cataloghi miti delle cose‖, ―lo scaffale
ordinato delle viscere‖, ―catalogo gli indizi / della decomposizione‖, ―sugli scaffali di Dio /
s‘impolverano i gesti possibili‖.
Le costruzioni antitetiche costituiscono un altro degli schemi retorici fondamentali.
Attraverso le figure di opposizione, dalla correctio per gradazione alla totale contrapposizione,
l‘autore mescola sulla pagina elementi incongruenti:
Non ti salverà l‘amico
dall‘ombra della morte amica,
né mano imprevedibile d‘amante:
meglio ti difenderebbe
la liscia indifferenza
dell‘oggetto causato
dall‘astratta intelligenza: 46
L‘argomentazione nel testo prende avvio dalla negazione di alcune possibilità di salvezza,
che riguardano l‘intervento attivo di esseri umani (legate dai tre termini in posizione forte in finale
di verso ―amico, amica, amante‖), e prosegue ipotizzando per assurdo la soluzione nella ―liscia
indifferenza dell‘oggetto‖. Gli elementi contrapposti non si eliminano a vicenda, ma sussistono
mantenendo entrambi una forza argomentativa, e producendo un effetto di straniamento logico.
Ma la figura retorica che più di ogni altra permette la contemporanea rappresentazione degli
opposti: l‘ossimoro. Il Manganelli poeta evidenzia l‘aspetto paradossale delle relazioni verbali che
afferiscono a campi semantici differenti e che, per contatto ravvicinato, contaminano a vicenda il
loro significato ordinario. Attraverso l‘uso insistito dell‘ossimoro Manganelli punta sulle possibili
ambiguità volta per volta realizzate: ―amichevole peccato‖, ―una vita da non vivere‖, ―dolcemente
disperato‖, ―maternità del niente‖, ―morte amica‖, ―permanenza provvisoria‖. Soprattutto nei
confronti della morte e della malattia, l‘ossimoro rivela una duplice tendenza all'attrazione e alla
repulsione, che solo la costruzione antitetica permette di esprimere immediatamente. L‘espressione
―morte amica‖, già montaliana (basti confrontare il finale di Giglio rosso), ad esempio, può essere
interpretata sia come ―volontà di morte‖, ovvero come soluzione a tutti i mali, sia come
45
46
G. Manganelli, Poesie, cit., p. 206.
G. Manganelli, Poesie, cit., p. 50.
58
esorcizzazione della ―paura ininterrotta‖ della morte, non più considerata come ―nemica‖ della vita
ma, appunto, come inalienabile ―amica‖.
In Manganelli la microstruttura del singolo ossimoro rimanda alla macrostruttura ossimorica
dell‘intera silloge, permeata da una contraddittoria tanatofilia: da un lato la tensione prodotta dal
desiderio della morte come unica ed estrema liberazione da tutte le angosce che perseguitano il
soggetto (―Accetterò la morte in tutte le sue forme‖); dall‘altro quella prodotta dalla paura della
morte come unica prova di esistenza, secondo il semplice assioma che lega il timore della morte alla
―insana avventura dell‘esistere‖ (―Io non ho prova della mia esistenza / […] / Fuori del sigillo /
della paura ininterrotta‖).
Rilevava Alfredo Giuliani che Manganelli possiede ―le chiavi della Retorica per aprire
Infiniti Mondi Cerimoniali‖ 47, nei quali la cerimonia, il lancio dei dadi, risulta del tutto attinente e
pertinente al Caos. Sembra opportuno, quindi, considerare anche l‘aspetto ludico della
composizione poetica intesa come atto combinatorio, che prevede per sua stessa natura
l‘imprevedibile esattezza del Caso. Manganelli, infatti, gioca letteralmente con l‘elemento fonico
del linguaggio, accostando le parole in base ad affinità sonore piuttosto che semantiche, insistendo
particolarmente sulla ridondanza e sull‘uso ironico di tali effetti: allitterazioni, anafore e altre figure
verbali spingono all'effetto ecolalico i significanti fino a sgretolarne i significati relativi. Ad
esempio, nel distico incipitario ―A che livello è salita / la volontà di morte dell‘avventizio?‖ (p29) è
interessante rilevare come la predominanza del suono laterale alveolare /l/ contrasti con l‘unicum
del suono vibrante alveolare /r/ in corrispondenza di un termine fondamentale nel repertorio
manganelliano. In questo modo sorge un contrasto tra il pedale sonoro morbido della /l/ e il picco
ruvido dell‘unica /r/ (poi dominante nel resto del componimento), attraverso il quale l‘autore mette
in evidenza la sua tensione tanatocentrica, quel ―piacere perverso / della tiepida, lunga morte che si
insinua / come mano calda di puttana‖ (p29).
Manganelli predilige al continuum lirico un ritmo sincopato di lettura incentrato sulle
connessioni tra significanti, sulla successione di suoni duri, che rendono faticosa la lettura, quasi
ostacoli fonetici. La lettura del verso manganelliano non risulta mai scorrevole e ritmicamente
fluida ma frenata e disequilibrata, come se la voce fosse costretta a soffermarsi sulla pronuncia di
ogni singola parola; infatti i testi poetici sono gremiti di suoni consonantici alveolari /n/, /t/, /d/, /r/,
/l/, /k/, /ng/, palatali /gl/, /gn/ e delle loro possibili combinazioni, che impongono alla voce un
andamento secco e indurito:
Tu puoi fermare
i coltelli, ficcarli per terra,
farli germogli di alberi giovani,
erba nutrire sulla pietraia
senza storia, fitto
nido di lucertole
di uova tenere, rigonfie
di tremule violenze,
di becchi infantili di giovani belve 48
Un altro aspetto della ritmicità del verso riguarda la particolare selezione delle forme verbali
in alcuni componimenti; soprattutto in quelli nei quali la macrostruttura ritmica è sorretta da forme
coniugate in accordo di persona, modo e tempo, e che presentino la medesima desinenza. Ad
esempio, nel primo movimento della poesia ―Dapprima tentammo con le fiamme‖, la struttura si
regge sull‘iterazione sovrabbondante di verbi coniugati alla prima persona plurale dell‘indicativo
passato remoto: Tentammo (due volte), rinnegammo, coltivammo, misurammo, giocammo,
riprovammo. Queste forme verbali svolgono nel testo una funzione di legame acustico, poiché
creano una concatenazione di allitterazioni (il suffisso -ammo) che è indice di coerenza testuale; ma
47
48
A. Giuliani, Manganelli teologo burlone, in, Le foglie messaggere, cit., p. 16.
G. Manganelli, Poesie, cit., p. 39.
59
costituiscono anche un legame ritmico, poiché mantengono viva l'omogeneità ritmica di tutto il
componimento, fornendo coerenza alla struttura della catalogazione caotica.
Altri esempi di questo tipo possono essere i tre verbi all‘indicativo imperfetto (frugavo,
premevo, cercavo) che costituiscono l‘ossatura di ―Io frugavo il tuo grembo‖ (p47), cadenzandone
la tripartizione iniziale; o nuovamente l‘uso della prima persona plurale dell‘indicativo passato
remoto in ―Noi non riconoscemmo‖ (p51-52) (Riconoscemmo, bevemmo, tentammo, ricamammo,
cominciammo, ci incantammo, vendemmo); oppure in ―Rinuncia alla mano dell‘amica‖ (p26) i
paradossali dettami alla seconda persona singolare dell‘imperativo (rinuncia, ferma, distogli, nega,
segna, sdràiati, riconosci); paradossali perché spingono il Tu a seguire un ossimorico assioma:
―solo l‘inferno è onesto‖.
L‘attenzione stilistica di Manganelli si rivolge dunque alla sfera significante della parola,
all‘aspetto grafico e acustico del segno linguistico: l‘unico elemento di cui un autore possiede
coscienza. Manganelli, infatti, propone provocatoriamente di considerare ogni singola parola come
una nota musicale, poiché la musica non trasmette nient‘altro che il proprio stesso suono: ―Ecco, la
musica, che cosa meravigliosa. Nessuno chiede mai alla musica che cosa vuol dire. È pacifico che
la musica non voglia dire niente…‖ 49. Il significato, infatti, diventa quanto mai labile e instabile
una volta spezzato il legame che unisce i ―concetti‖ alle ―immagini acustiche‖. L‘ambiguità del
segno grafico, in poesia come in prosa, permette sia la creazione di legami inaspettati tra
significanti sia la compresenza ossimorica di significati contrastanti all'interno di una stessa parola.
In Manganelli il parallelo con l‘ambiguità del corpo umano è immediato: infatti, in modo analogo a
quanto avviene nel linguaggio, anche nel corpo umano le relazioni tra le parti che lo costituiscono si
fanno inaspettate e metamorfiche. Come afferma Giancarlo Alfano, la scrittura di Manganelli unisce
indissolubilmente l‘elemento grafico e quello acustico alla corporeità del linguaggio: ―un dito
fonico e un orecchio grafico sono i comprimari dell‘esecuzione scrittoria‖ 50. A maggior ragione,
dunque, nel Manganelli poeta. Ogni tentativo di interpretazione della parola manganelliana diviene
perciò un atto di analisi anatomica, auscultazione e palpazione della sonorità e corporeità, prima
ancora che un'attività analitica, volta a districare le antitesi irrisolte del testo.
Filippo Milani
49
G. Pulce, Lettura d‟autore. Conversazioni di critica e letteratura con Giorgio Manganelli, Pietro Citati e Alberto
Arbasino, Bulzoni, Roma 1988, p. 115.
50
G. Alfano, Emblema, in ―Riga‖ n. 25, p. 340.
60
GIULIA RUSCONI
LA SCLEROSI DI JAUFRÉ
GOFFREDO PARISE: UN POETA IN PROSA
Goffredo Parise entra negli anni Settanta con una pubblicazione a dir poco sorprendente: nel 1972,
in un‘Italia calda di violenze e prese di posizione politico-culturali, esce il Sillabario n.1(1). Libro
dimesso, quasi in punta di piedi, attorno al quale per apparente paradosso si scatenano dibattiti e
polemiche. Parise è accusato da alcuni intellettuali di non aver prestato fede a quell‘engagement a
cui si votavano altri, ricordiamo per tutte la voce di Pasolini. La difesa di Parise, lontana dal tono
chiassoso tanto quanto i testi del suo Sillabario, è una vera e propria dichiarazione di poetica. Ci
racconta di quando, tra il Sessantotto e il Settanta, in tempi «così politicizzati», si sentivano
nell‘aria parole ritenute ‗difficili‘, «per esempio Rivoluzionarizzare. Ecco, non esprime nulla». E
così:
Sentivo una grande necessità di parole semplici. Un giorno, nella piazza sotto casa, su una panchina, vedo un
bambino con un sillabario. Sbircio e leggo: l‘erba è verde. Mi parve una frase molto bella e poetica nella sua
semplicità ma anche nella sua logica. C‘era la vita in quell‟erba è verde, l‘essenzialità della vita e anche della
poesia […] e poiché vedevo intorno a me molti adulti ridotti a bambini pensai che essi avevano scordato che
l‟erba è verde, che i sentimenti dell‘uomo sono eterni e che le ideologie passano. Gli uomini d‘oggi secondo
me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie. Ecco la ragione intima del sillabario.(2)
Parise innalza un ponte tra semplicità e poesia: sballottato nel caos delle polemiche e delle
nevrosi, di schieramenti e voci grosse, emerge un assoluto bisogno di parole semplici e di tornare a
guardare le cose, solamente le cose come sono nella loro evidenza, nella loro terrena verità: l‘erba è
verde è un concetto cristallino perché, dice Parise, semplice, spoglio, pulito e anche logico, non può
essere che così. La genesi dei Sillabari (del primo, ma anche del secondo che, ricordiamo, esce nel
1982(3)) va cercata proprio in questo bisogno di limpidezza e che sia sommessa e misurata, che sia
qualcosa che resti e non una moda esposta con violenza e subito perduta, che sia qualcosa che salti
subito all‘occhio per la sua evidenza poiché non potrebbe essere altro.
Perché questa sua necessità? E perché la espleta con una prosa così particolare e vaga che lui
stesso, nell‘Avvertenza al secondo Sillabario, chiama ‗poesia‘? «Sono poesie in prosa»(4), sentenzia
paratattico. Ma capire cosa intende per «poesia in prosa» ha incuriosito, e arrovella tuttora, non
pochi tra gli addetti al mestiere. Chiamando in causa la «poesia in prosa» Parise vuole forse rifarsi
alla tradizione francese del poème en prose? Il suo è un progetto che vuole collocarsi in o almeno
affiancarsi a una tradizione ben precisa e acquisirne i modi e le ‗regole di mestiere‘? Oppure con
‗poesia‘ intende qualcosa di personale e unico, una spinta, un afflato, un respiro lirico (generici,
diciamo un disegno senza bozzetto) che trasudano in modo impreciso, ineffabile, in-collocabile
dalle pagine delle sue piccole prose? Un suggerimento prezioso ce lo dà Andrea Zanzotto: la
produzione artistica di Parise appena precedente al Sillabario n.1, ovvero il romanzo Il padrone(5) e
la raccolta di racconti Il crematorio di Vienna(6), sono a suo parere due espressioni dell‘«esperienza
di annichilimento»(7) che l‘accorto e lucido Parise vede aprirsi nell‘Italia (e nell‘Europa) degli anni
Sessanta; entrambi percorrono a gran falcate il mondo contemporaneo costruito sulle fondamenta
del consumismo, delle regole d‘azienda, dei dettami capitalistici, di uomini robot che eseguono
ordini di capi-macchina, di uomini-nessuno che si annullano in oggetti e dinamiche sociali di massa.
Zanzotto si domanda cosa, dopo un tale ‗auto-ipnotizzarsi‘ su aspetti tanto feroci della vita e della
società, cosa ci sia ancora da dire o da fare per uno scrittore. E:
Si impone ora il vero grado zero della scrittura; cioè la necessità di fare piazza pulita e di smuovere lo sguardo
verso altre direzioni, verso altre ipotesi, anche se nessuna sembra più possibile. Si dovrà forse guardare
61
indietro, allora. Ma ciò che sembra un guardare indietro, cioè, in apparenza, un ritorno al vecchio uomo col suo
mondo di sentimenti «massimi», non sarà comunque un guardare indietro, ma «altrove».(8)
Quello che rimane all‘uscita dal Crematorio sono «spore», «barlumi balbettanti di infanzie»,
«fili d‘erba» cresciuti sul crematorio stesso e da cui si deve ripartire. E queste spore bisogna
chiamarle in qualche modo, ri-nominarle, bisogna «creare parole per significati che sono
imprendibili-futuribili»(9). E intanto, dunque, ecco che si impara a sillabarle, proprio come i
bambini che scoprono la parola. Parise intende fare proprio questo: «vuol risillabare le parolechiave, e così giungere a un recupero dei sentimenti, quindi della ―poesia‖»(10); ci racconta di
Amore, di Bacio, di Famiglia, di Malinconia, di Solitudine e ce li racconta in obliquo, scartando il
solco profondo di una trama forte e preferendo zigzagare tra i ‗profumi‘ (più che tra i (f)atti)
d‘Amore, Bacio eccetera. Questi scarti fra i titoli e i contenuti (presenti in alcuni dei Sillabari) sono
sì respiri che aprono spazi di libertà evocativa e rappresentativa nel lettore, ma si rivelano anche
sintomo di labilità e arbitrarietà del rapporto fra significante, significato e referente, proprio in un
momento come questo in cui, come abbiamo visto, il bisogno primario è appunto quello di
rinominare le cose. E, ci dice Zanzotto, grazie a questa imprendibilità che scaturisce dai suoi scritti,
Parise ci regala la consapevolezza (emozionante davvero per chi coglie la magia della poesia, della
scrittura, della Letteratura) dell‘incanto che ogni parola si porta appresso: «Parise ci mette anche in
condizione di apprezzare il fenomeno dell‘aura che ogni parola, come tale, ogni significante, ha
intorno a sé; aura che svanisce con lo svanire della parola»(11). E il linguaggio che utilizza per far
emergere tale vaghezza/potenza è «bidimensionale», quello che abbiamo già definito essere il
‗grado zero‘ della lingua. Ma all‘interno di questa prosa dimessa, ecco che, suggerisce Zanzotto,
verrebbe voglia di segnare delle sbarrette per individuare «i versi latenti entro una ritmicità
serpentina e sfuggente», una tensione ritmica che quindi avvicina questa prosa alla «poesia vera e
propria, senza peraltro riesumare le stucchevolezze del ―poème en prose‖ o della ―bella
pagina‖».(12)
Tale immersione in questa che è una ‗idea di poesia‘ parrebbe quindi una Pandora che
scoperchia un vaso di indignati ferocemente stupiti da un linguaggio mesto e da tematiche smarcate
dai grandi dibattiti e dalle lotte politico-letterarie. Ma se guardiamo l‘intera Opera di Goffredo
Parise scopriamo che alcune vene più o meno nascoste hanno percorso tutto il suo corpus, dalle
origini con il primogenito Ragazzo morto e le comete(13), ma andando anche più indietro, dai
lontani Movimenti remoti(14), ripescato postumo e pubblicato solo di recente dalla casa editrice
Fandango. Il Ragazzo morto diviso in capitoli e sottocapitoli, in parti composte, incasellate le une
dentro le altre, come un puzzle, un rompicapo a cui è difficile assegnare un solo senso (impossibile
raccontarne la trama lineare, tanto che nelle traduzioni in altre lingue a volte si è preferito sistemare
i capitoli in un ordine differente da quello scelto dall‘autore, per facilitarne la comprensione)(15); la
prima prova, I movimenti remoti, formata anch‘essa da piccole o medie sezioni ‗oniriche‘ e prive di
una trama forte (e, da non dimenticare, i pezzi in versi, lunghi intermezzi e vere e proprie poesiebrevi). Come già è stato rilevato da diversi critici e studiosi delle pagine parisiane,
sembra persistere, quasi, in tutta la produzione di Parise, una latente tensione per la forma breve, ovvero per
una struttura formale dilatata ma composta di sotto-strutture lineari e concise […]; tensione che, dal primo
romanzo del ‘51 fino ai ―Sillabari‖ e anche oltre, è assumibile a motivo conduttore e a tratto persistente di una
dimensione di scrittura altrimenti non catalogabile.(16)
E ancora si fa presente quanto, nelle ultime ma anche nelle prime prove di scrittura
dell‘autore vicentino, prevalga un approccio alle cose, un realismo, di tipo ‗sensoriale‘(17) in cui «il
dettaglio e il colore hanno sopravvento sulla registrazione oggettiva e ―veridica‖», un
«abbandonarsi lirico del proprio occhio»(18). E, nota bene Crotti, «questo aspetto, questo cogliere
le linee pure e nitide delle cose, si accosta, per Parise, alla poesia.»(19). Nei Sillabari questo
atteggiamento diventa evidente ed esplicito, come se questi, che da molti sono stati definiti il suo
capolavoro, fossero la stazione di arrivo in cui sono venute a convogliare tutte le tendenze più o
62
meno latenti che Parise ha mantenuto sempre e in ogni forma scritta (ricordiamo che la sua opera
spazia ad ampio raggio: i racconti, i romanzi, i reportage, le poesie, il teatro e l‘esperienza
cinematografica, l‘elzeviro e la lettera privata)(20). Con i Sillabari Parise tira la corda, asseconda la
sua naturale propensione alla brevitas e la sua spontanea tensione sensoriale alle cose del mondo. Il
suo occhio allora diventa minimo, alla ricerca di dettagli sempre più piccoli, una vivisezione del
reale. E da qui, da questa «microscopia» e dalla ridotta dimensione dei suoi scritti (dimensione
dell‘elzeviro o appena più ampia), apre le porte al ‗tanto grande‘; anzi, più trivella in profondità più
apre terre da scavare, un frattale sempre in espansione, più piccolo e più vasto:
Il ―sillabare‖ […] diventa un‘operazione per eccellenza poetica, dal momento che coniuga l‘eccezionalmente
piccolo con l‘eccezionalmente grande e, mentre riduce, dilata ad oltranza la portata lirica delle cose.(21)
Di sicuro un aspetto principe dei Sillabari è appunto questo: la loro scrittura elementare e
senza voli pindarici né virate si mescola nella sua essenza profonda a un‘apertura vastissima: una
«sclerosi», come la chiama bene Perrella, un‘altalena balenante fra un infantilismo pietrificato e un
magma in continuo bollore. Non può non venire in mente la poesia, il verso in senso stretto, il quale
proprio dalla sua ossatura magra e stilizzata fa zampillare scintille rivolte altrove; come se, benché
senza nominare, la ‗cosa‘ rilucesse più chiara e più incisiva che mai e il non-dire diventasse cassa di
risonanza e rendesse l‘assente protagonista assoluto. Il vuoto acquista quindi nei Sillabari la sua
potenza massima, è un vuoto appunto poetico, necessario nella pagina per esaltare le presenze, è un
vuoto che diviene ‗più pieno dei pieni‘ e pesa più della parola scritta poiché apre all‘indefinito. Per
esempio, ecco come Zanzotto commenta il sillabario Simpatia(22), il terzultimo del volume
completo, che tira al massimo grado questa ‗indefinitezza che dice‘:
Parise, in quel suo racconto, lascia alla simpatia il massimo dell‘indefinibile, anzi, quasi tende a definirla
attraverso l‘indefinibile. Come si conviene al più originario, forse, di quelli che continuiamo a chiamare
sentimenti, Parise ne dà la più opportuna sillabazione, a-definizione.(23)
Questo evidente nostro ‗dire e non-dire‘ attorno ai Sillabari non è un fuggire della critica di
fronte a un testo-oggetto difficile da interpretare. Che lo scritto parisiano sia imprendibile è in parte
vero, ma tale vaghezza si rivela proprio il suo punto di forza. Procedendo lucifughi nei sotterranei di
un‘analisi stilistico-tematica di questi elzeviri così dibattuti, emergono le loro polimorfe bellezze e
non stupisce quindi se i più inusuali approcci siano forse i più indovinati: coincide con l‘uscita del
Sillabario n.1 una recensione speciale che Parise riceve da amico caro, Eugenio Montale. Questi
scrive per lui un ‗ritrattino‘ in versi e glielo dona («a Goffredo Parise»(24) si legge a mo‘ di
dedica). La poesia si intitola Jaufré, pseudonimo che il poeta ligure regala all‘amico Goffredo.
Jaufré passa le notti incapsulato
in una botte. Alla primalba s‘alza
un fischione e lo sbaglia. Poco dopo
c‘è troppa luce e lui si riaddormenta.
È l‘inutile impresa di chi tenta
di rinchiudere il tutto in qualche niente
che si rivela solo perché si sente.(25)
Questo omaggio all‘opera e alla persona di Parise è interessante innanzitutto perché ci
riporta a una passione che il nostro scrittore ha coltivato per anni: la caccia (a cui dedica anche una
voce del primo Sillabario, Caccia, appunto(26)). Soprattutto negli anni trascorsi a Salgareda, nella
sua famosa casetta rosa sul greto del fiume Piave (siamo negli anni Settanta e Ottanta, fino agli
impedimenti causati dalla malattia)(27), Goffredo si dedica a tutte quelle attività che non poteva,
prima, praticare in città: né a Venezia, città natale della sua Letteratura, né a Milano, per lui grigia e
insoddisfacente, né a Roma, per lui forse fin troppo mondana.(28) Cacciando, sciando,
passeggiando, cavalcando, osservando la natura e gli animali, Parise si avvicina al suo
63
personalissimo sillabario, che traduce per noi in un libro (e poi, nell‘82, nel secondo volume).
Ovvero trasforma il suo nuovo stile di vita in uno stile di pensiero e attraverso questo modus
pensandi rivede il mondo, ri-nominandolo con un ABC fatto di attese nella botte, di nebbia d‘albe,
di discese solitarie in neve fresca, di upupe e lepri e fischioni. «I Sillabari, infatti, non maturano
così per caso, ma sono il risultato di un precisissimo sentimento della vita trasformato in esattissimo
stile di scrittura».(29) Dopo aver chiuso gli occhi sul crematorio della società contemporanea con
uno sguardo buio di vecchio, è così che torna alla vita: con questi nuovi ingredienti che partono da
occhi spalancati rasoterra, da oggetti minimi, da un mondo in miniatura (e solo abitando il ‗tanto
piccolo‘ trova il suo accessus, il suo ‗mood‘, come lo svelamento di un segreto: «Nella geopsiche di
Parise Salgarèda ha […] un posto d‘onore: è la sua polla misteriosa»(30)). La poesia di Montale
colpisce inoltre per l‘aspetto fanciullesco che fa emergere in Parise. Un omino piccolo
(«incapsulato») che sbaglia il primo tiro di fucile (distratto? inesperto? sfortunato?) e poi si
addormenta (stupidamente) rendendo l‘impresa, appunto, «inutile». Ed è curioso notare che in una
edizione precedente Montale non aveva scritto «l‘inutile impresa», bensì «la grata sorpresa». Qui, in
questa virata, è racchiusa forse la più bella recensione mai fatta ai Sillabari. Perché ci sia, appunto,
una sorpresa grata, l‘impresa deve essere inutile. E Perrella commenta così il prezioso ripensamento
montaliano:
Il fatto è che, provandosi a descrivere i Sillabari, si finisce prima o poi per corteggiare la figura retorica
dell‘ossimoro; li si trova, così, distrattamente precisi, nervosamente quieti, letterariamente antiletterari. Non
stupisce dunque se suscitino sentimenti contrastanti. […] Nella propensione all‘ossimoro dei Sillabari, come
ho detto, le due cose [le versioni di Montale] riescono ad andare d‘accordo.(31)
Anzi, aggiungerei, è proprio l‘ossimoro di Montale che rende vive le pagine dei Sillabari. È
proprio la loro ‗inutilità‘, la «sclerosi» già notata, che ce li fa cercare e fa sì che risuonino in noi
proprio come versi. Non solo nella loro ‗idea di vaghezza‘, ma anche e soprattutto nello stile. Per
esempio gli incipit: non si fa affatto fatica a trovarne di rassomiglianti a versi. Eccone qualcuno da
mandare subito a memoria: «Una domenica di giugno un cane di nome Bobi che aveva e non aveva
un padrone… […] Un giorno d‘estate una donna di cinquant‘anni con un bellissimo nome greco…
[…] Ogni giorno un vecchio di campagna usciva di casa con la falce e il carrettino… […] Un
giorno molto azzurro un uomo arrivò in una città di montagna nera di fumo… […] Un giorno, anni
fa, un uomo che non aveva mai nessuno che girava per casa conobbe una famiglia…».(32) Inizi così
rarefatti da apparire ingenui e infantili: c‘è tutta la vaghezza del ‗C‘era una volta‘, della fiaba
dunque, non ci sono (tranne in rari casi) determinazioni temporali o spaziali e, chi sa della vita di
Parise poco o nulla e non può così riconoscere nei Sillabari tanta autobiografia (perché egli dalla
sua vita attinge con avidità), si ritrova avvolto in una nuvola di sogno, in una scarica di lampi che,
dimessi come storielle per bimbi, raccontano situazioni e sentimenti generici e semplici, ma
risuonano nel lettore, magicamente!, come campanelli di memoria, memoria di infanzia, forse,
ancestrale, antichissima. Proprio come avviene in poesia quando una parola, gettata nella mente,
scatena onde sismiche a catena che coinvolgono ricordi, impressioni, significati, memoria, che
interessano la fantasia e il reale, che si trascinano dietro perimetri ampissimi. La poesia ha questo
potere esplosivo, comprensivo di così tanti effetti e l‘ossimoro parisiano lo assume vorace: la
leggerezza che fa di ogni pezzo una carezza per il nostro immaginario e il nostro sentimento è
solamente apparente, leggiamo i Sillabari sorvolandoli, ma all‘improvviso ci ritroviamo (magia
della parola!) schiantati nelle ‗cose‘. Anzi, proprio oltrepassando gli artifizi e le costruzioni di una
prosa forte, di una trama forte, si può finalmente farsi carico dell‘andare a fondo.
Si continua quindi a riflettere sui Sillabari ironicamente ‗balbettando‘ con loro,
raggiungendo definizioni che si sgretolano immediatamente, rovesciandosi nei contrari,
chiamandoli racconti sentendo il respiro poetico o poesie sedendosi nella bella pagina di prosa,
cadendo forse in contraddizione senza però smettere di scavare e di stupirsi. Berardinelli ci dice che
cercando di definire la poesia si cade ‗ontologicamente‘ in una tautologia: che cos‘è la poesia? «La
poesia è quello che è, la poesia è la poesia»(33). Poiché Parise poeta è stato (benché in prosa), ecco
64
che anche i Sillabari assumono la magia tautologica berardinelliana da cui si fatica a uscire, come
da un sortilegio. Ed è proprio lui che, come ci ricorda un‘acuta pagina de «Il Gazzettino» uscita nel
chiasso giornalistico del 1972, ci lancia la suggestione più affilata, ammiccandoci da est:
«Infine è bella e basta» ha scritto Goffredo Parise in Cara Cina, di una frase sull‘amore da lui colta sul labbro
di una contadina ventiduenne del Kiangsu, e al lettore di Sillabario n.1 […] verrebbe voglia di imitarlo e di dar
per scontata e sottintesa ogni possibile discussione sul seducente libro con un perentorio e del resto
convintissimo «Infine è bello e basta».(34)
Giulia Rusconi
Note.
(1) G. Parise, Sillabario n.1, Torino, Einaudi, 1972.
(2) Parise intervistato in F. Sala, Sillabario dei sentimenti, «Il Gazzettino», 31 ottobre 1972.
(3) G. Parise, Sillabario n.2, Milano, Mondadori, 1982. Nello stesso anno il primo Sillabario è ristampato
con il secondo in un cofanetto della collana «Medusa» della Mondadori. Entrambi, con il titolo unitario
Sillabari, escono nel 1984 nella collana degli «Oscar» (Mondadori); da allora sono stati ristampati sempre
insieme, in un unico volume.
(4) Ivi, p. 8.
(5) Idem, Il padrone, Milano, Rizzoli, 1965.
(6) Idem, Il crematorio di Vienna, Torino, Feltrinelli, 1969.
(7) A. Zanzotto, Prefazione in G. Parise, Opere, a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello, vol. I, Milano,
Mondadori, 1987-89, p. XXIII.
(8) Ibid.
(9) Ivi, p. XXIV.
(10) I. Crotti, Tre voci sospette. Buzzati, Piovene, Parise, Milano, Mursia, 1994, p. 161.
(11) A. Zanzotto, Prefazione, in G. Parise, Opere, vol. I, cit., p. XXV.
(12) Idem, in R. La Capria, S. Perrella (a cura di), I «Sillabari» di Goffredo Parise. Atti del convegno del 4-5
novembre 1992, Napoli, Guida editori, 1994, p. 91.
(13) Si tratta del primo romanzo di Parise, scritto a soli 19 anni, a Venezia. G. Parise, Il ragazzo morto e le
comete, Venezia, Neri Pozza, 1951.
(14) Idem, I movimenti remoti, Roma, Fandango, 2007. Questo giovanilissimo libro è stato da Parise infilato
in un cassetto e mai più ritrovato/ri-cercato. Si tratta di una sorta di ‗prosimetro‘: alcuni capitoli sono in
prosa, sono racconto, altri sono in versi e fanno da ‗intermezzi‘ alla narrazione.
(15) La scoperta da parte di Zanzotto del Ragazzo morto è così descritta da Crotti: «Ci troviamo dinanzi,
insomma, a un impatto intimamente connesso al ‗sentire‘»; I. Crotti, Epifanie dei paesaggi critici di
Zanzotto: il profilo di Goffredo Parise, in Andrea Zanzotto. Tra Soligo e la laguna di Venezia, Firenze,
Olschki 2008, p. 171. Sono gli atti delle giornate di studio dedicate ad Andrea Zanzotto; Pieve di Soligo Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 13,14 ottobre 2006.
(16) Idem, Tre voci sospette, cit., p. 153. Corsivo mio.
(17) Scrive bene Perrella: gli occhi di Parise «si trasformeranno, quando sarà necessario, in occhi olfattivi, in
occhi tattili, in occhi pronti e sempre affamati di conoscenza umana», S. Perrella, Fino a Salgareda. La
scrittura nomade di Goffredo Parise. Milano, Rizzoli, 2003, p. 75. Anche La Capria dice di Parise: «I suoi
sensi per scoprire erano la vista e l‘olfatto. Perrella parla di ‗uso critico dei sensi‘. Goffredo aveva un naso
molto sviluppato e una vista ‗prensile‘. Naso e occhio erano strumenti per captare diverse cose che agli altri
sfuggivano». La citazione è tratta dalla relazione tenuta al Convegno dal titolo Sono nato a Venezia, Venezia
- Ponte di Piave (TV), 12-15 ottobre 2006. Appunti miei. Non sono ancora stati redatti gli atti di tale
Convegno.
(18) I. Crotti, Tre voci sospette, cit., p. 156.
(19) Ivi, p. 161.
(20) «Il poeta- puer che, all‘altezza dei primi anni Cinquanta tendeva a leggere nelle cose una dimensione
autre, segnata da uno sguardo espressionisticamente interiore, ora ha trovato una misura di candore e stupore
che decanta quella stessa materia.». E ancora: «Il ―ritrattino‖, ad esempio, come schizzo tracciato per mezzo
di poche linee narrative, ma rimandante a una micro-storia, completa nel proprio significato, è un mezzo
compositivo che percorre assiduamente la produzione parisiana, per confluire poi in quella tensione al
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―sillabato‖ che si è rilevata[…]: anch‘esso, allora, rientrerebbe in una più generale propensione per il
dettaglio, per lo scorcio minuto che, allontanandosi da una descrittività di tipo naturalista, percepisce la
totalità tramite piccoli tocchi parziali ed aspira all‘allusività e al silenzio». Ivi, pp.162, 165.
(21) Ivi, pp. 163, 164.
(22) La voce Simpatia si trova alle pp. 257-264 del Sillabario n.2, cit.
(23) A. Zanzotto, Prefazione in G. PARISE, Opere, vol.I, cit., p. XXII. Corsivo mio.
(24) E. Montale, Diario del ‟71 e del ‟72, in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984, p. 480.
(25) Ibid.
(26) La voce Caccia si trova alle pp. 93-98 dell‘edizione del Sillabario n.1, cit.
(27) Qualche notizia sulla casa: Parise la scopre, restaura (e arreda con «essenzialità monastica») nel 1970,
entrandovi in dicembre. Il 10 gennaio dell‘anno successivo (1971) esce sul «Corriere della Sera» la prima
voce del Sillabario n.1, Amore. Parise abbandona (a malincuore) la casa nell‘ottobre del 1981, dopo
l‘operazione che gli applica quattro by-pass coronarici e le complicazioni renali che incalzano sempre più; e
dopo l‘abbondante allagamento del Piave che sommerge l‘abitazione (in ottobre, appunto). Parise è dunque
costretto ad abbandonare il suo «rudere» e a trasferirsi in una zona più salubre e comoda, nella vicina Ponte
di Piave (Tv). Si può leggere la storia della casetta rosa in C. Rorato, La casa di Goffredo Parise a
Salgareda, Bologna, Minerva edizioni, 2006.
(28) «Si può ben dire che la vita e l‘opera di Parise, che lui volle intrecciare indissolubilmente, giungano fino
a Salgarèda, e che lì si compia la sua ultima nascita artistica, chiudendo così il cerchio aperto nella Venezia
della fine degli anni Quaranta», S. Perrella, Fino a Salgarèda, La scrittura nomade di Goffredo Parise,
Milano, Rizzoli, 2003, p. 128.
(29) Ivi, p. 129.
(30) Ibid.
(31) Idem, I «Sillabari» di Goffredo Parise, cit., pp. 7,8.
(32) Sono gli incipit delle voci Anima (p. 36), Bacio (p. 76), Bellezza (p. 76), Cuore (p. 115) e Famiglia (p.
163), voci tratte dal Sillabario n.1, cit.
(33) A. Berardinelli, La poesia verso la prosa, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 12. E appena oltre:
«Questo vicolo cieco indica almeno una cosa interessante: che quando abbiamo a che fare con una poesia che
sia poesia, questo riconoscimento è una constatazione empirica che non può essere giustificata o argomentata
concettualmente», ibid.
(34) M. Abbate, Sillabario dei sentimenti, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 novembre 1972 [rist., con
titolo I sortilegi di Parise, «Il Gazzettino», 6 dicembre 1972].
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VICTORIA SURLIUGA
DEL RAPPORTO TRA POESIA E PROSA IN GIAMPIERO NERI
È quanto mai indispensabile parlare delle commistioni tra prosa e poesia in un momento della storia
letteraria in cui il progressivo allontanamento da metrica e lirica, che data ormai da più di un secolo,
ha portato la poesia sempre più vicina al territorio del dettato prosastico. La poesia contemporanea
canta gli oggetti e le cose del quotidiano con una sobrietà di linguaggio dove il ritmo è dato più
dalla parsimonia verbale che dalle cadenze della metrica. Qui mi vorrei riferire in modo particolare
a Giampiero Neri, autore di un memorabile e sorvegliatissimo canzoniere, confluito nel volume
Teatro naturale (1998), e particolarmente interessante proprio per l‘incrociarsi continuo di prosa e
poesia, testimoniato dalla sua scrittura. A questo riguardo, alcuni critici hanno riflettuto su quale
forma, se prosa o poesia, sia più prominente in lui. La questione dei generi letterari è accesa e si
cerca quasi sempre di farne prevalere uno sull'altro. Però, a mio parere, spesso si tratta di una
distinzione che serve solo a riassicurare i critici in cerca di categorie già prefissate alle quali
ancorare il loro pensiero.
Di Neri inquieta il fatto che non parli quasi mai di sé (l‘io lirico è assente dalla sua scrittura)
e che gli argomenti da lui affrontati non siano tipici di quello che si intende per scrittura poetica
(descrizioni zoologico-naturalistiche rivestono un ruolo importante nella sua produzione), ma
sconcerta soprattutto la sua capacità di trasformare ogni aspetto della scrittura in poetico. Neri ha
una singolare abilità di rendere in poesia quello che comunemente si farebbe rientrare nei canoni
della prosa. Ad esempio, l'epigramma incluso in Sequenza, che è parte del volume Erbario con
figure (2000) è una citazione da Il giocatore invisibile del narratore Giuseppe Pontiggia: ―Prese i tre
libri e cautamente, attento a non incespicare lungo la scala ripida, scese a pianterreno‖(1). È stato
Sossio Giametta a notare come Neri utilizzi questa citazione in prosa in modo da farla diventare
poesia.(2) Ma qual è l‘alchimia che permetterebbe a Neri di trasformare una cosa nell‘altra?
Applicando il discorso della distinzione tra i generi ad altre forme d'arte, Neri risulta ancora più
pregnante nel riportare quanto diceva Victor Sklowskj, ovvero che si può fare poesia anche
attraverso la prosa.
A questo proposito si veda la poesia Procedimenti (dedicata a Fernando Picenni), in Liceo
(1986), la seconda raccolta di Neri poi confluita in Teatro naturale: ―Si ricava una pasta di vetro
molle e densa che per il variare della luce prende diverso colore, blu e oro. Formata da molti
frammenti di terra e conchiglie, oggetti fuori uso, che si mescolano insieme come sabbia. Alla fine
rivela una luce propria, che attraversa una vasta ombra”.(3) Al lettore che si chiede perché questa
sia una poesia, si può rispondere dicendo che lo è in quanto il testo risulta formalmente compiuto e
autosufficiente. È vero che per comprendere i particolari procedimenti compositivi su cui si basa la
poesia di Neri non è consigliabile isolarne dei testi. La complessità del disegno, in Neri, si coglie
solo sul lungo periodo. Ma nel frammento appena citato si coglie che il discorso si ―ferma‖ là dove
la prosa potrebbe proseguire. Nulla potrebbe essere aggiunto o tolto a quello che Neri ha deciso di
comunicare.
Risulta anche importante il giudizio su Neri espresso da Luciano Anceschi, che evidenzia
come Neri porti avanti ―il discorso delle forme dall'interno della stessa frantumazione organizzata in
cui esse si trovano, ora”.(4) Si possono anche citare le parole di Giovanni Raboni, che nello stile di
Neri ha osservato ―un lavoro minuzioso e testardo sulla frase trattata come unità metrica, come
nucleo espressivo la cui evidente specificità e autonomia supera sia la tradizionale funzione
assertiva dell'unità verso, sia la tradizionale funzione trasgressiva dell'enjambement e annulla,
assorbendolo, lo spessore irraggiante della parola singola”.(5) Sullo stesso tema si è soffermato
anche Giovanni Giudici: ―Poesie? Poemi in prosa? L'opera di Neri si sottrae a queste distinzioni del
tutto esterne”.(6) Infine, Daniela Marcheschi ha commentato che ―Neri ha vinto infatti l'antinomia
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di poesia e prosa, che a lungo ha alimentato una sterile contrapposizione nella critica e nella poesia
stessa; e la sua opera, limpida ed enigmatica insieme, risalta per la vigorosa sovrapposizione dei due
pretesi generi e per la continua apertura alla ricchezza delle tradizioni letterarie”.(7)
La scrittura di Neri ha tutti i respiri della poesia ma non è un sospiro in versi, cioè non è un
genere di poesia lirica che rielabora gli eventi e i lamenti del vissuto. La sua ricerca di oggettività
tende piuttosto a dissimulare l'io in personaggi di animali e piante. Nella poesia di Neri c'è uno
sviluppo di situazioni che creano sempre, anche se in forme eterodosse, una narrazione. Si può
parlare di microracconti e micropersonaggi che affollano le sue pagine, e dell‘alternarsi di momenti
più rientranti nei canoni della poesia e di altri più appartenenti alla narrativa. Eppure una narrazione
c‘è sempre, e si avvale di personaggi specifici. Neri alterna sequenze etologiche, dove si discute ad
esempio di animali come l‘asino o il gufo, insieme ad altre dedicate con la stessa puntigliosità a
varie piante, ad altre ancora dove emerge in primo piano la vicenda personale di un reduce (in
Finale, 2002), che torna al suo paese natale dopo la guerra.
Ogni testo di Neri è un discorso compiuto in sé ed è allo stesso tempo emblematico di uno
stile. E, proprio di questo stile, Remo Pagnanelli aveva parlato di ―risparmio energetico‖, di
―energia trattenuta‖, ―perimetrazione degli impulsi‖, ma anche di ―riposo del desiderio‖, il che
spiegherebbe anche la sua scarna produzione.(8) La lievità del linguaggio poetico di Neri ci porta al
di là delle tradizionali distinzioni tra i generi. Le sue poesie sono di una linearità esemplare, dove la
semplicità è il risultato di un attento studio, di un levigare continuo dell'eccessivo e di tutto ciò che
potrebbe rendere il verso meno leggero. Perché comunque è sempre di ―versi‖ che si parla. Neri ha
incorporato la prosa nella poesia senza che la poesia abbia dovuto cedere niente della sua specificità
alla prosa.
Victoria Surliuga
Note.
(1) Giampiero Neri, Erbario con figure, Como, Lietocollelibri, 2000, p. 9.
(2) Sossio Giametta, Neri e il temperamento del caos, ―Il Giornale‖, 11.11.2000.
(3) Giampiero Neri, Teatro naturale, Milano, Mondadori, 1998, p. 64.
(4) Luciano Anceschi, Intervento, ―Il verri‖, n. 32, 1970, p. 4.
(5) Giovanni Raboni, ―Almanacco dello specchio‖, n. 1, 1972, p. 273.
(6) Giovanni Giudici, Neri: poesia in forma di gufo, civetta, volpe, ―Corriere della sera‖, 25.05.98, p. 25.
(7) Daniela Marcheschi, La natura e la storia. Quattro scritti per Giampiero Neri, Firenze, Le Lettere, 2002,
quarta di copertina.
(8) Remo Pagnanelli, ―Le geometrie di Neri‖. In: Studi critici. A cura di Daniela Marcheschi. Milano,
Mursia, 1991, pp. 131-2.
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LUIGI BALLERINI
“PROSIMETRO” PER LA BALLATA DI RUDI DI ELIO PAGLIARANI: DAL VERSO “A
FISARMONICA SPALANCATA” ALLA “PROSA IN PROSA” CON SBERLEFFO.
Mettersi a dire qualcosa sulla Ballata di Rudi di Elio Pagliarani, senza tirare in ballo, almeno
inzialmente, la sua Ragazza Carla, è impresa forse non disperata, ma sicuramente sconsigliabile. E
questo per almeno due ragioni intimamente legate tra di loro: la prima è che le parti iniziali del
poemetto seriore, e parecchie anche di quelle centrali, assomigliano, per ritmo e misura, a certi
brani di quello anteriore; la seconda è che la sezione finale della Ballata di Rudi non assomiglia per
niente alla sezione conclusiva della Ragazza Carla.
La somiglianza, e non ancora, dunque, l‘affinità, si potrebbe cercare di spiegarla, mettendo
in risalto il brevissimo intervallo che separa la composizione di Carla (anni ‘50) dalle prime
coagulazioni di Rudi (inizio anni ‘60), e invocando così una volontà di persistenza stilistica, e forse
addirittura la presenza di una forza d‘inerzia; mentre invece all‘infinita distanza che separa le parti
conclusive dei due poemetti (ancora anni ‘50 per il primo, uscito per intero nel 1960, e tardi anni
‘70, ‘80 e anche primi ‗90, per il secondo, pubblicato nella sua definizione attuale solo nel 1995), si
potrebbe ricorrere per spiegare tanto l‘esaurirsi della relativa sicurezza offerta da un abbrivio dotato
di un robusto spessore di riconoscibilità, quanto la necessità di rinvenire, da un lato, le coordinate di
una proposta inedita, cioè capace di scalfire, di agitare, di ―commuovere‖ vuoi nuovi lettori, vuoi,
nuovamente, lettori antichi, e dall‘altro lato di collegarsi a fonti di energia espressiva idonee o
comunque sufficienti a convincere l‘autore, prima di tutti, della bontà della nuova operazione.
Ma quella della distanza temporale non è una vera spiegazione. È piuttosto, essa stessa, la
manifestazione di una circostanza sintomatica, del perdurare di un‘insoddisfazione: perché dunque
Rudi, in sostanza, ha dovuto attendere così a lungo per trovare la propria foce, la propria spinta a
confluire in altro? Cos‘ha potuto garantire che tale confluenza non comportasse, automaticamente,
la sua stessa dispersione, uno sconfinamento con cessione di connotati?
A tacere d‘altro si noterà che per ―distanziarsi‖ da Carla, Rudi ha dovuto attendere non solo
la Lezione di fisica, uscita nella sua interezza nel ‘68, quando la Ballata non era più matura di
quanto possa esserlo un progetto in fase di elaborazione, ma anche, ben diciassette anni dopo la
Lezione, gli Esercizi platonici, publicati con il corredo di una Nota in cui l‘autore confessa di non
aver ―fatto [altro] che trascrivere e scandire il linguaggio colloquiale di Platone (del Filebo
soprattutto, ma anche delle Lettere e nell‘apertura finale del Convito, come è trasparente), quale è
stato reso in lingua italiana nella ‗versione e interpretazione‘ di Enrico Turolla, quel patito di
classe‖.(1)
Ora questa Nota è di primaria importanza perché, oltre che a fornirci la fonte della
trascrizione – ma questo del trascrivere è un ―vizio‖ di antica data, in Pagliarani, che ne ha dato
esempi in ―Vicende dell‘oro‖(2) e perfino nel primissimo Cronache ed altre poesie dove ha trovato
accoglienza il testo di ―Trascrizione (da Luciano Amodio)‖(3) –, l‘autore segnala l‘avvento, nel suo
lavoro, di quel tipo di sussulto che Stephane Mallarmé avrebbe chiamato una ―Crise de vers‖, e cioè
di un malessere avvertito nei riguardi dello strumento stesso, creato, ―filosoficamente‖ per
compensarci del ―difetto delle lingue‖(4), e che già, per altro, nella Ragazza Carla, e soprattutto in
Lezione di Fisica, ma, per gran parte, anche della Ballata di Rudi, era stato strappato ai rigori dei
metri canonici, e modellato come strumento sui generis, figlio più di un respiro che di una
cesellante acquiescenza. Scrive dunque Pagliarani: ―Prigioniero, almeno in parte, come avevo
incominciato a sentirmi, del mio verso lungo, sempre più lungo della fisarmonica spalancata – ho
voluto cercare di riacquistare facoltà di articolazione più variegata (Mi riferisco, per esempio, al
pedale sommesso dell‘Inventario privato)‖.
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La situazione è allora la seguente: la forma del verso a tutta pagina e tale, anzi, da
sconfiggere qualunque giustezza tipografica (al punto da costringere gli editori a darne impressioni
orizzontali, cioè disposte secondo il lato lungo della pagina(5)), forma alla quale Pagliarani è stato a
lungo sposato, felicemente e fedelmente, e che già era il risultato di una scelta antagonista, una
risposta al letargo metricologico dei poeti della Linea lombarda e dell‘ermetismo pre- e post-bellico,
viene percepita come una specie di impedimento all‘―articolazione più variegata‖ che sarebbe stata
quella tipica delle sue prime prove poetiche, cui adesso il poeta pensa con una certa nostalgia, e
sogna di farvi ritorno o, quanto meno, di rivisitarne le istigazioni.
Si noti tra l‘altro che il verso a ―fisarmonica spalancata‖ di Pagliarani non ha nulla a che fare
con il verso sgangherato, nevrastenico, esagitato, spudoratamente sciatto di chi passa la vita in treno
(in un perenne andirivieni), come fu il caso di Antonio Delfini, ma è semmai vicino, e però con
maggiore forza accentuativa, a quello del primo Emilio Villa, l‘autore di Oramai, che è del 1947,
anche se ignoto, allora come oggi, alla stragrande maggioranza dei lettori di poesia.
Il verso sgorgante e mulinante di Pagliarani ha le sue molteplici radici nella nenia, nella
filastrocca, nella fabulazione popolare, nella recita ingenua (in famiglia, o dei guitti in teatri
improvvisati), nella lettura collettiva del giornale, nel comizio all‘angolo della strada, o della
discussione scalmanata a opera di sfaccendati riuniti in roccolo.
Il poeta ha fatto dunque tesoro della circostanza per cui, come aveva intuito Ungaretti,
l‘italiano, inteso come lingua, ha l‘endecasillabo nel sangue: te lo ritrovi, distribuito
involontariamente nel parlare di chiunque e, volontariamente, nelle prose di Guittone d‘Arezzo(6),
non meno che in quelle di Alessandro Manzoni. Ma ha soprattutto approfittato della possibilità: che
la prosa scandita, tagliata in un certo modo, secondo, appunto, un certo respiro, sappia produrre
effetti ritmici che stravolgono, con profitto, quelli già prodotti dall‘insofferenza che l‘unità metrica
da sempre manifesta nei riguardi delle unità semantiche preconfezionate, insofferenza che, lungo
tutto l‘arco della tradizione epica e lirica di casa nostra, ha esaltato il ricorso all‘enjambement
(celebre in questo senso il caso di uno dei più coatti tra gli endecasillabisti: Ugo Foscolo).
In buona sostanza, Elio Pagliarani ha trasformato la prosa in poesia servendosi di una
punteggiatura ritmica, anziché di una punteggiatura funzionale al chiarimento dei concetti. La sua
lettura tende al canto, non quello del Corano sotto la tenda dei beduini, cui pensava con disperato
languore il primo Ungaretti, ma a quello forte, a volte stridente e a volte cullante, auspicato da
Trotzckij quando, in Letteratura e rivoluzione invitava i poeti russi e i compagni di strada a
tralasciare il salotto e a scendere in piazza. È la scansione necessaria a versi scritti per essere letti a
voce alta, come pare che facessero quasi tutti fino a Sant‘Ambrogio(7), che dirige, in Pagliarani, il
senso del discorso.
Se non che, nel 1985, appunto, questa lunga corsa sembra volersi ―rompere‖, come si dice
dei cavalli che perdono il passo poco prima di un ennesimo traguardo, e spunta fuori quella
nostalgia, si è detto, che sembra intenzionata a mettere sullo stesso piano la nozione di ―pedale
sommesso‖ e di ―articolazione più variegata‖. Ma a guardar bene il testo degli Esercizi, il ―pedale
più sommesso‖ lo si riconosce immediatamente, e anche l‘articolazione, ma ci sarebbe da sudare
sette camicie per poter dimostrare che la gestione degli effetti di senso sia qui più articolata che
nella Lezione di Fisica o nella ―presente e futura‖ Ballata di Rudi.
Gli Esercizi, per carità, sono un‘esperienza poetica di primaria importanza, sia tecnica sia
concettuale, e andranno sicuramente goduti criticamente, ben al di là del pur encomiabile lavoro di
chi ne ha rintracciato i luoghi platonici da cui hanno felicemente preso le mosse. Restiamo dunque
al ―pedale sommesso‖ la cui novità avrà dopo Rudi, sviluppi sostanziali nel libro degli Epigrammi
(2001), e che ha, per intanto, il merito di aver ―persuaso‖ La ballata a darsi una conclusione che la
storna drammaticamente, in quanto testimonianza di verità storica, dagli esiti de La ragazza Carla.
Rudi, infatti, che è già quasi tutto pronto coi suoi lunghi, lunghissimi versi a fisarmonica,
non trova modo, per anni, di uscire tutto insieme allo scoperto e quando lo farà sarà tutto a
fisarmonica tranne che non lo sarà nel finale, perché il finale Pagliarani l‘ha deciso, o vi si è arreso,
dopo che gli Esercizi avevano provocato la loro bella e utile incrinatura. Ed è mettendo uno accanto
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all‘altro il finale di Carla e quello di Rudi che se ne vede l‘enorme distanza e il diverso messaggio
insito nella presa di coscienza delle loro strutture formali.
Carla si conclude, come in una foce a estuario, con lo straordinario ed enfatico congedo di
sapore cavalcantiano: ―Quanto di morte noi circonda e quanto‖, pronunziato da un coreuta del
ventesimo secolo, impegnato nel difficile e tuttavia irrinunciabile compito di godere della propria
pulsione di morte (nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus). Rudi, che perfino nel
titolo reca l‘indicazione di un genere (letterario e metrico: la ballata di) aperto all‘esuberanza e alla
salmodia, si spegne invece, dopo le ultime impennate (di cui una perfino in rimata baciata), in un
commiato attonito e frammentario, in uno smarrimento, in una deiezione. Parla in questo avamposto
finale, non un destino che si consuma, ma un destino consumato.
Mi riferisco alla sezione XXV, che in realtà è la terzultima e che è divisa in sottosezioni,
minimamente legate fra di loro, cioè legate solo perché, nell‘insieme ―fanno atmosfera‖. A botta
calda direi che forse anche la penultima, la XXVI, già pubblicata autonomamente con il titolo di
―Rap dell‘anoressia o bulimia che sia‖, avrebbe potuto scegliersi anch‘essa come lacerto conclusivo
della sezione precedente, la quale ultima denuncia, già per il modo in cui si chiama, un prestito
intertestuale. Si intitola infatti ―Dalla ‗Bella addormentata‘‖ e rimanda a La bella addormentata nel
bosco, un testo teatrale dello stesso Pagliarani, pubblicato a Milano, presso Corpo 10, nel 1987.
Ci sarebbe in realtà anche una sezione XXVIII, di poche righe, dopo la quale non ce n‘è
altre, per cui le spetta il titolo di ultima per davvero, ma io non so bene come prenderla, non tanto
perché si tratta di un dichiarato richiamo, e rimaneggiamento, dell‘ultimo verso della sezione IX
(―A tratta si tirano‖) dove si legge: ―E invece ha senso pensare che s‘appassisca il mare‖, (mentre
qui, adesso, si legge: ―Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che
s‘appassisca il mare‖), quanto perché non mi sembra attingere quel livello di laconica effusione, cui
(probabilmente) aspirava, e soprattutto perché interferisce con quella sublazione dal ritmo cui
Pagliarani era giunto dopo anni di ritmi impetuosi.
E allora: la foce di Rudi non è un estuario, è un delta. È una foce sparpagliata e poco importa
se ciascun braccio di scorrimento delle acque si ritiene, preso a sé, un estuario. La differenza è
sostanziale ed è comprovata dal cosiddetto regime delle acque, ricco e impetuoso nel caso dello
sbocco unico di Carla, tortuoso e rallentato nel caso dello sbocco molteplice di Rudi: instabile,
pronto tanto a insabbiarsi quanto a modificare la direzione del proprio defluire.
Ora se l‘estuario di Carla è tutto scandito in perfetti endecasillabi, quello di Rudi suona
invece come prosa, una prosa che non cerca di darsi un tono (un ritmo), ma che pensa solo a
presentarsi per quella che è, una quantità di suono con carica semantica azzerata dall‘uso, parente
stretta del linguaggio di cronisti e gazzettieri. Per farsi accogliere e ascoltare deve ricorrere
anch‘essa alla presunta ―enormità‖ dei referenti cui ammicca, e farci affidamento. Neppure la
prossimità caotica in cui circolano i contenuti delle sue lasse (di strofe non è nemmeno il caso di
parlare) veicolate da singhiozzanti paratassi può dirsi sua caratteristica qualificante. Qualunque
pagina di giornale (secondo quel che aveva preconizzato Marinetti) soddisfa questa condizione:
accanto una notizia sui massacri nel Darfur, troviamo l‘ultima bischerata sui litigi tra Bossi e
Berlusconi, o un pezzo sul trionfo della moda italiana a Bogotà. Si dirà mancano le paratie dei titoli.
E neppure questo è vero:
Quel buco nero del calcio. Moltiplicando quest‘odio per i grandi numeri e gli inconfessati
umori di massa facile vedere che la sua enorme potenza distruttiva
esiste a prescindere dallo sport: L‘unico punto di contatto è la fortuita
coincidenza di luogo: lo stadio che secondo molti sociologi serve proprio….
Ci si sforzi, in interiore viscerum, di provare un frisson ulteriore leggendo lo stesso enunciato
disposto in colonna:
QUEL BUCO NERO DEL CALCIO
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Moltiplicando quest‘odio per i grandi numeri e gli inconfessati umori di
massa facile vedere che la sua
enorme potenza distruttiva esiste a prescindere dallo
sport: L‘unico punto di contatto è la fortuita coincidenza di luogo: lo stadio che secondo molti sociologi
serve proprio…
Qui l‘unica differenza è la collocazione, il fatto cioè che una simile prosa si trovi non dove
ci aspetteremmo di trovarla, ma nella pagina conclusiva di una sequela di testi ritmati che neppure
con tutta la buona volontà di questo mondo ci saremmo sognati di dovere o poter collegare a questa
riflessione sociologica.
Lo stesso vale per gli altri brani della zona terminale: ―Tutta oro e pizzi barocchi la signora
dell‘alta moda‖, ―Un computer come giudice‖ e ―Nel 1953‖, affetti da sindrome giornalistica
(quando non addirittura ―titolistica‖), e introdotti, oltretutto, da un impagabile ―Frattanto‖, che fa di
Rudi, alla fine di una lunga galoppata in cerca di appartenenza, un addormentato nel bosco, un
personaggio escluso.
Mentre cercava di definirsi come io, irrisolto sì, ma separato dalla materia della sua
esperienza, il mondo gli è stato tolto da sotto i piedi: gli sono venuti meno perfino i più elementari
parametri della curiosità. Con Rudi siamo passati dal Che vuoi? di Mefistofele al Che c‟entra? degli
accidiosi. Ma l‘accidia non nasce dal caso, ma da condizioni precise, come la peste. Non è dunque il
coraggio che uno non si può dare, ma la voglia di rimettersi a circolare nel soggetto della propria
ricerca esistenziale. E questa assenza di voglia vuol dire essere già non più ―prossimi alla morte‖, e
cioè, come nel caso di Carla, attivamente coinvolti in quella provocazione a distanza ravvicinata che
permette di ―mutarla in vita‖ (fin tanto che la distanza materialmente finale non si sarà del tutto
bruciata). No, questa assenza è indice di un vedersi già dall‘altra parte, dove tutto sbianca indistinto
e ―non ci sono colori‖, e non, questa volta, a causa della luce che ―quando è intensa uguaglia / la
propria assenza‖, ma semplicemente perché mettersi a dire in un tempo trapassato risulta essere se
non l‘unico, certo un raro ed efficace modo di ―continuare a esserci‖ e, soprattutto perché solo in
questa ―sospensione generalizzata della referenza‖ che tale prospettiva comporta, può ancora godere
del privilegio di destabilizzare i codici e produrre titoli di appartenenza non coatta al mondo dell‘al
di qua.
In queste ultime frasi ho razzolato sin verguenza tra alcuni spunti raccolti da Paolo
Giovannetti nella sua introduzione a Prosa in Prosa, antologia di sei neoteroi(8) che su questo
strumento espressivo, hanno fatto un‘importante scommessa. Era solo giusto chiedersi quanto il
finale di Rudi potesse iscriversi, ante litteram, in questo nuovo rischio che l‘espressione poetica sta
lucidamente correndo, adesso, con ardore giovanile. Mi sembra una legittima tentazione, anzi una
questione che dirimerei assegnando al finale di Rudi una funzione che sorpassa di gran lunga quella
del mero avvertimento o della sprezzatura.
Se Rudi ―scantona‖, inaspettatamente, in un‘improvvisa e conturbante lentezza, in un calo di
pressione, ovverossia in una distensione sapientemente calcolata, in che cosa consiste il suo
acquisto di coscienza? Quale dialogo o archivio, quale farmaco e quale differenza può risultare dal
popoloso silenzio che nella sua ultima pagina subentra al martellante strepitio di una diegesi
incrinata? Si può dire che è un po‘ come chi s‘abitua a mangiare senza sale … che dopo un po‘ il
sale lo sente in un grano di riso, in un gambo di sedano, e s‘accorge che ogni salinità ha un gusto
diverso, a seconda di dove s‘annida?
Del resto non è dimenticabile, ancora, quel che scriveva Mallarmé a proposito dei nuovi
accorgimenti metrici subentrati, e dai e dai, all‘alessandino dominante, e cioè che ―la reminiscenza
del verso rigoroso fiancheggia queste tecniche e conferisce loro un profitto‖. Mi sembra che questo
fiancheggiamento della prosa al suo verso a fisarmonica (spalancata o dimessa) e del profitto che
gliene può derivare, Pagliarani non solo l‘abbia ben presente, ma lo pratichi addirittura. È possibile
praticare un fiancheggiamento? Io dico che si può, in un mondo di frontiere attraversate in cui per
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acquisire funzione di avvertimento e possibilità di significazione, nonché per togliersi dagli impicci
di dover opporre a opere aperte, opere socchiuse, le cose è meglio dirle due volte:
Se il seme possa o no adire artificialmente la vagina,
questo come e quando lo decide il cardinal Ratzinger,
bisogna chiederlo a lui – e poi siamo fuori tem Ach so
Se il seme possa o no adire artificialmente la vagina,
questo come e quando lo decide il cardinal Ratzinger,
bisogna chiederlo a lui – e poi siamo fuori tem Ach so(9)
Luigi Ballerini
Note.
(1) Vedila ora in Tutte le poesie (d‘ora innanzi TP) Milano, Garzanti, 2006, p. 256.
(2) Apparsa in prima battuta nella ―Piccola antologia sperimentale‖ di P.P. Pasolini. Vedi Officina, nn. 9-10,
giugno 1957, pp. 347-58
(3) TP, p. 81.
(4) Vedine il testo in Opere di Stephane Mallarmé, poemi in prosa e opera critica, a cura di Francesco Piselli,
Milano, Lerici, 1963, pp. 247-258.
(5) La qualcosa comporta, tra l‘altro, che si sfogli il libro in un modo innaturale, o, anzi, naturalissimo, se
invece che un libro con la sua brava costa si trattasse di un volumen di una pergamena arrotolata.
(6) Mi piace ricordare in proposito quanto scrive Cesare Segre nel suo saggio La sintassi del periodo nei
primi prosatori italiani (Guittone, Brunetto, Dante): ―Alla passione per i mezzi retorici s‘aggiunge in
Guittone, come nuovo fattore di dispersione sintattica, l‘introduzione nella prosa, con scopi evidentemente,
tutt‘altro che logici, di forme linguistiche proprie della poesia e in particolare del ritmo. […] Le lettere
risentono di questo influsso del linguaggio poetico, ma soprattutto delle esigenze a cui questo influsso
risponde, nella loro struttura logica e sintattica‖. E ancora: ―Le Lettere riboccano di vocaboli, di espressioni e
di costruzioni caratteristiche della poesia, a tal punto che brani delle poesie inseriti nella Lettere (XIII,
XXVII etc.) non fanno alcuno spicco nel loro tessuto ritmico e sintattico. Non si tratta dunque soltanto della
forma metrica o ritmica di cui sono rivestite parti delle lettere, e anche lettere intere […] L‘origine del
fenomeno è certo da riportare alla sempre maggior confusione che gli scrittori medievali fecero tra prosa e
poesia: a forza di arricchire la prosa, oltre che di tutte le forme di ornato, del ritmo e della rima, ‗i limiti tra
poesia e prosa vennero progressivamente cancellati‘ (E.R. Curtius, Europaische Literatur und Lateinisches
Mittelalter, Bern, 1948, p. 155). E Guittone, tutto pieno (e certo fiero) della sua raffinata abilità d‘artefice, di
essa fece uguale sfoggio, in poesie in prosa‖. Vedi Lingua, stile, società, Milano, Feltrinelli, 1974,
rispettivamente alle pagine 105-06 e 134-35.
(7) Con il quale, secondo la testimonianza di Sant‘Agostino, sembrerebbe cominciare l‘era della lettura
moderna (da svolgersi in fretta, per il poco tempo che si ha da dedicarle): ―Nel leggere,i suoi [di Ambrogio]
occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. […]
Può darsi che evitasse di leggere ad alta voce per non essere costretto da un uditore curioso e attenta spiegare
qualche passaggio eventualmente oscuro dell‘autore che leggeva, o a discutere qualche questione troppo
complessa: impiegando il tempo a quel modo avrebbe potuto scorrere un numero di volumi inferiore ai suoi
desideri. Ma anche la preoccupazione di risparmiare la voce, che gli cadeva con estrema facilità, poteva
costituire un motivo più che legittimo per eseguire una lettura mentale‖:‖Confessioni, 6, 3.3.
(8) Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Andrea Raos, Michele
Zaffarano, Firenze, Le lettere, 2009.
(9) TP, p. 334.
73
TOMMASO DI DIO
ANTONIO PORTA. FRA PROSA E POESIA “NEL MOMENTO DELLA FUORIUSCITA
TOTALE”
Parlare del rapporto fra prosa e poesia in Antonio Porta significa discutere di quella che potremmo
chiamare, per usare un termine di origine sereniana, ―una costante oscillazione‖. Chi decida infatti
di lasciarsi tentare dalla dicotomia di genere nell'analisi dell'esperienza artistica del nostro autore, si
troverebbe a dover innanzitutto decidere se si voglia, o no, considerare prosa e poesia due generi
distinti nell'opera di uno scrittore in cui la poesia sembra germinare dal cuore stesso della prosa e la
prosa sembra essere l'orizzonte di tensione sotto il quale il verso si piega.
Del resto, l'abolizione di ogni confine, così come di ogni norma di decodifica predefinita, è
proprio il baluardo sotto il quale l'esordio di Antonio Porta sembra immerso, aderendo, fin da
subito, alla spinta riformistica della Neo-avanguardia. Tralasciando il giovanile e limpidissimo
esordio (Calendario, 1956), la prima opera che pubblicherà con lo pseudonimo che lo renderà poeta
sarà La palpebra rovesciata, nel 1961, medesimo anno in cui compare nell'antologia de I Novissimi.
Cresciuto sotto l'egida anceschiana e nell'ambiente del «Verri», gli anni che precedono l'esordio
editoriale sembrano già presagire la nascita di un autore che intende fare della distinzione di genere
una critica consapevole.
La palpebra rovesciata già presenta, infatti, caratteristiche di ispirazione che rimandano ad
―eventi spesso desunti dalla cronaca‖, rivelando una scrittura ―radicata nella concretezza del
mondo‖ che documenta ―eventi bloccati nello loro immediata fatticità e allontanati da possibili
rinvii metaforici e simbolici‖(1). É proprio l'abolizione del sistema metaforico e la superfetazione
verbale, a discapito dell'uso nominale o aggettivale(2), che mostrano come, fin dalle sue prime
prove, la ricerca di Porta si indirizzi verso un modello di scrittura fortemente innovativo, il quale
rasenta la scrittura in prosa, sia nei modi di applicazione, sia nei luoghi da cui sorge.
Prosa certo, ma di attitudine sperimentale. Una prosa assai lontana dalla ―semplice‖ intenzione di
narrare; una prosa tutta protesa alla sperimentazione di tecniche di racconto spaesanti, frantumate,
al limite disturbanti, sotto l'influenza della scritture di Beckett, Joyce. Non è dunque un caso se per
chiarire certi aspetti della poesia del primo Porta, si debba chiamare in causa una corrente d'oltralpe,
non a caso ancora un gruppo di scrittori che proprio nella prosa ha espresso la propria acuta
sensibilità.
L'ossessione e l'enfasi sulla percezione visiva, che risalta fin dal titolo dell'esordio, è stata
condivisa dalla coeva école du regard. Con essa Porta condivide, tra le tante differenze, il tentativo
di mostrare come gli eventi ‖si danno fisicamente allo sguardo‖(3), ma soprattutto ―l'opposizione
alle ostentazioni dell'io‖(4) che conduce ad una esplorazione ―in tutte le direzioni possibili,
mettendosi in agguato da molti punti di vista, rifiutando l'univocità‖(5). Sia l'école, sia Porta, l'una
in prosa l'altro in poesia, tentano di annichilire i resti di un Io predefinito, un Io in catacresi fin dagli
assunti della scrittura naturalistica, fin dalle movenze reticenti della lirica ermetica. Ma è curioso
che Porta, proprio per portare la scrittura ad un grado zero(6), una neutralità raggiunta in re, mai
ante-rem(7), ancora si rifaccia ad una strategia tipica della prosa:
Di qui la creazione di un personaggio, del protagonista che muovendosi tra le parole, si muove come noi
idealmente ci muoviamo nella sfera della realtà, come vediamo che tutti si muovono, consapevoli o
meno(8).
La scrittura portiana, almeno in queste prime intenzioni, non sembra certo lontana dall'influenza del
maggior poeta della Neo-avanguardia: Sanguineti. Egli, nell'opera Laborintus del 1956, aveva
creato un sistema di personaggi linguistici, di attori che ―hanno il compito di gestire il linguaggio,
ma non se possono servire‖(9). Ma in Porta i personaggi non sono solo il ―prodotto di
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quell'esercizio‖ della scrittura che ―mette fra parentesi il soggetto‖, non hanno soltanto una
―soggettività funzionale‖(10), non vogliono insomma ridurre la loro presenza attanziale ad una
presenza meramente linguistica. La realtà degli attori che entrano nella pagina delle poesie della
Palpebra rovesciata e poi de I rapporti ha qualcosa di molto più crudele e violento: radicale.
Qualcosa che si riallaccia al ―problema del vero e della verità, in simbiosi con la ricerca delle
immagini e il bisogno di penetrazione‖, che sia e rappresenti ―un impegno costante verso gli altri,
per un'arte eteronoma”(11). Dunque il convergere da una parte delle spinte rivoluzionarie della
Neo-avanguardia, dall'altra la suggestione derivata dall'école du regard, conducono Porta non ad
una chiusura nell'universo della pagina scritta o, tutt'al più, ad uno sprofondamento nello ―spazio
psichico‖(12), ma, fin dalle prime pagine teoriche del nostro, lo spingono nella direzione di
un'apertura. La realtà esterna c'è, è costante riferimento; ma appare rovesciata dallo sguardo a cui
è sottomessa: una palpebra che, per troppa apertura, accede ad una distorsione(13).
La scrittura di Porta dunque si affaccia ad un dialogo che vede come poli contrapposti in continua
tensione la scrittura e la realtà esterna degli altri, la presenza individuale creatrice e la realtà fattuale
del mondo esterno: la serie dei Rapporti umani e Rapporti n. 2 è lì a testimoniare che, ―nascosta
sotto le pagine‖, c'è la violenza concreta del vivente portata sotto lo sguardo del lettore in una storia
slabbrata, scorciata per tenerne ―soltanto la fine‖(14).
*
Prosa e poesia, come abbiamo brevemente mostrato, fin dalle prime prove teoriche e pratiche di
Porta, sono sottilmente intrecciate, l'una intesta nell'altra a creare un intreccio tanto trapunto che
pare difficile, in sede teorica, porre dei limiti di genere alla sua creatività(15). Sicché non stupisce
che pochi anni dopo, nel 1967, tre anni dopo il convegno del Gruppo 63, tenutosi Palermo, sul
romanzo sperimentale, Porta si dedichi alla scrittura del suo primo vero e proprio romanzo, edito da
Feltrinelli: Partita. Antonio Porta lungo tutta la sua poliedrica carriera di scrittore ha più volte
incontrato la forma romanzo. A scadenza sorprendentemente ciclica, Porta concretizza la sua
―costante oscillazione‖ in oggetti che propendono maggiormente verso il polo prosastico. Ma essi
non saranno mai scevri da un qualche influsso della scrittura poetica; anzi in essi proprio
l'esperienza del poeta pare funzionare come ―messa in crisi‖ o ―catastrofe‖ della prosa. Realizzando
insomma, ancora una volta, quella tentazione all'ibrido, all'anfibio, quella mai pacificata tensione
fra le forme e i generi che caratterizza la scrittura di Porta in toto.
Se nel 1967 darà alle stampe Partita, nel 1979 uscirà Il re del magazzino, culmine
dell'oscillazione, opera in cui maggiormente prosa e poesia sono posti come poli di una fertile
tensione. Dieci anni dopo, nel 1989, quando la morte lo coglierà, Antonio Porta stava scrivendo il
suo terzo romanzo, lasciato inconcluso, edito postumo a cura di G. Pontiggia nel 1996: Los(t)
Angeles. Un romanzo quasi ogni dieci anni, un romanzo come estremo approdo da cui fare i conti
con il decennio precedente, per partire verso una nuova forma di scrittura poetica, un nuovo
nomadismo o erranza della scrittura che solo la morte biologica ha potuto interrompere. I romanzi
di Porta appaiono così come dei conglomerati, sedimenti ad alto tasso di carbonio prosastico,
estraendo dal quale l'indice di radioattività (l'emanazione poetica) è possibile stabilire le
modificazioni, le varianti, le tempistiche evolutive di quel progetto infinito al di là dei generi in cui
Porta era sempre coinvolto.
Percorreremo, per scorciate suggestioni, questo suo cammino. Anche noi oscillando oltre
l'esordio fra le sue prose e le sue poesie, cercando di mostrare le trasformazioni che le une mostrano
delle altre.
*
Cominciamo dal romanzo Partita. In esso è ben leggibile l'intenzione di portare la scrittura in
prosa ad un livello di aggressività e rottura che lo riallaccia sicuramente al romanzo sperimentale e
75
ad altre scritture crudeli, altrove sperimentate in quel giro d'anni. È un romanzo scritto ―respirando
con violenza‖(16) che spacca le convenzioni della narrazione soprattutto per l'uso di terminare i
paragrafi ex abrupto(17), per una sintassi che si snoda labirintica fra dialoghi in indiretto libero e
cambi di voce, legando gli avvenimenti narrati senza ―stabilire uno sviluppo logico e un razionale
coordinamento‖(18). Porta lascia il respiro del lettore davanti ad un vuoto, un abisso bianco, un
crepaccio da superare fra due paragrafi interrotti nello sbrego di una sintassi mutilata. Il lettore è
costretto ad inseguire a fatica la velocità di una scrittura che raramente incontra un punto fermo: il
lettore è costantemente nella minaccia di incontrare il vuoto, sentirne la consistenza, il rischio.
Partita è un romanzo che racconta la storia di sei personaggi intrappolati in un luogo
identificabile con ―il Veneto delle ville Favolose‖(19). Siamo in un futuro ipotetico che mostra
―come si può agire in una società post-rivoluzionaria‖(20), come si possa pensare un percorso
educativo che sottragga le ―calamite alienanti‖(21) presenti nella Storia contemporanea. Sei
personaggi fra cui spicca Màstica, protagonista femminile, ―che lecca, nuota, corre, insegue i
cani‖(22), vera e propria forza propulsiva della narrazione, centro attorno al quale gli altri cinque
personaggi ruotano, da lei fatalmente attratti. Màstica, fin dal nome, identifica la forza primigenia
della natura, la risposta immediata agli impulsi più terreni del corpo. Un coagulo selvaggio di
erotismo e natura che vive e insegna la sua medesima postura agli altri personaggi:
Eccone una, grida lei, mettendo una mano su una radice affiorante, dissotterrandola rapidamente, tagliandola con due
colpi secchi ai lati, stringendola tra le mani subito, cercando di spremerla al massimo, di farla gocciare dalle due
incisioni che vi ha praticato, la succhia forte, inginocchiata, col busto eretto, comincia a uscire il suo latte, liberandosene
un istante, dice, esce, che è un latte molto denso, poco abbondante, coagulandosi spesso, per il quale occorre una
infinita pazienza e applicazione perché le gocce aumentino, sia in volume che in ritmo di caduta, se continua a gocciare,
dopo l'inizio sempre faticoso, incerto, se non interrompe prima del tempo, se si ha quella pazienza che si deve,
quell'ostinazione, le forze necessarie, che si devono avere, una costante violenza, se si rinuncia a gridare per lo sforzo, si
deve rinunciare, continuando a mugolare, evitando di tagliarsi la lingua troppo presto, se non si butta via tutto
all'improvviso, correndo via, disperati per un'attesa che può sembrare interminabile […] ecco che può accadere, accade,
di vedere Màstica felice, come pare veramente tale a noi, che stiamo lì accucciati a guardarla, verde anche lei, di un
verde di quelli molto chiari, più bianca, di un tono anche più cupo, sanguigno, come pare a noi supini perfettamente
verde, rosso cupo, continuando a cambiare colore, rinunciando a cercare per guardarla, è il momento in cui si deve
rinunciare, muovere verso di lei per aiutarla, perché questo è anche il nostro momento, abbracciandole le gambe,
succhiandole le mani e i seni che ci lascia a disposizione tenendo le braccia in alto, tese, fino all'esaurimento delle forze,
delle possibilità di resistenza fisica, nel tendere tanto le braccia, di succhiare, con la bocca priva di saliva, gli occhi
chiusi, le mani strette agli organi genitali siamo costretti a sospendere, sorridendo, scoprendo i denti, masticando foglie
lucide,(23)
La ritmica percussiva, dominata dal tempo presente dell'apparizione (―ecco‖, ―accade‖) e dalla fuga
dei gerundi, crea quella ―costante violenza‖ che domina il lettore abbandonato dopo una virgola ad
un blank, prima di passare ad un altro lacerto narrativo. La medesima strategia di tensione verbale è
visibile nelle coeva produzione poetica. Siamo infatti all'altezza di Cara (1965-1968)(24), libro in
cui la poesia è maggiormente messa in crisi attraverso l'analisi decompositiva dei suoi procedimenti
creativi. In esso libro, possiamo leggere alcuni brani che paiono essere contratture dello stile del
romanzo:
non è l'acqua nuotavano
nell'acqua scioglievano le mani
risuonavano
[…]
Nuotano a brevi intervalli
respirano si rialzano dove
rifugiano.(25)
La situazione ellitticamente descritta, tra l'altro, sembra proprio rifarsi alle prime pagine del
romanzo dove vediamo i protagonisti in una barca che sta affondando. Ma altre poesie corroborano
la vicinanza, in questi anni, fra scrittura in prosa e scrittura in poesia. In Come è un avverbio di
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tempo, Come fosse un ritmo(26) l'enfasi è data sulla funzionalità ritmica della ripetizione
desinenziale dei verbi, così come alla forza del gerundio è dedicata la ritmica labirintica di Partita.
*
Poco più di dieci anni più tardi, Porta dà alle stampe Il re del magazzino(27). Il romanzo forse
più compiuto del Nostro, in cui la differenza fra prosa e poesia è ancora una volta posta in relazione.
Se in Partita i due generi appaiono in stretta continuità, quasi fusi ed intrisi l'uno nell'altro, nel
secondo romanzo di Porta essi sono estremizzati e nettamente divisi, separati. Eppure, attraverso
una strategia narrativa, essi appaiono in totale continuità organica e mai come in questa opera la
poesia nasce gemmando dal tronco del racconto.
Il re del magazzino è il diario redatto da un uomo nei 32 giorni che seguono una ―catastrofe‖
energetica che ha completamente distrutto il mondo e le abitudini dell'umanità. Il resoconto del
tentativo di sopravvivere e del suo fallimento, il diario di un annichilimento biologico di un
individuo che lascia in un fustino di detersivo le proprie ultime tracce scritte. Egli si risveglia in un
piccolo magazzino nei pressi del ―Lambro mitico‖(28), intorno alle cui acque si svolgono gli eventi
minimi il cui racconto è al centro della narrazione. Minuscoli eventi che si caricano di una forza
inedita grazie al fatto che sono ―estremi‖ tentativi di mantenersi in vita, come più volte sottolineato
dalle meditazioni del protagonista. Un ritorno forzato al primitivo, di cui la scrittura a mano è un
pendant essenziale e rigeneratore(29). Ma la struttura di questo romanzo è frutto di una architettura
complessa che prevede più livelli di interpretazione e di narrazione. Infatti il diario è interrotto
periodicamente da 30 lettere che il protagonista vuole che siano indirizzate ai proprio figli. Tali
lettere sono in realtà vere e proprie poesie di Antonio Porta, poesie che spesso si incentrano sui fatti
di storia contemporanea, soprattutto accaduti nel 1976, colti come ―segnali della fine‖(30). Inoltre,
come ci avverte l'Informazione iniziale(31), esso ci giunge grazie alla ―trascrizione integrale con
scrupolo da filologo‖ (32) del manoscritto autografo da parte di un altro uomo che ritroverà il tutto
accanto all'autore del diario ―seduto e ripiegato su sé stesso, morto in quella posizione di riposo
burattinesco‖ (33). A rendere più complessa la stratificazione narrativa del romanzo, inoltre,
intervengono molti stralci da altre scritture (giornali, riviste) che l'autore trova per caso e anch'egli
trascrive nel diario.
Il re del magazzino appare allora una sorta di prosimetro narrativo costruito per assemblage di
scritture allogene, giustapposte e incistate le une nelle altre a formare il racconto di un
sopravvissuto e della sua morte. Una costruzione narrativa a incastro, in cui il poeta cerca con forza
il dialogo aperto, orizzontale, conflittuale con tutti i generi letterari, che, così depositati nel
romanzo, formano una specie di enciclopedia della scrittura offerta in extremis ai posteri. Proprio
essi sono invitati a compiere, attraverso la lettura dell'opera, il rinnovamento già indicato da colui
che per primo compie la trascrizione, ipostasi di tutti i futuri uomini.
Quando Antonio Porta si accinge a scrivere il suo secondo romanzo, si trovava all'interno di una
profonda trasformazione della sua scrittura poetica. Essa può essere individuata già nella raccolta
Week-end, ma soprattutto nella successiva raccolta Passi passaggi(34). Lungo l'arco degli anni
settanta, dunque, Porta rinnova le fondamenta del suo progetto infinito nell'ambito di una ―più
diretta comunicazione‖ (35) che trova una sorta di culmine riassuntivo proprio nella scrittura del
romanzo. Week-end è una raccolta divisa in due parti, la prima di esse già presenta una scrittura che
riprende toni più colloquiali con il lettore, intrattenendo una cordialità distesa, soprattutto nelle
sezioni Autocoscienza di un servo, Utopia del nomade, Lettere. Proprio quest'ultima sezione
introduce per la prima volta la dicitura lettere che raccoglie alcune poesie; dicitura che sarà fertile di
notevoli sviluppi all'interno della produzione del nostro. La lettera, proprio per la sua struttura
semiotica e pragmatica, richiede un destinatario preciso, individuale, considerato come legato al
mittente da una avvenimento privato, richiede una data precisa di scrittura. ―Ecco quanto ho da
dirvi, carissimi‖ (36) è un verso che subito mostra quanto grande sia ormai lo scarto evolutivo
rispetto alla produzione che precede, basata su quell‘opposizione alle ostentazioni dell'io‖ (37) che
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già dicemmo. Evoluzione della scrittura poetica che troverà una forma compiuta in Passi Passaggi
in cui si riprendono alcune Brevi lettere '78 e in cui si fa esplicita richiesta di un maggior apporto
interpretativo da parte del lettore, a segnare ormai la volontà raggiunta e direttamente esibita di una
cooperazione a 360 gradi con colui che legge:
è il tuo segnale: aiutami
io non posso(38)
Della medesima rivoluzione è frutto il romanzo Il re del magazzino, che si pone fra l'intimità del
diario e l'apertura al destinatario delle lettere. Sarà proprio la forma del diario a farsi presente anche
nella scrittura poetica di Porta, allorché introduce in calce alle proprie poesie l'epigrafe della data.
Ciò avviene proprio in Passi Passaggi in concomitanza della scrittura delle lettere, le quali
presentano ognuna la data completa di scrittura. Questa pratica di datare con precisione ogni poesia
non verrà, d'ora in poi, mai meno nella scrittura di Porta, convinto adesso di dover allargare la
strumentazione paratestuale per rendere più preciso, più intimo, più ―vero‖, l'atto della scrittura;
legando così in un sol nodo il tempo della finzione letteraria, il tempo della vita dell'autore e il
tempo, avuto per differenza da esso, della vita del lettore.
Diario, al pari di lettere, sarà inoltre una dicitura che troveremo più avanti nella produzione poetica
del nostro. Basta pensare al volume Melusina(39) che recita come sottotitolo ―una ballata e un
diario”; ma già Invasioni(40), raccolta dove la svolta letteraria si fa completamente trasparente,
contiene la sezione Come può un poeta essere amato?, la quale reca il sottotitolo ―Diario
(12.8.1981 Ŕ 17.8.1982)‖. Ciò conferma l'ipotesi che Il re del magazzino si trova al centro di una
mutazione nella creatività di Porta, raccogliendo da un lato i frutti degli anni settanta, dall'altro
gettando i semi per il prossimo, e ultimo, decennio di scrittura.
Chi scrive un diario sente sulla pelle il passaggio del tempo. Guarda alla propria vita nello scandire
dei giorni che si tramutano in pagine. Sente come si riempie il libro della sua vita, come si intride
del tempo, dei fatti che accadono fuori nel mondo e li patisce in una fedele trascrizione sulla pagina
bianca che, giorno dopo giorno, ora dopo ora, si annera. Nel secondo romanzo di Porta, prosa e
poesia trovano una fusione organica nel seno della scrittura narrativa. Esse si oppongono, si
fronteggiano, eppure si legano e si conseguono grazie all'intenzionalità forte del personaggio che
redige il diario. Se ―scrivere è anch'esso lavoro e dunque ha bisogno di progetti, programmi‖, esso
si dispiega ne ―i fogli delle poesie ― che lo ―avevano abbandonato lentamente, con precisi strappi
nei passaggi dell'età: infanzia, adolescenza, e infine adulti‖. Tempo, scrittura, vita, diario e lettera
vanno compiendo una costellazione di senso che si proietta al di là della finzione narrativa per
diventare simulacro della reale intenzione di Antonio Porta nel percorrere ―l'ultimo cammino‖:
...lettere che adesso riscriverò man a mano per capirle davvero, come ho fatto sempre, con fatica. Poi
potrò farne un pacchetto e avvolgerle nella plastica trasparente e appenderlo al ramo di un albero a
altezza uomo. Un passante potrà prenderle e comincerà per le lettere l'ultimo cammino. È la nuova
posta, casuale, colma di suspense: si può stare a spiare il primo destinatario e seguirlo e scoprire se ce
ne sarà un secondo, e così via. (41)
Sono gli ―strappi dell'età‖, il tempo nel suo lasciare un segno, le lettere che Antonio Porta invia
attraverso la ―nuova posta‖. Esse sono l'allegoria esatta della nuova modalità di scrittura che il
Nostro ha in mente: una poesia che sia come ―un bacio fuori di me‖ (42), lasciato cogliere a chi lo
prenderà, portandolo ancora più lontano, ben oltre ―il primo destinatario‖, laddove l'autore, come il
protagonista di questo romanzo, non sarà più materia biologica del suo corpo, ma abiterà i passi
passaggi di chi lo tramanderà oltre la morte.
*
78
La creatività di Porta, da questo punto in poi, ingaggia e tematizza sempre di più un confronto
spregiudicato con la Morte. La prossimità esistenziale che Porta stava cercando fra la scrittura e la
vita tocca i limiti concreti fra istante dell'intuizione e tempo della scrittura, durata. La frizione fra i
due momenti, necessariamente, dolorosamente distinti, inizia a provocare ancora una volta l'istinto
utopico che Porta ebbe sempre vivissimo(43). Inizia, nell'ultima parte della vita del poeta, la
meditazione sulla vittoria della vita sulla morte e delle sue modalità che, sebbene si possa
considerare un vero e proprio tema sotterraneo costante della sua poesia, si concretizza finalmente
nei poemetti La lotta e la vittoria del giardiniere contro il becchino e Airone(44).
Il sogno di ―vivere un intero mattino” e la coscienza che ―la lotta è finita, \ la vittoria decisa,\ il
becchino sta seppellendo se stesso‖ (45) conducono Porta nelle ultime prove in poesia. Quasi
contemporaneamente, però, egli stava lavorando anche al terzo suo romanzo, purtroppo lasciatoci
allo stato frammentario: Los(t) Angeles(46), iniziato il 27.1.89, alle ore 9.26.
L'ultimo romanzo di Porta ha come ―coagulo narrante il sogno‖ (47). I temi attorno a cui ruota
sono le ―barriere che cadono tra sogno e veglia, tra corpo e paesaggio, tra identità e controfigura, tra
ricordo e invenzione, tra storia «verticale» e storia «orizzontale»‖(48). Spingendo ancora più in là il
tentativo del suo secondo romanzo, Porta indaga il limite dell'essere con la ―e minuscola‖(49), le
sue possibilità di apertura oltre gli specchianti riflessi della propria percezione e la capacità di
reinventarsi, ricrearsi, rinascere annullando ―confini e frontiere‖(50). È un romanzo in cui
l'autobiografia viene reinventata e filtrata dalla voce narrativa, ―una voce ormai troppo insistente‖,
―un soffio nel cuore che dice...‖:
forse comincia con un soffio e poi diventa parola, frase, domanda, discorso, affermazione,
negazione, sviluppo e a poco a poco trama, trama di quello che ho vissuto e di quello che non
ho vissuto, e di quello che non ho vissuto e di quello che avrei voluto vivere, e trama di una
narrazione, di una narrazione che mi sostenga nel momento della fuoriuscita totale, globale,
infernale di tutto il mio essere. (51)
―La fuoriuscita totale‖ dalla gabbia biologica, liberando appieno l'―architettura‖ dell'immaginario, il
tentativo di essere ―agito come uno spazio dilatabile, modificabile all'infinito‖(52) sono i baluardi
estremi dell'arte di un autore che ha concentrato gran parte della sua vita di scrittore a sentire i
limiti, sondare, analizzare i confini del corpo fino allo scarto decisivo e la conseguente ―scelta della
voce‖. La lotta contro il mito della Morte, viene attuata sul piano di una scrittura ―in tempo reale‖,
―pensata come un grandioso naufragio nello spazio-tempo planetario dove tutto si equivale‖, perché
solo tentando questo ―naufragio totale‖ si può ancora ―ricominciare da capo‖(53).
Porta nel suo estremo tentativo di conciliare arte e vita, riattiva il vetusto tema romantico, già
implicito nella sua precedente opzione neo-avanguardistica. Eppure non mancano notevoli distanze
da essa, che piuttosto lo riallacciano ai presupposti delle avanguardie storiche del Novecento.
Infatti, come nota Mengaldo, quest'ultime ―rispondono ancora a una poetica dell'espressione‖,
mentre la neoavanguardia ―non si muove più, fondamentalmente‖, sul medesimo asse(54). Porta
tenta in tutti i modi di trasferire il tempo reale della vita all'interno della scrittura, di esprimere la
sua biografia entro i limiti della letteratura. Ma ciò avviene sempre attraverso la rivendicazione e la
pratica di una scrittura che non cancella, ma enfatizza la possibilità di ricreare, reinventare la vita
stessa, affinché (giusta la citazione d'autore che precede) ―una narrazione‖ lo ―sostenga‖ nel futuro
corpo letterario in cui avrà esistenza.
Porta, dunque, si riallaccia alle proto avanguardie, ma compiendo un passo ulteriore. In linea con
esse, concepisce la lirica come una gabbia troppo stretta, in cui la vita, sebbene trattenuta negli
istanti, sfugge ed esonda nell'oltre dell'inesprimibile. Ma Porta non cede al medesimo silenzio che
già sottrasse Rimbaud alla letteratura, né si chiude nella rocca cristallina del puro gioco verbale; egli
tenta esplicitamente la costruzione (e ne fa avvertire tutta la fatica, la lacerazione(55)) di un corpo
futuro in cui la Lirica (con la L maiuscola, in senso forte, romantico(56), espressione e contenitore
dell'io empirico, biografico) sia inglobata dall'invenzione narrativa affinché essa ne diventi il
substrato di permanenza. In tal modo Porta tenta di trattenere l'istante dell'invasione poetica,
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l'istante dell'intuizione, all'interno del tempo-durata della narrazione. Il nostro poeta, giunto
all'estremo della sua arte, sceglie con consapevolezza la letteratura come scheletro e carne della sua
sopravvivenza(57), cancella ancora una volta i limiti essenziali fra poesia e prosa, infondendo
nell'una ciò che per secoli è stato compito e utopia della seconda. Mai come per questo nostro
autore si può affermare che ancora viva, ad ogni lettura, vivo tra noi.
Tommaso Di Dio
Note.
(1) John Picchione, Introduzione ad A. Porta, Laterza, Bari, 1995, p. 31.
(2) Queste riflessioni fanno riferimento agli interventi di Enrico Testa e di Alessandro Terreni al convegno su Antonio
Porta, dal titolo Mettersi a Bottega, tenutosi a Milano il 10\12\2009.
(3) John Picchione, cit., p. 39.
(4) Antonio Porta, Poesia e Poetica, a cura di Renato Barilli e Angelo Guglielminetti, Gruppo 63 Critica e Teoria,
Feltrinelli, Milano, 1976, p. 79. Ma già apparso nella ―Fiera Letteraria‖, 10-7-1960.
(5) Ivi, p. 81.
(6) Proprio Zero è, significativamente, il titolo di una sezione di Rapporti in Antonio Porta, Tutte le poesie, a cura di
Niva Lorenzini, Garzanti, Milano, 2009, pp. 105-119; in essa l'abolizione formale fra poesia e prosa è spinta all'estremo,
essendo composta da brevi sequenze di carattere poetico, ma private della più appariscente prerogativa della poesia,
cioè l'andare a capo del verso. Infatti ogni riga è ‖adattata a forza‖ in un formato isometrico tramite la vera e propria
cancellazione delle parti che non rientrano nella misura spaziale definita. Zero appare così una sequenza di ritagli
arbitrari da un romanzo mai scritto, lasciando trapelare ai margini parole tronche, frasi a metà: esso mima (ma di fatto
annulla) lo spazio tipico della pagina in prosa.
(7) Antonio Porta, Poesia e Poetica, cit., p. 80.
(8) Ivi, p. 81.
(9) Fausto Curi, La poesia italiana del '900, Laborintus, Laterza, Bari, 199, p. 264.
(10) Ibidem.
(11) Antonio Porta, Poesia e Poetica, cit., p.80 e 81.
(12) Fausto Curi, cit., p. 268.
(13) Ed è questa forse la più notevole differenza con l'ecole du regard: quest'ultima descrive minuziosamente e,
polverizzando la visione in un continuum, giunge ad una sorta di espressionismo; laddove Porta invece lo guadagna in
forza dell'intensità a cui sono sottoposti i frammenti di realtà.
(14) Rispettivamente a p. 126 e p. 138 in Antonio Porta, Tutte le poesie, cit.. Le citazioni sono tratte rispettivamente da
Rapporti n. 2, II, v. 2, p. 138; Rapporti umani, XII, v. 11, p. 132.
(15) È altresì nota la fertilità di Porta anche in altre aree di scrittura, fra le quali il teatro, la critica, la poesia visiva etc.
che solo per questioni di spazio non sono prese in considerazione in questa sede.
(16) Antonio Porta, Partita, Feltrinelli, Milano, 1967, p. 45.
(17) Ciò che in Zero era ottenuto per cancellazione ai quattro margini, qui è ottenuto solo per interruzione verticale.
(18) John Picchione, cit., p. 137.
(19) Antonio Porta, Partita, cit., risvolto di copertina.
(20) ibidem.
(21) ibidem.
(22) ibidem.
(23) Ivi, p. 59, 60.
(24) Edito da Feltrinelli, Milano, 1969.
(25) Antonio Porta, Tutte le poesie, cit., p. 163. è la parte I della poesia Loro.
(26) Rispettivamente ivi, p. 172, p. 208.
(27) Edito la prima volta da Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1978.
(28) Antonio Porta, Il re del magazzino, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova, 2003, p. 21.
(29) ―voglio annotare, e lo faccio, certo, come mi faccia bene scrivere di nuovo a mano, intendo senza il battere dei tasti
della macchina da scrivere‖, ivi, p. 23.
(30) John Picchione, cit., p. 143. Le lettere saranno poi raccolte in Antonio Porta, Aria della fine. Brevi lettere
1976,1978, 1980\1981, Edizioni Lunarionuovo, Catania, 1982.
(31) Antonio Porta, Il re del magazzino, cit., p. 19.
(32) Ibidem.
(33) Ibidem.
(34) La prima edita dalla Cooperativa degli Scrittori, Roma, 1974 e comprende poesie scritte fra il 1971 e il 1973;
l'altra, edita da Mondadori, Milano, 1980, raccoglie poesie scritte fra il 1976 e il 1979.
(35) John Picchione, cit., ibidem.
80
(36) Antonio Porta, Tutte le poesie, cit., p. 265. Il verso è tratto da Lettere, I, v. 5. Esso poi sarà ripreso come titolo
dell'autoantologia del 1977, edita da Feltrinelli.
(37) Vedi nota 4.
(38) Antonio Porta, Tutte le poesie, cit., p. 325.
(39) Antonio Porta, Melusina. Una ballata e un diario, Crocetti, Milano, 1987.
(40) Antonio Porta, Invasioni, Mondadori, Milano, 1984.
(41) La citazione e quelle che precedono sono tratte da Antonio Porta, Il re del magazzino, cit., p. 33.
(42) Antonio Porta, Tutte le poesie, cit., p. 425. Il verso è tratto da una poesia di Invasioni, dalla sezione Come può un
poeta essere amato?.
(43) Confronta il verso ―non smettere di delirare, questo è il momento dell'utopia‖, in Antonio Porta, Tutte le poesie, cit.
p. 147; oppure la poesia Intervento dell'utopia nel racconto , ivi p. 166.
(44) Entrambi editi in Il giardiniere contro il becchino, Mondadori, Milano, 1988.
(45) Rispettivamente da Airone e da La lotta e la vittoria del giardiniere contro il becchino in Antonio Porta, Tutte le
poesie, cit., p. 562 e p. 499.
(46) Antonio Porta, Los(t) Angeles, Vallecchi Editore, Firenze, 1996.
(47) Dall'introduzione di Rosemary Liedl, Ivi, p.12.
(48) Dalla prefazione di G. Pontiggia, ivi, p.7.
(49) Ivi, p. 13; tratto da Antonio Porta, Arte come polisemia, «Parol, quaderni d'arte», n. 1, marzo 1985.
(50) Ivi, p. 16; tratto da Antonio Porta, Mal d'America, interviste a cura di Ugo Rubeo, Roma, Editori Riuniti, gennaio
1987.
(51) Ivi, p.19, Frammento 1.
(52) Ivi, p. 84, Frammento 13.
(53) Ivi, p. 76, Frammento 12. Non è forse un caso che il protagonista porta il nome di Leonardo; esso allude
chiaramente al nome di battesimo di Antonio Porta: Leo. Ecco che dunque il ―ricominciare da capo‖ di quest'ultima
opera è anche un riavvicinamento al proprio ―nome vero‖.
(54) P.V. Mengaldo, Un panorama della poesia italiana, in La tradizione del Novecento, Bollati e Boringhieri, 1996, p.
134.
(55) Ivi, p. 27, Frammento 5: ―come un poeta che assedia il linguaggio e infine lo blocca, lo afferra per il collo,
disperando, mugolando, implorando, di non restare muto, di spalancare la pagina, il vuoto della pagina, e proiettarsi là
dentro, là sopra, sullo schermo della mente e rendersi finalmente visibile, prefigurazione di qualcosa d'altro,
spostamento dei confini, verso dove, verso chissà, per farla a pezzi la morte, a forza di morsi, di lingua‖.
(56) Scrive G. Mazzoni in Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna, p. 180: ―Potremmo dire che la grande lirica
romantica nasce da una forma di sicurezza: la sicurezza con la quale l'io parla di sé, nella convinzione incrollabile che la
sua vita personale abbia un immediato valore universale o, se si preferisce, cosmico-storico, nel duplice senso di
―riconosciuto da tutti‖, ma anche di ―essenziale‖, decisivo per la nostra comprensione della realtà.‖ A p. 181 continua:
―questo soggetto sicuro di sé e misurato è anche straordinariamente integro‖.
(57) ―Il corpo vuole essere quello che la scrittura significa‖ da Antonio Porta, Los(t) Angeles, cit., frammento 13, p. 82.
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CONCETTA DI FRANZA
POESIA DELLA PROSA E PROSA DELLA POESIA IN GIOVANNI RABONI
Prose tra i versi
Una poesia a bassa concentrazione di liricità, qual è quella di Giovanni Raboni, con i suoi toni
smorzati, che mimano la colloquialità del parlato anche nella selezionata adozione di una
terminologia settoriale e specialistica, attrae irresistibilmente la prosa nella sua orbita, in un sottile
equilibrio tra analogia e contrasto. La scrittura prosastica appare infatti, nella sua autonomia da
vincoli metrici, affine a quel verso libero, che nell‘arco della produzione raboniana predomina
ampiamente, e al quale si mescola apportandovi il suo bagaglio di «temi tradizionalmente allotri» e
«di registri stilistici tradizionalmente propri di generi prosastici».(1) La commistione prosa-poesia
potrebbe peraltro indurre al sospetto che la prosa creativa, come esercizio autonomo, costituisca
nella scrittura di Raboni un‘attività collaterale, a cui dedicarsi nelle more dell‘ispirazione: l‘unica
raccolta di «racconti (o prose o frammenti di romanzo)»(2) pubblicata da Raboni, La fossa di
Cherubino (1980), si dice infatti «nata da una crisi di scrittura poetica (…) e dalla voglia di
applicarsi comunque alla scrittura».(3) La prosa narrativa e artistica ne risulterebbe allora ristretta
tra lo spazio ufficiale della poesia da un lato, quello della prosa di traduzione dall‘altro.
Tuttavia è nel corpo stesso dei libri in versi che si gioca forse nella scrittura raboniana un più
complesso rapporto tra prosa e poesia. Si pensi alla strumentale applicazione della prosa ai versi
quale mezzo di più incisiva espressività e insieme di calcolata negazione dello statuto poetico: di
fatto, l‘andamento prosastico della poesia raboniana subisce continue smentite, inferte con perizia e
tempestività da una sintassi spesso costretta a contorsioni o calibrate sgambature per poter arrivare
alla fine del periodo. La scelta del sonetto in Ogni terzo pensiero (1993) e Quare tristis (1998),
preparata nel 1990 dai Versi guerrieri e amorosi, non segna, sotto questo aspetto, una svolta: dalla
voluta ed esibita forzatura della sintassi all‘interno della gabbia metrica la poesia raboniana non ha
mai prescisso, fondandovi anzi il suo modo di intendere il verso libero, in un gioco di continua
allusione ed elusione della regola, da Le case della Vetra del 1966, all‘ultima raccolta, Barlumi di
storia, uscita nel 2002.
Il rapporto tra prosa e poesia in Raboni va dunque indagato proprio laddove queste due
forme di scrittura, pur distinte, coesistono e cooperano nello stesso organismo. È il caso delle prose
inserite dall‘autore, sporadicamente ma con una certa costanza, nei suoi libri di versi. Due
compaiono in Cadenza d‟inganno (1975): Economia della paura e Partendo da Boulevard
Berthier; una nei Versi guerrieri e amorosi (1990): Per una ragione improvvisa; una ancora in Ogni
terzo pensiero (1993): Piccola passeggiata trionfale; due nell‘ultima raccolta, Barlumi di storia
(2002): La mattina di ferragosto mio padre e Sembra impossibile, ma c‟è stato un momento. La
composizione in parti di alcuni tra questi testi (Economia della paura, Per una ragione improvvisa,
Piccola passeggiata trionfale), rispondendo all‘organizzazione dei libri raboniani in «sequenze»,(4)
suggerisce la rispondenza tra sezioni in prosa e sezioni in poesia: indizio, forse, di un‘omogeneità o
integrazione tutta da indagare. A partire dalla reciproca posizione.
Cadenza d‟inganno
In Cadenza d‟inganno la collocazione delle due prose appare strategicamente finalizzata
alla delimitazione di tre sezioni, non altrimenti definite, ma evidenti a chi conosca la storia
editoriale dei testi.(5) Subito dopo la prima suite (le Parti di requiem dedicate al rapporto con la
madre morta), la prosa intitolata Economia della paura annuncia l‘inizio della seconda sezione, che
ripropone il contenuto della omonima plaquette uscita all‘«Insegna del pesce d‘oro» di Scheiwiller
82
nel 1970; questa funzione segnaletica è attestata dal fatto che la prosa, ora collocata in posizione
incipitaria rispetto alle poesie provenienti dalla plaquette, originariamente la chiudeva. L‘altra
prosa, Partendo da Boulevard Berthier, apre la terza serie di testi di Cadenza d‟inganno, usciti in
rivista tra il ‘68 e il ‘72 e dedicati ad eventi di portata storica e forte ricaduta individuale, quali la
morte di Pinelli e l‘omicidio di Calabresi. Tre parti, che si possono all‘ingrosso classificare la
prima sotto l‘etichetta del privato, l‘ultima del pubblico, la mediana della pericolosa ed incontrollata
intromissione dell‘uno nell‘altro,(6) vengono dunque delimitate dall‘accorta collocazione delle due
prose, che rivelano inoltre una evidente continuità di stile e di contenuto con i versi.
Dedicata all‘invasione poliziesca del privato, la prima prosa (Economia della paura) registra
in tre parti una conversazione telefonica tra amanti, entrambi vittime di una subdola oppressione,
l‘uno perché il suo telefono (quello attraverso cui i due si parlano) è stato messo sotto controllo;
l‘altra perché l‘uso di un coadiuvante nell‘anestesia potrebbe, in occasione di un prossimo
intervento chirurgico, costringerla a rivelare involontariamente il nome di lui in presenza del marito.
L‘apparente quotidianità dello stile è smentita dal doppio passaggio, peraltro non detto, attraverso il
mezzo telefonico e l‘intercettazione, di cui forse il testo si immagina quale trascrizione: senza
distinzione di battute nella prima parte, con le sole battute dell‘uomo nella seconda, con quelle della
donna nella terza. Ossessivo il ricorso alla ripetizione, giocata su due livelli: sia tra una sezione e
l‘altra, sia all‘interno di ciascuna parte, dove i due interlocutori si rimandano reciprocamente le
battute, oppure ripetono nella mente parti del dialogo:
1 [dialogo Uomo – Donna]
Possono. Possono sempre. E senza notifica preventiva. E senza? Non vengono a dirtelo prima, è chiaro. Tu però l‘hai
capito. Sì, credo d‘averlo capito. Un clic. Sapevo che ci si accorge. Un nastro? Certo, un nastro, cosa credevi? Gnomi.
Caverne per sentire. Labirinti di sughero. Neanche per sogno. Il nastro. E poi? Novanta su cento, li buttano via. Non
fanno a tempo. Probabilmente non gli interessa. Non al mio livello. E allora? Un caso. Me l‘avevano spiegato.
2 [Uomo]
Non so da quanti giorni. Non vengono a dirtelo prima, è chiaro. Non ricordo quando ho sentito il clic. Non molti.
Sapevo che ci si accorge. Me l‘avevano spiegato. Il nastro comincia a girare. Novanta su cento li buttano via. Non fanno
a tempo, credo. Non possono sentirli tutti. Li tengono per un po‘ prima di buttarli via. A meno che non si interessino
veramente a qualcuno. Ma di me, figùrati. Tanto meno di noi due. Un caso. Una specie di tic.
3[Donna]
Non sapevo che si potesse. Credevo che non si potesse. Che ci volesse una carta. Come per le perquisizioni. Forse per
un po‘ è meglio che non ti telefoni. Mi dà fastidio pensare che c‘è qualcuno che sente. Me l‘immagino come una specie
di gnomo. In una caverna. Pareti di sughero piene di ventose. (Economia della paura, in Cadenza d‟inganno)
La seconda prosa della raccolta, Partendo da Boulevard Berthier, è il reportage in prima
persona dei funerali di uno studente parigino, morto annegato durante una manifestazione
studentesca a seguito di una carica della polizia. La forma è quella del monologo interiore, con una
sintassi ipertrofica, che tende al flusso di coscienza, senza però mai perdere né il controllo della
struttura sintattica, né il confine tra la percezione e la sua assunzione razionale, tra oggetto e
soggetto. A creare un clima di angoscia, in cui lo scorrere del tempo si cristallizza, intervengono
anche qui le ripetizioni, sia ravvicinate (anafora e/o epifora con parallelismo, nel primo esempio
riportato), sia a distanza (con risultato di ritornello e strofa, nel secondo esempio); indotte dalla
minuzia ossessiva con cui si registra tutto ciò che appartiene alla scena, creano una sorta di effetto
ipnotico:
Finirà per cadere, mi dico, e avanziamo verso la strozzatura dell‘imbuto constatando la scomparsa dei flics, l‘assenza
dei flics, sospettando che i flics non ci fossero neanche prima e non ci siano mai stati visto che con ogni evidenza sono
stati assunti in cielo dove volteggiano col ronzio di un elicottero. Sì, penso che non ci siano mai stati e
contemporaneamente penso che già da prima e chissà da quanto tempo c‘erano invece allo sbocco del sottopasso questi
ragazzi (…) E così già da prima, sicuramente già da prima e forse da molto tempo in mezzo a boulevard Berthier poco
più su dello sbocco del sottopasso c‘era questo gruppo di gente già da prima così silenzioso e compatto.
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Seguire l‘automobile con la bara quando la bara arriverà (…) Da questo momento finché dal portone non verrà fuori la
bara ripensandoci sarà chiarissimo (…) Finché dal portone non verrà fuori la bara ma prima ancòra anche se solo pochi
istanti prima (…) Finché dal portone non verrà fuori la bara che sarà una cosa che nessuno di noi riesce a vedere
(Partendo da Boulevard Berthier, in Cadenza d‟inganno)
Versi guerrieri e amorosi
Nei Versi guerrieri e amorosi, la collocazione iniziale del trittico in prosa (Per una ragione
improvvisa) ne rivela il ruolo di avvio, che riporta indietro il tempo allo scoppio della Seconda
Guerra Mondiale, contesto ed ambientazione della seguente sezione di poesie in quartine. È la luce
che si fa improvvisamente «bianca e fissa» a segnalare la trasfigurazione della realtà;(7) lo stacco
coincide con l‘avvio del film in bianco e nero del passato, che proietta sul presente le sue immagini
crepitanti, diafana evocazione di figure sbiadite e senza vita:(8)
Per una ragione improvvisa la luce si è fatta bianca e fissa: i passanti, smilzi e sbigottiti come se avessero in testa un
gibus o una magiostrina, hanno smesso di colpo di fare ombra (Per una ragione improvvisa, in Versi guerrieri e
amorosi).
Il testo è composto da tre prose di lunghezza calante (segnate da legami intertestuali e
ripetizioni, secondo la tecnica già esperita in Cadenza d‟inganno) e di crescente straniamento
temporale, dovuto all‘allineamento del tempo sull‘asse dello spazio, che è il percorso del tram sul
quale viaggia il padre; il suo viaggio si svolge nel passato, ma al tempo stesso proietta nel futuro
(fino al presente del soggetto lirico) le fermate previste dalla linea tranviaria: «Fra due fermate le
portiere del tram, aprendosi, sfioreranno le foglie dei platani della piazza»; «Fra quattro fermate, il
tram arriverà ai grattacieli». L‘anacronismo, sotto la cui insegna si colloca la seconda sezione della
raccolta,(9) trova qui la sua fondazione, concretizzata nell‘antitesi che, nel porre la distanza
temporale, immediatamente la nega: «Sono passati quarantaquattro anni, un mese e un giorno. Non
è passato neanche un minuto». Il trittico iniziale anticipa, esplicitandolo, il criterio alla base delle
successive poesie, dove passato e presente coesistono nella figura della donna amata, la cui
presenza viene posta e presagita nel passato dell‘io lirico, a «schermo» rispetto a ricordi ed
esperienze di guerra, da cui egli rischia di essere annientato. Con inversione del ruolo di
protagonista, in primo piano nella prosa si accampa non la figura della donna, verso la quale
ciascuno dei testi poetici della sezione successiva converge nel finale, ma quella del padre; pur non
espressamente nominato nei versi, è il vero eroe di quella guerra, come rivela il confronto fra le
allusioni dei Versi guerrieri e amorosi (Non stava a noi risolvere, dove è il padre che
avventurosamente procura il cibo; Non facevano fumo né rumore, da contestualizzare nell‘attesa
della corriera che quotidianamente riconduce il padre presso i familiari sfollati a Varese), e la
chiarezza de La guerra, lirica riportata nell‘autoantologia del 1988 A tanto caro sangue.
Nel passaggio da una prosa all‘altra si fanno più intensi i riferimenti alla guerra (gli invalidi che procurerà, i
bombardamenti che distruggeranno la maggior parte dei platani di Milano, la durata stessa del conflitto per l‘Italia), fino
all‘immagine conclusiva della radio, da cui sarà diffuso l‘annuncio della dichiarazione di guerra:
[I] Mio padre, elegante e asciutto come un ufficiale di legno traforato, è appena salito sull‘1 dalla porta anteriore
riservata agli abbonati e probabilmente agli invalidi.
[II] Mio padre sale dalla porta anteriore, vietata ai non abbonati e ai non ancora invalidi, su una vettura della linea
tranviaria numero 1 (…) Fra due fermate le portiere del tram, aprendosi sfioreranno le foglie dei platani della piazza.
Fra tre anni, un mese e ventisette giorni non ci saranno più platani.
[III] Mancano tre fermate. Mancano dodici minuti e diciannove secondi. Mancano quattro anni, dieci mesi e quindici
giorni, un metro e trentasei centimetri di neve, un numero imprecisabile di mitragliamenti a bassa quota. Mancano
ventisette gradini (…) In casa, nella penombra del cortile, qualcuno sta già toccando la manopola di bachelite della
radio.
Il ritmo è scandito da una serie incalzante di coordinate spazio-temporali, la cui esattezza è
condannata all‘implosione dall‘ossessiva esattezza e dall‘accumulo, che provocano effetti di irreale
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artificiosità; ritmato dall‘anafora, l‘aumento della tensione nega l‘apparente impassibilità
referenziale dello stile: «Fra due fermate»; «Fra tre anni, un mese e ventisette giorni»; «Fra quattro
fermate»; «Mancano tre fermate»; «Mancano dodici minuti e diciannove secondi»; «Mancano
quattro anni, dieci mesi e quindici giorni»; «Mancano ventisette gradini». La ripetizione traduce in
suono l‘angoscia della guerra imminente e insieme l‘ansiosa aspettativa, espressa nelle liriche della
parte centrale, della sua conclusione, dove l‘avvento della donna amata sarà un premio non scevro
dai sensi di colpa della sopravvivenza.(10) Una sorta di conto alla rovescia, il cui istante zero
coincide con il punto di partenza delle poesie della sezione centrale, scandisce non il tempo della
convenzione, ma quello di un cuore che batte all‘unisono con il cuore della città: il percorso del
tram può così diventare un viaggio nel tempo, che riporta indietro alla guerra e alle ferite che essa
ha inferto ad entrambi.
Ogni terzo pensiero
Anche l‘ubicazione della Piccola passeggiata trionfale in Ogni terzo pensiero non è casuale.
«Collocata al centro di OTP, la Piccola passeggiata trionfale richiama nelle due sezioni liminari il
paradigma tematico enunciato dall‘epigrafe shakespeariana (…) ponendosi come esito narrativo (...)
dei Sonetti di infermità e convalescenza e premessa all‘alternanza del tema della morte (e dei morti)
con quello ―civile‖ degli altri sonetti».(11) La prima sezione della raccolta, costituita dai Sonetti
d‟infermità e convalescenza, è circoscritta ad un‘esperienza autobiografica di malattia e degenza
all‘estero; l‘interposizione della prosa la separa dalla terza sezione degli Altri sonetti, in cui la
comunione dei vivi e dei morti, che per l‘autore che vi è nato e vissuto si celebra quotidianamente a
Milano, si affianca ed intreccia alle testimonianze del poeta civile, allo sdegno per una realtà
politica e sociale ferita dal condizionamento, dalla menzogna assurta a sistema, dal silenzio di «tutto
quello che solleva / l‘uomo da se stesso» (Che in tutto fra tutte suprema sia, in Ogni terzo
pensiero). Una demarcazione anche metrica (tra l‘iniziale sequenza di sonetti minori e il gruppo
finale dei regolarmente endecasillabi) fa dunque da cuscinetto tra la stretta contemporaneità e
privatezza della prima parte e quell‘impasto di passato e presente, pubblico e privato che domina la
terza sezione nel segno di Milano: assente per forza maggiore dai Sonetti d‟infermità e
convalescenza, la città in cui Raboni si è formato come uomo e scrittore torna con la Piccola
passeggiata trionfale ad imporre la sua presenza, humus e contesto della poesia raboniana fin dalle
Case della Vetra. Le brevi prose liriche che compongono la sezione centrale rinsaldano il legame
dell‘Io con la propria città, celebrando i luoghi dell‘infanzia, nel quartiere di Porta Venezia,
secondo una traiettoria spazio-temporale che si snoda lungo il Corso Buenos Aires. Frammento
dopo frammento, nove tappe descrittive delineano un cammino che muove dall‘attraversamento di
quel grande fiume che è nell‘immaginario raboniano il Corso: dedicata al lento ma inesorabile
tragitto che ha condotto l‘autore ormai maturo a prendere casa nella stessa zona dove viveva da
bambino, la prima prosa, Che lunga, lunghissima rincorsa, ci ho messo, ricongiunge passato e
presente nel ritorno quasi identico sulla ―riva‖ opposta del Corso Buenos Aires. Assumendo,
rispetto ai versi che seguono, un ruolo simile a quello di Per una ragione improvvisa, la prima prosa
di Ogni terzo pensiero rimette in moto il passato e lo fa scorrere parallelo al presente. Ai due tempi
sono infatti dedicati, secondo un‘alternanza discontinua, i piccoli poemi in prosa che seguono,
coagulati ciascuno intorno ad un grumo, un nucleo di riconoscibile paesaggio urbano. Il percorso è
delimitato e circolare, rassicurante e protettivo, materno e insieme infernale come l‘immagine del
cinema, caverna di Polifemo ora accecata, ma un tempo fulgida agli occhi dell‘adolescente che vi
entrava, più che per vedere un film, per rifugiarsi nelle sue tenebre (Profonda come la caverna di
Polifemo). Sono temi ad alta concentrazione memoriale e dunque a forte rischio elegia, quell‘elegia
che anche in questi brani Raboni riesce a tenere a distanza. Come? Proprio esasperando
ironicamente la pericolosa simbiosi tra pubblico e privato, attraverso il ricorso al paradosso, alla
figura straniante che vale a ridimensionare quanto, nel punto di vista, possa apparire troppo
soggettivo. Si pensi all‘iperbolica associazione del «moto dei corpi celesti» e del «funzionamento
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della (mia) valvola mitrale» come conseguenza del cambio di destinazione della «casa di fronte»
(Che nella casa di fronte ci fosse); o all‘assimilazione, di «una compravendita di tessuti» e dei
«bisogni imperterriti del rimorso» come spinta a passare per via San Gregorio, dove il poeta
abitava, poco distante dal luogo di un allora famoso omicidio, adesso dimenticato da tutti (Mattoni e
cemento durano infinitamente meno). Lo scontro tra soggetto e oggetto si traduce in confronto
passato-presente anche al cospetto di elementi dell‘aspetto urbano toccati da un degrado che viene
puntualmente registrato; non c‘è rischio alcuno di sentimentalismo, quando l‘approccio è quello del
poeta civile: segno di un perduto equilibrio tra uomo e ambiente, alberi stenti ed assediati rinviano
allo spicchio di cielo dove compariva la neve, ora non più visibile (Gli alberi agonizzanti); la
fontana malamente restaurata, soffocata dalla pavimentazione, vede i propri spruzzi, non più
naturalmente assorbiti dal terreno, ristagnare «in piccole pozze velenose» (Niente di personale, ci
mancherebbe altro!).
Colpisce la quasi solida compattezza dell‘insieme e dei singoli brani, calibrata sia
nell‘organizzazione complessiva, sia nella concentrazione sintattica di ogni prosa, articolata in uno
o massimo due periodi, fortemente orientati verso la chiusa. Nel suo equilibrio, nella propria
simmetria, ciascuna di queste prose liriche scolpisce un frammento di una personale Via Crucis, che
concilia la struttura circolare con la prospettiva futura dell‘ultima prosa; qui si delinea la certezza
del proprio funerale come estremo e inverso attraversamento del Corso, fino alla meta della chiesa
di San Carlino (ciò che resta del Lazzaretto di manzoniana e insieme raboniana memoria), con
«l‘humilitas che splende sul pavimento di pietra nella fragranza composta dell‘incenso e della cera»
(Nei protocolli dello spostamento figura anche).
Barlumi di storia
Ancora una vocazione organizzativa si riconosce alle due prose che compaiono nell‘ultima
raccolta raboniana, Barlumi di storia, dove si collocano nella quinta ed ultima sezione, i cui testi
sono ordinati secondo un criterio cronologico che, partendo dalla seconda guerra mondiale, arriva
fino ai giorni nostri. Estrema celebrazione del tempo, che è il filo conduttore dell‘intero libro, ove
viene declinato dalla negatività del presente alla serenità anodina di un futuro senza futuro, l‘ultima
sezione si snoda come una successione di fotogrammi o sequenze narrative. Alla rievocazione del
passato ancora una volta sottostà la metafora del film: implicita nella lirica che la introduce (È, in
un profluvio di rovine), dove il termine «profluvio», che indica lo scorrimento, si coniuga alle
«tante macchie color seppia o ruggine», proprie delle vecchie foto (fotogrammi?); esplicita in quella
finale, dove il film della vita, oramai giunto al termine, si riavvolge, ma con il privilegio di poter
riguardare la pellicola, «fermando ogni tanto l‘immagine, / tornando un po‘ indietro, ogni tanto» (Sì,
tutto in bianco e nero, se Dio vuole). Nell‘immagine della moviola, l‘idea della possibile
reversibilità del tempo, metafora di una modalità d‘oltrevita in cui la memoria del passato non si
smarrisce, ma perde la percentuale di dolore che in vita comporta, in una perpetua fruizione ad
libitum e «in bianco e nero», senza emozione. Quale il ruolo delle due prose in questa così intensa e
organizzata ripartizione? È una funzione in primo luogo strutturante, che scandisce il percorso dalla
guerra ad oggi in due segmenti, l‘uno dedicato alla guerra e al dopoguerra, l‘altro alla storia recente
e all‘attualità, in una climax di pessimismo civile e politico.(12) La prima prosa (La mattina di
ferragosto mio padre) inaugura la sezione dedicata alla Seconda Guerra Mondiale, inquadrandola
nell‘esperienza dell‘io lirico bambino, dal cui punto di vista vanno lette le successive memorie
belliche in versi. L‘altra prosa (Sembra impossibile, ma c‟è stato un momento), posta a metà della
sezione, muove dal ricordo dell‘assassinio di Kennedy, dalla «immagine della limousine immobile
nella sua assurda, inarrestabile corsa»: fotogrammi che si proiettano, nella memoria dell‘autore,
sullo sfondo della rivista «Questo e altro»; un‘esperienza nella quale il ruolo civile della poesia
trovò un momento di grazia, in cui l‘energia del gruppo di lavoro potenziava le speranze che la
letteratura potesse anche occuparsi di «altro», impegnarsi nel reale, forse contribuire a migliorarlo.
La morte di Kennedy pose una lapide su queste aspettative, e la prosa ad essa dedicata vi lega non il
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declinare dell‘impegno, che in Raboni non verrà mai meno, ma il sopraggiungere di una sfiducia,
nel cui clima si colloca l‘intera produzione impegnata raboniana, di cui il resto della sezione offre
ancora un esempio. Alla collocazione strategica, dunque, i due brani annettono anche una funzione
esplicativa, che si vale della maggiore distensione e spazio concessi alla prosa per orientare la
lettura delle poesie alle quali sono premessi. In linea con tale ruolo, qui forse più esplicito che
altrove, tali testi sono caratterizzati da una prosa distesa, di registro prevalentemente memoriale il
primo, pubblicistico il secondo. Una limpidezza che, in linea con lo stile dell‘intero libro, non va
confusa con la naturalezza o la spontaneità; come infatti il metro di Barlumi di storia, solo
apparentemente libero, eredita dall‘esperienza della forma chiusa la sapiente ed esclusiva alternanza
di endecasillabi, settenari e novenari, così la prosa vi appare solcata da guizzi, svolte improvvise
che sorprendono il lettore e lo inducono a fermarsi, rileggere, riflettere. La superficie referenziale e
pubblicistica di Sembra impossibile, ma c‟è stato un momento, che pur mette da parte la memoria
privata del soggetto per portare in primo piano quella pubblica, non rinuncia all‘effetto di
un‘aggettivazione straniante, che blocca l‘attenzione sul «convoglio improvvisamente funebre»,
sull‘«orrore meccanico e umiliante delle crociate e delle scomuniche incrociate». Nella prima prosa,
La mattina di Ferragosto mio padre, il sapiente accostamento avverbio-aggettivo o aggettivosostantivo («i gesti furiosamente immobili, le espressioni fulminate nella più vivida e minuziosa
aspettativa del vero») appare spesso funzionale al ribaltamento, che nel corso della stessa frase o
periodo cambia di segno all‘oggetto del discorso:
Di colpo, e per un tempo che sembrò, più che lungo, infinito, l‘acquazzone tipicamente lombardo-prealpino del
pomeriggio di Ferragosto smise di preannunciare la fine – non imminente, ma prossima e sicura – delle vacanze perché
le vacanze stesse avevano improvvisamente smesso d‘esistere.
Appena scesi in cantina, sopra le nostre teste si scatenò quello che fu impossibile non credere il finimondo mentre ne
era, molto più modestamente, l‘inizio.
Il nucleo concettuale del brano (la guerra è stata per l‘autore al tempo stesso il vuoto e la
formazione, la villeggiatura e insieme l‘esilio) si traduce in scelte stilistiche, che individuano il
fondo contraddittorio della maturazione personale e poetica: «come si va a distinguere l‘inizio del
finimondo dall‘inizio della grande vacanza, l‘angoscia dello sradicamento dall‘euforia di
un‘inaspettata, totale libertà? Confesso di non esserci mai riuscito, con la conseguenza che ancora
adesso mi capita di pensare a quegli anni di segregazione, di sfacelo e di orrore come agli anni più
belli della mia vita».
Una naturalezza straniata
Dei libri di Raboni, le prose costituiscono gli snodi che ne articolano l‘organismo; forti
dell‘innato carattere narrativo, che le innerva delle sue coordinate per eccellenza, spazio e tempo, le
parti in prosa non solo orientano la lettura di quei ―romanzi‖ che sono le raccolte raboniane, ma la
cadenzano al giusto ritmo come veri strumenti di un montaggio cinematografico. Non è casuale la
presenza costante della metafora filmica, che in questi brani spesso si accompagna, più o meno
esplicitamente, al modello del tragitto o della passeggiata: un percorso né solo spaziale, né solo
temporale, ma metafisico, che consente la fruizione sia diretta che inversa dei propri
fotogrammi.(13)
Se è vero che ogni libro di poesia di Raboni è un ―libro‖, frutto di un progetto e di
un‘ispirazione unitaria, le prose che vi si inseriscono non potranno che riflettere una comune
atmosfera, condividendone con le liriche i temi. Le prose di Cadenza d‟inganno mettono in scena il
clima di oppressione e di angoscia sottile che pervade tutto il libro;(14) quelle dei Versi guerrieri e
amorosi immergono il lettore nella rimemorazione della guerra da cui nasce la parte centrale della
raccolta; i piccoli poemi in prosa di Ogni terzo pensiero predispongono l‘ambientazione milanese e
87
mortuaria dei versi che seguono. In Barlumi di storia, il cui leitmotiv è la storia, passata e recente,
le prose individuano nettamente i poli del libro nella memoria e nell‘impegno, due delle possibili
declinazioni della storia nel rapporto con l‘individuo. È innegabile la continuità tematica che
intercorre tra le prose e i versi dello stesso libro, per cui al fianco dell‘onnipresente tema privato,
troveremo un impegno effuso in maniera più esplicita e diretta nei testi prosastici di Cadenza
d‟inganno e Barlumi di storia, in linea con l‘andamento di queste due raccolte. Prevale invece il
registro memoriale nelle prose dei Versi guerrieri e amorosi e Ogni terzo pensiero, dove il motivo
pubblico (storico e civile) passa attraverso la più evidente soggettività dell‘amore e della morte. Le
medesime coppie di libri appaiono definite dall‘affinità stilistica, per cui laddove si adotta nelle
poesie il verso libero (Cadenza d‟inganno e Barlumi di storia), le prose godono di una forma
sintattica più ampia e distesa, che si fa invece più chiusa ed elaborata, vicina alla prosa lirica, nei
Versi guerrieri e amorosi e Ogni terzo pensiero, nei quali Raboni adotta il metro tradizionale.(15)
C‘è tuttavia un filo sottile che corre attraverso le prose sparse tra i versi raboniani. I loro
incipit, ad esempio, rompendo ex abrupto il silenzio dello spazio bianco, costantemente gettano il
lettore in un‘atmosfera straniata, che, sia il tema memoriale ovvero di denuncia, risulta sempre un
po‘ surreale: a creare uno stacco, che segnala il varco di uno spazio circoscritto, l‘avvio di una
comunicazione che si allontana dall‘uso quotidiano della lingua, cui pure Raboni continua ad
attingere. Sottotraccia persistente della prosa creativa raboniana è l‘elaborazione stilistica cui vi
viene sottoposto il linguaggio, forse più intensa proprio laddove più si ostenta la mimesi del parlato.
Parallelo all‘intenso lavorio cui Raboni sottopone il verso libero al fine di inventarsi una regola
propria, oppure il metro tradizionale per ritagliarsi uno spazio personale nell‘ambito della norma,
corre lo sforzo di produrre anche nella prosa uno scarto rispetto all‘uso quotidiano. Al di là del pur
innegabile discrimine tra prose più referenziali-oggettive e prose più tendenti al lirico-metaforico,
l‘adozione dei medesimi accorgimenti stilistici opera, al fine di ottenere lo straniamento di una
naturalezza di base, soprattutto al livello della disposizione delle parole. Il ricorso costante alle
figure della ripetizione mescola la reiterazione identica a quella moderata dal polittoto,
dall‘adnominatio, da minime deviazioni di posizione; il parallelismo evidenziato dall‘anafora,
dall‘epifora o dall‘omeoteleuto si alterna e varia nell‘iperbato o nello zeugma. Nel primo dialogomonologo di Cadenza d‟inganno il linguaggio viene filtrato attraverso la conversazione e
l‘intercettazione telefonica, la cui messa in scena giustifica l‘indistinzione e la ripetizione, che
divengono un fattore ipnotico e ossessivo, mezzo di denuncia dell‘oppressione cui l‘individuo è
sottoposto. Nella seconda prosa, fa da filtro il parlato mentale che registra la scena; complice la
sintassi ipertrofica e frenante che riproduce l‘indiretto libero, l‘ingrandimento si concentra non
sull‘oggetto principale, ma su dettagli fuori campo; questo taglio obliquo spiazza il lettore e lo
turba, con effetto certamente consapevole e voluto, che viene meglio esplicitato nelle coeve e affini
prose de La fossa di Cherubino: qui l‘approccio narrativo tangenziale si metaforizza nel modo
impreciso e frammentario di raccontare attribuito alla protagonista femminile. L‘esasperato
tecnicismo, l‘eccesso di precisione, la pseudo-scientificità delle indicazioni spazio-temporali
accomunano, nella loro funzione surreale, le prose ―colloquiali‖ di Cadenza d‟inganno a quelle
―liriche‖ dei Versi guerrieri e amorosi, dove le ripetizioni creano una sorta di ritornello, con l‘idea
del conto alla rovescia. Un‘idea che è data non tanto dal contenuto delle precisazioni cronologiche
(che oscillano tra passato e presente, oltre che tra spazio e tempo), quanto dal loro incalzare e
accumularsi progressivamente lungo le tre prose (segnate da un‘inversa e progressiva
sintetizzazione, come già in Economia della paura) fino a ―precipitare‖ nella finale dichiarazione di
guerra. Nella Piccola passeggiata trionfale di Ogni terzo pensiero la distanza dal registro
colloquiale, che pure vi è adoperato, è segnata dal ricorso ad una sintassi calibrata, che non rinuncia
a figure della ripetizione dall‘effetto soprattutto fonico e ritmico, fino ai veri e propri versi
dell‘ultimo frammento:(16) nel perseguimento di quella misura tra descrizione e memoria, tra
razionalità e rimpianto, che evita le secche del lirismo nostalgico. Quanto a Barlumi di storia, la
superficie oggettiva delle sue prose è percorsa dai fremiti evocativi di una costante ossimorica, cui
deve molto l‘icasticità simbolica dei fotogrammi bloccati davanti agli occhi del lettore: barlumi
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improvvisi di una memoria personale e storica, che aspirerebbe ormai a riavvolgersi finalmente su
se stessa.
Pur se in misura e modi diversificati da libro a libro, filtri alla verosimiglianza del parlato si
rivelano operanti in tutte le prose di Raboni, dove il registro informale viene al tempo stesso esibito
e negato. Una naturalezza straniata è il risultato di questa continua tensione tra colloquialità e
artificio, argomentazione discorsiva e lirica concentrazione: nei modi peculiari alla prosa, un
equilibrio viene di volta in volta riconquistato, organico alla parallela e incessante sperimentazione
metrica di un autore solo apparentemente facile, quale Giovanni Raboni.
Concetta Di Franza
Note.
(1) Rodolfo Zucco, La prosa nell‟opera in versi di Raboni, «Istmi», 11-12 (La prosa nel corpo della poesia),
2002, pp. 119-42, alle pp. 121-122.
(2) La fossa di Cherubino, Milano, Guanda, 1980, «Avvertenza» dell‘autore, dove si noterà l‘allusione
boccacciana («intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie», Decameron, Proemio), che
dietro l‘incertezza del genere letterario cela la certezza della vocazione narrativa. Le opere di Raboni si
citano da: Giovanni Raboni, L‟opera poetica, a cura di R. Zucco, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2006.
(3) Il lavoro del poeta: Giovanni Raboni risponde a Massimo Gallerani, «L‘indice dei libri del mese», a. III
1986, fasc. 3 (marzo) pp. 24-25, a p. 24, riportato in: Raboni, L‟opera poetica, cit., p. 1528.
(4) «La poesia di Raboni si dà e assai precocemente (…) come poesia in cui non il singolo testo, ma la
sequenza è da ritenersi l‘unità pertinente» (Zucco, Introduzione a Raboni, L‟Opera Poetica, cit., p. XXXIV).
(5) Per la quale si rinvia a Concetta Di Franza, «Cadenza d‟inganno» di Giovanni Raboni: saggio di edizione
critica e commentata, «Ermeneutica letteraria», a. I 2005, pp. 135-166.
(6) Gian Carlo Ferretti, Privato e pubblico in Raboni, «Rinascita», 3 ottobre 1975, n. 39, p. 29.
(7) «Già l‘incipit (…) proietta l‘episodio che vede protagonista il padre in una dimensione irreale e
raggelata» (Fabio Magro, Un luogo della verità umana. La poesia di Giovanni Raboni, Pasian di Prato,
Campanotto, 2008, p. 192).
(8) L‘immagine del film o della fotografia ricorre spesso in Raboni, quale metafora della memoria e mezzo
poetico di rappresentazione del passato (cfr. le foto di Inchiesta, in Cadenza d‟inganno), ma anche del
futuro escatologico come replica senza dolore della vita (cfr. la moviola di Dopo la vita cosa? ma altra vita,
in Quare tristis), ripresa in Si farà una gran fatica, qualcuno, in Barlumi di storia).
(9) «Bisogna confessare che ogni poesia converte i soggetti che tratta in anacronismi»: la citazione da
Goethe è posta a specifica epigrafe della seconda sezione dei Versi guerrieri e amorosi.
(10) Cfr. dai Versi guerrieri e amorosi: «e in un orrore alterno / cucire con il filo dell‘inferno / i brandelli di
insulse primavere» (Lo chiamavano, credo, fronte interno); «fin nella pace / dove promessa fervi» (Nel
pollaio di stracci); «a chi spiò dalla grata / dell‘emergenza il futuro» (Successe o non che dal fondo).
(11) Zucco, La prosa nell‟opera in versi di Raboni, cit., p. 138.
(12) «Si noti dunque l‘ordine costruttivo per cui dopo il testo di esordio si susseguono due sequenze
composte ognuna da una prosa e quattro poesie, più un testo finale di congedo» (Zucco, L‟opera poetica, cit.,
p. 1769).
(13) Il modello del tragitto è presente in: Partendo da Boulevard Berthier, Per una ragione improvvisa,
Piccola passeggiata trionfale, e nella parte finale de La mattina di Ferragosto mio padre.
(14) Per il clima repressivo di Cadenza d‟inganno e i mezzi stilistici cui si ricorre per esprimerlo, vd. C. Di
Franza, La poesia di Giovanni Raboni tra «Economia della paura» e «Strategia della tensione»: impegno
civile e politico in «Cadenza d‟inganno», in «Filologia e critica» , a. XXIX 2004, fasc. III pp. 378-418.
(15) Di «esplorazione delle possibilità espressive del discorso in prosa operato nel momento in cui si tenta la
stessa operazione con il metro chiuso» giustamente parla Zucco (La prosa nell‟opera in versi, cit., p. 129).
(16) Cfr. Zucco, Raboni, l‟opera poetica, cit., p 1685; Magro, Un luogo della verità umana, cit., p. 205.
89
RODOLFO ZUCCO
L’ALEA E L’INTENZIONE: «VERSI, NONVERSI E QUASIPROSE» DI EUGENIO DE
SIGNORIBUS
... un campionario di oggetti non identificati, a cavallo tra i
generi, coinvolti in un processo di ridefinizione della lingua
e delle sue forme che sembra reinterrogare radicalmente, e
insieme, sia la nostra idea della poesia sia la nostra idea
della prosa...
1.
Finisce con le parole in epigrafe la traccia che Italo Testa mi propone invitandomi a
contribuire al numero presente de «L‘Ulisse». Io penso che a questo campionario qualche scheda
possa venire dall‘indagine di alcune forme della scrittura di De Signoribus: quei nonversi e quelle
quasiprose che l‘autore accosta ai versi nelle Note dei suoi due libri più recenti.(1) Il primo dei due
neologismi(2) compare nella nota relativa alla sezione finale di Principio del giorno, Giornale,(3)
che trascrivo:
Giornale: composto prevalentemente in tre fasi: autunno ‘98, marzo e autunno ‘99. Alcuni frammenti (13, 14 e
parte del 18), scritti in precedenza e apparsi in Prose inermi (Grafiche Fioroni, 1998), erano nati come primo
nucleo del racconto. La varietà formale (versi e nonversi) rispetta la verità, il suono e il respiro, delle
situazioni.(4)
Recensendo quel libro, avevo parlato di un «incatenarsi di ―recitativi‖ e ―arie‖»(5) per dar conto
della costruzione della sequenza secondo due tipi – ma con l‘eccezione che si vedrà – di
aggregazione versale. Sono ancora convinto che l‘evocazione di quello che Folena ha chiamato il
«modulo melodrammatico»(6) abbia una sua efficacia descrittiva (trova appoggio, fra l‘altro, nella
ricorrenza del titolo aria nell‘opera di De Signoribus); ma più pertinente, forse, risulterà una
considerazione dell‘insieme come alternanza dei tipi strofici individuati da Coletti in un suo saggio
novecentesco.(7) Abbiamo dunque da una parte (a) testi che, dentro il tipo dei «componimenti
stroficamente non partiti», appartengono al sottotipo che, «contraddistinto dall‘imprevedibilità delle
variazioni (sia per lunghezza che per ordine dei versi), allude chiaramente a una non conclusività
formale del testo, alla sua frantumazione interna e alla sua dispersività complessiva». Interessa il
seguito immediato, perché Coletti vi fa menzione della «prosa»: «Da questa struttura il discorso
poetico sembra debolmente difeso, più esposto all‘―offesa‖ della prosa; tanto è vero che, spesso, ad
essa si contrappongono, molto abilmente, provvedimenti di bloccaggio, di delimitazione ritmicosintattica, come la rima in Montale, la sintassi in Cardarelli o le ripetizioni in Sereni». Dall‘altra
parte invece troviamo (b) componimenti «distinti in blocchi strofici», riferibili al sottotipo, questi,
che prevede «più strofe di ugual numero di versi». Dei ventiquattro membri della sequenza,
appartengono al tipo a i nn. 1-3, 6, 9-11, 14-15, 17-18, 20, 22-23;(8) al tipo b i nn. 4-5, 7-8, 12, 16,
19, 21, 24 (del caso del n. 13 tratterò poi). Il tipo di aggregazione strofica dominante è senz‘altro il
distico, ai nn. (fra parentesi il numero degli elementi) 4 (3), 5 (3), 7 (7), 12 (4), 19 (3), 21 (4), 24
(4); il n. 8 è in tre strofe esastiche, e il 16 in tre tetrastici. Mai la rima risponde a un disegno
precostituito, per darsi invece come libera interrelazione dei versi. Come esempio scelgo i
frammenti 18-19 (che, trovandosi affiancati a libro aperto, danno effettivamente l‘impressione di
un‘aria con recitativo):
18
quando la notte dilatandosi straluna
in un discorrere tutto interno a te
e nessuno più condivide il tuo linguaggio
90
e per qualche ora s‘annucca anche il più astuto
assassino..., ecco che il passo s‘infogna
e una minaccia invalicabile si mette di traverso...
allora, puntando sulla sorpresa, provi
a circoscrivere quel moto interiore...:
sospendi il respiro, affretti le più aderenti
parole, puntelli di sensi il suo vago perimetro...
ma il pensiero di potergli dare un nome
(– chi sei? chi c‘è dietro di te!?...–)
si sgretola all‘istante, come aggredito
da un vuoto doloroso...
e tutto rifluisce al di qua, in un indistinto
campo interminabile
19
ecco che nel sasso familiare
ci vorrebbe un‘oasi di sonno
più dei muri a sfoglia di cipolla
più del tramestìo d‘intorno e sopra
duole l‘assenza di un letto somigliante
un lenzuolo che sia come una colla. (9)
Versi gli uni e gli altri, non c‘è dubbio, ricordando per esempio una nota definizione di Agamben:
È un fatto sul quale non si rifletterà mai abbastanza che nessuna definizione del verso sia perfettamente
soddisfacente, tranne quella che ne certifica l‘identità rispetto alla prosa attraverso la possibilità
dell‘enjambement. Né la quantità, né il ritmo, né il numero delle sillabe – tutti elementi che possono occorrere
anche nella prosa – forniscono, da questo punto di vista, un discrimine sufficiente: ma è senz‘altro poesia quel
discorso in cui è possibile opporre un limite metrico a un limite sintattico (ogni verso in cui l‘enjambement non
è, attualmente, presente, sarà, allora, un verso con enjambement zero), prosa quel discorso in cui ciò non è
possibile.(10)
Con l‘enjambement, in effetti, il lettore del Giornale si confronta fin dall‘esordio, dove
l‘asincronismo metrico-sintattico si dà – con intensità diversa – ai vv. 2-3 (complemento in contrerejet), 5-6 (scissione di verbo e complemento oggetto), 7-8 (scissione di verbo servile e infinito), 89 (rejet del genitivo), 10-11 (scissione dell‘aggettivo dal suo complemento):
lo spazio non si confà alla sua biografia...
breve è il percorso della stanza: dopo un passo
sbatte contro il necessario, è già arrivato...
non può muoversi, né serve guardarsi intorno:
un pugno si gonfia all‘altezza del respiro e vive
una propria scorporata identità...
poco più in alto, si stacca un io che vuole
intendere la ragione di quel possesso, la direzione
di quella vita...
nei pressi, le multiformi nuvole sono indifferenti
al suo racconto... (11)
Perché, dunque, De Signoribus parla di nonversi per i testi del tipo a? La risposta, in prima analisi,
verrà dalla gestione complessiva degli istituti metrici: dunque – riprendendo in sostanza il Coletti
citato – dalla considerazione della presenza/assenza di isosillabismo, rima, stroficità. Già detto
sopra di quest‘ultima, ritornando ai frammenti 18 e 19 del Giornale si vedrà come nel primo
l‘escursione della misura versale vada dalle sei sillabe del verso finale alle diciassette del v. 6
(considerato l‘insieme, i limiti sono dati dai versi di tre e diciotto sillabe metriche), e che la rima
91
compare nelle forme dell‘epifora (a distanza di dieci versi: a te 2 : di te 12), della rima interna
(ancora a distanza di dieci versi: invalicabile 6 int. : interminabile 16) e della rima imperfetta
(aggredito 13 : indistinto 15). (Lo scrutinio degli altri esemplari non darà risultanze sostanzialmente
dissimili.) I versi del frammento 19 hanno dieci sillabe i primi quattro (leggibili tutti, col loro
accento di 5a, come endecasillabi acefali), dodici il quinto (di 4a7a), undici l‘ultimo (endecasillabo
di 3a6a7a). Nessuno dei sei versi risulta sciolto da una relazione rimica. La rima cipolla 3 : colla 6
suggella il testo, accompagnata dall‘assonanza con sfoglia, all‘interno dello stesso v. 3, e con sopra,
in chiusa del verso successivo. I versi iniziali del primo e del terzo distico si richiamano anche per
l‘assonanza (di due quadrisillabi, e fonicamente ricca) familiare : somigliante; sonno, al v. 2,
irrelato in punta di verso, innesca però la serie interna di assonanze continuata da intorno 4 e
lenzuolo 6. Chi trovasse poco convincente l‘esempio per l‘incidenza dei surrogati della rima perfetta
potrebbe vedere il frammento 21:
come un venuto da fuori che non sa
e a ogni passo crea la sua strada
ed insieme il suo sguardo si dilata
e tra i vuoti conosce il suo arrivare
l‘escavatore così nella sordina
ogni notte riprende ad affondare
le terre nere smuovono la china
e ogni smossa sentiero si fa. (12)
Qui tutti i versi sono in rima perfetta (1-8, a cornice; 4-6, in parallelo nei due distici centrali; 5-7, in
parallelo nei due distici finali) tranne i vv. 2-3, stretti dalla rima imperfetta (per il solo tratto della
sonorità/sordità della consonante) strada : dilata.(13) Senza negare l‘importanza dell‘isosillabismo
– e segnatamente, nei testi in distici, dell‘endecasillabo –, mi pare sia alla rima che occorra
attribuire una funzione discriminante. Riprenderò una proposta di Roberto Antonelli, secondo il
quale non da rythmus – come vuole l‘etimologia tradizionale – deriverebbe rima, ma
dal latino rima, ―fenditura‖, appunto, ―fessura‖ (con cui rimari, ―fendere, rompere‖, ―scavare, ricercare,
investigare‖, rimator ―ricercatore, indagatore‖ e rimula ―piccola fessura‖, sovrapponibile talvolta a rythmulus,
―versetto‖), sopravvissuta in numerosi derivati romanzi e soprattutto, per quel che qui ci riguarda, in opposizione
corrispondente e analogica a prosa (oratio): ovvero ―(discorso) dritto, che va avanti, che va in linea diretta‖.
Il discorso segnato dalla rima, dalla ―fessura‖ che interrompe la prosa oratio, sarebbe invece un discorso che
―torna indietro‖ (come del resto versus in Isidoro, Et. I, 39, 2-3 «quod revertitur») in quanto la rima obbliga,
marcando la fine, a re-iniziare.(14)
In due sensi, seguendo Antonelli, il discorso di De Signoribus in quelli che egli chiama versi appare
segnato dalla rima. Nel primo, esso è un discorso rimato secondo l‘accezione corrente: per la
frequenza della relazione dei versi sulla base della loro convergenza fonica a partire dall‘ultima
sillaba accentata. La rima fa sì che si svolga, qui, «organicamente un discorso altro», che si
manifesti «un potere di intensificazione linguistica, una pluralità di senso che può agire, per il
produttore e per l‘utente, sia a livello conscio che inconscio o subliminale (così come le ripetizioni e
i giochi fonici interni al verso, ma certamente ad un livello maggiore di formalizzazione e
comunicazione)».(15) Altra la situazione dei nonversi, dove «la rima, sparita come ripetizione di
suoni, permane però in quanto fenditura, spezzatura, segnata dallo spazio bianco tipografico o
investita e ricondotta quasi alle origini etimologiche».(16) Nel secondo, a esaltare il discorso dei
versi come «discorso ―che torna indietro‖», interviene la strutturazione strofica, anch‘essa – e con
quale suggestione iconica! – produttrice di fenditure o fessure che inducono, a ogni interruzione, un
nuovo inizio. È come se si alternassero, nel De Signoribus del Giornale, due poeti
dall‘atteggiamento fondamentalmente opposto. Il primo è un poeta ancora in qualche modo
partecipe di quella situazione prenovecentesca per cui la scrittura in versi si dà come hýsteron-
92
próteron, svolgendosi secondo «un tempo lento che dal punto di vista dell‘autore deve tornare dalla
rima su se stesso, a differenza della prosa, per poter poi essere recepito come lineare e continuo da
parte del lettore».(17) L‘altro poeta è invece un versoliberista moderno, la cui scrittura «non
comincia dalla fine» e nei cui testi «il ritmo […] non è scandito […] per strutture iterative
riconoscibili, salvo significative e assai interessanti eccezioni (dove la rima, come già in Leopardi, è
occultata o travestita)».(18) E dunque: l‘assetto strofico-versale «esposto all‘―offesa‖ della prosa»
(Coletti) e la natura profonda di discorso prosastico in quanto discorso «dritto, che va avanti»
(Antonelli) dei testi del gruppo a può ben giustificare, anche in presenza di una segmentazione che
induca a classificare queste linee tipografiche come versi (Agamben-Menichetti), una definizione
contrastiva come quella di nonversi.
2.
E tuttavia, la questione va ridiscussa a partire dal peculiare assetto del frammento 13, al
centro del Giornale: assetto diverso sia da quello dei versi che da quello dei nonversi. È infatti in
prosa: come denunciano, se non bastasse l‘allineamento delle linee tipografiche sia a destra che a
sinistra, le parole spezzate tra una linea e l‘altra (differente nelle due stampe in volume). La
divisione interna è in tre capoversi (il secondo inizia con «le più impegnative...», il terzo con
«Anche i nomi...»), segnalati dall‘accapo ma senza rientro a destra:
le lettere si presentano insieme affollando la testa...: a chi la prima?... e le altre, in quale ordine?...
le più impegnative perdono posizioni durante il dilemma... ogni nome infatti porta con sé un carico di sensazioni
che, sbilanciate da supposizioni e incertezze, finiscono col rimandarsi e poi col nascondersi...
anche i nomi delle lettere leggere, quelle che possono essere contentate da un giusto motto, si inerpicano per
viottoli e cugni, e da lassù osservano varie piste di veri e sensibili detti che corrono verso il bosco... e anche lui,
il potenziale epistolatore, disputando con se stesso, agitandosi per un verso e per l‘altro immobilizzandosi,
guarda il balbettio delle foglie nel folto fondo oscuro... (19)
Non interessa discutere qui dell‘appartenenza di questo testo al genere della «poesia in prosa» (nella
denominazione di Giovannetti),(20) ma accertare la natura prosastica di queste linee tipografiche in
ragione della non-pertinenza, alla lettura, del principio dell‘enjambement. E in effetti, come l‘autore
ricordava nella nota trascritta in apertura, questo è uno dei frammenti del Giornale provenienti da
una sequenza già data alle stampe come Prose inermi.(21) Qui la nostra prosa compare con titolo
(lettere), ultimo elemento (di cinque) della serie spostamenti e dell‘intera sequenza, senza altre
varianti che nella divisione in capoversi. (22) Ma come vanno le cose nel caso degli altri due testi
che il Giornale acquisisce dalle Prose inermi? Il frammento 14, secondo degli spostamenti, aveva
titolo (chissà) e presentava una divisione del continuum prosastico in due capoversi:
chissà se, dopo un tortuoso arrancare, si arriva a un punto di snodo in cui la vista può scorgere un luogo di chiara
sosta…
oppure, abbandonando la finestra, puntare sotto la propria porta, e scavare imbucarsi scurricolare fino a una
grotta… nei cui graffiti è sconosciuto il muro del pianto…(23)
Nel Giornale abbiamo sette versi, determinati – senza altre varianti –dall‘imposizione di sei accapo,
uno dei quali discende dall‘originaria divisione in capoversi:
chissà se, dopo un tortuoso arrancare, si arriva
a un punto di snodo in cui la vista
può scorgere un luogo di chiara sosta…
oppure, abbandonando la finestra, puntare sotto
la propria porta, e scavare imbucarsi scurricolare
fino a una grotta… nei cui graffiti è sconosciuto
il muro del pianto…(24)
Sottoposte a un tradizionale computo metrico, le sette linee risultano, nell‘ordine, un verso lungo di
quattordici sillabe, un decasillabo di 2a5a, un endecasillabo di 2a5a8a (dunque non canonico), due
versi di sedici sillabe (entrambi espansioni di endecasillabi, rispettivamente di 2 a6a e di 4a7a), un
93
verso di quattordici sillabe, un senario. Le linee sono allineate solo sul lato sinistro, ma il
protendersi – pur smarginato – di quattro di esse verso il lato destro della pagina suggerisce un
velocissimo test. Le righe di prosa del frammento 13 del Giornale («le lettere si presentano
insieme...»), misurate nella stampa della prima edizione in volume, sono di 89 mm. Traccio dunque
a matita una riga verticale a questa stessa distanza dall‘inizio del margine della stampa a sinistra e
verifico che le linee dalla quarta alla sesta arrivano a lambire la riga. Se copro con una cartolina le
prime tre linee, questa parte del testo non ha un aspetto troppo diverso dal corrispondente capoverso
in prosa. Non così nella prima parte, dove la seconda linea si ferma a 27 mm dalla mia riga. Il caso
della prima linea è più problematico, perché i 5 mm residui potrebbero contenere, dopo «arriva», la
preposizione «a», ma non «a un» né, evidentemente, «a un punto». Quanto alla terza, essa lascia un
bianco residuo di 18 mm, ma la sua fine coincide – come ho detto – con la fine dell‘originario
primo capoverso. E dunque: è possibile che la segmentazione delle linee 4-6, e forse anche della
prima, sia stata indotta, o suggerita – con qualche concessione all‘alea che ha fissato i margini dello
specchio di stampa – dalla disponibilità materiale di spazio? In che misura, in altre parole, è
pertinente, qui, il concetto di enjambement? Una risposta può venire dal confronto di questa
redazione con quella nelle Poesie. Ebbene, qui la stampa può estendersi per 90 mm; il che significa
che, mutato il corpo del carattere (ora più piccolo), la distribuzione del materiale tipografico nelle
diverse linee sarebbe potuta essere anche sensibilmente diversa. È, invece, esattamente la stessa; il
che però, se non lascia dubbio sull‘intenzionalità di questa segmentazione, non ci fa escludere che
l‘intenzione possa essere intervenuta come approvazione o sanzione di un evento esterno che si è
dato, inizialmente, come aleatorio. Può essere questo (anche questo) il significato di nonversi?
Saremmo allora di fronte all‘individuazione di un‘unità intermedia tra il verso (determinato
intenzionalmente) e la riga di prosa (determinata aleatoriamente); cosicché verrebbe meno
un‘opposizione binaria di verso e prosa, e lo stesso concetto di enjambement dovrebbe essere
radicalmente discusso. Comporterebbe, questa soluzione, che le denominazioni versi e nonversi non
sarebbero sovrapponibili ai tipi di organizzazione testuali chiamati sopra, rispettivamente, b e a, ma
individuerebbero possibilità di segmentazioni di diverso valore anche all‘interno dello stesso tipo a.
Nel frammento 14, per esempio, sarebbero nonversi le linee 1 e 4-6, versi le linee 2-3, e rimarrebbe
incerto lo status della linea finale. Certo è che la segmentazione del testo in esame, pur ribadita da
una ristampa che la ripropone identica, si lascia scoprire come non-definitiva quando il lettore di De
Signoribus incontra in Ronda dei conversi, prima del Congedo, la poesia intitolata Ultima (che
trascrivo mutando in tondo il corsivo originale):
chissà se, dopo un tortuoso arrancare, si arriva
a un punto di snodo da cui la vista può scorgere
un luogo di chiara sosta…
oppure, abbandonata la finestra, puntare sotto
la propria porta, e scavare scansare imbucarsi
scurricolare fino a una grotta… nei cui graffiti
è sconosciuto il muro del pianto…(25)
Con poche varianti – «in cui la vista» > «da cui la v.», «abbandonando la finestra» > «abbandonata
la f.», «scavare imbucarsi» > «scavare scansare imbucarsi» – Ultima è una nuova trascrizione
dell‘originaria prosa (chissà).(26) Rispetto al testo del Giornale risulta confermata la composizione
delle linee 1 e 4 (ma, ancora, mancherebbe lo spazio per anticipare alle linee precedenti «a un
pianto» e «la propria porta»). A sorpresa, è diversa la segmentazione delle linee 2-3, che nella prima
redazione non appariva suggerita da ragioni esterne, materiali; ed è un assetto che occulta la
sensibilissima consonanza vista : sosta. Si conferma l‘accapo che deriva dall‘originaria divisione in
capoversi, mentre nella segmentazione delle linee 5-7 pare avere un ruolo decisivo l‘inserzione di
un nuovo infinito. Vedo infatti che lo spazio non è sufficiente per la collocazione di «scurricolare»
in chiusura della linea 5, e che lo stesso vale per il predicato «è sconosciuto» in chiusura della linea
6. Anche questo assetto è confermato nelle Poesie, che si trovano così a ospitare le due redazioni.
Da tutto ciò mi pare si possa ricavare l‘idea di un testo che ha un solo punto indiscutibilmente
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fermo: la bipartizione, con inizio della seconda parte sulla parola «Oppure»; un testo, cioè, che
conferma nella diversa possibilità di distribuzione del materiale lessicale nelle linee tipografiche la
segmentazione della prosa che l‘ha originato.
3.
Qualche altra suggestione potrà venire dal frammento 23 del Giornale:
nella landa sull‘alba, un lampo di mezzosogno:
sono sopra una rupe, su un alto sanatorio...
assente ogni vita, immane il silenzio...
se mi affaccio rabbrividisco...: in basso
le cicatrici delle valli, tutt‘intorno – ma distanti –
le svettanti creste a corona...,
esposto sulla finestrella, fatico a respirare,
desidero un polmone di piuma...
non conosco l‘oltre di quelle punte smeriglie,
temo la vista dell‘aquila, m‘infagotto e attendo...
finché qualcuno mi sorprende alle spalle,
mi stacca e sospende nel vuoto...
il vuoto è un frammezzo dove non posso nulla,
mi abbandono... e fido nella sua resistenza
e bontà.
Qui i versi tendono alla situazione dell‘«enjambement zero» (Agamben): i soli punti di
asincronismo metrico-sintattico sono ai vv. 4-5 (anticipazione – scarsamente marcata – del
complemento di luogo) e ai vv. 14-15 (rottura della dittologia nominale sindetica). Per il resto, non
solo è assente l‘enjambement, ma tutti i versi si concludono con una pausa interpuntiva. La natura di
verso sintattico(27) ci allontana anch‘essa – sia pure diversamente dalla determinazione paraaleatoria, forse, di alcune linee esaminate in precedenza – dalla natura versale esibita
dall‘enjambement. Ora, l‘origine prosastica – sia o non sia documentabile – di un determinato luogo
poetico può certo inerzialmente o aleatoriamente indurre una certa scelta di segmentazione, ma non
annulla, è evidente, la libertà dell‘artefice. Prendiamo come esempio due versi del frammento 18,
che a partire dal v. 7 (da «puntando sulla sorpresa...») trascrive con qualche variante il quarto degli
spostamenti, (la prova).(28) Dall‘incipit della prosa, «puntando sulla sorpresa, prova a circoscrivere
il moto interiore...», De Signoribus ha ricavato
allora, puntando sulla sorpresa, provi
a circoscrivere quel moto interiore...
La larghezza dello specchio non avrebbe reso possibile, è vero,
*allora, puntando sulla sorpresa, provi a circoscrivere
quel moto interiore...;
ma era pur sempre praticabile l‘appoggio delle unità metriche sulle pause sintattiche:
*allora, puntando sulla sorpresa,
provi a circoscrivere quel moto interiore...
Ciò conferma la natura di enjambement di questo taglio, e di conseguenza ci fa giudicare come
pienamente versale lo status formale di questo luogo. Pare insomma che nei testi del tipo a, non
intervenendo in alcun modo come fattore produttivo di accapo la lunghezza sillabica delle linee, ad
agire siano tre fattori diversi, e cioè: la quantità di spazio disponibile nel senso orizzontale della
pagina; la volontà di marcare il discorso come poesia con la libera determinazione di accapo che si
configurino come enjambements; la coincidenza delle linee con segmenti del discorso
sintatticamente definiti. L‘artefice si troverebbe, allora, nella condizione di poter accettare l‘alea
dell‘accapo determinato dallo spazio disponibile, ma anche di respingerla, decidendo allora per una
95
diversa – intenzionale – forma dell‘asincronismo metrico-sintattico, oppure affidando alle partizioni
della sintassi la segmentazione delle linee.
4.
La prevalenza di uno o di un altro di questi fattori o valori determinativi varierà nei diversi
luoghi del testo; può variare però – come si è già visto – anche in diacronia. In particolare, la
pressione di un verso ―sintattico‖ si può seguire bene in un‘altra trafila variantistica. Siamo ora nella
prima sezione di Ronda dei conversi, Nel passaggio del millennio. Sono sette testi anticipati sulla
rivista «Po&sie», dove l‘originale italiano accompagna, seguendola in corpo minore, la traduzione
francese di Martin Rueff.(29) Il quinto elemento della serie si compone qui di due capoversi in
prosa:
eppure è un batticuore continuare nel 2, un blocco del respiro, uno sbocco di pianto. Riavvolgersi nel nastro per
cercare una sosta, si rischia di non fermarsi più... Esita pure il fotogramma vitale. Tutto è la luce del dopo.
Dunque non ho risposto alla tua chiamata, non ho bussato alla tua porta... ma tu, mi hai chiamato davvero,
davvero m‘avresti aperto?
Chiunque può dire: non avevo altra strada e in quella ho incontrato chi ho potuto!... Ma quanta fraternità dispersa
per un nulla, quanto nulla ci ha invaso lasciandoci sugli alberi, spogli e lontani!...
Come gli altri testi della sequenza, «eppure è un batticuore...» è accolto in Ronda dei conversi come
serie di linee tipografiche tendenzialmente lunghe, allineate sul margine sinistro e sfrangiate invece
sul destro; e nella stessa redazione si legge nelle Poesie:
eppure è un batticuore continuare nel 2, un blocco
del respiro, uno sbocco di pianto... A riavvolgersi nel
nastro per cercare un‘identità, si rischia di non
fermarsi più... Esita pure il fotogramma vitale... Tutto è
alla luce del dopo.
Dunque non ho risposto alla tua chiamata, non ho
bussato alla tua porta?... ma tu, mi hai chiamato
davvero?... davvero m‘avresti aperto?...
Chiunque può dire: non avevo altra strada e in quella ho
incontrato chi ho potuto!...
Ma quanta fraternità dispersa per un passo o un nulla,
quanto nulla ci ha invaso lasciandoci sugli alberi,
spogli e lontani!... (30)
Non c‘è dubbio sulla volontà di segnare tre soste del discorso (tre rime) con gli accapo delle linee 6,
9 (a ripresa dell‘accapo prosastico) e 11. Qualche incertezza, invece, sorge sulla natura di tutte le
altre segmentazioni. E in effetti, quando il testo torna a essere pubblicato in Francia, nella
traduzione integrale di Ronda dei conversi, esso conserva quei tre accapo («Dunque non ho
risposto...», «Chiunque può dire...», «Ma quanta fraternità...»), mentre gli altri – con una sola
eccezione – sezionano l‘insieme in maniera diversa, tanto che le linee non sono più tredici ma
undici:
eppure è un batticuore continuare nel 2, un blocco del
respiro, uno sbocco di pianto... A riavvolgersi nel nastro per
cercare un‘identità, si rischia di non fermarsi più... Esita
pure il fotogramma vitale... Tutto è alla luce del dopo.
Dunque non ho risposto alla tua chiamata, non ho bussato
alla tua porta?... ma tu, mi hai chiamato davvero?...
davvero m‘avresti aperto?...
Chiunque può dire: non avevo altra strada e in quella ho
incontrato chi ho potuto!...
Ma quanta fraternità dispersa per un nulla, quanto nulla ci
ha invaso lasciandoci sugli alberi, spogli e lontani!... (31)
96
Siamo confermati così nel sospetto della natura aleatoria di tutti gli accapo estranei alla
quadripartizione del testo. L‘allineamento a sinistra delle righe tipografiche non intende dunque
segnalare una natura versale, ma piuttosto marcare, in negativo, la non-identificazione con un
assetto prosastico. Ma non finisce qui. De Signoribus mi anticipa (è il dicembre del 2009) che in
una futura edizione delle Poesie «eppure è un batticuore...» si leggerà in una quarta redazione,
questa:
eppure è un batticuore continuare nel 2, un blocco
del respiro, uno sbocco di pianto...
A riavvolgersi nel nastro per cercare un‘identità,
si rischia di non fermarsi più...
Esita pure il fotogramma vitale...
Tutto è alla luce del dopo.
Dunque non ho risposto alla tua chiamata, non ho
bussato alla tua porta?... ma tu, mi hai chiamato
davvero?... davvero m‘avresti aperto?...
Chiunque può dire: non avevo altra strada e in quella
ho incontrato chi ho potuto!...
Ma quanta fraternità dispersa per un passo o un nulla,
quanto nulla ci ha invaso lasciandoci sugli alberi,
spogli e lontani!...
È chiaro che questa nuova scansione, di quattordici linee, tende a far coincidere gli accapo con le
pause della sintassi. Il risultato è che le residue rotture del sincronismo metrico-sintattico,
emergendo nella loro totale intenzionalità (notevolissima per funzione iconica, in particolare, la
scissione di nome e genitivo in apertura), assumono senza incertezze il valore di enjambements, e
segnano l‘appartenenza del testo al campo della poesia.
5.
Ma Ronda dei conversi, come anticipato in apertura di queste pagine, è un percorso «di
versi, nonversi e quasiprose».(32) Quale significato dare al termine quasiprosa? Le risposte
possibili mi sembrano due:
I) Quasiprosa può essere inteso come riferimento a qualcosa di diverso dai testi per i quali si
parla di nonversi, e cioè alle poesie in prosa: testi che l‘impaginazione fa catalogare come prosastici
per l‘allineamento sia a sinistra che a destra delle linee di stampa. Rientrerebbero in questo tipo il
frammento 13 del Giornale («le lettere si presentano insieme...») e, in Istmi e chiuse, (trapasso di
stagione):(33) una breve prosa (undici righe nella prima stampa in volume, nove nelle Poesie) che,
come il frammento 13, De Signoribus ricava da un testo precedente, di natura saggisticorievocativa.(34) Ronda dei conversi aggiunge due esemplari: il quarto elemento di Nel passaggio
del millennio («chi potrò ringraziare...») e La voce remota. Il primo si compone di due capoversi,
che nelle pagine della Ronda e delle Poesie (con identica distribuzione del materiale lessicale)
prendono rispettivamente una e quattro righe (le segno con le sbarrette oblique):
chi potrò ringraziare d‘essere giunto alla fine dell‘1?...
c‘è un elemento di fuoco prima di ogni coscienza, un / marchio indistinto e illeggibile... la sua forma dolorosa /
dal profondo dice: mi sentirai anche nell‘ovatta e nel gelo, nel / clamore e nella polvere... andrai avanti per
questo.(35)
Va tenuto presente però che diversa è l‘impaginazione nell‘edizione francese:
chi potrò ringraziare d‘essere giunto alla fine dell‘1?... L‘ho
voluto...
c‘è un elemento di fuoco prima di ogni coscienza, un
marchio indistinto e illeggibile..., la sua forma dolorosa dal
profondo dice: mi sentirai nell‘ovatta e nel gelo, nel
clamore e nella polvere... andrai avanti per questo;(36)
97
e che la redazione futura – nelle intenzioni attuali del poeta – avrà una scansione senz‘altro
sintattica (e nella direzione del verso biblico-whitmaniano, con parallelismus membrorum) delle
linee:
chi potrò ringraziare d‘essere giunto alla fine dell‘1?...
c‘è un elemento di fuoco prima di ogni coscienza,
un marchio indistinto e illeggibile...
la sua forma dolorosa dal profondo dice:
mi sentirai nell‘ovatta e nel gelo,
nel clamore e nella polvere...
andrai avanti per questo.
La voce remota aggrega tre capoversi prosastici, cui segue però – evidenziato dal marcato rientro a
sinistra – un segmento conclusivo «di ragione epodica»(37) e natura francamente – per contrasto –
poetica:
strappo dopo strappo... ma, infine, per un impercettibile / stacco, si sgrana l‘interna vena e agita tutta la pianta
del / corpo, l‘aggruma, la secca...
s‘incassano i rami nel pettorale e lì s‘incrocia e si strazia il / rimanente sacrificio...
al suo strabocco, fa scudo la rinascente, remota, voce tra / la sponda del letto e il muro bianco
– salvami, o tu, ti prego –.(38)
In un caso e nell‘altro – il particolare forse non è indifferente – l‘allineamento a sinistra delle righe
tipografiche non prevede la spezzatura dell‘unità lessicale tra una riga e l‘altra.
II) Giusta questa ipotesi, andrebbe classificato come quasiprosa uno dei testi della sequenza
Quadri della penitenza, che De Signoribus ha pubblicato in rivista nel 2002 (la data è intermedia tra
le uscite di Principio del giorno e Ronda dei conversi).(39) Invece, nella nota introduttiva, il poeta
esordisce ricordando che «i versi e i non versi [sic] della sequenza sono stati scritti in tempi
recenti»; e non è dubbio che sia «vista da un‟estrema finestra...» il referente degli annunciati non
versi. Sono tre capoversi prosastici (anche con spezzatura delle unità lessicali) che nella prima
stampa prendono sette righe i due liminari, una sola riga quello centrale:
vista da un‘estrema finestra, la piazza si angola e aguzza... e il palazzo, a cui fa da corona, sembra, a sua volta,
ripiegarsi all‘indietro, come se, all‘avanzare dei passi, volesse retrocedere...: essa, l‘anticabella, è stata rigenerata
e quindi resa deserta..., separata dal corpo del mondo prima da larghe fioriere poi da blocchi di marmo e dietro
da alte cancellate e a ridosso da scure figure armate e mascherate...
vedi in quella nobile piazza qualcosa di tuo...?
da un‘aria irreale di un tramonto rappreso di sangue vi arrivano uomini curvi e felini come i profili dei predatori:
tre alle ali, due alla testa e due alla coda..., in mezzo, uno da loro non diverso, all‘apparenza un po‘ più articolato,
con il collo semovente e lo sguardo più obliquo...: egli, il protetto, è il provvidente, colui che pensa per la sua
brava gente, il sacro bove o il sacro boia che ogni luogo sfa...
Nonversi e quasiprose sarebbero dunque sinonimi? O a questa data De Signoribus non ha ancora
trovato il termine quasiprosa, e unifica sotto nonversi, indistintamente, ciò che non rientra nei
versi? Si potrebbe pensare, allora, che con la disponibilità del nuovo termine, e cioè a partire da
Ronda dei conversi, la distinzione non sia qualitativa ma quantitativa, e derivi – dal punto di vista
dell‘artefice – dalla variabile incidenza di alea e intenzione nel determinare la composizione delle
linee tipografiche. Ciò lascia – anche dal punto di vista del lettore – margini di incertezza piuttosto
ampi. E tuttavia, è chiaro che due poesie che si leggono in Ronda dei conversi l‘una a fronte
dell‘altra, Delirio-Idillio e Andare, pur formalmente assimilabili per la comune opposizione ai versi
di quel libro, appaiono nel contempo – già all‘impressione visiva – diverse:
Delirio-Idillio
in chi imbattersi può mai un martire domestico?...
Su e giù per le scale è il viale, il buio sottoscala è il
98
burrone, sul tetto si attanaglia il piccione azzoppato...
Giù, la pipinara bersaglia, scalcia con mosse e finte, con
spinte e pianti...
Potessi tu entrare, altrocuore, nel portone, per sbaglio
o per riparo... potessi stare lì, un istante!...
egli farebbe quattro rampe di scale in quattro salti...
e lì atterrerebbe, davanti alla tua vesticciola di mela...
Poi non saprebbe dirti perché è al mondo;(40)
Andare
scese dalla corriera con una pesante valigia scura...
nello slargo non c‘era altro che un‘alta neve, che
occultando, infiniva...:
verso dove il luogo della formazione?
alle spalle, le mura della città in difesa; davanti,
l‘aperto...
una stretta strada di fango, il passo inospitale tra il bianco
che anneriva...
annottava...
l‘altrove penetrava in lui nel respiro affannoso della
volontà.(41)
In Delirio-Idillio la partizione fondamentale è data dalle unità sintattiche che occupano le linee 1
(A), 2-3 (B), 4-5 (C), 6-7 (D), 8-9 (E), 10 (F), in un disegno simmetrico che colloca le due frasi più
brevi – A, F – all‘inizio e alla fine.(42) La distribuzione del materiale lessicale delle frasi estese su
due linee sembra accettare l‘alea del margine destro in B e in C (con sospensione in fine linea
dell‘articolo e della preposizione);(43) si modella sulla bipartizione in due coordinate in E; sceglie
l‘asincronismo metrico-sintattico – ma evitando l‘esposizione della congiunzione «o»,
materialmente sostenibile – in D. Anche in Andare, che ho trascritto dalle Poesie, la partizione è in
prima istanza sintattica: 1 (A), 2-3 (B), 4 (C), 5-6 (D), 7-8 (E), 9 (F), 10-11 (G). Tuttavia, un ruolo
più incisivo pare avere qui l‘intenzionalità, in almeno tre luoghi. In D, che nella prima edizione in
volume si distendeva su un‘unica linea, l‘emarginazione de «l‘aperto» a nuova linea risponde forse
alla volontà di una suggestione iconica. In E l‘isolamento della relativa nella seconda linea rafforza
il parallelismo dell‘imperfetto «anneriva» con il successivo «annottava» e con il precedente
«infiniva» (si tenga presente che, secondo una dichiarazione dell‘autore, è la mancanza di spazio
tipografico a determinare una scansione che sarebbe dovuta essere, al meglio, «nello slargo non
c‘era altro che un‘alta neve, che, occultando, / infiniva»; insieme, si consideri che con «bianco» la
linea arriva a coprire interamente i 90 mm disponibili, il che rende impossibile, per ipotesi, *«[...]
tra il bianco che / anneriva»). In G, la scelta di separare il nome dalla preposizione articolata (contro
*«l‘altrove penetrava in lui nel respiro affannoso / della volontà») porta all‘incolonnamento di tre
quadrisillabi («che anneriva» : «annottava» : «volontà»), al termine di una serie che comprende, a
ritroso, il trisillabo «l‘aperto» e un primo quadrisillabo, «infiniva», parte di un settenario ma ben
definito dalle pause della sintassi.(44)
Difficile andar oltre, e non troppo produttivo tentare una rubricazione stretta tra nonversi e
quasiprose di tutti i testi di Ronda dei conversi che non rientrano tra i versi (sono, con quelli della
sequenza Nel passaggio del millennio e gli altri già nominati, È vero, Paesaggio, Altro paesaggio,
Dialogo, Il terzo occhio, Teatro spento, Oltre). Andrà registrato invece, con la Ronda, un fatto
nuovo. Ecco Quesito del decano:
se rmanéme tutti ècche
a vardacce tèste a tèste
e la lengue ncé se sècche
pò la face facce fèste?...
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se restiamo tutti qui
a guardarci testa a testa
se la lingua non ci si secca
può la falce farci festa?...
(a quella domanda, tutti guardano il decano con
afflizione... solo uno in lui riconosce il vecchio che
sedeva, con la stessa ossessione, tra i vecchi di via
Sabotino, cinquanta anni prima).(45)
Non si tratta dell‘accostamento strofico di testo dialettale e traduzione italiana (l‘edizione francese
le compone l‘una a fronte dell‘altra, e le neutralizza nella traduzione),(46) ma della possibilità che i
versi e l‘altro dai versi convivano sotto lo stesso titolo. Poco importa se le ultime quattro righe
siano dei nonversi o una quasiprosa (come mi pare andrebbero classificate),(47) perché il fatto
fondamentale è il rapporto dialettico che si stabilisce con la quartina di ottonari a due rime alternate.
Il percorso di De Signoribus ha portato così, nel punto più avanzato di questa ricerca formale, alla
reviviscenza di una forma antica e gloriosa, quella della cantata.
Poscritto
L‘interlocuzione con Eugenio De Signoribus durante la stesura di queste pagine mi ha permesso –
lo si è visto – di dare notizia delle diverse redazioni che alcuni testi di Ronda dei conversi avranno
in un‘eventuale nuova edizione dell‘«Elefante» garzantiano con le Poesie (1976-2007). A lavori
ultimati, invio una stampa del saggio a De Signoribus, che mi risponde il 28 dicembre con la lettera
che trascrivo (il cui explicit – è opportuno segnalarlo – riprende un verso di Prima dell‟alfabeto, in
Ronda dei conversi).(48)
Caro Rodolfo,
forse è necessario che provi a spiegare le mie intenzioni in merito alle secche quanto
impulsive note da me apposte in Principio del giorno (2000) e Ronda dei conversi (2005). Nel
primo caso, avevo riferito di «versi e nonversi» pensando esclusivamente alla sequenza titolata
Giornale, dove in effetti, nell‘avvicendarsi degli uni e degli altri, solo un testo rimaneva ―fuori‖
(frammento 13), da sé o a vista qualificandosi come prosa. Era però la conseguenza d‘una mia
incertezza, protrattasi fino al momento della consegna all‘Editore della stesura finale. In realtà,
avevo in mente di sistemare le parole in modo che non andassero a spezzarsi sulla linea destra, di
rimandarle a quella successiva laddove una pausa, magari lo spazio d‘una virgola, l‘avesse
concesso. Così facendo, non avrei però cambiato lo stato del testo: si sarebbe appena scostato da
una ―prosa poetica‖ (espressione che, di fatto, può contenere ogni scritto che non sia in versi – e
quindi anche i «nonversi» e il poco che resta prima del più compatto corpo della prosa).
La sensazione di una terza possibilità si è conclamata alla rilettura di Ronda dei conversi, quando
ho avvertito l‘esigenza (o forse un eccesso di scrupolo se non un‘allucinazione sonora) di chiamarla
«quasiprosa», senza ragionare sulla base di istituti metrici o teorie che non possono appartenermi.
Avrei forse fatto meglio a far finta di niente... ma non ho potuto, perché tutto il discorso-percorso,
passo su passo, poggiava su punti di verità, percettiva, psichica. La ―natura‖ di una poesia (il suo
suono, l‘ampiezza del suo respiro) è già nella sua nascita.
Provo a spiegarmi: un marcato sentire produce un quadro emotivo complesso, da cui scatta
un‘immagine, o un pensiero che, nella sua prima piega, trova un appunto, l‘inizio di qualcosa che va
a prendere forma... In quest‘inizio è già il suo suono. Si avverte cioè un ritmo e il suo protrarsi, per
poche o più parole; si avverte la necessità d‘una pausa (a volte appena percepibile se non confusa)
che vuole l‘accapo, da sé il da dire si situa sulla linea dove il senso, quel senso, si dipana in sillabe.
100
Dove forse una rima viene naturale, sulla scia della prima uscita… o forse no. Ma lo schema che
resta sulla pagina dice sommariamente già di sé, o di quello che forse potrà essere.
Solo a quel punto avviene l‘autochiarimento, la verifica di quanto, quell‘annotazione,
corrisponda a ―quel sentire‖. Poi la cerca delle soluzioni possibili per l‘avvicinamento, l‘attesa, a
volte il rimando, la ripresa o l‘abbandono. È la fase dell‘officina, che, pur nell‘applicazione ad
accomodare un verso o una poesia, mai tradirà il punto di verità della sua nascita. Piuttosto niente, o
scarti di luce da conservare.
La poesia, che così va a formarsi, dovrebbe contenere l‘emozione che l‘ha generata, il suo
dibattersi di verso in verso: non conclamare la sua necessità ma puntellarne il senso, il suo
procedere («a ogni passo crea la sua strada», come si dice nel frammento 21 di Principio del
giorno), seppure incerto, senza fine. Dovrebbe contenere un‘eco della battaglia o della traversata
dentro l‘interno sé... e, a fronte del buio, del non ancora possibile detto, dovrebbe passare nello
spazio dell‘ascoltatore, muovere una condivisione, un aiuto...
Quando il primo sentire (un grande dolore, un‘insopportabile ingiustizia o uno sguardo sul vasto
mondo o natura) necessita subito del ―racconto‖, della descrizione del quadro o di un dettaglio,
dell‘articolazione d‘un pensiero, la parola che inizia porta con sé tutto il resto. Il grumo verbale che,
forse, si scioglie, non considera più l‘ordine sillabico o sonoro come autorevole per il punto di
svolta: l‘accapo è qualcosa che si può fare seguendo al meglio il respiro e che si può aggiustare in
un secondo momento.
La lingua però mantiene l‘insita tensione e, come sempre, cerca di corrisponderle alla lettera,
senza deroghe o supplenze… Il testo che così va a disporsi, con righe scomponibili che possono
lambire il margine o stringersi in una battuta, è quello che dovrebbe giustificare l‘espressione
«nonversi».
Ma non si distanzia di molto la giustificazione di «quasiprose». Forse è una sfumatura, forse due.
C‘è quella di non frangere la parola contro la gabbia della pagina, non per un gusto solo estetico ma
per seguire anche qui la scelta di un accapo. Quando, all‘apparenza, non s‘avverte la necessità della
scomposizione e il più ampio flusso verbale pare non contempli una benché minima sosta, né il
bianco prima del margine: questo c‘è, per il fatto stesso che il testo è nato per rispondere a uno
stigma poetico; perché può intervenire lo scatto sonoro d‘un frammezzo o quello di una chiusa. C‘è,
basta riavvolgere il nastro e riascoltare la propria voce interiore… Al di qua delle proprie
dissonanze e incertezze, al di qua della volontà, prima della verità
Eugenio
Rodolfo Zucco
Note.
(1) E. De Signoribus, Principio del giorno, Milano, Garzanti (nella collana ―verde‖ «poesia»), 2000 (che
citerò anche nella sigla PG); Id., Ronda dei conversi (1999-2004), Milano, Garzanti («poesia»), 2005 (RC).
Entrambi i libri si leggono anche in Id., Poesie (1976-2007), Milano, Garzanti («gli elefanti poesia»), 2008
(P).
(2) Non conosco altre attestazioni della parola nonversi con scrizione continua; ma trovo non-versi – con
diverso significato – in P. Giovannetti, Al ritmo dell‟ossimoro. Note sulla poesia in prosa, in Id., Dalla
poesia in prosa al rap. Tradizioni e canoni metrici nella poesia italiana contemporanea, Novara, Interlinea,
2008, pp. 19-45, a p. 21 (dove si dice della «comprensione quasi spontanea dei non-versi, poniamo, di
Sbarbaro e di Campana» da parte di Montale).
(3) PG, pp. 123-148; P, pp. 451-476.
(4) PG, p. 151; P, pp. 478-479.
(5) «Diario della settimana», V, 26, 30 giugno - 6 luglio 2000, p. 62 (con titolo Aspettando la grazia).
(6) G. Folena, La cantata e Vivaldi, in Id., L‟italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento,
Torino, Einaudi, 1983, pp. 262-281, a p. 266.
101
(7) V. Coletti, Metro e perimetro della poesia nel Novecento, in Id., Italiano d‟autore. Saggi di lingua e
letteratura del Novecento, Genova, Marietti, 1989, pp. 99-106; i passi citati di seguito sono alle pp. 103-104.
(8) Si noti che il frammento 9, stroficamente partito in due lasse nella redazione delle Poesie (p. 461), era un
blocco indiviso di versi nella prima edizione di Principio del giorno (p. 133).
(9) PG, pp. 142-143; P, pp. 470-471.
(10) G. Agamben, Idea della prosa, in Id., Idea della prosa, Milano, Feltrinelli, 1985, pp. 21-23, a p. 21. In
termini analoghi si era espresso A. Menichetti, Problemi della metrica, in Letteratura italiana, vol. III: Le
forme del testo, t. I: Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 349-390, a p. 352: «A livello minimale il
dato che più invariabilmente configura come non-prosa parte della produzione letteraria latina e italiana è
dunque la segmentazione: ciò vuol dire che, a differenza dei prosastici, i testi in versi sono stati costruiti e si
presentano suddivisi in segmenti oggettivamente riconoscibili (per lo più contrassegnati dall‘a capo), la cui
coincidenza con le pausazioni logico-sintattiche ed emotive del discorso non è né obbligatoria né, là ove si
verifichi, pertinente ai fini della specificità metrica».
(11) PG, p. 125; P, p. 453.
(12) PG, p. 145; P, p. 473.
(13) Devo rinviare, per una trattazione generale, al mio Per uno studio della rima in De Signoribus:
„Principio del giorno‟, «Studi novecenteschi», XXIX, 63-64, giugno-dicembre 2002, pp. 339-361.
(14) R. Antonelli, Tempo testuale e tempo rimico. Costruzione del testo e critica nella poesia rimata,
«Critica del testo», I/1, 1998 (Il testo e il tempo), pp. 177-201, a p. 196. Cfr. V. Magrelli, Su „Ora serrata
retinae‟ e altra poesia, in Preparar parole. Conversazioni sulla poesia, Firenze, Risma, 1992, pp. 9-23, a p.
18: «Quando l‘editore mi ha chiesto un titolo per il primo libro, mi sono messo a cercare in un testo
universitario, un trattato sull‘occhio – io che non so niente di medicina – a caccia di suoni, di parole, finché
ho trovato questi tre titoli: Rima palpebralis – che è la fessura dell‘occhio, ―rima‖ vuol dire fessura, mi
piaceva questo gioco di parole tra la rima e la fessura –; Aequator lentis [...], e poi il titolo vero e proprio, che
sembra una preghiera: Ora serrata retinae». Cfr. anche, per una discussione sul valore dei latini rima e rimor
nell‘esercizio della lettura silenziosa – a partire dall‘agostiniano (Conf. VI, 3, 3), riferito ad Ambrogio, «cum
legebat, oculi ducebantur per paginas et cor intellectum rimabatur» –, M. Tasinato, L‟occhio del silenzio
(Encomio della lettura), Venezia, Arsenale, 1986. In relazione alla proposta di Antonelli, segnalo l‘accezione
di rima che l‘autrice riporta dal Forcellini (s.v. rima), a p. 18: «―rimam aliquam reperire dicitur de
tergiversatoribus‖ ossia di coloro che trovan modo d‘uscir d‘impaccio volgendo le terga (―tergiversor
proprie est tergum obvertere et subterfugere‖)».
(15) R. Antonelli, Tempo testuale e tempo rimico, cit., p. 193.
(16) Ivi, p. 198. Il passo continua specificando: «se l‘ipotesi appena formulata è vera».
(17) Ivi, pp. 189-190.
(18) Ivi, p. 198.
(19) PG, p. 137; P, p. 465.
(20) Cfr. P. Giovannetti, Al ritmo dell‟ossimoro. Note sulla poesia in prosa, cit.
(21) E. De Signoribus, Prose inermi, incisioni di: R. Guerra, N. Ricci, C. Bruzzesi… [et al.], Casette d‘Ete
(AP), Grafiche Fioroni, 1998; poi (senza mutamenti nella composizione tipografica) in Segni verso uno.
Eugenio De Signoribus, „Ariette occidentali‟ Ŕ „Prose inermi‟, accompagnate da 29 incisioni, Casette d‘Ete
(AP), Grafiche Fioroni, 1998, pp. 75-135, da cui si citerà.
(22) Segni verso uno, cit., p. 134. Il secondo comincia con «anche i nomi...», il terzo con «e anche lui...»
(segnalo però la perfetta coincidenza della prima riga tipografica con «... la testa:», per cui è ipotizzabile
anche una divisione non in tre ma in quattro capoversi).
(23) Segni verso uno, cit., p. 122.
(24) PG, p. 138; P, p. 466.
(25) RC, p. 124; P, p. 582.
(26) Cfr. R. Antonelli, Tempo testuale e tempo rimico, cit., p. 198: «Non per nulla proprio lo spazio bianco
diverrà oggetto esso stesso di attività variantistica (a cominciare dall‘archetipo Pascoli), o subirà, presso
l‘autore, le mutazioni imposte dalla traduzione linguistica e da una nuova scansione versale e ritmica (si veda
Ungaretti e l‘autotraduzione di Militari / Soldati)».
(27) Cfr. P. Giovannetti, Modi della poesia italiana contemporanea. Forme e tecniche dal 1950 a oggi,
Roma, Carocci, 2005, ad indicem, s.v. Verso lungo sintattico, biblico o whitmaniano (e in particolare pp.
127-130).
(28) Segni verso uno, cit., p. 130.
102
(29) E. De Signoribus, Passage du millénaire, traduit et présenté par M. Rueff, «Po&sie», 109, 2004 (30 ans
de poésie italienne), pp. 296-297 (entro la sezione Eugenio De Signoribus, pp. 295-298).
(30) RC, p. 22; P, p. 494.
(31) E. De Signoribus, Ronde des convers 1999-2004, traduction de l‘italien, postface et commentaires de M.
Rueff, préface d‘Y. Bonnefoy, Paris, Verdier, 2007, p. 22. Si noti, alla penultima linea, che la lezione è «per
un nulla», anziché «per un passo o un nulla»: lezione, questa, che avrebbe costretto a una diversa
segmentazione delle due linee.
(32) RC, p. 131; P, p. 587.
(33) E. De Signoribus, Istmi e chiuse (1989-1995), Venezia, Marsilio, 1996, p. 47; P, p. 249.
(34) E. De Signoribus, Due stagioni, «Hortus», 11, I semestre 1992, pp. 5-6.
(35) RC, p. 20; P, p. 492.
(36) E. De Signoribus, Ronde des convers, cit., p. 20. Si noti la variante: «anche nell‘ovatta».
(37) Così Contini sull‘«elemento più breve» che conclude tutte le lasse della Récitation à l‟éloge d‟une reine
di Saint-John Perse: cfr. G. Contini, «Sans rythme», in Id., Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), Torino,
Einaudi, 1988, pp. 23-40, alle pp. 35-36, e Saint-John Perse, Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1972, pp.
55-61. Sullo spunto continiano, «di ragione epodica» potranno apparire anche le linee brevi in chiusa di
alcuni testi del Giornale (cfr. P, pp. 453, 454, 458, 466, 467, 470) e di Ronda dei conversi (cfr. P, pp. 490,
491, 493, 494, 495, 508, 529, 533-534 – lasse prima, terza e quinta –, 541, 543, 544-545).
(38) P, p. 507. In RC, p. 37, la segmentazione era leggermente diversa: «[...] si strazia / il rimanente
sacrificio...». L‘impaginazione in E. De Signoribus, Ronde des convers, cit., p. 34, differisce da quella di P
soltanto nel terzo capoverso, dove si legge: «[...] tra la / sponda del letto [...]».
(39) E. De Signoribus, Quadri della penitenza, «il gallo silvestre», 15, 2002, pp. 137-144. Il testo che vado a
citare è a p. 139.
(40) RC, p. 78 (con maiuscola in incipit); P, p. 542.
(41) RC, p. 79; P, p. 543.
(42) La scansione è confermata dalla composizione del testo italiano in E. De Signoribus, Ronde des convers,
cit., p. 74: «In chi imbattersi può mai un martire domestico?... / Su e giù per le scale è il viale, il buio
sottoscala è il burrone, / sul tetto si attanaglia il piccione azzoppato... / Giù, la pipinara bersaglia, scalcia con
mosse e finte, con / spinte e pianti... / Potessi tu entrare, altrocuore, nel portone, per sbaglio o per / riparo...
potessi stare lì, un istante!... / egli farebbe quattro rampe di scale in quattro salti... / e lì atterrerebbe, davanti
alla tua vesticciola di mela... / Poi non saprebbe dirti perché è al mondo...».
(43) Ma per un‘eventuale nuova edizione delle Poesie De Signoribus ha in mente una diversa segmentazione
delle linee 4-5 (nella direzione già vista): «Giù, la pipinara bersaglia, scalcia con mosse e finte, / con spinte e
pianti...».
(44) Occorre avvertire però che in E. De Signoribus, Ronde des convers, cit., p. 76, la frase G si distende su
una sola linea (per il resto viene ripresa la composizione del primo volume garzantiano): «scese dalla
corriera con una pesante valigia scura... / nello slargo non c‘era altro che un‘alta neve, che / occultando,
infiniva...: / verso dove il luogo della formazione? / alle spalle, le mura della città in difesa; davanti,
l‘aperto... / una stretta strada di fango, il passo inospitale tra il bianco / che anneriva... / annottava... /
l‘altrove penetrava in lui nel respiro affannoso della volontà». D‘altra parte, la conclusione su una parola
isolata, in posizione metrica di contre-rejet, è anche di tre frammenti del Giornale: 1 («con chi non è morto
ancora, e lì è / indistinguibile»), 15 («ti prego, conducimi fuori da questo assordante / silenzio»), 23 (in
forma attenuata dalla congiunzione: «mi abbandono... e fido nella sua resistenza / e bontà»). Cfr. P,
rispettivamente alle pp. 454, 467, 475.
(45) RC, p. 39; P, p. 509.
(46) E. De Signoribus, Ronde des convers, cit., pp. 36-37.
(47) La distribuzione del materiale lessicale è la stessa nelle due edizioni italiane, diversa nella francese
appena citata: «(a quella domanda, tutti guardano il decano con / afflizione... solo uno in lui riconosce il
vecchio che sedeva, / con la stessa ossessione, tra i vecchi di via Sabotino, / cinquanta anni prima)».
(48) P, p. 538: «prima dell‘alfabeto / scoprii l‘intera lettera... / la segreta, il mistero / del messaggio amoroso,
/ l‘inconosciuto corpo / della scritta parola // per il tempo indifeso / assediai la fortezza / della pagina, il là, /
il telaio sospeso... // prima della verità / riconobbi la lettera // poi diventò alfabeto / e l‘alfabeto tempo».
103
FEDERICO FRANCUCCI
QUESTO (NON) È IL MIO CORPUS. AUTOINTERVENTI DI VALERIO MAGRELLI
Traccia
Ci sono diversi motivi per cui uno scrittore può trovarsi a citare sé stesso, e diverse modalità
in cui può farlo. Per rintracciare o rimarcare lo svolgimento di un percorso, segnato da più o meno
profonde discontinuità, da cambi di direzione discreti o clamorosi; per contemplare, ritessendolo, il
filo di uno sviluppo; per confrontare l‘oggi con lo ieri, e verificare la tenuta di una somiglianza o il
tasso di una trasformazione. Riscrivere sempre ―lo stesso‖ libro, non aver scritto che un unico libro
fatto di tutti gli altri riuniti: sono numerosi gli autori anche grandi che hanno creduto di poter
descrivere il proprio operato in questo modo, magari sfruttando, nelle dichiarazioni, le risorse
metaforiche del formato cartaceo e del volume per disciplinare le differenze e le eccentricità sul filo
che separa recto e verso del foglio. D‘altro canto l‘autore – una funzione o un dispositivo, e non una
persona, quindi tanto varrebbe parlare solamente di autorialità – serve proprio a recintare, unificare
nel segno di un‘intenzione progettante una serie di testi scritti sì dallo stesso individuo ma per altri
versi profondamente eterogenei (senza voler qui considerare i casi di apocrifia e pseudonimia).
Uno scrittore può citarsi alla lettera (ampiamente o per brandelli, dichiarandolo o no), può
parafrasarsi, può commentarsi, può variamente mescolare queste tre opzioni, e altre ancora. Nella
maggior parte dei casi i processi più o meno rigorosi e letterali di ripetizione di sé conducono (o
vorrebbero) a suggellare un‘identità, e poco importa da questo punto di vista (il punto di vista della
nuova identità raggiunta), che l‘identità sia quella di un individuo (segnato da una storia personale e
da caratteri psicologici stabili) o quella di un principio o ideale o potenza che supera tutti gli
individui e ne fonda e legittima l‘appartenenza comune: è lo stesso, qui, ad essere ripetuto per
venire meglio affermato; ad essere ritrasmesso, rimesso in circolazione affinché – pur attraverso un
certo numero di modificazioni locali e regolate – non cambi nella sostanza e possa, in vista di una
fine impellente o anche solo lontanamente presagita di qualche suo supporto, attestarsi ne varietur.
Nelle pagine che seguono vorrei provare a mostrare come questa logica lavori in alcune opere di
Valerio Magrelli, e come dalla peculiare composizione di queste opere essa sia a sua volta lavorata.
Anche se la mia ipotesi è che la versione identitaria – in vari sensi che si tratta di precisare – della
trasmissione di sé tramite ripetizione sia gravemente messa in crisi nelle opere in questione, non
intendo affatto dire che tale logica venga lì semplicemente negata, rifiutata o oltrepassata. In primo
luogo perché un movimento di negazione e distacco del/dal ―vecchio‖ sé è d‘obbligo in qualsiasi
processo dialettico o ermeneutico che si metta in movimento, e questi processi mirano, pressoché
invariabilmente, ad una reintegrazione finale (dunque non basta certo negare l‘identità e la sua
permanenza per uscire dal suo cerchio). In secondo luogo perché l‘atteggiamento (la posizione, la
presa) di Magrelli nei confronti del plesso o nebulosa di temi che decide di convocare, e i
trattamenti, le scosse, le torsioni che imprime a questi temi, sono caratterizzati da frequenti
contraddizioni, ripensamenti, incertezze, cambi di strada, che rendono l‘analisi estremamente
complessa e impediscono di assumere un‘ipotesi così netta. Prenderò in considerazione nella mia
analisi, in gradi diversi di dettaglio a seconda dei casi, i due volumetti di prose Nel condominio di
carne e La vicevita (usciti rispettivamente nel 2003 e nel 2009, e qui d‘ora in avanti contrassegnati
con CC e V), le ultime due raccolte poetiche Didascalie per la lettura di un giornale e Disturbi del
sistema binario (1999 e 2006, d‘ora in poi DID e DSB),(1) facendo riferimento quando necessario
alle precedenti sillogi magrelliane di versi. Se non faccio oggetto di attenzione separata i diversi
generi letterari, e metto a confronto scrittura ―letteraria‖ e scrittura ―critica‖ non è perché intendo
dare un‘immagine a tutto tondo, o qualcosa del genere, dell‘opera di Magrelli, utilizzando una
tipologia scrittoria a sostegno o contrasto delle altre per ricavare una specie di media panoramica o,
al contrario, di fusione alchemica; e nemmeno o non soltanto per rispettare l‘opinione assai corrente
104
– poco monta se tra gli osanna o i crucifige – secondo la quale gli steccati tra i modi espressivi delle
diverse forme di conoscenza sarebbero diventati permeabili e molte scritture un tempo per statuto
indipendenti dalla letteratura sarebbero diventate «paraletterarie» (come sostenuto da R. Krauss già
al tornante tra anni Settanta e Ottanta).(2) Lo faccio invece soprattutto per tentare di isolare,
attivamente e correndo il rischio della sovrinterpretazione, la singolarità, intimamente differente e
mai in pacifico accordo con sé stessa, della traiettoria che Magrelli ha tracciato nel corso degli anni
per aprirsi una strada all‘interno del de-genere in comune su cui molte scritture di diverse
provenienze si affacciano, e che Gabriele Frasca (a Magrelli distantemente affine ben oltre la
condivisione dell‘anno di nascita, 1957) chiama senz‘altro «arte del discorso».(3) Mi sembra che
uno dei tratti salienti dell‘opera di Magrelli stia proprio in una pratica di autocitazione che ha
qualcosa del collage e qualcosa dell‘impianto e del trapianto. Cominciando a censire quanti e quali
spezzoni Magrelli prelevi dal volume dell‘opera pregressa, in che maniera le reinnesti e le reinvesta
nell‘aggregato testuale più recente, e come l‘autocitazione, apparentemente circoscritta, si colleghi a
una pratica citatoria/citazionista dal peso e dagli effetti invece molto diffusi, si potrà nello stesso
tempo accertare l‘interferenza reciproca tra questo piano (inter)testuale e il filone o corrente
―tematico‖, che si incanala in queste scritture, della trasmissione, dell‘eredità, del contagio, della
propagazione, della riproduzione, della ripetizione e della memoria. Verificando inoltre quali
espedienti e tecniche stilistico-retoriche (in particolar modo la tessitura sottile e strettissima di una
certa trama metaforica) siano chiamati di volta in volta ad amplificare o contenere il suddetto
intreccio in espansione, si cercherà di arrivare al difficile, instabile, vissuto con sentimenti
quantomeno ambivalenti processo di soggettivazione di cui nell‘opera restano molteplici tracce.
Malattia
Tra le particolarità dei due libri di prose, solo molto a fatica catalogabili come narrative, di
CC e V, sta senza dubbio il rapporto che il telaio dei libri (piano costruttivo e livello portante della
scrittura) stabilisce con un numero piuttosto alto di altri testi, in versi e in prosa, chiamati a
partecipare attivamente ai percorsi di ricerca intrapresi dai libri stessi, e però anche da questi tenuti
distinti tramite accorgimenti tipografici e strutturali codificati. Si tratta, come già detto, delle
citazioni. Il processo citatorio magrelliano seleziona e raccogli porzioni provenienti da testi altrui,
ma anche da altre opere dell‘autore stesso; e potrebbe sembrare un azzardo non tenere
rigorosamente distinte le due tipologie, se non fossero proprio i libri, in un certo senso, a
scoraggiare un simile rigore, ―lavorando‖ i frammenti citati in maniera non troppo dissimile. In Ora
serrata retinae (d‘ora in poi OSR), il libro d‘esordio, non ci sono citazioni esplicite marcate dagli
usuali accorgimenti; l‘unica e parziale eccezione è la traduzione-riscrittura (transgenerica) di un
passo del Treatise di Berkeley, che costituisce a tutti gli effetti un testo della raccolta e porta,
evidenziato ma anche confinato nel titolo, il riferimento bibliografico all‘opera di provenienza. In
Nature e venature il numero di citazioni sale di parecchio e si attesta a otto, tutte in epigrafe, a
sormontare testi per lo più privi di titolo, e provviste ciascuna del timbro di riconoscimento
costituito dal nome dell‘autore. Negli esercizi di tiptologia le citazioni sono raddoppiate –
addirittura sette se ne addensano a coronare la prosa d‘apertura, Alle lagrime, rovi – e, pur
conservando nella stragrande maggioranza la posizione in esergo a singoli testi, fanno registrare
un‘eccezione, parziale anche in questo caso, ma a guardarla alla luce degli esiti successivi, molto
importante. In un‘altra prosa del libro, infatti – intitolata Terranera – Magrelli inserisce, stavolta
non in esergo ma nel corpo del testo, alcuni versi, distanziandoli con due a capo dal blocco della
prosa (p. 256). I versi sono legati tematicamente all‘argomento che la narrazione sta svolgendo (i
lampi), e non vengono fornite su di essi ulteriori notizie. Si tratta di una poesia del poeta arabo Ibn
Brishî, tradotta da Magrelli, e l‘autore darà conto della ―vera‖ paternità della poesia solo diciassette
anni più tardi, in V, quando importerà questo brano nel tessuto di un‘altra prosa (non potremo
purtroppo controllarne i movimenti). Per ora basterà annotare che un frammento di altro autore
105
viene interpolato, cucito in un brano in base a criteri di affinità con le linee di sviluppo di
quest‘ultimo: un meccanismo analogo è tra i più potenti propulsori di CC. Qui, le citazioni vengono
regolarmente integrate nei testi, segnalate dalle virgolette e, nel caso di versi o spezzoni più lunghi,
dagli a capo e dai rientri. I siti degli inserimenti non offrono informazioni sui brani accolti, e nella
nota in coda al libro si trova soltanto un elenco degli autori citati, ciascuno con il numero della
pagina in cui il testo di pertinenza è collocato. Esattamente nello stesso modo si comporta Magrelli
nei sette casi in cui l‘origine del prelievo è un testo di sua composizione; nessun ausilio informativo
viene porto all‘interno del brano in cui l‘autore cita sé stesso, e in chiusura, a seguire quello delle
altre fonti citate, separato solo da una spaziatura, sta un elenco, sempre scarno e organizzato per
numeri di pagina, dei loci magrelliani che hanno prestato testo. Per concludere la prima sommaria
descrizione bisogna aggiungere ai due tipi già illustrati di citazione letterarie, maneggiati in modo
analogo, un terzo tipo che sta a metà tra citazione e allusione: nel discorso si trovano spesso titoli di
libri – riferiti correttamente oppure in qualche modo alterati (per fare solo due esempi, Die
Zauberberg e La rovina di Cascia) – e di film molto noti, insieme a personaggi e situazioni
letterarie (Phlebas il fenicio, etc.) e altri rimandi a prodotti così diffusi da risultare quasi proverbiali
della sfera culturale dell‘Occidente. Le modalità compositive di CC sembrano testimoniare dunque
un lavoro di selezione, conservazione e trasmissione della memoria letteraria e culturale, di cui ci si
sente o ci si nomina eredi; e di tale memoria sembrerebbe far parte anche il corpus magrelliano,
fatto oggetto, così come, mettiamo, quello di Nabokov o di Valéry, di prelievo, ripresa,
rifunzionalizzazione. L‘ipotesi trova una conferma, e insieme denuncia la necessità di una
correzione, quando la si proietta sul piano tematico. Infatti l‘asse portante del libro, o il suo
colonnato, è tematicamente proprio la memoria, intesa come memoria personale e genetica dell‘io
che in queste pagine compare come soggetto parlante, e sembra non allargare il cerchio del suo
discorrere molto al di là del proprio corpo. CC si offre quindi come un vasto «referto» (p. 3), come
una lunga e accurata ―autoanamnesi‖ dell‘io (del ―Valerio Magrelli‖ che in ET aveva intitolato due
prose con anagrammi del suo nome). Il lessico e l‘immaginario clinici, già molto tipici di Magrelli
almeno da ET, qui si estendono e si ramificano fino a formare una specie di ragnatela cognitiva che
intercetta e allinea i fenomeni, o un preparato di contrasto che permette allo sguardo dell‘io
rammemorante-indagatore di individuare le continuità e di comporre le figure.
O almeno questo sembra essere l‘auspicio dell‘autore; perché la disposizione del quadro si
rivelerà paradossale o addirittura impossibile. «Il mio passato è una malattia contratta nell‘infanzia.
Perciò ho deciso di capire come». Così prende inizio il libro, e in questo inizio una cornice
interpretativa si profila e nello stesso tempo va in frantumi. Leggiamo (p. 3):
Il mio passato è una malattia contratta nell‘infanzia. Perciò ho deciso di capire come. Questo referto, dunque, non vuole
essere un teatro anatomico, piuttosto un susseguirsi di fotogrammi, dove quello che conta è il flusso dell‘immagine, il
corpo sgusciante che vibra sotto di me, la sua forma mutante tra le forme: vasi sanguigni, conchiglie di molluschi,
cellette d‘api, snodi autostradali, pelvi di uccelli, cristalli e filettature aerodinamiche. Non c‘è trama, ma trauma: un
esercizio di patopatia. Non c‘è teoria, ma racconto di piccole catastrofi, giocate dentro gli spazi interstellari della carne.
È sempre a partire da qui/adesso che l‘io ha un passato, un presente-passato ritenuto dalla
coscienza. Il passato è stato tradizionalmente pensato come un‘affezione della coscienza presente a
sé stessa. Ma se il passato è una malattia, questa affezione prende una sfumatura patologica, e
rischia sempre di alterare l‘equilibrio della coscienza, che deve per di più temere l‘agguato della
recidiva, che la faccia cadere fuori di sé, offuscando la sua facoltà ordinatrice, tessitrice del tempo.
Cosa può fare allora l‘io, se non cercare di «capire come» la malattia, cioè il proprio passato, è stata
contratta, ovvero si è a un certo punto innestata (ma da dove?) nel proprio, nel mio? Il che equivale
a chiedere: quando ho acquisito, o mi si è impiantata, la facoltà di avere un passato, che nello stesso
tempo è la condizione per esserne espropriato? E l‘innesto è avvenuto nell‘infanzia, nell‘età senza
linguaggio; si può pensare che il linguaggio stesso sia la malattia, e che il referto riguarderà le
modalità di trasmissione e gli sviluppi della malattia linguistica, come infezione che si diffonde in
un corpo e lo trasforma. Per stare dietro alla metamorfosi del corpo, «forma mutante tra le forme»,
106
Magrelli istituisce una sorta di moto continuo, un‘oscillazione inarrestabile tra i campi semantici
che via via mette in gioco, oscillazione segnata, dal punto di vista stilistico, dall‘attivazione di una
forte e persistente metaforicità. I fenomeni squadernati vengono tutti ordinati sul filo dell‘analogia.
«Vasi sanguigni, conchiglie di molluschi, cellette d‘api»: qui il lampo della somiglianza è fatto
scattare dall‘immagine della cavità, che fa da ponte tra i diversi domini a cui le tre immagini
appartengono; le «cellette d‘api», cave sì ma anche numerose e rigorosamente organizzate, legano il
terzetto di metafore a ciò che lo segue – snodi, pelvi, cristalli, filettature – grazie alla fibra della
complessità. L‘avvio della ricerca coincide con la partenza per un grand tour – o linea di fuga – tra i
regni, organico e inorganico, naturale e tecnico, umano e animale. «Come reagisce il nostro sistema
mentale alle trasformazioni del suo supporto?», si chiede Magrelli; e in questa domanda c‘è ancora,
forse, una traccia dell‘io fenomenologico, della coscienza pura come risultato della riduzione
trascendentale, sovranamente installata in OSR e poi con fatica e dolore aperta e ―situata‖ sempre di
più nelle opere successive. Qui forse tale coscienza agisce sotto il travestimento del «sistema
mentale» rapportato ma anche separato dal suo supporto corporeo: è come se la mente potesse
guardare le trasformazioni da un punto di vista staccato e privilegiato. Assieme all‘asse della
contiguità e del passaggio orizzontale, dunque, funziona in questo pezzo ancora l‘asse topologico
sopra/sotto: è vero, si precisa che non si vuole ottenere un theatrum, lo spazio della visione totale e
circolare, il «cielo del cervello», con l‘immagine di Emily Dickinson che Magrelli aveva usato in
OSR; ed è vero che lo spettacolo è formato da immagini discontinue e artificiali («fotogrammi»),
però il corpo continua a sgusciare e a vibrare sotto di me (pp. 3-4):
cavalco un‘onda che si disfa sotto di me, e disfacendosi mi sospinge. Cavalco l‘avanzare di una cresta che si srotola
sempre un po‘ più in là. Cavalco la spinta che è carne. Si creano rughe e pieghe. Faccio surf cellulare. Io non elencherò
tutti i miei mali, peraltro trascurabili, ma solo quelli in cui si distingue meglio la natura metamorfica dell‘organismo. Si
vede bene la spuma dell‘onda, e, per un attimo almeno, il raggio che batte sul dorso teso dell‘acqua sembra coincidere
con il suo vettore. Sono tableaux vivants e insieme grafici. Perché l‘ho fatto? «Per scoprire se per caso sono un mostro
molto più complicato di Tisifone.
Lo sguardo (il «raggio») e il movimento (il «vettore») si sovrappongono e per un istante
coincidono: sembra che la scrittura messa in atto da Magrelli voglia assumersi l‘onere (immenso, a
dire il vero) di tenere insieme l‘incessante trasformazione materico-biologica, tramite gli
incatenamenti metaforici, e la luce (che nella tradizione occidentale è difficile pensare separata da
una screziatura in vari sensi spirituale) dello sguardo. Il richiamo ai tableaux vivants condensa in
una formula o in un emblema l‘intenzione descritta: fare un quadro (con la regia e la chirurgia
necessarie: il quadro è anche un «grafico» e un ritaglio) in cui la vita non sia costretta, ma continui a
proliferare liberamente. Qui interviene, discretamente, un‘altra mossa difficilmente descrivibile in
modo univoco. Alla domanda cruciale, e personale quanto altre mai, sul motivo per cui l‘io ha
messo in moto questa complicata operazione, Magrelli risponde con una citazione, con le parole di
un altro; e la frase di Platone sulla mostruosità, qualcosa di ammirevole e terribile perché fuori dalla
norma – qui uno dei fuori-norma per eccellenza come il Mito, richiamato dal nome di Tisifone –
costituisce il primo dei molti innesti o impianti testuali con cui l‘autore cercherà di regolare la
mostruosità ma non potrà impedirsi di alimentarla contemporaneamente. Anche in V il primo
innesto citazionale sta nel brano d‘apertura (stavolta è una formula di David Grossman), che
insieme a notevoli differenze contestuali e anche stilistiche mostra forti affinità e analogie con
l‘avvio di CC:
Chi sta in treno, è segno che vuole andare da qualche parte, e lo fa sempre e solo in vista di qualcos‘altro. Il suo scopo,
cioè, risiede altrove: l‘unico a fare eccezione, è il personale viaggiante. La nostra vita pullula di queste attività
strumentali e vicarie, nel corso delle quali, più che vivere, aspettiamo di vivere, o per meglio dire, viviamo in attesa di
altro. Possono essere atroci come la burocrazia e la malattia (intesa come «burocrazia del corpo»), oppure neutre, come
appunto il viaggio. Sono i momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi. È ciò che chiamerei: la vicevita. (p. 3)
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Molti elementi tornano: la malattia come processo che ci spossessa (così come il passatomalattia ci invade, ci altera e non è nostro), la semantica del movimento, del vettore e del veicolo, il
distacco tra me e me. E come il treno porta via o porta lontano, così il corpo, quest‘altro veicolo, è
tutto un andarsene, un separarsi da sé. Non c‘è traccia, tuttavia, dell‘esuberante tecnica metaforica
di CC, e il tono sembra decisamente più scorato e disilluso.
Per comprendere cosa sia accaduto tra un‘opera e l‘altra dobbiamo continuare la lettura di
CC. Dopo aver enunciato la tesi e operato il primo impianto testuale, il libro arriva a ―descrivere‖ le
vicissitudini medico-sanitarie del piccolo ―io‖, e lo fa riepilogando la posa di «innumerevoli
protesi», altro nome per l‘impianto. La prima protesi, la protesi originaria sono gli occhiali,
dispositivo tecnico di correzione che permetterà un giusta messa a fuoco del campo visivo. Nel
secondo capitolo, intitolato con inversione e bisticcio linguistico Exfanzia; contrapponendo il
prefisso ex- all‘in- su cui il libro si era aperto (per dire che si è fuori dall‘infanzia quando il primo
innesto è effettuato, ma anche che il dentro e il fuori sono inestricabili e non si può tracciare un
confine rigido a separarli), gli occhiali vengono descritti come «ricetrasmittente d‘infezione», come
macchinario e canale a doppio senso tramite il quale ci si sintonizza con il mondo e si è pronti ad
interagire con esso, ovvero a contrarre e diffondere malattie: «perché fu il guasto la mia vera guida,
lo psicopompo, la voce fuori campo» (p. 5). E gli occhiali da prova che l‘oculista lascia sul viso del
bambino conferiscono a costui l‘aspetto di un ibrido mostruoso che lega perfettamente con la
citazione platonica del primo capitolo. Il procedimento analogico si occupa di attenuare i confini tra
la materia inerte e manipolata degli occhiali («cerchi tarati e pesanti») e il dominio dell‘organico,
sfruttando l‘anfibologia del termine ―antenne‖ (qui in uso catacretico) per fare del congegno una
«creaturina ciliata» munita di «flagelli». Gli occhiali vengono così incorporati e sentiti
inseparabilmente come un oggetto e come un organo, come una cura e come un fattore di deformità;
il «senso di nauseante enucleazione» provato in quel giorno lontano resterà sempre come marchio
più proprio dell‘identità dell‘io. A questo punto, una volta rovesciato l‘io-corpo fuori di sé senza
però produrre lacerazione, trasformatolo in una membrana organico-macchinica, «i programmi
potevano avere inizio» (p. 6).
Tutti i disturbi e le malattie elencati nei capitoli che seguono hanno come filo conduttore
disarticolazioni, svuotamenti, tumefazioni del corpo, crescita di entità estranee sui suoi limiti e nel
suo interno, difficili equilibri, nuove affezioni prodotte dagli espedienti per curare le vecchie. Le
prose si combinano su criteri di ripresa, contiguità e somiglianza, secondo una specie di montaggio
delle attrazioni; e anche nei limiti del pezzo singolo l‘organizzazione è affidata, più che alla sintassi
– prevalentemente paratattica – o a uno sviluppo strutturato – abbondano anzi nessi logico-causali
usati in maniera incongrua, vedi ad es. il «perché» dell‘incipit del secondo paragrafo – allo scorrere
e combinarsi delle immagini. Un breve regesto di questi temi-organi: gli occhi, le orecchie, la pelle,
i piedi, le reni; cerume, eritemi, calcoli, verruche. Nel corso di questa proiezione alcuni termini
dalla semantica polivalente sono sfruttati per collegare il corpo a ciò che sta fuori di esso, su varie
scale dimensionali: abbiamo già incontrato «gli spazi interstellari della carne», e aggiungo almeno
l‘immagine della circolazione, nei cerchi di risonanza della quale trovano posto il traffico
automobilistico e il percorso del sangue, i viaggi e i circuiti elettrici. Va osservato che in questa
maniera l‘io viene sì esautorato ed esonerato di parti sempre più consistenti del suo corpo, fino a
non sapere più dove si trova la sua residenza, se non nel movimento di entrata/uscita da ―sé‖, e che
il corpo non più proprio appare assemblato con elementi indifferentemente vegetali, minerali,
tecnici, in una sorta di laboratorio del dottor Frankenstein, ma che d‘altro lato lo stesso
procedimento concorre a reintegrare i ―pezzi‖, i frantumi eterogenei che ha prodotto in un unico
corpo cosmico tenuto assieme dai campi magnetici delle analogie. L‘unità e l‘identità, smarrite a
livello personale, resterebbero comunque garantite su un piano superiore, e difficilmente
percepibile. E allora sarebbe giusto la lingua a restituirlo ai nostri sensi, questo piano, contribuendo
col suo incanto e con le sue legature magiche a mantenerci in contatto con esso. Le «paroletrattino» che Magrelli usa massicciamente a cominciare da ET sono un esempio splendido del
pendolarismo inarrestabile, della perplessità profonda di cui si parla. E dato che la poesia di ET in
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cui questo genere di formazioni lessicali è tematizzata viene citata – unico caso – sia in CC che in
V, sarà il caso di insistere un po‘ sulla questione, e dire di più delle modalità con cui Magrelli cita
sé stesso. Leggiamo Treno-cometa (il titolo è precisamente una parola-trattino), includendo le righe
messe in esergo (p. 286):
Assumeva l‘attore, a fondamento della domanda, che a seguito del passaggio di un treno merci si era sprigionato un
incendio, il quale, dalla sede ferroviaria, si era diffuso alla confinante proprietà di esso attore, distruggendo le culture ivi
esistenti. Aggiungeva che l‘incendio era stato determinato da un vagone del treno dai cui freni, rimasti bloccati
malgrado il movimento del convoglio, si erano sprigionati fasci di scintille. Dalla allegata relazione di officina si
desume che, a causa dell‘inceppamento del freno per ostruzione delle condutture dovuta a impurità dell‘olio, i ceppi e i
cerchioni del carrello erano fortemente arrossati per il surriscaldamento, ed il sottocassa, bruciato.
(sentenza n. 6286/87 del Tribunale Civile di Roma)
Treno-cometa
fiammifero stregato, ferro
sfregato contro le rotaie,
freno tirato e attrito,
treno-freno che strazia
e stride nella notte.
Venivo avanti con le ruote bloccate
le vertebre contratte
le parole-trattino
e dal mio sforzo veniva
un calore e un colore
e un odore di carne strinata:
scintille, una pioggia di lingue
focaie nella notte.
Ah vagoni frenati, ah parole-trattino
io fricativo, ritratto dell‘attrito.
Si tratta di una delle poesie più importanti della silloge, in cui l‘«io fricativo» sale sulla
ribalta e prende il posto lasciato vacante dall‘olimpico soggetto contemplatore (una versione di
poco diminuita del cosmotheoròs) via via sfaldatosi a partire da OSR. L‘io è qui prodotto dallo
sfregamento delle sue vertebre contratte, subito avvicinate alle ruote bloccate del treno di cui si dà
conto nello stralcio di sentenza civile sulla soglia del testo.(4) Il cigolio e lo sferragliamento dei
nessi consonantici di cui la poesia è sostanziata raggiunge il culmine nel processo
paranagrammatico che lega «attrito» e «trattino» intorno al «ritratto», l‘io che può costruirsi solo
come immagine di questo avanzare bloccato del treno-spina dorsale che provoca incendi sul
territorio-corpo. Il capitolo trentaquattresimo di CC riprende i versi 7-9 del testo all‘interno di un
paragrafo multistrato che bisogna citare (pp. 71-72 ):
Guardiamo allora alla discopatia. Breton su Picasso: tutto in lui è fisiologico, anche il modo di mettere in pila i pacchetti
di sigarette per dare loro la forma di una colonna vertebrale. Sono questi pacchetti a farmi male, due specialmente. Il
dolore, però, non proviene da un difetto interno, bensì dalla loro errata collocazione. È un male della distanza, per così
dire, anzi, dell‘eccessiva prossimità. L‘attrito tra due giunti che si toccano, e il treno che si inceppa:
Venivo avanti con le ruote bloccate
le vertebre contratte
le parole-trattino
Se penso alla ferrovia, è perché più tardi, come fossi un convoglio, fui spedito nel tunnel della Tac […].
Sembra del tutto evidente che l‘autore, parlando del suo mal di schiena, riproponga come
suggello del paragrafo alcuni suoi versi composti a partire dalla stessa occasione; sembra non
esserci altro, qui, che la pacifica riconferma di un‘intentio auctoris. Ma più di un motivo deve
indurci a fare attenzione. È senz‘altro vero che l‘autocitazione obbedisce a un criterio di
contestualizzazione, ossia che riduce la vaghezza, l‘indeterminatezza del dettato originale di Treno-
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cometa disambiguando alcuni punti che lì restavano oscuri, e anche per questo suggestivi, e
riportando la base, l‘origine di quella poesia ad un evento preciso e ben fissato dell‘esistenza
dell‘autore. Ho mal di schiena, da qui parto per farne una poesia. Ma due o tre fattori contrastano
subito questa istanza memoriale e per così dire ―autobiografico-realista‖. L‘argomento della
«discopatia» è avvicinato e insieme procrastinato dal transito per un riferimento culturale (una
citazione senza virgolette) che contiene una comparazione fra i pacchetti di sigarette di Picasso e le
vertebre di una colonna; al momento di dichiarare il dolore è in «questi pacchetti» picassianbretoniani che esso viene localizzato. Si è cioè già spostato nella zona di indiscernibilità fra dentro e
fuori, corporeo ed extracorporeo, e si è installato in un regime misto di parola propria e parola
altrui, denunciata come altrui ma scritta come propria. La spina estratta in modo non cruento dalla
schiena è reinserita nel circuito metaforico, e per questo può diventare un treno, con le vertebre a
fare da vagoni; ma poche righe più in basso la composizione della figura si è ancora trasformata, ed
è il corpo intero a entrare, come un treno appunto, nella galleria della Tac. Insomma se questo
autoimpianto deve servire a reinserire in un contesto, per dare cenni interpretativi, un frammento di
scrittura più vecchia, nel caso di CC è proprio il contesto, il quadro di inserimento che vede
offuscarsi e sfaldarsi i suoi confini. Dunque riportare il prescritto al proprio corpo, come fa Magrelli
in CC, significa non reimpossessarsene e poterlo utilizzare, mettere a frutto in qualche modo, ma al
contrario esporlo a quel movimento di continuo esproprio che definitivamente lo sottrarrà a chi lo
ha scritto. Il fenomeno è molto palese per due versi di OSR riportati nel cinquantesimo capitolo di
CC (p. 105):
(Forse per questo continuo a guardare affascinato il modo di accosciarsi dei bambini, come se invece delle rotule
avessero un giunto basculante, o una vite infinita. La potenzialità del loro destino sembra infinita, al pari delle
angolature consentite ai menischi):
…e cieco e fermo
nella gamba riposa il ginocchio.
Riposa, per modo di dire. Il mio balla e traballa, e cigola la carrucola nel pozzo della carne.
In questo caso il rovesciamento è netto; il dettato della raccolta d‘esordio viene apertamente
contraddetto, e alla stasi sostituito il movimento (si noti inoltre la nuova ricorrenza della citazione
non virgolettata, qui perché notissima: ma quel che conta è che, esattamente come nel brano citato
in precedenza, il corporeo subisce un passaggio attraverso la memoria culturale e la parola di un
altro).
Il testo ospite non potrà operare alcuna ortopedia sul frammento ―in ingresso‖, né potrà
usarlo come rattoppo o pezza d‘appoggio; al contrario, entrambi si apriranno lungo linee che si
possono ben dire di fuga o di deterritorializzazione. Ma, ripeto, l‘impressione è che queste linee
fermino a un certo punto la loro corsa e si avvolgano in grandi ritornelli territoriali. Torniamo alla
parola-trattino: indice di distanza ma anche di legamento e articolazione, il trattino in cui
metonimicamente la parola o meglio le parole si condensano ha la funzione di vincolare senza
fondere campioni provenienti da aree semantiche diverse, trovando il modo di metterle in risonanza,
di far balenare tra di loro una specie di somiglianza nascosta. Un significativo specimine è al
capitolo trentaduesimo (p. 67):
[…] Basta guardare l‘ombelico. All‘inizio, un cavetto per il feto orbitante nello spazio celeste-materno, etereo-utereo.
Alla fine, un nodino frettoloso, per ricordarci che siamo palloncini soffiati via, di quelli sagomabili, da fiera.
I trattini sono gli assi su cui ruotano i cardini di una doppia porta che deve segnalare la
comunicazione tra entità distanti, e i due composti lessicali fanno da sostegno, da piano d‘appoggio
ai volteggi analogici del brano, che mescolano immaginario astrospaziale a fantasie di
avvolgimento intrauterino. Il modello concettuale sotteso a queste ―simpatie‖, suggerite in un caso
da una somiglianza fonica che sfiora la paronomasia è, credo, quello della concordia discors, che
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identifica al limite (al limite del sistema dei sistemi di analogie) i contrari, e permette di pensare che
le profondità della Madre siano anche la volta celeste, che il Fuori assoluto sia anche un altrettanto
assoluto raccoglimento, che le acque materne siano anche l‘etere, la materia impalpabile che si
pensava riempisse lo spazio. La brusca riduzione della sfera «etereo-uterea» nel «palloncino»
sagomabile dell‘io non è incompatibile con una strategia di camuffamento e miniaturizzazione di
materiali mitologici; basti pensare alla teoria del corpo umano come involucro in cui viene soffiata
una piccola porzione d‘anima, di spirito, in esilio nella carne e nel mondo fino che non confluirà di
nuovo nel Grande Soffio. Il problema, allora, è capire il motivo di una simile riattivazione di
materiali mitologici, e più ancora individuare le linee di percorrenza dell‘attraversamento
magrelliano. Se ci sono pochi dubbi che si abbia a che fare con un reincantamento (la parola
letteraria effettua un sortilegio sui fenomeni tessendoli in una ghirlanda), è necessario comprendere
a cosa conduce tale ritorno al carmen, se si attesti definitivamente sul piano, tutto sommato poco
più che decorativo, di un alessandrinismo sciamanico o se non riveli altre potenzialità.
Lo si può fare analizzando, prima di abbandonare CC, due testi molto diversi e però a mio
avviso uniti da un richiamo, e arrivando così a uno dei profili più importanti del libro, che mettendo
al centro l‘agglomerato tematico della trasmissione e della memoria non poteva non arrivare a
trattare la figura insieme reale e simbolica della paternità. Il capitolo quarantacinquesimo è
dedicato, tra tutti gli scompensi e le fratture che toccano il corpo, ai fastidi di un‘unghia del piede
destro che va incontro a trasformazioni dolorose e bizzarre. Tutta questa vicenda, scrive Magrelli, e
la sua dichiarazione si salda a una catena che ho già messo in luce parlando delle vertebrepacchetto,
in qualche modo, devo ammetterlo, fui io stesso a provocarla. Infatti, anni prima, avevo accettato di tradurre una lirica
francese che recitava:
Unghia piena di tutte le virtù
unghia vestita solo
di un minuscolo guanto delicato.
Unghia, non unghia, no,
ma cristallo sottile che l‘amante
stima più del diamante.
Unghia lucente e invisibile, aggiungeva il poeta, specchio in cui rimirarsi, unghia limata, unghia deliziosa, continuava,
unghia capolavoro di natura. Con i suoi versi ossequiosi e prevedibili, L‟ongle andava bene per i titoli di testa del
racconto, ma il seguito fu molto differente. Altro che dolce gioia dell‘amata, fonte di gloria, onice di grazia. Il fatto è
che la mia iniziò a cambiare aspetto irreversibilmente, unghia mannara che si deforma e stacca ma non cade, solo
scolora, si stria, si torce, gira. Adesso, per un beffardo contrappasso, al posto di quella porzione cristallina porto una
torcia marmorizzata, un lapislazzulo foggiato da qualche ignoto maestro cosmatesco. (Fra i casi precedenti, ritengo
necessario segnalare non tanto le dita chiuse nelle portiere di innumerevoli automobili, bensì la sera estiva in cui,
correndo verso il mare, inciampai in una pietra, e quella stessa unghia si spaccò di netto. Passai una notte insonne,
provando a leggere ma senza mai riuscirci, perché l‘intera forza del pensiero veniva risucchiata da quell‘unico punto
fluorescente di dolore. Intorno al suo nero pulsar si organizzavano il mio sangue e le mie cartilagini, la mia attenzione,
le mie bestemmie, tutto. Al centro dell‘universo stavo io, al mio centro, il mio dito, e al suo centro, un puro gorgo di
antimateria che lanciava segnali indecifrabili con l‘alfabeto di una lingua morta). (pp. 95-96)
A seguire la logica sconcertante di questo racconto, appena camuffata da striature di
colorante logico-argomentativo (l‘«infatti» della seconda frase), si deve dire che la patologia
dell‘unghia è stata causata dalla traduzione di un testo all‘unghia dedicato (vedi come questo testo
venga impiantato qui in duplice modalità: citazione letterale dei versi e parafrasi in prosa; da notare
inoltre che si tratta di una traslazione al quadrato, visto che il testo annesso deriva già dal trasporto
in una lingua diversa da quella in cui fu scritto l‘originale), per l‘effetto di una specie di magia
cattiva: si passa dall‘incantamento alla stregoneria. L‘unico elemento del testo trapiantato che gode
della citazione in lingua originale è il titolo, L‟ongle, e bisognerà ricordarsene. La scena successiva,
la notte insonne passata ad ascoltare la lingua morta e incomprensibile del dolore provocato dalla
rottura dell‘«unghia mannara», dell‘unghia mutante, presenta la dinamica a cui ormai siamo
111
abituati: un movimento in apparenza centripeto e autoreferenziale che conduce però ad un centro,
ad un nucleo, che al sé è completamente estraneo (ovvio richiamare l‘extimité lacaniana). Prima di
riaprire il quadro così tratteggiato (che potrebbe essere facilmente e non ingiustamente, tutto
sommato, tacciato di ossessivo iperindividualismo e di totale mancanza di senso del mondo, se
appunto lo si potesse pacificamente limitare) collegando un altro brano a questo, vediamo come il
capitolo prosegue, concentrandosi sui dottori e sulle diagnosi formulate a proposito dell‘unghia:
Quanto ai responsi, risultarono alquanto inattendibili. Un primo gruppo di terapeuti puntò su cause meccaniche. E fu la
volta di analisi radiologiche, ricerca di matrici sotto stress, questione di posture e traumi. La grande maggioranza,
tuttavia, si concentrò su funghi e infezioni. Necessità di controlli a largo spettro, creme per mesi e mesi, con
contagocce, pennelli, carte vetrate. Facevo bricolage di me stesso, ma senza risultati. Giunge una nuova proposta: dopo
aver dato la vernice notturna, il dito andava incartato con il domopack. Feci anche questo, e prima di addormentarmi
pregavo di non morire durante il sonno. Pensavo infatti che, nella disgraziata eventualità del rinvenimento, una pratica
simile avrebbe suggerito la presenza di oscuri riti iniziatici (un morto con l‘alluce sinistro allusivamente fasciato,
magari in direzione dell‘Oriente, come il seguace di un ungulato Anubi). Un caso a sé fu l‘incontro con un medico
umanista, esperto di argot, studioso di esoterismo. Sagaci giochi di parole, e l‘unghia sempre a pezzi. Poi uno calvo, più
schietto, e con una vera vocazione bibliografica. Almeno parla chiaro. Prende dagli scaffali un‘enciclopedia intitolata
L‟unghia, siede vicino a me e comincia a sfogliare. In una specie di confronto all‘americana, mi invita a riconoscere il
colpevole tra cento altri sospetti. E pagina dopo pagina, volume dopo volume, scorrevano le unghie più rovinate del
pianeta, una sterminata galleria di cheratine capaci di ogni forma immaginabile. Pietre preziose, a modo loro, in un
lapidario che spaziava su colori di ogni genere. Distrofia idiopatica, concluse, o meglio, onicosi inesplicata. Trovo
inoltre, su vecchi appunti, l‘espressione «sindrome di half and half». Sarà un mio delirio o un termine tecnico? A ogni
buon conto, scelgo qui di trascriverla. (pp. 96-97)
Il libro-referto comincia a parlare dei referti sul corpo che gli ha dato origine, e si mette en
abyme: il breve catalogo dei dottori vale come rubrica degli atteggiamenti di Magrelli dottore di sé
stesso che nel libro passa in rassegna ogni possibile patologia comportante trasformazione. Se la
«vera vocazione bibliografica» del compulsatore d‘enciclopedie rimanda al complesso tessuto
culturale su cui Magrelli sempre costruisce le sue opere, l‘umanista esoterico esperto di argot può
essere la controfigura umoristica del côté magico attivo, come si è visto, nella scrittura di CC: i
«sagaci giochi di parole» e lo sfruttamento del linguaggio fino alle sue più profonde riserve
semantiche ricordano da vicino le liaisons lessicali (fra cui anche le parole-trattino) intese a
generare i campi magnetici di senso di cui si è parlato. «E l‘unghia sempre a pezzi»: lo sciamano
moderno è privo di poteri. L‘unica diagnosi, espressa nell‘astrusa terminologia clinica, accerta che
la malattia non ha cause accertabili, che è assolutamente peculiare del soggetto portatore. Né
l‘enciclopedia né la simpatia universale o signatura rerum hanno da dire alcunché di utile in
proposito, se non appunto una formula (più o meno magica) che a malapena copre il loro fallimento.
E la refrattarietà della patologia all‘analisi viene affiancata dall‘enigmaticità di un frammento di
scrittura ―propria‖ in cui non ci si può riconoscere affatto, che, in tutta la sua opacità, non viene
nemmeno più citato, ma soltanto, e «ad ogni buon conto», trascritto.
Capo
Allora si dovrà rinunciare a una spiegazione, il linguaggio della malattia resterà del tutto
estraneo, impossibile da decifrare o almeno da attribuire a un complesso di cause? La risposta si
trova nel capitolo conclusivo di CC, forse il più difficile, intricato e bello del libro (qui l‘agudeza
magrelliana raggiunge il suo culmine e con ciò anche l‘inizio del suo tramonto, o trasformazione),
dove finalmente nella costellazione linguistico-corporea assume esplicitamente tutta la sua
importanza, come anticipato, il tema della paternità (e della storia). Infanzia di un padre – questo il
titolo – allinea ad un inizio analogo a quelli che si sono già illustrati uno sviluppo inaspettato. Si
comincia sempre con una malattia infantile, subito messa in risonanza con l‘area semantica della
germinazione e della fruttificazione, con le già viste dinamiche di causazione paradossale: il «vento
d‘aprile» fa spuntare sul viso del bambino «lievi semescenze esantematiche», come se diffondesse
112
semi nel corpo-orto. Al paragrafo incipitario segue un pezzo in corsivo (in questo caso anche fra
parentesi), secondo un‘alternanza che si riscontra solo qui (Infanzia di un padre è composta da due
tondi e due corsivi incrociati) in cui la metaforica della frutta, variamente declinata, si associa a
quella dell‘onda, riportando così la memoria alla prosa con cui il libro aveva avuto inizio. Leggiamo
per renderci conto dell‘ammirevole costruzione della fibra del brano:
(Frutta in conserva, vertebre che si incollano come prugne nel vaso della dispensa, zuccheri animali, cartilagini lente e
pesche sciroppate nel loro sugo. Mi frollo, mi spezio, mi trasformo. Con un lunghissimo brivido, miliardi di cellule si
vanno succedendo, onda su onda, mutando il materiale di cui sono composto. Ma tutto così gradualmente, ma tutto così
dolcemente, da conservare pressoché immutata l‟ansa che via via colmano di sé. Io stesso, dunque, costituisco il
medesimo testo di tanti anni fa, ma nutrito di lettere nuove, di sillabe alterate. Sono un esercito nel vivo della battaglia,
dove i rincalzi subentrano a chi cade, o un abito rattoppato con la sua stessa stoffa, un rammendo visibile, un telaio di
carne, «molecole su e giù come una spola») (p. 117)
Il flusso immaginale in cui la parola sembra disciogliere il corpo, con una specie di attività
alchemica, qui è costruito su un criterio di molteplice intreccio che seguo brevemente. Il corpo è
dapprima frutta in conserva, ascritto dunque al campo vegetale e alimentare (nella conserva è
presupposto anche un intervento tecnico umano), poi diventa vertebre che si incollano (figura che
torna spesso in Magrelli, come si è visto e si vedrà ancora, tanto da fare da modello alle paroletrattino), mantenute agganciate alla frutta dal ―come‖ e dalla comparazione; i due poli coinvolti
(vegetale-animale) sono poi mescolati nella figura di sintesi «zuccheri animali», e infine
nuovamente separati e tenuti agganciati nella doppia immagine suturata dalla comparazione. Dopo
questo tour de force, dove l‘evidenza della costruzione, sottolineata dalla simmetria delle partizioni,
sta a testimoniare l‘artificio, il carattere tecnico e non ―naturale‖ del composto, il discorso si sposta
bruscamente, tornando al carattere tondo («Ma basta») e utilizzando un‘altra malattia per narrare un
soggiorno terapeutico al Gran Sasso d‘Italia, che diventerà il proscenio di un vero dramma psichico
e non solo. L‘io racconta di aver alloggiato, giunto in quel «rustico Zauberberg […] fuori mano e
sconsolato e brullo», nello stesso albergo «da cui venne rapito un Mussolini imbelle, patetico
fantoccio» (p. 118). Il richiamo a Thomas Mann è subito doppiato dal riferimento a Goya, e queste
due citazioni incastonano l‘immagine del volto del duce, «il volto emaciato, la debolezza fintamente
altera di quel tiranno ridotto a prestanome». E l‘«ombra del Duce» si ritrova subito dopo, «almeno
nel nome», quando l‘autore racconta delle lunghe partite a «calcio balilla» che faceva al ritorno
dalle «escursioni familiari nel vuoto». Ma non basta:
Rimbomba la pallina, ticchetta per i corridoi deserti che videro il raid tedesco, cade, finisce sotto armadi polverosi. Ma
io, starò guarendo? Poi, molto tempo dopo, la lettura di una notizia che mi turbò: nel cuore di quella medesima
montagna, l‘installazione di un laboratorio nucleare. E tre. Come legare, adesso, la scoperta del gioco, Mussolini, e
l‘auscultazione dei quark? C‘è forse un biliardino di particelle elementari nascosto sottoterra? Oppure i calciatori di
plastica pesante, rossa e blu, equamente infilzati nelle lance d‘acciaio, si disputano la testa del Puzzone – all‘uso azteco,
dico? Riti sacrificali, iniziazioni, la morte e la rinascita del cosmo. Oppure: La rovina di Cascia. Un Theatrum mundi
casareccio, appenninico. E ancora, il Kurt di Apocalypse Now che sbuca nella Maiella come un re-sacerdote destinato al
macello (e lui stesso, del resto, non commerciava avorio, e dunque, lui calvo, palle da biliardo?) Eccolo, è un Marlon
Brando molisano che mima il Ramo d‟oro […]. (p. 118-119)
Dopo aver mostrato la tecnica nel prodotto finito, Magrelli apre l‘officina e ammette il
lettore nel processo generativo del suo testo: gli attrezzi e gli ingranaggi. Qui infatti il resoconto
verte sulla ricerca e sulla confezione delle analogie, sull‘opera di sartoria o orchestrazione che
porterà alla melodia avvolgente o al tessuto fine di metafore sulla pagina. Si formula la domanda
centrale: «come legare?», la si proietta su scala insieme cosmica, microscopica e storica, la si
riporta ad un‘esigenza di comprensione e di orientamento, e la si immerge in una sorta di brodo o
pastiche di citazioni di libri o film di argomento o temperatura mitico-sacrale (in un altro capitolo
era stato menzionato anche Il mulino di Amleto), tutti però rapidamente abbassati
dall‘ambientazione della provincia centro-meridionale. Il sollevamento del velo sulla fabbrica
rompe l‘incanto (o vorrebbe) delle onde analogiche e le fa intendere come messa in scena, artificio
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non cerimoniale ma euristico, tentativo di comprensione tramite uno strumento ―radiofonico‖
particolarmente ricettivo: un cannocchiale aristotelico, se vogliamo tornare al ―primo impianto‖ di
cui si parla nel capitolo secondo, che insegni attraverso la meraviglia.
Tralascio molti altri spunti di questo brano, che andrebbe minuziosamente commentato per
intero, per insistere su un particolare. Perché deformare il titolo del best-seller mitostorico di
Calasso (La rovina di Kash; ancora un libro su regicidio e ordine cosmico) in La rovina di Cascia?
Lo si scopre pochi righi più in basso, nel corso della seconda tranche in corsivo del raccontomeditazione su Mussolini:
Altro che Sansone: la sua forza giaceva in quel cranio polare (potenza e prepotenza volumetrica), quadridimensionale
(altezza, lunghezza, larghezza, dolcezza), magnetico Ŕ un bucranio capace di rassicurare le famiglie, mentre dietro,
pizzetti e manganelli. Le belve dei torturatori in camion. (A Cascia, piazza Magrelli, lontano zio torturato. Oncle e
Ongle strappata dalle dita. Infinita pietà del bambino che ne ascolta la morte). (p. 121)
La tortura del lontano parente ad opera delle «belve» fasciste è in grado di inserire una
piccola deformazione nell‘ordito citazionistico, pur se a sua volta ne viene ripresa e coinvolta: il
gioco tra «Ongle» e «Oncle» non può non richiamare la sestina di Arnaut Lo ferm voler, e in più
stabilisce un collegamento intratestuale con il capitolo quarantacinquesimo, dedicato all‘unghia
martoriata dell‘io accostata tramite la poesia L‟ongle, il cui titolo francese è citato esplicitamente.
Dato che l‘analogia, anche fonica, e anche molto sottile e lambiccata, costituisce senz‘altro uno dei
principi strutturanti di CC non sarà troppo azzardato restituire qui la serie unghia-ongle-oncle-zio, e
dire che quel «puro gorgo d‘antimateria», il fortissimo dolore che in XLV il soggetto si ritrova al
centro dell‘alluce destro altro non è che il dolore provato da suo zio sotto tortura. Ci tornerò tra
poco; intanto riprendo l‘immagine della testa del Duce-palla da biliardo per mostrare, ancora una
volta saltando molti passaggi, come Magrelli arrivi a dolersi che l‘Italia, quella testa, non sia stata
capace di farla rotolare, consumando così pienamente l‘assassinio rituale del Padre che nel racconto
freudiano è il crimine rimosso che sta alla base della civiltà ( e nella fattispecie di CC si intende la
civiltà moderna, le origini della democrazia liberale):
La scure inglese su Carlo primo, la ghigliottina su Luigi sedici, e in ultimo noi. Ma pavidi, senza il coraggio di arrivare
fino in fondo alla diminutio capitis. Un‟esecuzione clandestina, tremebonda, pudica. Tortuosi e nevrastenici, incapaci
di iniziare dal capo, abbiamo concluso con la testa sull‟asfalto. Senza toccarla, però, senza sporcarci le mani; solo le
scarpe. Comunque, possiamo finalmente dirci europei, con buona pace dell‟Italia fratricida di Umberto Saba. Dopo
Romolo e Remo, il Contra Tyrannos, e il nostro ingresso nella Cee, il Mercato Unico del Padre Assassinato.
La pallina del calcio balilla, di spostamento in spostamento, è diventata la testa del Duce, «il
capo del capo». E forse in chiusura di libro si è arrivati a dare una concausa storica e insieme
psichica a tutti i malanni e le alterazioni di cui si è fatto certosino censimento, e a reinserirli in
modo credibile su uno scenario geopolitico, per giunta. Si può ora arrivare all‘explicit di CC, a una
lettura distratta segnato da feroce privatismo, e in realtà molto più complesso:
Non mi interessa la storia, ma i miei mali, le sue cristallizzazioni, i nostri calcoli: la renella del sogno. Io ho trascorso
l‘infanzia insieme a un‘ombra. Io sono nato dopo un regicidio. (p. 122)
Occorre prestare grande attenzione a come il terzetto di aggettivi possessivi attenui di molto
la perentorietà della dichiarazione iniziale, probabilmente scelta da Magrelli, nella sua sempre
ammirevole tecnica compositiva, per introdurre il termine ―storia‖ nel primo membro di una frase
avversativa. Non la storia dunque ma i miei mali, (che sono) le sue (della storia) cristallizzazioni.
Nel capitolo introduttivo si trovava scritto che «mentre con il termine ―somatizzazione‖ si intende la
maniera in cui il corpo risponde a una pressione interna, qui vorrei provare a parlare di
―psichizzazione‖, al modo in cui si magnetizza un oggetto» (p. 3): riunendo il capo e la coda del
libro (che per tutta la sua estensione è rimasto indeciso, sospeso tra l‘ipotesi di averli e quella di non
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averli, capo e coda, cioè limiti e ordine) si può dire ora che i mali forse sono storia (sempre un
incubo, dunque) cristallizzata attraverso il filtro della psiche. Ai ―miei‖ mali e alle ―sue‖
cristallizzazioni si aggiungono infine, come sintesi, i ―nostri‖ calcoli, dove il termine bivalente sta
sia per i granuli calcarei che si formano nei reni (di cui Magrelli parla lungamente), per quanto
attiene al polo del corpo-io, sia per le macchinazioni, i progetti criminali del livello storico (che
vengono nominati apertamente molto meno). La «renella del sogno» è dunque il depositato
dell‘interminabile incubo della storia nei meandri della mente-corpo. La malattia contratta
nell‘infanzia (cioè il linguaggio e la capacità di avere un passato), questo parassita e questo
invasore, fa sì che nello spazio più intimo si installi, come un corpo estraneo, la fitta lancinante
degli accadimenti storici, degli eventi e dei meccanismi socio-politici. Mi fa male mio zio torturato,
mi fa male Mussolini ucciso quasi nascondendosi, mi fa male l‘Italia. Psico(fisio)storia.
Mostro
In DID Magrelli aveva tentato un rapporto relativamente più diretto con la sfera sociale e
con l‘ambito collettivo, utilizzando la griglia tipografica del quotidiano come sonda e insieme come
protezione nei confronti dell‘attualità, avvicinandosi ad essa ma anche dividendola e versandola
nelle rubriche e nelle pagine del giornale, da cui ciascun pezzo della silloge prende il titolo. Si ha
così un effetto di familiare serialità (affidato ai titoli) sempre confinante con l‘ottundimento, che
certo i versi si occupano di turbare e smentire, ma senza cessare di servirsene come basilare mezzo
di ordinamento della materia. Il libro, che si apre sotto l‘egida luttuosa di una data truccata, perché
spaccia per ―oggi‖ ciò che è accaduto ―ieri‖, il morto per il vivo, creando un tempo misto e
paradossale che Magrelli chiama «trapassato presente», sfrutta a pieno regime le tecniche retoricoarchitettoniche già perlustrate in precedenza, facendo salire al massimo i giri del motore
metaforizzante, e appuntando con frequenza i cardini delle parole-trattino. Ma il piano generale su
cui l‘analogia dovrebbe impiantarsi per metterne in risalto, tramite le sue colorazioni, pieghe,
costole e fasce muscolari è in questo caso un piano assolutamente astratto e che si sottrae dall‘inizio
a tutti gli sforzi dell‘immaginazione di renderne figura, o grappolo figurale, se non adeguato per lo
meno cognitivamente utilizzabile. Infatti ciò a cui DID cerca di dare qualche tipo di concretezza, sia
pur solo verbale, è il mondo (o l‘immondo, il non-mondo) dei flussi di capitali e di informazioni
sempre più smaterializzati che confidano nella velocità della corrente elettrica per la loro
circolazione, il mondo in misura sempre maggiore tradotto nella forma della merce, che come si sa
è piena di capricci metafisici, nient‘affatto ridimensionati, anzi il contrario, dal carattere vieppiù
elettronico e informatico assunto dalla merce stessa, e dall‘assorbimento ogni giorno più meticoloso
dell‘attività mentale nei grandi flussi deterritorializzati del vendibile. Valga come esempio il
seguente (p. 7):
Codice a barre
Onoriamo l‘altissimo vessillo
che sventola sul regno della cosa
l‘anima crittografica del prezzo
rosa del nome e nome della rosa
mazzo di steli, fascio
di tendini e di vene
–polso
per auscultare
il battito del soldo
Il mannello di versi regolari (endecasillabi i primi quattro, settenari i vv. 5, 6 e 8,
rispettivamente bisillabo e quinario i rimanenti due, che però se uniti formano un altro settenario)
svolge l‘ormai noto dispiegamento o tappeto di somiglianze: il codice a barre è una bandiera per la
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forma di un rettangolo poggiato su uno dei lati maggiori, e può sventolare sul regno che
simboleggia; è anima crittografica perché i suoi numeri e le sue barre, indecifrabili all‘occhio
umano, vengono però penetrati dalle macchine (per esempio i lettori ottici di cui tutte le casse sono
munite) per ricodificare le informazioni ottenute in un prezzo. Il verso successivo, perfettamente
simmetrico e dai toni allegorico-religiosi, ad indicare la natura intangibile e misteriosa di ciò che
riveste questo vero e proprio nome in codice, apre la via per il regno vegetale in cui entriamo subito
dopo con il «mazzo di steli» (le barre verticali ravvicinate): l‘immagine di corpi filiformi e verticali
ravvicinati si specifica nell‘altra sua concretizzazione «mazzi», che sono i ponti per varcare i
confini del dominio animale («mazzi di tendini e vene»), e arrivare finalmente al termine più
importante, quel «polso» isolato a costituire un verso e introdotto dal trattino, che dovrebbe servire
a chiudere la gettata o colata metaforizzante in un tracciato circolare, e così «auscultare / il battito
del soldo». Ma il denaro è per eccellenza ciò che non batte, che non fa rumore; è l‘equivalente
universale e perciò l‘entità più astratta che si possa incontrare tra la terra e il cielo. Il battito, allora,
rimane soltanto un auspicio di battito. L‘incanto malefico del denaro è troppo forte perché la parola
possa romperlo con la sua fatagione. «Adesso Sherazade non può più nulla», come scriverà
Magrelli a sconsolato suggello del testo intitolato non a caso Economia (p. 69). E se, come si è
visto, l‘attitudine clinica è assai presente anche qui, i toni sui quali viene orchestrata, specie in un
piccolo sottoraggruppamento di poesie intitolate proprio Medicina e dedicate alle manipolazioni
genetiche, sono senza dubbio di riprovazione e disgusto. Nella poesia Innestati nelle fragole alcuni
frammenti di DNA delle lucciole (p. 36) si legge che «sarà il barbaglio fra le siepi notturne / la
nostra risposta biogenetica / al roveto ardente. / Non più specie o famiglie, / solo la solitudine di chi,
ibrido, / scivola via da un corpo all‘altro, / fiamma senza contorno / che già divora il bosco delle
forme». Non si perita di scomodare il racconto biblico e la teologia, Magrelli, esprimendo
inequivocabilmente il suo orrore per l‘applicazione alla vita stessa del Dispositivo tecnico globale
(così recentemente Pietro Montani ha proposto di tradurre l‘heideggeriano Ge-stell): il dio ineffabile
ma presente nella fiamma dell‘Antico Testamento è rimpiazzato da un ―fuoco‖ immateriale,
illocalizzabile (qui si percepisce bene quanto la metafora debba rassegnarsi alla sua intrinseca
inadeguatezza), che spazza via l‘ordinato bosco delle forme abolendo ogni distinzione (è un‘idea di
Natura che si affaccia qui, in un poeta che tanto aveva messo in questione tale concetto) e creando
un deserto di luce tecnologica e sperdimento totale. La foresta – immagine archetipica di luogo
sacro e numinoso, nonché emblema della complicazione organizzata e decifrabile della scrittura
letteraria – è polverizzata da una magia nera più forte di lei, resa inabitabile. Al poeta non resta,
sembra dire Magrelli, che prendere atto di questo suo progressivo accecamento, della vanità dei
mezzi a sua disposizione, continuando giocoforza ad usarli per cercare ormai non più di opporsi alla
desertificazione, ma di organizzare microresistenze locali di valore simbolico. All‘interno di questa
strategia anche le parole-trattino subiscono un implemento che le tende fino al limite di rottura,
come si vede in questi versi di Manchette pubblicitaria (p. 80):
Vivi pure la vita,
a patto di ricordare
che siamo al mondo per acquistare, ossia
per far girare lo squalo del denaro,
creatura primitiva che,
in quanto priva di
apparato respiratorio autosufficiente,
per esistere deve circolare
senza fermarsi mai,
pesce-moneta-cane.
Incuneando ―moneta‖ alla giuntura dei termini della parola di partenza, già composta,
―pescecane‖ Magrelli prova forse a dare un equivalente verbale (quasi sprovvisto di versante
immaginativo) mostruoso del mostro di cui sta parlando, in continuo e necessario movimento per
stabilizzare il piano del Valore, per l‘uomo del tutto invivibile. La parola con due trattini, la parola-
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monstrum, è una specie di agglomerato inteso a striare il piano completamente liscio del Valore,
così come il piano di una delle sue alleate, la lingua sempre più uniforme, scriteriata,
insensatamente bisbigliante della pagina giornalistica. Un grumo che dovrebbe per un attimo
mettersi di mezzo ai flussi di denaro-lingua, lanciando un bagliore prima di essere riassorbito.
E ancora il mettersi di traverso, l‘innestarsi come un corpo estraneo, senza relazioni visibili
con l‘ambiente ospite, segna l‘ultima sezione di Disturbi del sistema binario, finora ultimo libro
magrelliano di versi, sezione intitolata L‟individuo anatra-lepre (una parola-trattino, dunque) e su
cui vorrei brevemente insistere. In questo caso il corpo estraneo è la sezione stessa, come si spiega
nel Dialoghetto sull‟opportunità di un‟appendice dedicata all‟individuo anatra-lepre posto a
introdurla (e a tenerla a distanza, giustificandola e in qualche modo riducendone l‘impatto
disgregante sull‘organicità dell‘opera) come spazio vestibolare dal décor didascalico. Organizzato
in domande e risposte, come una sorta di (auto)intervista, il Dialoghetto afferma che la «sezione
messa di traverso» dovrebbe agire «―come una diga sbarra un fiume‖» (di nuovo una dinamica di
flusso e argine, dunque) e, «fuor di metafora», «segnalare non tanto la scoperta del Male, quanto
quella della sua localizzazione, rivelatasi molto più vicina del previsto» (p. 51). Si è pervenuti a
questa scoperta, importantissima nell‘economia dello spazio logico e poetico di Magrelli, come
dovrebbe ormai risultare evidente, grazie all‘ennesimo frutto di contaminazione e spostamento,
praticato nel tentativo di spiegare «eventi analoghi e apparentemente inspiegabili»: l‘applicazione
«alla sfera dell‘etica di un modello ispirato alla psicologia della percezione. Il risultato è un‘opera di
fantascienza, o ―scienza fantastica‖, nel senso letterale del termine» (p. 51). Annotato come ancora
e nonostante tutto Magrelli si affidi all‘operato della ―fantasia‖, la facoltà di manipolare le
immagini (o di crearle), come sostegno per la conoscenza, anzi come elemento da combinare e
impiantare sulla facoltà intellettiva, passiamo a considerare il paragone complesso di cui lo scrittore
si serve per spiegare l‘ultimo quadro del suo libro:
È stato come accorgersi che il Nemico ha un avamposto in casa; di più, che la sua azione si colloca a livello
neurologico. Nella stessa maniera, l‘immagine dell‘individuo anatra-lepre si è insediata nel libro senza che il firmatario
potesse farci nulla, se non provare ad esporre, tramite questo dialogo, le ragioni della sua resa. (p. 51)
La sezione si è insediata nel libro, a dispetto del suo firmatario, così come l‘immagine
dell‘anatra-lepre è penetrata nel cervello del firmatario stesso; entrambe stanno dentro i rispettivi
contenitori o ambienti, ma come nemici, come avamposto del nemico o come sua figura
segnaletica. E, aggiungo, agiscono a dissestare e smontare via via, in modo quasi impercettibile ma
continuo, le strutture e le cadenze di quel dentro. L‘anatra-lepre è ovviamente il test percettivo su
cui in modo quasi maniacale si arrovella Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche: una figura che può
essere vista come anatra e come lepre (ma mai nello stesso tempo come anatra e lepre, e che
naturalmente non è né un‘anatra né una lepre). Sarebbe interessante, ma non si può fare qui,
verificare come Magrelli legge Wittgenstein (in maniera assai poco wittgensteiniana, direi); meglio
allora indagare il senso che la figura e la formula verbale dell‘anatra-lepre assume nella sezione. La
cifra che la contrassegna è quella di una duplicità aconflittuale, complanare – come scrive lo stesso
autore – e foriera di impoverimento e vertiginosa diminuzione del senso della complessità del
mondo. L‘invasione dell‘anatra-lepre non è una fra le altre, è l‘invasione che sembra mettere fine
alla poetica dell‘ibrido e del mostruoso, al modo di dare forma nel linguaggio ad una situazione
percettiva e fors‘anche ontologica, come mezzo di conoscenza per contatto portata avanti tra
difficoltà e ripensamenti per tanti anni da Magrelli. L‘Anatra-lepre è l‘invasione stabilizzata, nella
sua versione imperialistica, cristallizzata in dominio. La molteplicità non irreggimentabile in cui
sembrava implicato il processo di soggettivazione – una molteplicità preindividuale di cui
l‘individuo non era che la temporanea e sempre diveniente saturazione, in termini simondoniani se
si vuole – qui viene denunciata come puramente immaginaria, un luminescente sfarfallio che copre
una realtà ben più semplice e più dura. Duplice e non molteplice, questo scomparto, lo è già a
partire dall‘impaginazione (e quindi dall‘impatto visivo indipendente dalla lettura): fatto salvo il
Dialoghetto d‘ingresso e un Post-scriptum (bipartito) di cui si dirà fra poco, consta di venti brevi
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poesie disposte una per pagina, in corsivo sulla pagina di sinistra e in tondo su quella di destra. La
duplicità malefica modifica anche il valore della parola-trattino: ―anatra-lepre‖ non può riferirsi ad
alcun fenomeno di fluidificazione e poi di irretimento metaforico, ma sancisce al contrario la
disfatta di questa tecnica, esautorata della sua firma dal Nemico. «Esseri doppi popolano il mondo. /
Sembra che lo raddoppino, / in realtà lo dimezzano» (p. 56); perché «nessuno può vedere anatra e
lepre / insieme. O l‘una o l‘altra, / e l‘una dopo l‘altra» (p. 57). Nell‘arbitrio con cui Magrelli si
impossessa del test psicologico e del suo transito wittgensteiniano rientra l‘attribuzione di caratteri
morali alle due silhouettes animali (è un fattore del trasferimento alla sfera etica), caratteri anch‘essi
fortemente polarizzati: la lepre è perfida e sanguinaria, l‘anatra è non certo ―buona‖ ma illusa di
esserlo (quindi sostanzialmente sciocca, cieca, e per una ragione ben precisa). E da quest‘arbitrio
―idiomatico‖ discende anche la «terza regola», ossia che, fra le due figure, la prima ad essere
percepita è sempre quella illusoriamente buona, e l‘altra «arriva sempre per seconda» (p. 57).
Questa creatura inoltre non ha coscienza della sua duplicità, poiché «grazie a un apposito
commutatore neurologico, / non c‘è passaggio tra le due metà» e, rincara Magrelli in modo
addirittura paradigmatico, se si è seguito fino ad ora il percorso di questo saggio, «Jekyll e Iago
esistono soltanto nelle fiabe» (vaporizzate, lo si è visto in DID, dai «numeri» dell‘economia). Ed è
difficile resistere al pensiero che la micidiale macchinetta anatra-lepre sia crudelmente proiettata da
Magrelli su temi e tòpoi della sua scrittura, per smantellarne il vecchio significato e sostituirlo col
nuovo e orrendo; non può essere un caso che nella poesia che si è cominciato a citare l‘anatra-lepre
venga messa davanti allo specchio, e integrata così ( a meno che non sia vero il contrario) in quella
serie di riflessi speculari semplici o doppi che occupano un posto concettualmente così importante
nel lavoro letterario e critico dell‘autore romano.(5) L‘anatra allo specchio non «vedrà spuntare il
suo secondo profilo»: «questa specie di mostri disconosce / la sua parte mostruosa, / senza che
possa esistere agnizione. / La crudeltà dell‘anatra appartiene alla lepre, / che infatti, non a caso,
guarda dall‘altra parte» (p. 59). E quando l‘io prova «a mettere un‘anatra di fronte / alle azioni
compiute dalla lepre», tenendola ferma a forza, non ottiene ugualmente nessun riconoscimento, anzi
la macchina si disattiva come per sovraccarico o corto circuito: «c‘è un relais, in quei disegni, / che
non consente loro alcun passaggio / da un lato all‘altro della prospettiva. / Per questo certe lepri
sono in grado / di fare paralumi in pelle umana, / mentre l‘inconsapevole anatra/ volge il viso» (p.
65). È fin troppo evidente, dunque, che a mancare in questa nuova versione della parola-trattino è
quell‘«attrito» che la parola aveva in origine la funzione di ritrarre: l‘«io fricativo» di Treno-cometa
ha lasciato il posto a un‘agenzia di autoesonero che solleva il soggetto dalla consapevolezza delle
crudeltà di cui pure è, indirettamente quanto si vuole, responsabile. Niente attrito, niente dolore, e
niente contatto con il presente e la storia (era questo, abbiamo visto, l‘intreccio sempre sciolto e
riallacciato di CC): tutto fila liscio come l‘olio. Anche la scrittura poetica è dunque costretta a
rivedere il proprio statuto, e ad assumerne uno più modesto e integrato: «ninnoli fatti con calcoli
renali? /Se con i propri, passi. Poesie. / Smaltimento rifiuti» (p. 64). Dalla «renella del sogno»
come fondo in cui leggere i traumi nascosti della storia si è passati ad una dignitosissima e forse
perfettamente vana autoecologia: i calcoli non sono più ―in comproprietà‖ con la storia, ma soltanto
e desolatamente propri, buoni per il riciclaggio e la decorazione. Braccialetti per l‘anatra e niente
più. La regressione dal terreno ideale su cui i precedenti lavori di Magrelli avevano condotto il loro
sperimentare, senza che a tale abbandono corrisponda l‘attivazione di un diverso campo di forze,
porta la poesia al suo punto di massima e apparentemente irrimediabile paralisi nella coppia di testi
del Post scriptum, dove la resa completa è sancita da quella che si deve chiamare una visione,
ambientata durante un sei di gennaio, «Nera Epifania» con tanto di maiuscole allegorizzanti,
squarcio del velo. L‘ultimo fondo su cui si era nonostante tutto sperato di poter organizzare una
resistenza, di orchestrare un piccolo cerimoniale da opporre, anche solo simbolicamente, a quello
strapotente del Capitale immateriale e informatizzato, per tenere in vita almeno qualche piccolo
cenacolo di cospiratori, si rivela già parassitato, invaso dal consueto Nemico:
[…] la lepre mi balzò agli occhi
e mi rispose mentre mi rivolgevo all‘anatra.
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Fino ad allora avevo ciecamente
creduto nella sacra liturgia del colloquio.
Comunicare, per me, significava comunicarsi nella comunione di una parola comune.
Quel giorno compresi lo scopo del Giano animale:
vanificare, ossia «gianificare», ogni scambio verbale.
Adesso è un mondo invaso da ultracorpi, dove chiunque potrebbe rivelare un profilo nascosto,
parallelo,
ignoto anche a se stesso.
Tutte le venature pneumatologiche che si potevano scorgere nella tessitura della pagina
magrelliana qui vengono esposte in maniera diretta come mai prima, nella figura etimologica
complessa che concatena o meglio identifica comunicazione, comunità e comunanza nel soffio della
parola e nell‘arte dell‘ascolto partecipe, solo per cedere alla ―gianificazione‖ che ne contaminerà il
potere vivificante rendendolo non più affidabile. Non sarà ormai più possibile pensare una
molteplicità che ha una lingua in comune, cioè che viene insieme articolata e tenuta insieme dalla
lingua che ciascuna singolarità lavora sul limite del proprio corpo (corpo proprio sempre esposto
estaticamente ad un‘apertura originaria sul mondo, in quello che Merleau-Ponty definiva
«chiasmo»), ma l‘unico modello disponibile per la nuova situazione sarà quello dell‘ultracorpo, del
parassita alieno impiantato nell‘organismo ospite fino a farne parte integrante. Comunità di anatrelepri, di virus, di Aliens. Vedere l‘amica anatra, con la quale è amabile colloquiare, trasformarsi
improvvisamente in un essere mostruoso e crudele instilla un intollerabile dubbio retroattivo sui
precedenti colloqui: ci saremo parlati davvero? con chi parlavo? È così diventato illusorio confidare
nella presenza di una «lingua comune» (p. 75) o nella capacità di costruirla; il «pesce-moneta-cane»
privo di apparato respiratorio autonomo ha scompigliato con un colpo di coda la piccola sfera del
respiro messo in comune.
Creature biforcate e logo-immuni
mi sorsero davanti,
invulnerabili alla verità.
Ero entrato nell‘era dell‘anatra-lepre,
in un‘età del ferro, del silenzio. (p. 75)
Commento
Si potrebbe dire che V sia la continuazione di DID e di DSB con i mezzi di CC: confermato
l‘assetto complessivo del precedente libro di prose, V offre pezzi brevi (mediamente più brevi che
in CC), disposti in una serie dettata da un tema o occasione unico – qui i «treni e viaggi in treno»,
come da sottotitolo, là il corpo e i sui metamorfici malanni – tema svolto in entrambi i casi
tuffandosi nel materiale biografico e biologico; si ripresentano i complicati intrichi di citazioni dai
libri degli altri e dai propri, e l‘accostamento di prosa e poesia, e analogo è l‘intento di autoanalisi e
riconsiderazione della propria traiettoria esistenziale. Ma la temperatura emotiva, l‘attitudine e direi
quasi il timbro con cui si attuano questi procedimenti è simile piuttosto al (quasi) disperato
sconforto dei due volumetti poetici, e gli elementi di novità di V sono, si direbbe, sviluppi degli
esiti in quelli raggiunti. La fisionomia di V è quella di CC sottoposta ad un intervento che la
modifica sensibilmente, anche se non è subito facile comprendere in che modo. In linea di massima,
e con le precisazioni che seguiranno, dico che qui Magrelli riprende e ribatte, come al solito,
porzioni del suo repertorio e si serve ancora della tecnica del richiamo, dell‘ibridazione e
dell‘innesto, ma per cercare la maniera di contenere, di arginare e separare da sé la mostruosità con
cui si era per un certo periodo rivestito, secondo la direttiva ―farmacologica‖ che si è vista. Questo
nuovo cambio di strada deriva dalle conclusioni che all‘autore è sembrato di poter trarre da una
parte sulla qualità solo immaginaria e illusoria della sua precedente teratologia come sonda di
indagine e contatto (o forse più direttamente, sulla natura illusoria di ogni immaginario), e vira
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verso la ricerca (o la nostalgia, o il rimpianto postumo) di una «giusta distanza», tra sé e sé e con le
cose, di un punto d‘osservazione affidabile. Per cominciare, Magrelli ripropone una sua tematica
antica come quella del sonno, che a partire da OSR è già stata l‘oggetto di più d‘una manipolazione
e rovesciamento, e la declina secondo la ―postura spirituale‖ di DSB. Già raccoglimento essenziale
in cui il soggetto si ritira in sé stesso e accede all‘ambito protetto dell‘elaborazione del pensiero e
dello sguardo (in OSR), già riposo turbato e interrotto dalle voci che il muro della casa, emblema e
dispositivo identitario, non riescono a tamponare sufficientemente (in ET), qui al sonno viene
attribuito un carattere comatoso e «agonico» (p. 7), in cui l‘io smarrisce («Smarrimento.
Smarrimento») sia ogni lucidità ―eidetica‖ sia ogni ascolto del brusio interno/esterno del mondo.
Questa radicale perdita dei sensi è inoltre ambientata, nel primo dei molti pezzi dedicati alla
questione nel libro, su un treno notturno in corsa, e accompagnata da una fortissima perdita di
luogo, dal soggiorno in uno spazio interstiziale, unione e separazione (ancora Giano); e questo
spazio si estende, e assimila a sé tutti gli altri:
Viaggiavamo di notte, su convogli stipati, senza cuccetta, senza nemmeno il posto. A volte si dormiva nei corridoi,
finché una volta ci dovemmo arrendere, e ci accomodammo sul passaggio pensile. […] Acque abissali, dieci, quindici
ore di un sonno agonico. Smarrimento, smarrimento. E dunque cosa cambia, dormire dentro un letto o sopra una lastra
d‘acciaio, a picco sui binari, in un rombo, uno scasso a centoventi all‘ora? Io dormivo così: ero il sogno del treno. (p. 7)
Lo stile di V presenta rispetto a quello di CC una proliferazione metaforica molto minore, è
mediamente più secco, scarno. La mouvance e gli effetti di risonanza semantica sono assai
diminuiti, anche se le prose continuano a succedersi non secondo un disegno o programma
prestabilito ma per affinità e contiguità interne. La discontinuità, la forte cesura rispetto al passato si
vede particolarmente bene in alcuni casi di autocitazione. Ad esempio:
Fino a pochi anni fa, appena dietro le Mura Vaticane, una strada senza uscita conduceva alla Stazione San Pietro,
piazzetta per lezioni di scuola guida, quadretto paesano stremato e dolcissimo. Da lì partiva il treno per Viterbo. Il
Lazio, il proto-Lazio!, col suo parlare sgraziato e povero, mozziconi e parole, l‟aria rustica e Oriolo, Settevene,
Spizzichino.
Ora è cambiato tutto. Inevitabile, certo, ma dico solamente che è cambiato. La piazzetta è diventata una rotatoria, la
stazioncina, un fabbricato moderno. E adesso che ci penso, ricordo che c‘era addirittura la vasca dei pesci rossi…
Inutile rimpiangere – e rimpiangere cosa, alla fin fine? Giusto le lezioni di scuola guida. Meglio dimenticare.
Obliteriamolo, questo passato, obliteriamolo come un biglietto, anzi, per dirla tutta, come un ―titolo di viaggio‖. E così
sia. (p. 16)
Il primo paragrafo viene da Terranera, una delle prose ―memoriali‖ di ET, ma è da notare
come rispetto all‘inclusione tendenzialmente integrante (secondo il paradosso ricordato dell‘intimo
come il più estraneo) di CC, dove le tracce dell‘avvenuto innesto non erano così evidenti, qui il
testo si presenti nettamente bipartito, e le componenti siano differenziate anche dall‘uso del corsivo
e del tondo (la cui alternanza si trovava già in CC, ma mai a discernere narrato da commentato o ora
da allora). Il passo citato non è più l‘intimamente estraneo motore del testo, il processo autocitatorio
non si conta più nel novero delle oscillazioni che tracciano e cancellano il confine tra dentro e fuori,
tra corpo e mondo, tra memoria come conservazione e oblio come libero riutilizzo; qui i rapporti
temporali e concettuali tra le parti nettamente distinte si allineano su una ben precisa gerarchia. La
citazione in corsivo è il passato, ed è lo stile e l‘attitudine magico-evocativa che trova un angolo
arcaico nel cuore della metropoli moderna o postmoderna; l‘altra sezione è il presente della
riflessione – quasi un piccolo soliloquio a mezza bocca, con espressioni e sintassi semicolloquiali –
che marca la distanza da quel passato, lo commenta congedandolo e guardando fisso a quello che
c‘è ora. Il passato va dimenticato o meglio obliterato; e il termine si attesta subito nell‘orrendo uso
che se ne fa recentemente, come sostituto asettico e tecnico-burocratico di ―timbrato‖, con riguardo
ai biglietti dei mezzi di trasporto (altri dice ―vidimato‖). La correctio seguente, che cancella
(oblitera?) ―biglietto‖ a favore di «―titolo di viaggio‖», è la seconda spia della resa della lingua alle
derive nell‘insignificante e nell‘inutilizzabile: e si pensi al Post scriptum di DSB e alla perdita, lì
120
denunciata, di una lingua comune (la perdita di un sogno, come detto esplicitamente, il sogno di
ricondurre la ―comunicazione‖, feticcio fra i massimi degli ultimi cent‘anni di società spettacolare,
al calore di una comunione, di un mettersi in comune nella lingua), disperatamente rimarcata qui
dalla formula iussiva-ottativa di chiusura («e così sia»). Magrelli non ―viralizza‖ più il suo corpus
scrittorio depositato, facendosene a sua volta viralizzare nell‘opera in corso di fattura, in un
movimento di duplice disorientamento costruttivo; al contrario, l‘autore ristabilisce delle distanze
accertabili, disciplina il corpus e la storia personale e culturale, e si avvicina molto, fino ad aderirvi
pienamente, al codificatissimo genere del commento.
Si tratta di una mossa di grande peso interpretativo. Un dispositivo di aggregazione testuale
partito come indice e produttore di disidentificazione – quello dell‘auto-etero citazione – fa segnare
per ora la sua ultima tappa approdando alla spiegazione di come l‘autore ha scritto certe sue poesie.
In CC questo sarebbe stato non meno che impossibile; invece V sceglie di chiudere (positio
princeps, quindi: la coda) proprio con un‘autoesegesi, e per di più indirizzata all‘importantissima
Treno-cometa, il testo della parola-trattino come «ritratto dell‘attrito». L‘ordine della pagina e le
movenze della prosa sono rivelatrici: il testo poetico è posto in alto, riportato integralmente (incluso
il lungo brano in esergo), seguito, dopo una spaziatura (una distinzione), dalla prosa che si avvia
con una tipica formula metalinguistica: «questa poesia, la sola che ho dedicato per intero al treno,
ha una storia piuttosto complicata». Le cinque pagine successive saranno occupate dagli sforzi di
dispiegarla, di districare la complicazione; e Magrelli si muove secondo le più riconoscibili e
istituzionali regole di un commento ben fatto. Distingue innanzitutto gli elementi che il testo ha
annodato e sovrapposto, chiamandoli «visioni» ed enumerandone quattro (clinica, aneddotica,
storica, mitologica) forse con non so quanto volontario richiamo ai canonici quattro sensi di una
scrittura prescritti dagli esegeti tardoantichi e medievali; passa quindi alla spiegazione separata di
ciascuna delle quattro, inserendo persino due lunghi passi di Tito Livio e di Baltrušaitis (e, in
aggiunta, citando un «intero volume» «scaricato da internet»: il commentatore aggiorna i suoi
strumenti di ricerca) che gli sono serviti come spunto (non c‘è commento che possa sollevarsi da
un‘adeguata ricerca delle fonti), e conclude compendiando il senso ultimo del testo,
l‘interpretazione da dare all‘io fricativo: «La sofferenza è la pietra molare su cui affilare la nostra
identità» (p. 103). Un poscritto a pie‘ di pagina, entro parentesi tonda, chiosa: «(Queste prose,
perciò, sono gli ultimi focolai delle scintille sparse dal treno in corsa)». Nel dubbio se questi focolai
(termine anche medico) si stiano spegnendo, oppure se siano ancora capaci di riattizzarsi e far
divampare di nuovo l‘incendio; e nell‘incertezza se l‘identità affilata sulla mola del dolore sia
ancora in qualche modo condivisa e storica, oppure solo narcisisticamente individuale, tutta intenta
a medicarsi, si può finire qui inscrivendo V sotto un‘egida, un vero e proprio emblema che il libro
racchiude facendosene racchiudere. Si trova in un pezzo, uno dei numerosi, incentrato sul mal di
schiena e sulle misure adottate dall‘io narrante-ragionante per alleviarlo, in questo caso l‘iniezione
di antidolorifico che deve somministrarsi durante il viaggio in treno, nella toilette. Abbiamo così
l‘estremo autoritratto allo specchio che l‘autore ci consegna; non di fronte ma di spalle, in
disagevole torsione, con le brache calate, cercando di individuare grazie al suo riflesso il punto in
cui far penetrare l‘ago. La proiezione mitologica, una delle molte che troviamo nell‘opera di
Magrelli, e che andrebbero studiate attentamente, è anche in questo caso ambigua, e se da una parte
la solenne drammaticità del mito è bruscamente ridotta dall‘ambientazione in cui è costretta, non è
inverosimile pensare che la direzione del movimento potrebbe anche invertirsi:
Cercavo di individuare il bersaglio mobile, fra sussulti improvvisi dei binari, contorcendomi spalle allo specchio. Io,
piccolo Perseo medico, volgevo gli occhi verso quello scudo magico per sconfiggere il male, la tremenda Gorgone
dorsale che altrimenti mi avrebbe pietrificato. Più o meno a quel punto bussavano, i Banali, per distrarmi, per spingermi
a fallire; ma intanto il più era fatto, il colpo già vibrato, il paletto di frassino calato, per inchiodare il Vampiro del dolore
alla bara del Buscopan.
Quest‘autoritratto con specchio e siringa (o scudo e spada, o vampiro e paletto di frassino),
che sarebbe di stupendo manierismo, non fosse per il grammo di bonarietà che colora l‘ironia,
121
espone le cifre del soggetto che agisce in V, dolorante, in equilibrio incerto, che interviene sul suo
corpo con uno strumento tecnico non per verificare affascinato la porosità dei suoi confini e
l‘indecidibilità tra proprio e altro, ma per sedare le fitte, mettere fine ai morsi del vampiro (altro che
le vertebre-pacchetti di CC): se non proprio per diminuire l‘attrito, almeno per ridurne
farmacologicamente gli effetti percepibili.
Coda
O supplemento da ponderare e situare non so bene come. Nel gennaio 2010 Magrelli ha
pubblicato Nero sonetto solubile, un bellissimo saggio critico su dieci diverse trasmissioni, e quindi
riprese, quasi esclusivamente in area francofona, del sonetto baudelairiano Recueillement. Nei
capitoli più teorici, il primo e l‘ultimo (il capo e la coda), l‘autore discute lungamente del problema
che in fondo si ritrova, variamente svolto e sfumato, in molta parte della sua opera letteraria, ossia
quello dell‘eredità, del destino di una tradizione, non solo letteraria, attraverso il tempo, del
rapporto tra libertà e costrizione nel contatto con i Padri, di una fedeltà che sia anche incessante
trasformazione. E lo fa con un massiccio ricorso – sostanziato qui apertamente da una ricca
bibliografia filosofica, soprattutto francese – sia all‘area lessical-concettuale della malattia e della
patogenesi, sia alla figura o non-figura del mostruoso. La tradizione non è pensata come
Patrimonio, sempre da proteggere contro i pericoli di alienazione, di sperpero, ma proprio come
focolaio d‘infezione, come virus, come parassita che infetta i testi di epoche successive: li infetta
vivificandoli, mettendoli in mutamento e mutando essa stessa nel contatto-contagio. I frutti vivi
della tradizione, mostruosi perché singolari, sono non quelli che vi attingono come ad una riserva
(un parco storico o geografico), bensì quelli capaci di esserne affetti, di inocularsela, e di produrre
così tanti testi-malattia ognuno diverso dall‘altro. Magrelli indica un‘alternativa, sul terreno
dell‘intertestualità, tra un modello di riferimento edipico-genitoriale e uno virologico-parassitario,
«il primo basato sulla figura autoritaria e isolata del genitore, l‘altro su quella plurima e pervasiva
dell‘inquilino. […] Potremmo da un lato immaginare la citazione come un uovo, una cisti, che
giunge ad annidarsi nella nicchia dei testi altrui; dall‘altro vedere l‘autore come un agente di
trasmissione, intento a covare e incubare la tradizione sotto forma di dono e contagio» (p. 210).
Come contrappeso al favore qui espresso nei confronti della citazione-contagio, può forse giocare il
fatto che Magrelli l‘abbia espresso così chiaramente nell‘ambito tendenzialmente oggettivizzante
(immunizzato?) della scrittura critica. Ma potremmo altresì pensare che questo sia un modo per
―spingere la scrittura critica‖ verso l‘opera, in una fruttuosa indeterminazione: è quello che da
qualche anno fa Gabriele Frasca; e forse è anche quello che sta tentando, certo con cautele molto
maggiori, anche Magrelli.
Mentre chiudo queste pagine, mi giunge notizia di un altro libro magrelliano, appena
pubblicato nella collana «fuoriformato» dell‘editore Le Lettere, diretta da Andrea Cortellessa (alla
gentilezza del quale devo le informazioni che seguono). È un libro di pezzi per musica e sulla
musica (assieme al libro ci sono tre cd su cui si possono ascoltare gli arrangiamenti, le
orchestrazioni di testi compresi nel volume), e ha come titolo Il violino di Frankenstein. Musica e
mostruoso, dunque, e per di più accostati in un‘autocitazione (innalzata addirittura a epigrafe). Così
l‘explicit di Lezione di metrica, in ET: «Il violino di Frankenstein mi chiama. / E io sono il mostro
musicale / condannato alla ruota musicale / della sua musicale nostalgia» (p. 284).
L‘ultima reviviscenza analogica di V, a dispetto della disillusione e del dolore, compara il treno agli
spermatozoi, «creature caudate che corrono verso la fecondazione, per sparpagliare i loro semi nel
mondo» (p. 104), con doppia sovrapposizione, che rimane da immaginare al lettore, tra coda di
vagoni, coda dello spermatozoo e coda del libro: colpo di coda, zigzag per riaprire e reinventare da
un‘altra parte.
Federico Francucci
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Note.
(1) Le opere poetiche di Magrelli sono Ora serrata retinae, Milano, Feltrinelli, 1980; Nature e venature,
Milano, Mondadori, 1987; Esercizi di tiptologia, Milano, Mondadori, 1992 (queste tre raccolte sono
confluite, con l‘aggiunta di un gruppo di versi inediti in volume, in Poesie (1980-1992) e altre poesie,
Torino, Einaudi, 1996, da cui qui si cita), Didascalie per la lettura di un giornale, Torino, Einaudi, 1999,
Disturbi del sistema binario, Torino, Einaudi, 2006. Del lavoro in prosa qui si citerà da Nel condominio di
carne, Torino, Einaudi, 2003, e da La vicevita. Treni e viaggi in treno, Roma-Bari, Laterza, 2009. Le due
uscite recentissime alle quali si fa cenno nell‘ultima parte del saggio sono Nero sonetto solubile. Dieci autori
riscrivono una poesia di Baudelaire, Roma-Bari, Laterza, 2010, e Il violino di Frankenstein. Scritti per e
sulla musica, Firenze, Le Lettere coll. «fuoriformato», 2010.
(2) R. Krauss, Post-strutturalismo e paraletterarietà [1979], in L‟originalità dell‟avanguardia e altri miti
modernisti, Roma, Fazi, 2007.
(3) G. Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo dei media, Roma, Meltemi, 2005.
(4) Il lungo passaggio in esergo, di misura superiore a quella del testo stesso e per di più appartenente ad una
―letteratura‖ così distante dalla poesia come quella giudiziaria, produce ovviamente un urto e uno squilibrio
(un altro attrito, si potrebbe dire). Anche in questo caso però si possono trovare dei fluidi per oliare la
macchina ibrida. In Sopralluoghi (il dvd è uscito da Fazi nel 2007), il filmato in cui Magrelli legge e
commenta alcune sue poesie in ―cornici‖ da lui individuate nella città di Roma, l‘autore afferma di essere
stato colpito dal «tono commosso» e dalla potenza immaginifica della prosa legale ( i ―fasci‖ di scintille che
si ―sprigionano‖, la forza laconica del ―bruciato‖ di chiusura) e la legge alternando la cadenza acciaccata e
strascicata a impennate di solennità.
(5) Oltre ad attraversare, tra scomparse e riemersioni, l‘opera poetica, la figura dell‘uomo allo specchio è
investigata a lungo da Magrelli in Vedersi vedersi. Modelli e circuiti cognitivi nell‟opera di Paul Valéry,
Torino, Einaudi, 2002.
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GIAN LUCA PICCONI
“GROTTESCO PER DISPERAZIONE FORMALE”: LIRISMO E ROMANZO IN ALDO
NOVE E TOMMASO OTTONIERI
1. Mi chiedo cosa accadrebbe se un ipotetico lettore avvertito della fine degli anni ‘50 fosse
improvvisamente catapultato nel 2010: come leggerebbe i libri di Aldo Nove e Tommaso Ottonieri?
Supponiamo che questo lettore, superato un primo momento di possibile rifiuto, decida di prendere
sul serio sperimentazioni così difformi da quelle possibili, appunto negli anni ‘50: quali categorie,
quali strumenti critici avrebbe da impiegare, per entrare nella materia di queste scritture, di due
libri-romanzo come Puerto Plata Market e Le strade che portano al Fùcino? Sono quasi sicuro che
il grimaldello che il nostro ipotetico lettore adotterebbe per una entrata in materia sarebbe, per lo
meno inizialmente, quello del lirismo. Cercherò di fornire alcuni esempi di lirismo nel romanzo: che
non vogliono assurgere a prospettiva totalizzante, ma solo consentire di inquadrare minimamente il
fenomeno. Immaginiamo che questo testo sia stato scritto a quattro mani, da quel lettore avvertito di
sessant‘anni fa e da me.
In una lettera indirizzata a Pasolini all‘indomani della pubblicazione di L‟usignolo della
Chiesa Cattolica, Calvino scriveva: ―La lettura del tuo nuovo libro di vecchi versi propone una
redistribuzione dei generi letterari: alla poesia in versi spetta oggi quello che prima era materia dei
romanzi autobio-bildung-psico-ideologici, mentre alla prosa narrativa tocca quella traduzione in
immagini oggettive, ritmo musicale e cifre linguistiche proprie del mondo soggettivo, che una volta
era tema della poesia in versi. Il che è giustissimo‖ (1). È forse una rozza semplificazione, ma non
manca di cogliere un nucleo di verità. L‘ossessione di Calvino, evitare l‘autobiografismo, era in
molti e diversi modi il rischio di una certa parte del romanzo a lui contemporaneo: il romanzo
dell‘―uomo ermetico‖, avrebbe detto altrove(2). Era anche effetto di una congerie di esperienze
radicate nella biografia calviniana: il romanzo dell‘uomo ermetico era quello che Vittorini aveva
coscientemente, anzi, dal suo punto di vista coscienziosamente abbandonato; ma era soprattutto
quello che, con il suo decadentismo, si era trovato a preludere al suicidio di Pavese. Un conto mai
chiuso, in fondo, per Calvino: che quando sentiva puzza di romanzo lirico, si ritraeva con sospetto.
Non a caso, di fronte a Ragazzi di vita, Calvino si esprimeva in termini che contemporaneamente
dimostravano apprezzamento e una evidente svalutazione; Ragazzi di vita era ―pur bellissimo come
poema lirico‖(3), ma certo inferiore a Una vita violenta.
Romanzo e soggetto, romanzo e voce. Anna Banti e Pasolini. Il problema della distribuzione
dei generi in Pasolini era sentito anche da altri personaggi cimentatisi con la sua opera. A.[nna]
B.[anti] scriveva su ―Paragone‖: ―Pasolini racconta col linguaggio medesimo dei suoi protagonisti,
confondendosi con loro, sforzandosi di entrare nei loro panni, forse per non tradirne le loro ragioni.
[…] in altre parole, per cancellare il proprio io di narratore colto e civile – e dunque per eccesso di
generosità obiettiva – il Pasolini finisce per negare talvolta ai suoi eroi la sua partecipazione
personale‖(4).
Discorsi simili a quelli di Anna Banti sulla sua prosa, Pasolini li aveva fatti sulla poesia: ―c‘è
nel poeta dialettale medio il terrore di essere linguisticamente diverso. Di non obbedire rigidamente
a quel codice d‘onore linguistico che è nell‘anonimo anche più scanzonato. E la sua più grande
ambizione è quella di annullarsi nell‘anonimia, farsi inconscio demiurgo di un genio popolare della
sua città o del suo paese, portavoce di una «assoluta» allegria locale‖(5). Insomma, la catabasi
lungo i gradi della soggettività fino a un suo grado zero, all‘inizio della sua carriera, Pasolini la
predicava riguardo alla poesia dialettale (ma si direbbe che il dialetto non sia che un corollario di
questo lirismo desoggettivante); nella fase mediana erano gli altri che la avrebbero attribuita alla sua
narrativa(6).
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Ancora Calvino, e un salto di anni. Nella quarta di copertina al primo libro di Francesco
Biamonti, L‟angelo di Avrigue, Calvino scriveva: ―è una voce grave e pausata, con una naturale
propensione per i toni lirici e sospesi‖. Lirici è qui una parola chiave di capitale importanza, poiché
serve a classificare il romanzo di Biamonti come un prodotto postremo di quel filone del romanzo
dell‘―Uomo ermetico‖ su cui Calvino all‘inizio degli anni sessanta tanto aveva detto. Recensendo
Memoriale di Volponi, aveva scritto: ―Il fare la prosa con i modi della lirica, risolvendo il racconto
nell‘espressione atmosferica e paesistica degli stati d‘animo, era un pericolo che la narrativa italiana
ha evitato di stretta misura al momento di uscire dall‘ermetismo, e non è giusto che ci torni‖(7).
Vent‘anni di tempo avevano insomma capovolto le cose; ma non più di tanto: anche a Volponi era
consentito di impiegare una forte ―tensione lirico-trasfigurativa‖, poiché questa era ―la più adatta a
esprimere la contraddittoria realtà attuale: tra tecniche industriali avanzate e situazione socialantropologica arretrata‖(8). Al lirismo viene concessa una patente di cittadinanza nel romanzo,
purché svolga un ruolo pienamente funzionale e non unicamente esornativo.
Non c‘è forse scrittore più fedele di Calvino ai modi della prosa, più pronto ad abbracciare la
forma-prosa come un‘ideologia (tutta carica del pathos della distanza, ma anche di quello della
chiarezza, della lucidità, della coerenza); eppure ciclicamente è costretto a fare i conti con gli aspetti
soprattutto italiani di un romanzo il cui codice espressivo mutua dalla lirica stilemi e tonalità
emotive e patemiche. Che questo raffronto sia particolarmente problematico per Calvino si può
capire se si pensa che in fondo la scrittura con cui si confronta Calvino quando si riporta a questo
tipo di esperienze narrative è quello di Pavese. Con uno sforzo chissà quanto doloroso di lucida
severità, Calvino si era spinto a scrivere: ―Avete visto che ho lasciato fuori l‘ultimo romanzo breve
scritto da Pavese, La luna e i falò, perché oggi ho qualche dubbio che la condensazione di lirismo,
verità oggettiva e groppo di significati culturali si sia attuata appieno‖(9). C‘è dietro questo giudizio
l‘evidente impressione che il lirismo possa costituire una sorta di scorciatoia verso il decadentismo,
malattia ideologica del novecento; e questa arrière-pensée agirà sempre dietro alla coscienza
letteraria di Calvino.
Pavese, Pasolini, Volponi, Biamonti: che cos‘hanno in comune i loro romanzi? Si direbbe,
per tutti, anzitutto, assieme all‘importanza del lirismo, la centralità della stasi descrittiva: deputata
ad accogliere appunto tutto ciò che contribuisce a creare quella sorta di impalpabile e non
positivamente definibile atmosfera lirica. Non si dimentichi che, a parte l‘ultimo, si tratta di autori
che hanno tutti praticato una diglossia di romanzo e poesia. Tra romanzo e poesia si possono vedere
perfettamente due elementi: l‘esigenza di un inapparente ma pure effettivo ibridismo tra le forme;
l‘idea di una testualità dalla dimensione precipuamente testimoniale (ma l‘urgenza testimoniale è
l‘urgenza di testimoniare – cioè far emergere -, in modi differenti, il Sé)(10). La descrizione
accoglie una prima problematizzazione dell‘idea di punto di vista: perché riporta a un imperfetto e a
una scalarità cronologica una visione che ha invece le modalità presentative (ordine, precisione
allucinatoria, lentezza) della presa diretta.
In una conversazione con Paolo Volponi dal titolo di Il leone e la volpe, Leonetti affermava
la necessità di entrambi gli autori di dinamizzare i generi letterari attraverso il loro dialogo, la
contiguità di verso e prosa, l‘assenza di gerarchia tra le due modalità di scrittura: ―LEONETTI A
partire dal ‘50, quando cioè l'officina dei versi si allarga e si complica con l'irruzione dei lavori
narrativi, la presenza contigua di prosa e poesia è una costante, presso di te, e anche presso di me.
Ed è un punto forte, e non studiato ancora, della ricerca nel Novecento‖. A radice di una simile
disposizione di scrittura c‘è probabilmente l‘attitudine, da Leonetti perentoriamente attestata, di
scrittori ―neovociani‖(11).
Da Tozzi (più perspicuo rispetto ai pur vicini Vociani), approdando a Pavese, passando per i
Ragazzi di vita di Pasolini, attraversando scrittori sperimentali come Volponi per pervenire infine a
un ultimo episodio, certamente fuori tempo: quello di Biamonti. L‘ossessione di Calvino per il
romanzo lirico: un romanzo che testimonia la vocazione italiana a fare sì che i modi del poetico
entrino a far parte delle modalità espressive del romanzo ―come un plasma vitale e nascosto‖.
125
Calvino sembra quasi ossessionato dal lirismo, lo vede dappertutto, anzi, ci ha insegnato a vederlo
dappertutto.
2. Poiché Biamonti è appunto l‘ultimo e intempestivo capitolo di questo percorso di scrittura
per specimina che si è sdisegnato, ripartiamo da lui per inquadrare ulteriormente il problema. In una
intervista a Bernard Simeone, Biamonti diceva: ―peut-être mes livres sont-ils marqués par un certain
excès lyrique, mais le lyrisme n‘est-il pas la forme la plus ancienne et la plus noble de l‘étrangeté
des choses? Chklovski, le grand formaliste russe, soutenait qu‘on peut créer cette étrangeté en
combinant les choses, les détails, ou bien en imposant un fort accent lyrique. Ce lyrisme doit rester
attaché aux choses, mais se développer en spirale sur lui-même. Et par ce développement, j‘estime
qu‘il peut faire progresser la narration. Il faut jeter son cœur parmi les choses sans l‘éloigner, le
regarder comme s‘il était lié à un rocher, à la terre ou à la mer, objectiver tout en restant lyrique. Le
risque du lyrisme, c‘est un excès d‘autobiographie‖(12).
Difficile non sentire stridere l‘accostamento di due idee differenti quali quella di lirismo
come straniamento e lirismo come eccesso autobiografico: da un lato una percezione in cui la
solidarietà tra autore empirico e autore implicito pare dissolversi per sciogliersi nelle cose; e
dall‘altro la percezione di momenti di una meccanica e diretta identificazione tra postazione
enunciativa e Voce autoriale: dialettica tra sentire non soggettivo e sentire soggettivo della scrittura.
Figura dell‘astanza dell‘autore empirico e della sua immanenza al testo, in questo secondo caso;
mentre nel primo traccia che testimonia il divenire altro della voce nella scrittura, le due posizioni
di Biamonti riportano, in fondo, a quel dissidio che Calvino aveva ritrovato nella ripartizione tra i
generi rivolgendosi a Pasolini: un Pasolini deprivato della voce e un Pasolini invece tutto rovesciato
su se stesso nell‘atto dell‘espressione radicale della propria soggettività. Come se Biamonti
presentasse al contempo nel corpo della sua scritture queste due opposte istanze; ciò che in fondo è
inscritto nel suo stesso progetto di scrittura: ―Il faut jeter son cœur parmi les choses sans l‘éloigner,
le regarder comme s‘il était lié à un rocher, à la terre ou à la mer, objectiver tout en restant lyrique‖.
Resta che, in ogni caso, quando si parla di lirismo ci si pone di fronte al problema della soggettività
nel testo, e alla sua duplice configurazione. Ora, il romanzo lirico è sempre un po‘ nella situazione
di Biamonti, quella di non risolversi né in un senso né in un altro, ma di far coesistere due soluzioni
di per sé contraddittorie.
Il problema della soggettività del testo è ovviamente un problema di natura – potremmo dire
- simulacrale: riguarda un qualche elemento di discordanza tra il simulacro di autore che ci siamo
costruiti e la rottura del correlativo orizzonte di attesa che scaturisce dai tanti elementi di
costruzione del simulacro; ma al contempo non cessa di farci interrogare sulla questione
dell‘autorialità. In che modo la soggettività di un testo rimanda al nome d‘autore? A voler
schematizzare fortemente, potremmo dire che esistono due tipi di rimando fondamentale: uno per
designazione metaforica, l‘altro per contiguità metonimica. Esistono insomma a grandi linee due
ideologie del rapporto tra opera e autore: quella secondo cui l‘opera allude, rappresenta il suo autore
(sta per), e quella per cui l‘opera è una continuazione dell‘autore. L‘opera sostituisce oppure integra
l‘autore, lo completa; è supplenza o protesi.
Non è facile ora ricondurre queste modalità di prensione identitaria a generi fissi. Se ci
domandiamo chi parla nelle poesie di Montale, sarebbe difficile non rispondere che sussiste una sia
pur problematica, o, per meglio dire, aporetica, solidarietà tra io del discorso e io dell‘autore. In
certo modo, la poesia lirica, almeno fino a Montale, dà vita a una continuazione della voce d‘autore;
la voce dell‘autore vi è immanente; l‘autore è quindi designato dal testo metonimicamente, nella
schematizzazione che qui si adotta. In Il fu Mattia Pascal, invece, il testo parla dell‘autore, ci dice
cose sul suo autore, cioè Luigi Pirandello, parlando d‘altro. Nell‘ottica della finzione, l‘autore è
trascendente al testo, il rimando a Pirandello è di tipo paradigmatico e non sintagmatico.
Il romanzo lirico, il romanzo dell‘uomo ermetico, con le sue propaggini anche
tardonovecentesche, in effetti, pone già problemi differenti. Come vedeva Pasolini quello stesso
romanzo in cui Calvino aveva visto un esempio felice di lirismo? Nel recensire Memoriale, di Paolo
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Volponi, Pasolini si rendeva conto, con le categorie ermeneutiche tipiche di quella stagione, del
duplice tipo di rimando presente all‘interno di questo romanzo. Per spiegare lo statuto della voce
d‘autore e il tipo della sua imbricazione al testo, Pasolini è costretto a ricorrere a un exemplum: si
immagini un pittore che dipinga su due vetri due forme differenti, e poi li sovrapponga, ottenendo
un quadro solo; lato sensu, proprio questa è l‘operazione compiuta da Volponi. Ovviamente ai due
vetri corrispondono due diverse articolazioni della voce: in un vetro vedremo disporsi la mimesi
della voce dell‘operaio protagonista, nell‘altro la voce di ―un poeta raffinato che potrebbe essere lo
stesso Volponi‖(13). Queste due voci sono sempre ovviamente compresenti e quasi sempre
inestricabili: ―Non c‘è un momento in tutto il Memoriale in cui questi due strati non siano presenti
al lettore, trasparendo uno sull‘altro in maniera da dare le gioie tecniche della distinzione e della
fusione‖(14).
È già, a questo punto, un problema di ricezione: l‘opera attua nel lettore meccanismi tali per
cui vi è come un differimento tra due modalità diverse di fruizione. Nelle parole di Pasolini: ―Nel
momento stesso in cui, eccitato per questa stupenda meccanica linguistica, esclamo, con il piacere
viscerale del lettore delibante: «Bello, questo rifacimento di linguaggio patologico, particolaristico,
clinico» son costretto a esclamare insieme: «Bello questo passo elegiaco, post-pascoliano,
neosperimentale!»‖(15). Pasolini stesso, del resto, è costretto a riportare a Volponi come autore una
parte del linguaggio visto; e abbiamo già qui una duplice modalità di recepire il linguaggio
volponiano: il libro rimanda a Volponi come autore, ci dice qualcosa del suo autore per
designazione paradigmatica, e contemporaneamente, come Pasolini si accorge, per contiguità
sintagmatica.
La natura non fa salti, come si suol dire, e nemmeno la letteratura; eppure noi li vediamo: e
nella metafora ermeneutica del doppio strato di Pasolini si può appunto ravvisare un salto di questi.
Tanto che l‘apologo del pittore e l‘immagine del doppio strato, divenuti metafora ossessiva,
ricompariranno, testo dopo testo, persino in una tra le più belle scene di Teorema: una doppia lastra
di vetro su cui si sovrapponevano due dripping differenti. Non è certo un caso che l‘autore elabori
questo tipo di metafora proprio occupandosi di un libro come Memoriale: il romanzo, e in
particolare il romanzo lirico, è stato lungo buona parte del Novecento il laboratorio privilegiato di
dinamizzazione del rapporto tra prosa narrativa e poesia lirica(16).
3. Cosa è cambiato oggi (se ha senso impiegare questa ultra-soggettiva categoria di oggi,
come farò, per testi che hanno ormai anche più di dieci anni di vita)? Come si configura il problema
del lirismo, oggi? È ancora un problema attuale nei vari tipi e spazi di testualità che l‘istituzione
letteraria, tra astuzie varie della storia, sta producendo? Risponderei con la lunga citazione di un
passo in cui, a mio avviso, si può identificare una modalità del lirismo contemporaneo. Tra i tanti
passi che si sarebbero potuti scegliere, apparentemente o immediatamente più perspicui, ho scelto
un passo in prosa, il passo di un romanzo, che sembra tutto fuorché lirico (e che fornisce peraltro, a
priori, una sorta di eziologia di certe dinamiche della politica contemporanea):
Io, nel 1989 sono andato con un trans perché ero sul balcone di casa a bere una Fanta e ho incominciato a sudare
pensando a come era a prendere in bocca il cazzo di una gran figa.
Ho preso la macchina e sono andato verso Milano.
Nel 1989, mi ricordo che avevo letto sul «Venerdì di Repubblica» che c'erano tantissime fotomodelle che
arrivavano dalla Russia, e nel servizio erano ritratte a decine, erano a Mosca e si preparavano per una sfilata, e
non ce n'era una sola che non fosse bellissima.
In prevalenza, erano bionde.
A Mosca, c'era anche Iman, che mi sembra è la moglie di David Bowie. Stava in mezzo a queste sfilate, vestita
da pantera.
Il servizio diceva che molte fotomodelle russe sarebbero venute anche da noi, donne e anche qualche trans.
Certe volte, passando in macchina per la provinciale, vedevo queste gnocche con le tette spaventose, e le gambe
lunghe due chilometri.
127
Poi ti avvicinavi e ti facevano vedere il cazzo.
Non essendo omosessuale, era forse per questo motivo che ero incredibilmente attratto dal cazzo, e così ho
pensato che la novità è per me qualcosa di importante da succhiare.
Nella vita, bisogna provare le esperienze.
Un'altra cosa che mi ricordo di quell'anno, è che c‘era sempre Craxi sui giornali, e che Cicciolina aveva un
partito in cui faceva vedere le tette. Era il partito radicale, che adesso non esiste più.
Il partito radicale era Marco Pannella, lui era sempre in televisione a dire che non era mai in televisione, e
fumava una sigaretta dietro l'altra.
Io ho accostato la macchina e ho visto meglio questo travestito che sembrava di una bellezza pazzesca. Mi ha
tirato fuori la lingua e ha detto che mi avrebbe tirato fuori il cervello dal cazzo, a furia di ciucciarmelo.
Mi ha fatto vedere il culo e il cazzo.
Aveva la voce di una bambina malata di tiroide che parla dentro un megafono.
All'inizio, il cazzo non si vedeva, il travestito era una biondona con le calze a rete, la giacca in pelle e gli slip.
Poi, all'improvviso, dagli slip gli è uscito un siluro e il travestito ha detto, ti piacerebbe ciucciarmelo tutto, maiale
?
Io sono rimasto zitto, e ho spento il motore.
Io gli ho detto che era un gran pezzo di figa, e quanto costava un po' di pompino e poi incularmela.
Lui mi ha detto quindicimila servizio completo, e di sbrigarmi, cocco, perché dietro c'erano già altre quattro
macchine parcheggiate.
Io gli ho detto di salire sulla macchina, le ho dato 15.000 lire e siamo andati in un posto che mi ha indicato lui più
avanti, una piazza dove c'erano altre macchine con la luce accesa, era un troiaio di persone che scopavano con i
trans.
Abbiamo parcheggiato.
Io gli ho detto di togliersi gli slip e di farmi vedere il cazzo.
Nella luce della macchina il cazzo sembrava ancora più grande e si ingrandiva mentre glielo toccavo e lei mi
metteva le tette in faccia.
Aveva un profumo fortissimo, da vera troia completamente profumata. Io sudavo sempre di più a guardare questa
confusione da sballo da 15.000 lire, deglutivo e volevo prendere il cazzone in bocca.
Lei ha detto prima il preservativo.
Io le ho detto, scusa, cazzo te ne frega, sono io che ti faccio il pompino a te, non tu a me, come faccio a attaccarti
l'Aids se ti succhio il cazzo, al limite me lo attacchi tu se mi sborri in bocca, io ho le gengive a posto.
Nel 1989, essendo caduto il muro di Berlino, andavano tutti a prenderne un pezzo da regalare agli amici o
tenerselo. Mio cugino me ne ha portato un pezzo grande come un mattone medio, e lo tengo in camera, come
ricordo della Storia e del concerto dei Pink Floyd.
In quel periodo, vendevano anche i pezzi del muro di Berlino taroccati al mercato in strada, erano dei pezzi di
cemento normalissimi, presi da chissà dove.
C'erano dei gruppi di sballati che li vendevano a 3000 lire l'uno.
Insomma il trans non ne voleva sapere di farmi succhiare senza mettersi il goldone.
Io gli ho chiesto solo di assaggiargli un attimino la cappella, per sentire il sapore del cazzo di una donna, e quella
si è messa a ridere e ha detto che ero veramente inesperto e maiale(17).
Tronco qui la citazione da Puerto Plata Market, che tuttavia potrebbe continuare ancora. Si
provi anzitutto a rispondere alla domanda ―chi parla qui?‖. Cominciamo con il dire che questo io
narrante parla o scrive in modo del tutto analogo a quella teoria di figuranti che compare in
Woobinda. Di Woobinda manca, semmai, un espediente formale di notevole importanza, e cioè la
scrittura che va in loop, o si interrompe improvvisamente a metà, richiamo alla macchinicità del
supporto, alla sua dimensione inorganica, e anche, come si è detto, alle nuove forme di medialità:
un richiamo, tuttavia, di natura mimetica, e quindi tutt‘altro che fuori dalla tradizione. Ma, quanto a
stile e organizzazione retorica, si può registrare una pressoché totale coincidenza tra Woobinda e
Puerto Plata Market. È questo appunto un aspetto interessante di tutte le scritture di Aldo Nove: la
destrutturazione logico-formale non giunge mai oltre un certo limite; con le parole di Francucci:
―l‘io pressoché vuoto e pressoché esclusivamente grammaticale del libro conserva ancora,
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ostinatamente, una larva della funzione di unificare, rendere coeso un pensiero, e […] l‘intelaiatura
del suo discorso è, nonostante tutto, ancora logica, pur se di una logica demente e senza
spessore‖(18).
Quali sono le caratteristiche formali salienti in questa scrittura? Brevemente, direi oratio
soluta, paratatticità, una punteggiatura sotto certi punti di vista analitica, che contrassegna tutte le
pause ma che talora non rispetta le condizioni di coerenza e coesione del testo (virgola dove sarebbe
necessario un punto, per esempio). Le poche subordinate sembrano sopravvivenze di modelli
formali inculcati nella scuola dell‘obbligo, con il loro andamento burocratico. In questa scrittura la
metaforica non è che un epifenomeno del punto di vista straniato e desolante del personaggio
locutore (vedi la similitudine della bambina malata di tiroide); le condizioni di coerenza talora
saltano completamente (vedi l‘inserzione di parti dedicate al crollo del muro di Berlino): partono
divagazioni che interrompono il flusso informativo coerente adducendo al testo frammenti
parzialmente irrelati. Nove, infatti, sta raccontando i tre motivi per cui si ricorda del 1989; ma
invece di raccontare gli eventi uno di seguito all‘altro, li mescola continuamente. La ripetizione del
pronome soggetto, l‘assenza di segnali paragrafematici a introduzione dei discorsi diretti, sono altri
degli elementi che caratterizzano, dal punto di vista formale, questa scrittura. Si potrebbe
aggiungere molto altro (come ad esempio la instabilità nei pronomi usati per il trans, un po‘
maschili un po‘ femminili), ma credo sia sufficiente per classificare questa scrittura come mimetica.
Evidentemente la scrittura mima la voce di un personaggio semicolto o incolto, che parla una forma
di italiano dell‘uso medio, carico di errori logici e di inappropriatezze espressive; non per questo
però reso inattingibile al lettore. Non è certo la voce di Antonello Satta Centanin, non ne è certo la
scrittura; il soggetto ideale che si esprime in queste righe, potremmo anche dire, è ampiamente
spersonalizzato, il suo discorso è colonizzato dal discorso delle merci, è un soggetto debole o
indebolito, sull‘orlo della dissoluzione eppure ancora chiaramente identificabile.
Questo soggetto, però, rimbalza di libro in libro e di scrittura in scrittura di Aldo Nove
costituendone la cifra stilistica più precipua; sicché la mimesi di questa voce non si lega a un
personaggio, ma lega i personaggi a se stessa: precede chi parla, è una sorta di degradato intelletto
possibile averroesco, che parla attraverso il cavo della voce dei figuranti che si avvicendano sulla
scena dell‘enunciazione dei testi di Nove.
La mancata capacità di pianificazione o gestione del contenuto informativo del racconto
(mancanza solo apparente), l‘errore nella dispositio è uno degli elementi stilistici identificanti della
scrittura di Nove fin dagli esordi narrativi: è un effetto pienamente pianificato, e rientra nell‘ambito
dei fenomeni di mimesi dell‘italiano popolare, anche nella sua caratteristica concatenazione logicodiscorsiva. Ora, è proprio come dice Francucci, e già prima Ottonieri: l‘organizzazione destrutturata
non implica assenza di organizzazione; la particolare imitazione cui dà corpo Nove è una traccia
della voce d‘autore, non di quella dei personaggi. Mi spiego meglio: se il supporto attanziale ai
simulacri di soggettività che compaiono come porta parola nei testi di Nove è almeno idealmente
sempre riconducibile ai canoni della mimesi del discorso di uno psicotico, la particolare abilità di
Nove consiste nel trasformare in opera quella assenza d‘opera che dovrebbe contrassegnare da
sempre il discorso dello psicotico, nel conferire la necessaria clôture alla scrittura: clôture che solo
l‘autore potrebbe conferire al testo, non il personaggio che apparentemente parla.
Tommaso Ottonieri, in una sua nota su Aldo Nove, scriveva: ―In Nove, è un tipo, un
universale, il soggetto monologico che si rappresenta, quasi abolendo ogni diaframma fra sé
(autore) e lui (personaggio)‖ (19). Si ripresenta insomma il problema che già Pasolini intravedeva in
Memoriale, di Paolo Volponi: quello della coesistenza di voce autoriale e voce attanziale, di voce
autoriale e voce del personaggio; quello della coestensibilità della categoria di io narrante e io
autoriale; un problema interno alla prosa, ma, evidentemente di natura lirica, se involge le modalità
in cui il Lyrisches Ich si implica al testo. Un problema anche di divisione del lavoro del soggetto, di
soggettivazione del testo tra mimesi (della voce dell‘altro) e registrazione (della voce propria, del
sé). Questa opposizione dialettica è in fondo una opposizione tra un registro – diremo
sbrigativamente – epico e uno più propriamente lirico.
129
Ma, se il problema appare essere lo stesso, le categorie ermeneutiche risultano tutt‘affatto
differenti: Pasolini sembra ritenersi capace di isolare le due differenti voci (operaio piscotico, poeta
lirico) in coabitazione nel testo volponiano; al contrario Ottonieri non è in grado di dire dove per
accidente sta parlando Nove al posto del suo personaggio, se non per barbagli. Per Aristotele la
mimesi comica era una questione di identificazione, un‘identificazione anche etica, e morale; qui la
questione dell‘identificazione tra io dell‘autore e io del personaggio è certo più complessa, e
dialettica: una relazione dialettica tra identificazione proiettiva e identificazione introiettiva.
Vediamo intanto concretamente in che cosa consiste questa identificazione-interferenza, tra
io del discorso e io del soggetto, questa sorta di porosità del testo. Ci sono passaggi nel testo in cui
la rottura della mimesi a lasciar aggallare frammenti di un discorso ulteriore sembra più evidente:
―Nella luce della macchina il cazzo sembrava ancora più grande e si ingrandiva mentre glielo
toccavo e lei mi metteva le tette in faccia. / Aveva un profumo fortissimo, da vera troia
completamente profumata. Io sudavo sempre di più a guardare questa confusione da sballo da
15.000 lire, deglutivo e volevo prendere il cazzone in bocca‖. È un passaggio descrittivo, dalla
straniatissima evidenza, che non può coincidere con la capacità di racconto del deprivato
personaggio locutore di Puerto Plata Market, ma deve ben esprimere un punto di vista ulteriore;
sarebbe sbagliato credere che sia il punto di vista di Antonello Satta Centanin; così come sarebbe
assurdo non avvedersi del fatto che il riferimento alla luce in fondo riecheggia attacchi e passaggi di
ben più marcata e tradizionale letterarietà. Diciamo che si tratta di un passaggio in cui a parlare non
è né il personaggio locutore né Aldo Nove, ma una loro ibridazione, un vero e proprio autore
implicito: un autore dalla voce che propongo di chiamare lirica.
È poi la stessa scansione dell‘argomentazione, la stessa scansione paragrafematica, la stessa
dispositio a presentare un punto di vista straniato: ogni volta che c‘è una rottura della coerenza
discorsiva ci si aspetta in fondo di vedere sorgere la ―vera‖ voce dell‘autore, la cui epifania non ha
mai però veramente e completamente luogo. Ma c‘è un punto fondamentale in cui si vede la
solidarietà tra punto di vista del protagonista e dell‘autore: l‘idea che il motore fondamentale per la
decisione di andare con un travestito sia la volontà di succhiare ―il cazzo di una gran figa‖. Vi è
infatti evidente un richiamo all‘idea di pene della madre, di matrice freudiana; e questo richiamo
dissimulatamente colto, incastonato ―come un diamante in mezzo al cuore‖ nel bel mezzo del
discorso del protagonista, non può che rievocare appunto quella speculazione freudiana, in una
vivacissima ed efficacissima parodia. Verrebbe da dire che la giustificazione che adduce il
protagonista per chiarire il perché della sua avventura con un trans sia esemplata persino troppo
meccanicamente sull‘idea freudiana del pene della madre; e che in una comunque normale dinamica
psichica una simile motivazione il protagonista tenderebbe a tacersela. Lo stesso meccanismo
clinico della negazione è da manuale; e sembra riverberare la cultura dell‘autore empirico. Ma
proprio questo difetto di fabbricazione viene fatto assurgere da Aldo Nove a marchio di fabbrica: ed
è un fenomeno che, ancora una volta, se non va ascritto all‘ambito del lirismo, vi è senz‘altro
connesso.
Ascriverei pertanto la prosa narrativa di Aldo Nove all‘ambito del fenomeno che qui è stato
chiamato romanzo lirico; sia pur con l‘avvertenza che gli inserti lirici di Aldo Nove sono certo
meno frequenti rispetto agli esempi citati in prevalenza; e che la fenomenologia del lirismo in Aldo
Nove è pure largamente secolarizzata o dissacrata addirittura, poiché il lirismo spesso è parodia
comica – e patetica - della voce lirica dell‘autore, come nel seguente passo da Amore mio infinito:
Allora non c‘era niente da dire.
Io sentivo il battito del cuore di aria nelle sue mani che mi stringevano.
La sua pelle teneva fermi i minuti, gli anni che devono arrivare. Io non sapevo più chi ero. Io non sapevo più chi
era, c‘era il rumore del mare per davvero che diventava più forte e era il rumore del mio cuore che premeva contro
di lei mentre l‘abbracciavo ero piccolo ero un puntino che torna indietro che ritorna sempre più piccolo mentre il
rumore del mare e sempre più grande abbracciava tutto i gabbiani si tuffavano dagli scogli nelle onde il silenzio
cresceva dentro l‘acqua le spugne di milioni di anni fa di silenzi senza fine e attorno il rumore dei pianeti delle
stelle piangevo sentivo dentro di me crescere il senso di questo lontano dove non ero mai stato e il silenzio, del
sangue(20).
130
Tuttavia va anche rilevata una profonda differenza. In fondo quegli esempi di libro di cui
parlava Calvino condividevano tutti un aspetto: il fatto che l‘autore proiettasse suoi simulacri
patemici o ideologici all‘interno del continuum discorsivo e narrativo dei personaggi. In Nove
avviene invece il contrario: una sorta di continuum discorsivo preesistente ai personaggi ha delle
provvisorie incarnazioni in questo o quel personaggio; questo continuum discorsivo è solidale con
l‘immaginario estetico e stilistico dei vari io finzionali su cui poggia il discorso, ma gli è ulteriore:
quasi che l‘autore avesse introiettato in sé delle modalità espressive di una sorta di altro
personaggio, terza persona assente eppure immanente al testo, la cui voce è colonizzata da
ideologemi, scorciatoie concettuali, miti e riti del mondo del neocapitalismo, che Aldo Nove ripete,
a mo‘ di ritornello, all‘interno del testo; questo terzo personaggio è il modello su cui vengono rifatti
i vari parlanti dei suoi libri.
Si è in dubbio, insomma, se la mimesi di certe forme sia un fenomeno che appartiene solo ai
personaggi o anche ad Aldo Nove (non certo a Antonello Satta Centanin). In questo senso,
l‘identificazione immediata e inconscia che compiamo, la risposta alla solita domanda ―chi parla
qui‖, o meglio, la risposta alla domanda sulla relazione in cui sta questo testo rispetto al suo autore
procede sia per binari paradigmatici sia per binari sintagmatici: è ciò che fa di simili testi dei testi
lirici. Anche se il percorso condotto da Aldo Nove negli ultimi anni, all‘insegna del ―diventa ciò che
sei‖, sta sfondando i confini tra ortonimo ed eteronimo, come credo provi soprattutto il libro su
Hopper e Carver.
4. Volendo tirare le fila, cos‘è allora il lirismo nel romanzo? Se accettiamo la definizione di
poesia lirica data da Hegel, i suoi dati più evidenti sono la stasi, l‘assenza di azione per lasciare
spazio a descrizioni o riflessioni, e la centralità locutoria del soggetto, che possiamo certo ritradurre
nell‘idea che il lirismo si materializzi nella prosa finzionale di tipo romanzesco come confusionalità
tra voce dell‘autore empirico, di quello implicito e di eventuali personaggi locutori; e che questa
confusionalità si manifesterebbe, come luoghi privilegiati, in passaggi di tipo descrittivo o che
implichino una riflessione. Si tratta proprio del caso di Nove, direi..
Mi pare le cose cambino sensibilmente se passiamo a occuparci di altri autori. Proviamo a
leggere un ampio excerptum da Le strade che portano al Fùcino di Tommaso Ottonieri. Si può
definire un romanzo, questo libro? Lo stesso Ottonieri ne ha detto:
Si tratta di una serie di narrazioni autonome e (solo apparentemente) eterogenee, tutte inarcate tra due estremi che
potrei definire del comico-basso e del sublime-strano, sviluppatesi nel corso di un ventennio tondo di elaborazione
(ma in quei vent‘anni ho scritto almeno altri cinque libri…). Malgrado questa complessità e relativa
disseminazione, ed effettiva scissione in due emisferi, in due ―zone‖ psico-geografiche (ovest ed est), il libro è a
tutti gli effetti un ‗romanzo‘, in quanto sistema di elementi e di segmenti che s‘intersecano e s‘intessono entro una
rete testuale, una ‗testura‘ sufficientemente (dis)organica(21).
Il libro è a tutti gli effetti un romanzo: ma la verità è che garanzia dell‘unitarietà di questa
rete testuale parrebbe il fatto che a un unico ente o autore è riconducibile la somma dei vari
segmenti. In questo senso il libro, più ancora che un romanzo, è un macrotesto; e dietro all‘idea che
il romanzo vada considerato tale per la sua organizzazione intratestuale parrebbe permanere
l‘arrière-pensée che a farsi garante della consistenza macrotestuale ci sia un riferimento
ontologicamente saldo a un io sempre immanente a quelle vicende. Si tratterebbe dunque di un io
indebolito, decentrato, mobile e insicuro quanto si vuole, ma pur sempre sufficientemente efficace e
saldo da poter fornire un aggancio referenziale tale da garantire la necessaria consistenza
macrotestuale a questa serie di testi di per sé disorganici. Altrimenti la sponda ulteriore del discorso
di Ottonieri sarebbe definire romanzo un libro di pezzi scritti da diversi autori e poi raccolti e
organizzati in un unico libro per la presenza di isotopie omogenee e di una certa sovrapponibilità di
immaginario oltre che di situazioni. Eppure, questa evenienza paradossale, non è forse la verità del
romanzo di Ottonieri? Scritto nell‘arco di vent‘anni, scritto da vari momenti di un soggetto che solo
convenzionalmente riteniamo identico, da un corpo che è andato invecchiando e mutando in quegli
131
anni, l‘idea che Le strade che portano al Fùcino sia un romanzo non è forse effetto della sua
innegabile macrotestualità, della presenza del nome d‘autore, una illusione referenziale? Si ha
bisogno di un simulacro di identità, di un eidolon, di fronte al libro, così come di un curatore di
fronte a un‘opera collettiva: che non sarebbe opera se non avesse questo singolare a raccogliere
nelle proprie mani le sparse membra discorsive altrui. Tommaso Ottonieri curatore di sé stesso,
insomma. Come un prestigiatore Ottonieri sa trasformare insomma l‘esibizione dell‘assenza d‘opera
in messa in opera: attraverso la pratica del montaggio, del remissaggio. Il testo non è che
architettura: un‘architettura come il montaggio in qualche modo disautorializzata.
Ecco un brano:
Limite tra cielo e terra così nitido preciso lucido nella gloria dei cristalli, liquidi, plasmato netto così lucido che non
avrei mai detto nella furia della luce diffusa dalla sua stessa accensione proiettata retrostante così netta.
Ingranai la quarta sul rettilineo disabitato apparentemente senso di libertà sulla mia pelle potevo programmarmi
planarmi come planarmi su quella superficie così liscia come di liquido pulsante plasma sentivo la brezza calda
traversarmi le pupille perforarmele netta sferzarmi la pelle nella furia della quinta della sesta ero io in quella quiete
in quella furia come se la brezza mi attraversasse la pelle mi lambisse la punta dei capelli in quella luce la luce dico
accecante che perfora così nitida precisa le stesse lenti scure indossate così facenti al caso, così cruda la luce.
E io ingranai la quinta la sesta e il tornante appariva lontano tanto e così lontano tanto che non pensai io se non ad
accelerare di più sempre di più, di più, perché così nitida la luce mi teneva in suo dominio, perché la brezza mi
avvolge io nella sua spira la brezza calda sferzante schiocco di frusta ma morbida bacio bacio così precisa che io
aspirai tutta l'aria che potevo liquida dai cristalli liquidi liquido bacio bacia come in un mare possibile conosciuto
presente come videato dal tubo, un mare dal vetro, dal tubo.
Il rombo del motore come da un luogo che fosse lì che non sapessi individuare risaltasse sordo da un certo suo
sintetico lontano, rombo tozzo coperto dal vento che forza i miei occhi come un tozzo lamento coperto dal vento
torrente fluente sulla pelle volato senza sapere da dove scrosciato dal vento come se sordo un muggito della stessa
terra dove la terra volata fosse un muggito catodo il lamento, dove la specie incontra le immagini specchiate.
Rombo sintetico che romba la quarta la quinta la quarta e poi la sesta, e poi giù nel rettilineo respirando forte che il
respiro mi rimane tutto dentro e una vertigine mi prende nell'effetto tipo olografico schizzato via da quella
superficie tridimensionale tutta chiusa in un quadrato diciamo di spazio ma pure esteso che non avresti detto. Il
respiro.
Troppo vicino, troppo interno. Non so se durerà, spero che duri. Il casco calcato sulle tempie che sento tutto più
morbido attutito soffice dentro il cervello sulle tempie, però così la materia che si allarga nelle tempie il mio stesso
battito l'aorta. Così il battito che mi sosterrà, cuore che pompa fino al cervello, quello che tuttavia pensa, che forse
guida, che pensa di guidare, la strada tutta lì pulsante come un cuore, cioè arteria dove il sangue s'allarga, e allaga, e
invade.
Motocicletta. Tutta cromata. Schermo si sfalda. Corri la vena. Vena di strada. Sbandi sui margini. Strada si sfalda.
Plop: è il tuo cuore. Pompa di fuori. Cambia colore. Se sfondi muori. Fuori dagli argini.
Limite fra cielo e terra così lucido nel collasso dei cristalli liquefatti, plasmato netto così lucido che non avrei mai
detto nella furia della luce lucida diffusa dalla sua stessa accensione proiettata ma retrostante così liscia, netta.
Illusione ma diffusa.
Ero ripartito di nuovo come da zero dal punto di partenza del segnapunti del mondo stessa strada e ancora la strada
la brezza l'ebbrezza di essere lì nitido lucido io m'ingranai pompai la vena dall'acceleratore, via, via, eh sì il liquido
cola dall'iniettore nel tubicino di sotto, a stilla a stilla, tutto d'un fiato, gli occhi vitrei, appiccicati sullo schermo e
via.
La terza la quarta prospettiva mobile sdrucciola sotto il manubrio così i concorrenti evitati alla grande altri per un
soffio altri per caso altre curve più o meno para-boliche si vibrano dal casco altre varianti ai miei circuiti no non
ancora spenti. Ero lanciato la quinta e sul rettilineo la sesta quando il segnapunti schizza su punteggi totalmente
pazzeschi e io non sbando qualcosa in vena incrinato e io che non sentivo il cric sempre impalpabile da casco a
tempia, che mi si pompa il cuore, e così la testa, cava. Spaccata infine a cocomero, o la cocuzza mitica mistica di
tutto il cocuzzaro, e cava, rotolandosi nella piana a gambero, voglio dire, pure, fuori rotta.
Fu a questo punto che sbucò il concorrente destinato. L'ultimo dei bolidi, ma listato a lutto, così mi parve;
accelerando subito all'uscita della curva. Una sagoma scura che zigzaga orrendamente, arrota certi cuscinetti di
polvere con le sue cieche sgommate(22).
A commento di questa scrittura, Federico Francucci ha parlato di ―sintassi eminentemente
costruttiva che a seconda dei casi torce, spreme o fa volare la lingua, rendendola, lontano da ogni
ipotesi mimetica o banalmente rappresentativa, il materiale e il veicolo delle visioni di cui SPF è
intessuto. E che proprio dal suo sovrano disinteresse per la resa di qualsiasi ipotetico parlato, e dal
suo volersi sempre come edificazione di forme, per quanto fluide, trae, purché la si ricanti, la si
132
faccia risuonare, una memorabilità che poche altre scritture, oggi in Italia, possiedono‖(23). È già
possibile, pertanto, rilevare alcuni elementi di questo modo di scrivere. Anzitutto, la fondamentale
antimimeticità della scrittura; in secondo luogo la centralità della lingua: Le strade che portano al
Fùcino è un romanzo in cui per quasi tutto il tempo ciò che realmente conta non è la vicenda
globale, la trama, se non nelle sue connotazioni figurali e lato sensu allegoriche, ma la dimensione
scrittoria e metadiscorsiva. La domanda, in fin dei conti, che ci si pone di fronte a questo testo è
sempre la stessa: chi parla qui.
Si prenda brevemente in esame l‘aspetto della punteggiatura: quasi assente la virgola, il
discorso si abbandona a una sorta di flusso di coscienza ossimoricamente strutturato tuttavia da una
scansione paragrafematica ferrea e perfetta. Lo si confronti ora con il passaggio di Amore mio
infinito poc‘anzi citato: lo stesso tipo di infrazione sintattica resta nel libro di Nove una macchia di
colore nel testo che dovrebbe rappresentare la deriva prepsicotica del soggetto a fronte dello
spossessante sentimento dell‘amore (in una logica certo anche parodica); qui non fa macchia ma
costituisce un elemento di organizzazione testuale. Questa risorsa di scrittura non si contrappone a
una totalità stilistica da cui dovrebbe scaturire, sotto forma di medìetas espressiva, la voce del
personaggio locutore; si individua o soggettiva per un attimo nel frammento in questione, ma non è
un elemento né minoritario né maggioritario all‘interno del testo. La questione fondamentale,
infatti, di Le strade che portano al Fùcino non è chi parla, ma quante persone parlino in questo
testo. Quante incarnazioni, quanti simulacri diversi dello stesso Ottonieri.
Lo spettro di una di queste persone, richiama con forza la propria prosopopea pochi
frammenti più oltre: ―Immaginate allora me che vi parlo‖. La natura simulacrale di questo ―me‖ (e
si noti appunto la modalità con cui il soggetto Ottonieri si dispone all‘altro: immaginatemi nell‘atto
di agire, parlando, di costituirmi come simulacro; siate voi a farmi esistere; anche se un qualcosa,
un‘entità, appunto un eidolon da fuori vi ingiunge di farlo) è evidentissima: il ―me‖ deve apparire
attraverso uno schermo, appunto il Cromakey. Questo ―me‖, parlando, può assorbire frammenti del
discorso dell‘altro: esemplare in questo senso è la criptocitazione di una canzone di Battisti
all‘interno del lungo lacerto citato; ma proprio questo fatto, questo assorbire e rivomitare
continuamente frammenti di scritture e voci o vocalità altre, questo essere me fatto parlare dagli
altri con la loro enciclopedia, questa sostanziale ventriloquia del soggetto lo disindividualizza. Non
c‘è più un personaggio di cui seguire le vicende, ma le vicende di una voce la cui unica modalità di
incarnazione è, tra mille manierismi, installarsi in vocalità altrui e ulteriori.
Quanto detto involge insomma il problema dell‘epistemologia del discorso in Ottonieri. Il
motociclista dell‘episodio appena citato è il veicolo del principium enunciationis per tutto il
romanzo? Mi sentirei non solo di escluderlo, ma di dichiarare, per un libro come il Fùcino, per la
sua coerenza macrotestuale, l‘insignificanza di una simile questione. Percetti e affetti convogliati
nel libro, che ne sono i veri protagonisti, sono come defalcati dalla loro origine umana, e oggettivati
in se stessi; se per avventura questi percetti hanno trovato una forma di unificazione, ciò è avvenuto
in modo empirico e anzi performativo (cioè attraverso il montaggio, la sequenziazione, o la
prosopopea), da un lato, dall‘altro come concessione fatta alla stratificazione temporale della
tradizione: la scrittura pancronica di Ottonieri vince il tempo collocando stilemi di ogni tempo sullo
stesso piano testuale; scivolano su questo piano tra barbagli di identità perché la tradizione chiede a
un testo di avere un autore, sempre.
Di tutti i tipi di competenze che dovrebbero presiedere alla scrittura di un romanzo rimane in
questo libro (ed è il segno della sua riuscita perfetta, della sua grandezza, della sua esemplarità tra le
scritture attuali) quasi solo una competenza macrotestuale, organizzativa. Non c‘è unità stilistica,
non c‘è una vera e propria unità narrativa (al limite e in modo controverso, d‘azione), non c‘è
un‘organizzazione attanziale riconducibile alle strutture (e stretture) del romanzo classico. La
modalità di organizzazione di questo libro sembra davvero aver assunto a modello e fatto tesoro
della lezione del libro di poesia. È un romanzo (e lo è davvero) modellato sulle strutture di un libro
di poesia. E in analogia con quanto dice Enrico Testa del libro di poesia, che a volte si dà proprio
per la strutturata assenza dei tratti che solitamente consentono di classificare una raccolta di poesie
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appunto come libro, anche qui è la strutturata assenza di una serie di elementi che di solito troviamo
nel romanzo a interagire con l‘attesa di romanzo che questo libro, fin dai paratesti (in cui si parla di
narrativa etc.) crea(24). Del resto, come correttamente si chiede Gilda Policastro: ―Uno scritto
rizomatico, ipertestuale (e, nell‘ultima realizzazione, ipermediale), composto di frammenti
all‘apparenza irrelati, con titolazione autonoma e destinazione originaria indipendente, può dirsi
opera coesa, se compattato da un andamento spiccatamente narrativo, evidente quanto meno nel
ricorso a una simbologia costante, a motivi fissi?‖(25). La macrotestualità è ciò che fa di questa
somma di isotopie ricorrenti e organizzate un romanzo.
4. Si può impiegare l‘etichetta di lirismo parlando di questo libro? Ottonieri ha parlato, in La
Plastica della Lingua, di lirismo. Se, negli anni ottanta c‘era stata una ―esibizione d‘una distanza
ironica quale strategia utile ai fini della costruzione di (parafrasando Tani) un «romanzesco di
ritorno»‖(26), in tempi più vicini a noi, si può parlare di:
tendenza […] al riconoscimento entro il proprio discorso: fino alla adesione o alla resa incondizionata a esso (resa
dell‘autore, ma anche resa del discorso - delle retoriche del narrare - in questo); esibirsi di una presunta abolizione
di distanza autore/ narratore; identità di narratore e protagonista. Contatto reciproco in quanto vi è, in entrambi, persona e discorso, - di artificiale, di costruito, di impossibile; strategie, in ciò, di rinaturalizzazione del corpo/testo,
a partire dalle sue materie, dalla sua nuova composizione che sarebbe poi - secondo una delle sue vulgate recenti «postumana» e più-che-umana (plastica, carta da riciclo, lavatrici, lattice, peluche...), e comunque: di bassa
risoluzione, di bassa tecnologia, di bassa fedeltà...
...Tutto questo, lo abbiamo inteso come tensione lirica del narrare. Il testo che aderisce al suo aperto. A una
ossessione lirica della materia, ancora... Il testo, si dissipa e riplasma, dalle materie rinvenute nella strada; il testo
si narra, nuovamente «creta», pelle vibrante e disponibile a lasciarsi riempire […] (27).
Più oltre, si legge:
Ma riveniamo a questa tensione lirica, del narrare. Dove, il sovrapporsi delle persone e delle parti, scava per la
soggettività una posizione inferiore, tutta confitta nel fuoco (ottico) della sua materia. - Senza-organi? - Forse, ma
con un'infinità di protesi e di schede emozionali... - Innaturalista, o addirittura contronaturale? - Sì, ma come
riconfigurazione di un campo di naturalità più crudelmente vere (nuove verità crudeli; secondo il verbo già
futurista e già artaudiano)(28).
Lirismo come dissipazione, come dispersione e dépense di multipli soggetti; ma soprattutto
lirismo come discontinuità mimetica policentrica, come mimesi discontinua e multifocale. Di fronte
a questa opera(zione) tutta efflorescenza, cambia anche la metaforica impiegata per descrivere il
libro: dal libro-corpus (strutturato e fatto di parti[zioni]: organi) all‘opera-pelle. Il lirismo ha subito
quella che potremmo chiamare una trasformazione molecolare: non è più l‘emergenza nelle pieghe
della scrittura di un simulacro di soggettività che la nostra doxa ci induce a identificare in
produzione di quel particolare tipo di discorsività che discende dall‘autore biologico, in una sorta di
illatenza o immanenza testuale dell‘autore empirico. Non qui: dove piuttosto è la materia a chiudere
in se stessa, come una pelle vuota, sparsi elementi, differenti simulacri. Se per avventura qualcuno
di questi, qualcuno di così tanti fluttuanti pensieri appartiene a Tommaso Pomilio non lo si può
imputare al suo autore, semmai all‘eccessiva contiguità dell‘opera allo scrittore. Intanto, in tutto
questo, la situazione si è invertita: nel Fùcino quasi si direbbe che si assista a una sorta di tensione e
trasfigurazione narrativa del lirico.
Le modalità con cui Ottonieri definisce la scrittura narrativa e la presenza nel corpo della
prosa narrativa della dimensione o tensione lirica configurano quella scrittura come una sorta di
scrittura bulimica. Ossia, se regge il paragone, una scrittura che ingloba quasi indiscriminatamente
il tutto, quasi sostanza senza soggetto. Aldo Nove, al contrario, autore che parassita un suo
personaggio, si mantiene imbozzolato in un simulacro di soggettività che è altro da sé: di fronte alla
scrittura e all‘autorialità il desiderio di Nove non è il desiderio dell‘Altro, ma il desiderio della
larva. Così la sua è una scrittura anoressica, perché realizza una padronanza dell‘Ideale della
scrittura attraverso la privazione, attraverso l‘immondo (cioè il moralmente ripugnante dei simulacri
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di soggettività dei suoi testi). La scrittura di Ottonieri è la scrittura del pieno, mentre quella di Nove
è quella del vuoto, della necessità di mantenere vuoti i buchi lasciati dal soggetto. In Nove, cioè,
non sappiamo distinguere tra autore e personaggio non a causa di quello che non si dice, ma a causa
di quello che si lascia non detto; tutto il contrario è quello che accade con Tommaso Ottonieri.
Eppure c‘è forse uno stigma comune alle due voci.
5. Sarebbe certo ora troppo complesso problematizzarlo, ma il termine che mi pare più si
attagli e possa fare da denominatore comune a due scritture quali quelle di Nove e Ottonieri, così
diverse, tracciare un contesto, una linea pur negli ovvi tagli, parrebbe quello di manierismo. Anche
questo termine potrebbe essere invocato con ogni probabilità dal nostro lettore idiota degli anni
cinquanta. Manierismo come: ―manifestazione della differenza, di un discorso altro, a volte
esplicitamente e coscientemente alternativo nei confronti della norma dell‘istituzione, e che in ogni
caso tenta di contraddirne, se non di rovesciarne, il ruolo egemone‖(29).
Non è un caso, allora, che queste due scritture che mettono in crisi secondo modalità
completamente differenti gli istituti formali del romanzo siano due scritture pseudonimiche. Alla
problematizzazione del genere fa da contraltare la problematizzazione del nome d‘autore. Non
poteva essere altrimenti. La sperimentazione narrativa di Nove e quella di Ottonieri, pur così
diverse, scaturiscono anche da una messa in questione, dalla chiamata in causa del concetto di
autorialità come infrastruttura ideologica del romanzo. All‘abolizione della figura dell‘autore,
garante dell‘unitarietà e della correttezza epistemologica del romanzo, a questa perdita di centro
(ottenuta attingendo a strumenti e modalità tipiche della poesia lirica), fa da seguito uno
smarrimento, una disperazione che si traduce in forma. Ottonieri parla, come abbiamo già visto, di
―sublime strano‖. Ma cos‘è il ―sublime strano‖ se non il corollario di una sorta di furia formale,
furia dell‘oggetto romanzesco? In fondo questa furia, già pronta a trasformarsi in disperazione, in
manierismo, questa forma della disperazione ha avuto nella tradizione un nome ben preciso:
grottesco. Sarebbe probabilmente questo il terzo e ultimo appiglio cui il nostro lettore idiota
potrebbe aggrapparsi per entrare in queste due scritture e farne esperienza. Questo ―grottesco per
disperazione formale‖ è proprio il carattere precipuo che pone Nove e Ottonieri, sia pur nella loro
differenza, a un gradino successivo e ulteriore rispetto ai precedenti esempi addotti di romanzo
lirico.
Gian Luca Picconi
Note.
(1) Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, Introduzione di Claudio Milanini, Milano,
Mondadori, 2000, p. 452n.
(2) Italo Calvino, Il midollo del leone, in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori,
1995, p 11.
(3) Italo Calvino, Lettere, cit., p. 596.
(4) Nuove stagioni di Pasolini e Fenoglio, in ―Paragone‖, IX, 114, giugno 1959, p. 77.
(5) Pier Paolo Pasolini, Roma e Milano, in Passione e ideologia, in Saggi sulla letteratura e sull‟arte, a cura
di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 771.
(6) È curioso che, di fronte alle tentazioni dell‘ipersoggettivismo poetico pasoliniano, il pubblico abbia
decretato Pasolini come il poeta più venduto di questi ultimi anni, mentre la critica ne abbia pienamente
registrato (cfr., per esempio, Raboni), l‘estraneità al corpo maggiore della scrittura poetica secondonovecentesca; donde il modello retrivo della confessional poetry pasoliniana, se resta pienamente attivo a
livello popolare, è invece confinato a un rango deteriore da chi pratica un tipo di fruizione colta della poesia.
È d‘altronde inevitabile riferirsi a Pasolini in un ragionamento sulla dinamizzazione dei generi e delle forme
della letteratura nel secondo Novecento. Quando, nel 1964, Pasolini deve fornire alla rivista internazionale
―Gulliver‖ un suo scritto, questo si intitola: Appunti per un poema popolare, ed è di fatto un prosimetro. È
una sorta di disperazione formale, nemmeno sempre lucida, quella che presiede a questi tentativi di mischiare
le carte della prosa e della poesia: una disperazione formale che non può che dare vita a forme di comico e
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grottesco, come di fatto sono le sue ultime opere di poesia (Poesia in forma di rosa e Trasumanar e
organizzar), e un romanzo come Petrolio.
(7) Italo Calvino, Memoriale di Paolo Volponi, in Saggi, cit., p. 1276.
(8) Ivi, p. 1277.
(9) Italo Calvino, Pavese: essere e fare, in Saggi, cit., p. 82.
(10) Sanguineti, su Pasolini e Pavese poeti ha visto però qualcosa in più, quanto a analogie: ―È ancora
necessario [...] con un gesto che a prima vista riuscirà un po' stravagante, probabilmente, stabilire un
raggruppamento diacronico, che rimescola le carte sposando forzosamente Pavese, Pasolini e Pagliarani. È la
zona di coloro che, ognuno per la strada sua, hanno sognato, o stanno ancora sognando il contatto poetico
con la realtà, e tentano varie forme di poesia-racconto, di poesia-testimonianza, di poesia-epistola‖ (Edoardo
Sanguineti, Introduzione, in Poesia italiana del Novecento, a cura di Edoardo Sanguineti, Torino, Einaudi,
1969, p. LX).
(11) Paolo Volponi, Francesco Leonetti, Il leone e la volpe. Dialogo nell‟inverno 1994, Torino, Einaudi,
1995, p. 50.
(12) Des cris, mais sous forme de rêve, Entretien Francesco Biamonti / Bernard Simeone, Villa Gillet
novembre 1995, in Francesco Biamonti, Le silence, suivi de deux entretiens avec Antonella Viale e Bernard
Simeone, Lagrasse, Verdier, 2005, p. 49.
(13) Pier Paolo Pasolini, Il mostro e la fabbrica, in Saggi sulla letteratura e sull‟arte, cit, p. 2367.
(14) Ibidem.
(15) Ibidem.
(16) In Italia, il romanzo lirico, e in generale gli inserti lirici nel romanzo, fenomeno estensibile a
numerosissimi autori, ha espresso compiutamente la parte più importante, nel Novecento, di questo rapporto,
sul versante della prosa; e se ciò è avvenuto, è soprattutto perché l‘esigenza di dinamizzare i generi e le
forme di scrittura (così evidente e immediatamente isolabile in quegli anni sessanta) nasce dal problema
dell‘identità tra io del soggetto e io del suo discorso. Ora, è ovvio che era più facile porre questo problema a
partire dal romanzo, dove la fluttuazione tra le identità era già, in qualche modo, sistematizzata. Tutti i
problemi dell‘identità di cui sono ripieni romanzi e poesie del secondo novecento inoltrato, così, sono stati
appunto il motore per questa commistione dei generi, per questo dialogo tra generi.
(17) Aldo Nove, Puerto Plata Market, Torino, Einaudi, pp. 161-164.
(18) Federico Francucci, Su tre libri di Aldo Nove, in La carne degli spettri. Tredici interventi sulla
letteratura contemporanea, Pavia, Edizioni O.M.P., p. 6.
(19) Tommaso Ottonieri, La Plastica della lingua. Stili in fuga lungo una età postrema, Torino, Bollati
Boringhieri, 2000, p. 115.
(20) Aldo Nove, Amore mio infinito, Torino, Einaudi, 2000, p. 79.
(21)Si legge al seguente sito: http://www.retididedalus.it/Archivi/2008/febbraio/INTERVISTE/ottonieri.htm.
(22) Tommaso Ottonieri, Le strade che portano al Fùcino, Prefazione di Enrico Ghezzi, Guida alla lettura di
Gilda Policastro, Firenze, Le Lettere, 2007, pp. 87-89.
(23) Federico Francucci, «Tu sei le visioni», in La carne degli spettri, cit., 75.
(24) ―Non più, quindi, aspirazione a una totalità assoluta (sia pure quella del Libro), ma ossimorica e
ambivalente tensione che mentre «chiude» ancora il volume, riesce, al contempo, a ritrarsi dalla sua
solidificazione in valori plastici e «monumentali»‖ (Enrico Testa, L‟esigenza del Libro, in La poesia italiana.
Modi e tecniche, a cura di Marco Antonio Bazzocchi e Fausto Curi, Bologna, Pendragon, 2003, p. 108).
(25) Gilda Policastro, Doppiando il Fùcino (baedeker per un baedeker), in Le strade che portano al Fùcino,
cit., p. 237.
(26) Tommaso Ottonieri, La plastica della lingua, cit., p. 125.
(27) Ivi, pp. 125-126.
(28) Ivi, p. 126.
(29) Amedeo Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Roma-Bari,
Laterza, 1975, pp. 2-3.
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MILVA MARIA CAPPELLINI
“L'IMPOSSIBILITÀ DEL NULLA” - L'ALLEANZA TRA I GENERI NELLA SCRITTURA
DI ROBERTO PIUMINI
Il discorso intorno ai generi letterari, a proposito dell'opera di Roberto Piumini, si potrebbe anche
iniziare e concludere con la definizione di poligrafo (peraltro poco amata dall'autore, che forse
preferirebbe plurigrafo, se questo non fosse già un termine della teoria matematica dei grafi). La
doviziosa bibliografia di Piumini – la quale, per inciso, rende l'esemplificazione virtualmente
vastissima: qui, invece, ci si limiterà all'essenziale – dà conto da sola della feconda capacità
dell'autore di attraversare ogni tipologia di scrittura, di collaborare con ogni altro linguaggio, di
rivolgersi a ogni tipo di pubblico. Ma la connessione dei generi e dei codici agisce anche, com'è
naturale, a livello interno in ciascuno dei generi praticati. Si prenda per esempio il testo narrativo, in
cui ricorrono strutture versali («Oh, amato, il tuo corpo è terra nota»: La celata, ora nella raccolta
Le donne e i cavalieri, Aliberti, Reggio Emilia 2004) ed emergono inserti di prosa ritmata, più o
meno dissimulati (per esempio, nel romanzo Caratteristiche del bosco sacro, Einaudi, Torino
2000). Ad analoga logica poetica risponde l'attitudine a disposizioni narrative di tipo strofico, ossia
incardinate, più che sulla concatenazione consequenziale e sullo sviluppo di eventi, sulla
successione di quadri, o lasse, uniti da un'occasione-cornice narrativa o da variegate ricorsività
interne (accade nei romanzi La rosa di Brod, Einaudi, Torino 1995, e L'ultima volta che venne il
vento, Aragno, Torino 2002). Di contro, nella poesia di Piumini agisce la tendenza alla creazione di
linee narrative anche nelle forme metriche più propriamente liriche (si osservi, in questo senso, il
poema metricamente vario Non altro dono avrai, Interlinea, Novara 2004, e il canzoniere di sonetti:
L'amore in forma chiusa e L'amore morale, entrambi Il melangolo, Genova, 1997 e 2001). Se si
intende poi aggiungere il teatro, basterà notare sul piano testuale il transito di racconti in pièce
teatrali e viceversa, magari con variazione di destinatario: per esempio, Narco degli Alidosi (Nuove
Edizioni Romane, Roma 1987), diventa, da storia per bambini, commedia per un pubblico infantile
(La commedia di Narco, ivi, 2004) e però anche racconto più ampio (Il malafiato, nel citato Le
donne e i cavalieri); non diversamente accade per testi narrativi in poesia destinati anche alla lettura
drammatica, come l'ancora inedito ma già rappresentato Il vecchio nel granturco. E, ovviamente,
non si potrà tacere la multiforme esperienza teatrale di Piumini, in collaborazione con più di un
codice espressivo: la lunga collaborazione con musicisti (tra i molti, Giovanni Caviezel, Andrea
Basevi, Jorge Bosso); la presenza come voce recitante in innumerevoli spettacoli (per esempio, nei
Madrigali a quattro voci, con il Ring Around Quartet); da ultimo, la speciale partecipazione, nelle
sontuose vesti di re Borbone, alla recente messa in scena genovese di Totò Sapore (dal racconto Il
cuoco prigioniero, Nuove edizioni Romane, Roma 2003), per la regia di Patrizia Ercole. Infine,
valgano due esempi, tra i tanti possibili, di coooperazione tra testo verbale e testo iconico: il primo è
il volumetto La scuola di Circe (Nuages, Milano 2006) in cui, a partire dalle immagini di Cecco
Mariniello e valendosi di una metrica non canonica, il poeta costruisce una storia per quadri, in
ciascuno dei quali si condensa un germe di storia; il secondo è l'illustrazione per enigmi, in terzine
dialogate e varie forme metriche, degli arazzi esposti nel 2008-2009 al Museo di Palazzo Strozzi
nella mostra L'occhio indovino Ŕ Caterina e Maria de' Medici regine di Francia: le trame del
potere.
Ma la questione si pone, anche per l'opera di Piumini, al di là di ogni pratica concreta, come
pure di ogni definizione formale dei generi e della loro scambievole permeabilità, e investe i
meccanismi e le ragioni della scrittura. Di recente, presentando ai lettori la raccolta di poemetti Il
piegatore di lenzuoli (Aragno, Torino 2008: un volume a cui si farà più volte riferimento), Piumini
ha celebrato la ricchezza e l'efficacia del narrare poetico contro un eccesso di lirismo che rarefà e
rende astratta la tradizione poetica italiana. L'affermazione veniva subito dopo la lettura scenica del
poemetto eponimo del volume, in modo da completare, per il pubblico, una sorta di esperienza
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multipla di racconto, verso, dizione, glossa d'autore. In altre circostanze di autocommento, Piumini
ha attestato la genesi sonora, anzi radiofonica, della propria poesia, riconoscendone la matrice
remota nei suoni della radio ascoltata da bambino in cucina, tra i rumori e gli odori del cucinare. In
tutta la scrittura piuminina, di fatto, la parola è vastamente sensuale (ma qui il discorso porterebbe
altrove, e lontano) e doppiamente sonora: in virtù del suo passato orale, che conserva risonanze
della sensazione infantile, e del suo futuro scenico, che promette l'esperienza complessa dell'ascolto
e della rappresentazione.
Proprio con la sonorità/teatralità della parola di Piumini, tra l'altro, si spiega non tanto la
posizione del narratore (che pure nella poesia narrativa piuminiana è quasi costantemente interno;
varia invece nella narrativa, dov'è spesso onnisciente), quanto la frequenza della metalessi autoriale.
Infatti, quello che ad alcuni è apparso il vezzo dell'ostentazione metaletteraria, è forse da leggere
piuttosto come l'eco di una seduzione vocale rivolta ai «presenti lettori» (La mongolfiera, in Il
piegatore; ma anche in prosa: «Questo capitolo, che per salvarsi dalla jella di un tredicesimo sarà
con piacere di molti l'ultimo, è naturale abbia tono e funzione di epilogo...»: Il ciclista illuminato, Il
melangolo, Genova 1994) e, al tempo stesso, come un implicito richiamo alla vocazione teatrale del
raccontare, sia esso in prosa o in poesia: lo scrittore che tiene a mente questo, scrive sempre un
cantare, è sempre in certa misura un cantampanco. Ancora più corpose sono le conseguenze che
tale genesi e finalizzazione della parola producono sulla complessiva tessitura linguistica della
scrittura di Piumini: una tessitura la cui ricchezza – talvolta perfino minimizzata dalla felicità degli
esiti – verrà in chiaro, si spera, da indagini più minuziose e attente. Per la poesia, in particolare, si
auspica una perizia metrica, come pure una ricognizione della tramatura retorica e figurale, il cui
sfondo intertestuale abbraccia l'arco intero della poesia italiana (e non solo, poiché andranno
rammentati anche i lavori di traduzione poetica dell‘autore: i sonetti e il teatro di Shakespeare,
Robert Browning, il recente Paradiso perduto di Milton). Prevale, certamente, il magistero dantesco
(per l'abilità piuminiana nell'emulazione della terzina, si ricordino almeno La nuova Commedia di
Dante, con Tullio F. Altan, Feltrinelli, Milano 2004, e l'imminente einaudiano Intervista a Dante)
con l'indiscussa signoria dell‘endecasillabo, dichiarata in Poema tango: «ma lo sentite /
l‘endecasillabo come preme in bocca / a me, e nelle vostre orecchie? A fatica / lo neghiamo e
spezziamo, ne tronchiamo / la materna misura, lo snobbiamo / per più sciolti lavori: e che cos‘è / un
settenario, o un ottonario, se non suo figlio, / erede frammentario / di un‘indivisa gloria?».
Un'indagine linguistica e stilistica non potrà ignorare, tra l'altro, i modi in cui proprio nel
raccontare in versi di Piumini si manifesti con più chiara evidenza la reciproca produttività di metro
e tema, in funzione di vicendevole rinforzo di significato. A chi legga Il piegatore di lenzuoli appare
chiaro come ciò accada non solo quando la scelta retorica confessa il proprio modello, come nel
metro lungo e assonante, tommaseiano si direbbe, delle Leggende di Manta, o come nelle lasse di
prosa ritmata concluse dall‘ottonario in Teseo, ma soprattutto quando l‘andamento del verso prende
la forma stessa della vicenda: in Poema tango, per esempio, il verso calca il passo di danza e
dunque le cadenze del corteggiamento e dell‘innamoramento; nella Mongolfiera, la misura svaria
come seguisse le correnti del vento che trasportano il pallone, in alternanza ininterrotta di stalli,
discese e ascensioni; nel Canto della Parigi-Dakar, la sintassi paratattica, piana come gli orizzonti
del deserto africano, fa contrasto con le spezzature ritmiche, come il silenzio delle dune con il
fracasso della performance brutale. E così via.
A eludere ogni rischio di didascalismo metrico (come anche di naiveté tematica), il poetanarratore applica, con costanza e con mano esperta e leggera, i due rimedi distanzianti per
eccellenza, ossia l‘ironia e – si è già visto – la metaletteratura. Ciò si verifica ovunque nell'opera di
Piumini, e tanto più nella poesia narrativa, che da parte sua inclina ab origine a certe forme
autoriflessive: si pensi all‘istituto del proemio, con la sua implicita problematizzazione del rapporto
tra poeta, materia, destinazione, linguaggio e racconto, e se ne leggano le versioni piuminiane nel
Piegatore di lenzuoli, nella Mongolfiera e in Teseo. In fondo il narrare poetico, anche nel
considerare i propri argomenti e funzionamenti, più che limitarsi a trasgredire un sistema o
rimestare una sedimentazione sembra alludere a una radice comune – o quanto meno a una
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concordia iniziale – di verso e narrazione, in cui il racconto narra l‘atto poetico, mentre il discorso
poetico mima la storia raccontata: la memoria formale dello schema metrico agisce allora come
condizione di coerenza e unità, mentre la potenziale infinità degli intrecci apre a innumerevoli
invenzioni.
A proposito di ironia metaletteraria, conviene tornare a Poema tango, autentica
trattazione scorciata di metrica e retorica, che all'interno di un plot vagamente calviniano riflette più
e più volte sulla misura versale, in una sorta di paso doble con l‘«endecasillabo fottuto». Ancora
oltre l‘io-poetico/narrante specula in poesia sui fatti grafici (la barra obliqua, le maiuscole che
designano gli attanti, le parentesi, i puntini) e, facendosi narratologo, ragiona sui segnali di
scansione dell‘intreccio, sulle dinamiche tra protagonista, deuteragonista e comparse, sulla intricata
relazione tra autore e personaggi e dunque tra realtà e scrittura («invidioso / io che li narro sono, lo
confesso, / di quel muto silenzio, invidioso / di quel momento d‘arte della vita») e, infine, sulle
molteplici facce che si assegnano al narratore; e qui l‘ironia, mai paga, si riverbera sulla
metaletterarietà stessa, in un gioco di specchi di cui scrittore e lettore condividono il godimento:
«soltanto noi (sebbene ancora per poco) / lo sappiamo: / e non è questo un gioco, questo non è, /
sebbene fra parentesi, / un delizioso e immenso privilegio?». Così, il racconto in poesia mette a
frutto un linguaggio che svela i propri stratagemmi e, in questo modo, smaschera la menzogna e
ritorna vicino a un dire veritiero e, alla fine, quanto più possibile innocente.
Un livello alto e classico della metaletterarietà è la dichiarazione di poetica. Sebbene in
Teseo sembri di poter cogliere il monito a guardarsi dalla sovrainterpretazione («Non ogni cosa che
accade, non ogni cosa compiuta, nella commedia dei giorni, ha una ragione, o uno scopo. Spesso la
mano dell‘uomo svolge, o avvolge, soltanto, / un suo segreto pensiero»), Piumini offre spesso
allusioni o – specie nel caso dei poemetti – autentiche ipostasi di poetica. Ecco allora una
verosimile definizione della prassi di scrittura nascosta nel Piegatore: «E decisi che fosse il mio
lavoro: / una cosa mai fatta da solo, / ma sempre almeno in due, un utile, / duttile, impensato
servizio»; ecco, nel Vampiro generoso, una celebrazione della materia d‘arte nell‘inno al sangue, e
una raffigurazione del poeta travagliato da «antiche fami di pane e di frutti, desideri da uomo» e
insieme da voglie indicibili e oscure, destinato a esplorare biblioteche e a costruirsi poi, da solo, una
salvezza, scoprendosi capace di «succhiare / là dove il mondo è pieno, per ridonarlo al mondo». Un
appunto sulla carenza del segno referenziale apre La mongolfiera, con il conseguente proponimento
di andare, grazie alla scrittura poetica, «oltre / l‘impura precisione descrittiva» e «oltre il nulla
solerte / di quella prima denominazione», per «narrare / cominciando da ciò che è ignorato / da
qualsiasi vocabolario: / un momento nel tempo». Di fatto, il discorso poetico possiede, nel suo
«volo», un significato radicalmente differente dal linguaggio della chiacchiera, e raggiunge,
nell‘identità di pensiero e canto, un diverso ordine del vero: «Chi non fu uccello, o angelo, lo
ignora: / ciò che in terra ha senso / nel contatto di pietra, o zolle d‘acqua, / persistente contratto,
fedeltà, / muta nel volo la sua verità». Nella dialettica dolorosa (che non può essere del tutto ignota
a nessun poeta) tra scelta dell‘afasia e necessità della parola, la mozione iniziale dell‘aeronauta, di
predazione e morte, si trasforma in desiderio d‘amore e di parola: ed è infine la parola condivisa e
amorosa che sorregge la vita anche sopra le macerie, la «molta, molta, utile parola» capace di ogni
estrema e insperata rigenerazione di sé. Il labirinto, allora, immagine primordiale dell‘esistenza e
della narrazione, diventa per l‘uomo uno spazio che forse non «chiude, senza rimedio, qualcuno, /
ma che gli apre ogni via» (Teseo), così come non intralciano, bensì sprigionano, le discipline del
metro e della disposizione narrativa. È proprio il tragitto del figlio di Egeo, eroe intertestuale come
pochi altri, ad evocare da sempre con il proprio passo l‘andamento del raccontare poetico, è il filo di
Arianna che si sdipana e addipana a raffigurare lo svolgimento di un discorso che si deve finalmente
credere salvifico, è il gesto violento che uccide il minotauro a suggerire il lavoro antico del poeta
che con la voce tiene a bada il nulla, ossia la morte e i suoi mostri. Nella rilettura piuminiana, i
molti fili che si dipartono dal groviglio significano le mille possibilità del mito e del mondo di
lasciarsi di nuovo raccontare, le mille vie di fuga dal dedalo pericoloso, le mille amanti in attesa a
ogni uscita, le mille diverse armonie e i mille sensi possibili. Compito vero del poeta narratore è,
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alla fine, sottrarre cadenze e racconti al «gran male che tutti ci minaccia, e s‘avvicina» (Il moro),
scamparli alla disarmonia dell‘inesistenza, e una volta ancora raccontare – in libero
acconsentimento al ritmo – «l‘evento che non da tutti è saputo: storia diversa, / racconto che non fu
mai raccontato, forse perduto, o sparito, ucciso dalle mutezze, o, per qualche ragione, / tenuto
chiuso e segreto» (Teseo).
Non mette conto sottolineare come non si tratti qui di un puro gioco di parole e
d'immaginazione, bensì di un'operazione anche etica, come sempre dovrebbe essere l'uso condiviso
del linguaggio, e quello letterario non meno di altri. Si spiega così, per contrasto, l'insofferenza
piuminiana verso l'odierna sciattezza linguistica, versione verbale della scelleratezza umana: l‘io
poetico-narrante della Mongolfiera sale sull‘aerostato per sfuggire non solo le atrocità di un pianeta
inguaribile e inguardabile, ma anche l‘abuso e lo spreco del linguaggio, l‘anti-poesia, il «disturbo di
parola»; egli fugge in volo «perché inviperito / dal molto morto parlare, / dal non dire, dal non saper
dire, / dal non chiedere prendere dare, / parole che non sono testamento, / né promessa né
giuramento, / non patto non memoria non nome, / non racconto non canto non stupore, / e nemmeno
un valido pianto». Per quanto si salga, però, il fenomenico ci zavorra, e al volatore del poemetto
(come al poeta-narratore, come al lettore) tocca suo malgrado discendere per guardare i resti del
pianeta, ridotto a un «immenso senza eventi ghiaccio nero».
La funzione etica del linguaggio si esprime con speciale efficacia nel narrare poetico:
offrendo regola e senso (poiché sia il racconto sia il ritmo tendono a individuare e trattenere un
ordine e un significato plausibili del reale), tanto la poesia quanto il racconto si oppongono
naturaliter al dilagare dell‘insulto, dell‘oltraggio, dell‘arroganza professata e operata dall‘«odiabile
masnada / che usa il mondo come fuoristrada» (Canto della Parigi-Dakar). Racconto e poesia
agiscono entrambi immediatamente contro la bruttezza del mondo, che è manifestazione visibile del
male, della prepotenza dell‘uomo e dell‘iniquità della sua storia, dato che «un tempo camminarono
gli uomini / prima di ogni pace e di ogni guerra, / quando ogni pietra era buona, non cattiva, /
ciascuna pietra utile, nessuna preziosa, / e ogni cosa era vera, e avveniva» (ibidem).
Di fronte all'orrore, quello estremo e quello quotidiano, rimane al poeta-narratore la
nostalgia della bellezza sensibile, la «delizia infinita» che il mondo sa offrire, con ostinazione e
nonostante tutto. Fin negli spasmi di una condizione mortifera, un incolpevole bevitore di sangue
magnifica la ricchezza della vita, l‘inesauribile diversità e l'armonia originaria e potenziale delle
creature: «Nel cesto di luce, luminose / e odorose le cose, ardenti le apparenze, i colori, gloriose le
parole, arguti i nomi, / e le forme […]» (Il vampiro generoso). All‘uomo sono concesse esperienze
impagabili, magari sommesse e segrete come la «mite armonia» di un lenzuolo, «fatto a sezione
aurea, però / imperfetta, in modo che rimanga / un dubbio quieto nella perfezione». E anche nel
diuturno fare e disfare la bellezza, replicando gesti, secondo pieghe uguali ed angoli precisi, si
nasconde la morte, o meglio si consuma la vita, e passa, «come una colpa passa / a chi è perdonato»
(Il piegatore di lenzuoli). È, questa, la variante meno bieca della morte, che altrove esibisce volti
ben più odiosi: per restare alle forme poematiche, almeno nella Mongolfiera, nel Canto della
Parigi-Dakar, nelle Tre leggende di Manta, in Teseo. Ma ricorre tanto, il motivo della morte
nell'opera di Piumini (tra tutti gli esempi disponibili, si cita qui solo il perfetto racconto Lo
stralisco, Einaudi, Torino 1987), da far ipotizzare che egli affidi alla poesia, al racconto e al teatro –
in sintesi, al raccontare poetico rappresentato – proprio l'ufficio antropologico di esecrare la morte,
(e la disarmonia, suo sembiante sensibile, e la brutalità, suo volto sociale): la morte che è male
perché è insieme bruttezza definitiva e finitezza assoluta.
Per dare un minimo sostegno teorico alla congettura, bisogna in via preliminare ammettere
che la letteratura sia un fatto antropologico (in questo ci soccorre anche Wolfgang Iser, per il quale
la letteratura costituisce appunto una forma di antropologia estensiva in quanto crea estensioni e
superamenti dell'umano) nel suo rispondere a bisogni profondissimi dell'uomo. Bisogna poi tener
presenti altre idee connesse: che la letteratura, come ogni azione umana derivante dal profondo,
abbia appunto lo scopo di reagire alla morte (di difendere e consolare dalla morte, di esorcizzare e
spiegare la morte: del resto, quale più straordinaria estensione dell'umano, quale maggior
140
superamento di sé del superamento della morte – o anche solo del problema della morte?); ancora,
che a questo fine concorrano, ciascuno a proprio modo ma con vaste zone di intersezione e
sovrapposizione, i generi fondamentali della letteratura, individuabili come si è fatto fin qui, in
maniera un po' rudimentale, in narrazione, poesia, teatro; infine, che l'associazione di questi tre
generi incrementi in maniera straordinaria il potere apotropaico di ciascuno di esso, creando una
sorta di potentissimo talismano. Intorno a queste supposizioni, non nuove né acute, si potrebbe poi
continuare a ragionare sparsamente, a cominciare dalle modalità di possibile cooperazione e
alleanza tra generi di scrittura: per esempio ricordando che la narrazione è interpretabile sia come
contenuto della narrazione sia come atto del narrare, atto che ha già in sé una risorsa di teatro; o che
la dimensione affabulatoria è indipendente dal carattere diegetico o mimetico del testo, mentre,
d'altro canto, il teatro accetta tanto la poesia e quanto la prosa; o che perfino l'estrema immobilità
della lirica più sottile lascia intravedere una traccia di fabula, o almeno concede l'eventualità di una
lettura, che a sua volta sottintende una potenziale rappresentazione. Tutte considerazioni generali
che, se non altro, non contrastano in niente con quanto si è detto fin qui della scrittura di Piumini. Si
ripensi allora, a questo punto, all'affermazione piuminiana circa la misconosciuta ricchezza della
poesia narrativa. Nell'ottica latamente antropologica che si è appena detta, il racconto in versi
appare in grado di appagare in simultanea due desideri o bisogni dell'uomo: il primo è conoscere
una storia e ricordarla (anche con l'ausilio della rima-promemoria), il secondo ricordare un ritmo e
riconoscerlo. Nel narrare in versi, si ravvisano meglio le tracce dell‘origine orale che accomuna
metro e affabulazione: si intuiscono nella variazione del respiro – sospeso, affrettato, modulato
secondo il giro degli avvenimenti – di chi racconta e di chi ascolta; nella seduzione e nel piacere
prodotti dalla modulazione della voce, che riecheggia il battito del cuore, la lena del fiato, il
periodico ritorno dei cicli della luna e delle maree. Chi potrebbe escludere che appunto su queste
esperienze percettive aurorali si siano plasmati gli atti di immaginazione e – al di là di ogni
imposizione di paradigma e tradizione – i loro esiti di scrittura? Per questo il luogo in cui la logica
dell‘intreccio e la sensualità dei versi possono ricongiungersi è proprio la voce, nella cui eco il
discorso poetico non è più irrigidito dal metro, ma si sviluppa con libera coerenza, e si conciliano la
riconoscibilità della forma ritmica e il movimento degli eventi narrati. Nella voce, il ritmo del verso
può coincidere con il ritmo profondo del raccontare, con la sua cadenza ordinatamente ricorrente e
al tempo stesso disponibile a ogni mutazione narrativa: avvio, ripresa, ripetizione, sospensione,
scioglimento.
Alla fine, la poesia narrativa rappresentata potrebbe davvero essere la più perentoria azione
– almeno letteraria – contro la morte e le sue epifanie. Nel già menzionato poemetto inedito Il
vecchio nel granturco, strofe di tono sapienziale incorniciano il racconto di un tentativo di
immortalità ingegnoso ma finito in beffa. In esordio, la voce narrante si chiede: «Un uso umano è il
canto della vita, / la sua bellezza, il suo dolce sapore, / la terra e il cielo, il vino e l‘amore, / questa
canzone la si è già sentita: / ma cosa canta l‘uomo quando muore?»; in chiusura, si risponde: «Chi
ha paura di morire, muore, / chi ama è troppo nuovo per finire, / chi ha paura vive senza amore, /
chi ama non ha tempo di morire». Non solo le costellazioni tematiche di Piumini, tuttavia,
suggeriscono l'intento di scongiurare la morte, ma anche e soprattutto le sue scelte di stile, struttura
e genere, e in particolare il privilegio accordato alla narrazione in poesia. Nella concretezza della
rappresentazione (la lettura, la messa in scena, l'illustrazione), poesia e racconto incrementano il
potere, che appartiene a entrambi, di consolare antiche mancanze (o, se si preferisce un altro punto
di vista, di appagare desideri): il narrare lenisce la nostra impossibilità di sperimentare nel vivo
l‘infinità di tutte le storie, mitiga la limitatezza che ci condanna a una storia sola, la nostra, e per di
più incompleta in quanto irrimediabilmente tronca del finale. E mentre il racconto consola così
l'esiguità della nostra esperienza del mondo, la metrica irretisce la dissonanza del mondo frenandola
in simmetria variabile e declinabile, in memoria, in ordine magico ed esatto. Poco importa che tale
ordine sia tanto breve quanto la storia che il poemetto racconta («corta / e necessaria, come a poesia
si addice: / ma non troppo, perché tempo vuole / l‘avvenire e l‘avvenire del dire, / il raccontare,
l‘avvenire del leggere, il vedere»: Poema tango), e pertanto chieda «voce parsimoniosa e attenta»
141
come quella promessa dalla protasi della Mongolfiera. Il raccontare poetico, anche di misura breve,
accorda la confortante riconoscibilità dei ritmi con la sorpresa degli eventi nel loro accadere,
coniuga i cambiamenti del disegno consueto con la conferma delle costanti archetipiche, e facendo
questo ci rassicura, alla fine, che «il nulla è impossibile» (Il piegatore di lenzuoli). Ecco il senso
del canto e della sua disciplina, ecco ciò che la controllata armonia del racconto insegna e proclama,
ecco ciò che gesto e voce significano, contro la morte: l‘impossibilità del nulla, se esistono e finché
esistono voce, gesto, storie e poesia.
Milva Maria Cappellini
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PLINIO PERILLI
AL BUIO LA MIA MANO FOSFORA…
Viva la prosa nutrice del verso!
Laxus, onde laxare, lassare, lasciare, lasser ec. è un di quelli
aggettivi, che come ho detto nella mia teoria de‘ continuativi,
mi sanno di participio di verbi ignoti, o non noti come padri di
tali aggettivi ec. e laxare mi sa pur di continuativo per origine
ec. (19 Ott. 1823)
(Giacomo Leopardi, Zibaldone)
Parole secche e senza cavaliere
Colpi instancabili di zoccolo
Mentre
Dal fondo dello stagno, stelle fisse
Regolano una vita.
(Sylvia Plath)
Eh, sì, Leopardi che di poesia nobile e sublimante la sapeva fin troppo lunga, ha codificato,
glorificato per sempre solo e soprattutto la prosa come sua unica, umile ma coraggiosa nutrice!…
Nello scrigno dello Zibaldone (a pag. 29 dell‘autografo) c‘è appunto il passaggio esatto, che parte
filologico, attraversa addirittura la gastronomia, e si conchiude quale squisito filosofema:
―… Ottimamente il Paciaudi come riferisce e loda l‘Alfieri nella sua propria Vita, chiamava la
prosa la nutrice del verso, giacché uno che per far versi si nutrisse soltanto di versi sarebbe come
chi si cibasse di solo grasso per ingrassare, quando il grasso degli animali è la cosa meno atta a
formare il nostro, e le cose più atte sono appunto le carni succose ma magre, e la sostanza cavata
dalle parti più secche, quale si può considerare la prosa rispetto al verso.‖…
Mezzo ‗800 italiano vale in poesia specie per le sue prose liriche – e altrettanto potremmo,
dovremmo scrivere per il ‗900 da cui partiamo…
Non erano stati insomma i più moderni poeti romantici e poi decadenti (per quel che valgono gli
aggettivi, le nomenclature di specie), a sdoganare il poemetto in prosa o comunque le prose liriche, i
racconti in versi, come forse i più moderni strumenti d‘un moderno poetare?!… Si pensi a
Baudelaire, a Rimbaud… Ma prima ancora, agli stessi Goethe o Novalis… E di quest‘ultimo,
potremmo infatti citare a iosa tantissimi passi dell‘Enrico di Ofterdingen (1798-1801, pubblicato
postumo da Tieck nel 1802); ad esempio quello della festa, e della danza di Enrico con Matilde:
… Ella sembrava lo spirito di suo padre nel più soave travestimento. Dai suoi grandi occhi sereni parlava
eterna giovinezza. Su un fondo di un chiaro celeste spiccava il mite splendore di due brune stelle. La fronte e il naso si
incurvavan graziosi intorno ad esse. Il suo volto era un giglio inclinato verso il sole nascente, e dal collo esile e bianco
salivano serpeggiando in deliziosi volgimenti le vene azzurre per le tenere guance. La sua voce era come un‘eco
lontana, e la bruna testina ricciuta sembrava soltanto aleggiare sulla sua delicata figura. …
Del resto, perché stupirsene, se solo si pensi quanto anche la grande narrativa moderna – gli
scrittori veramente totali del ‗900 (come Proust, Musil, Mann, naturalmente Joyce, e aggiungerei
per molti tratti anche Kafka, Pasternak e lo stesso Borges…) – avevano in parallelo lavorato ed
estratto dal romanzo, rinforzandolo, smontandolo e rimontandolo, ogni lirico succo, consonante
pulsione emotiva, e provvida o inquieta essenza d‘anima… Impossibile in realtà catalogare, per
molte pagine del Dedalus joyciano (per l‘esattezza, A portrait of the artist as a young man, 1917),
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se appartenenti al mero genere romanzesco, e se invece fossero state capaci di tracimare, travasarsi
appieno in una sorta di fluviale, introiettato ma irradiante poema in prosa:
… Da secoli gli uomini avevano fissato lo sguardo in alto, come lui faceva sugli uccelli in fuga. La colonnata sopra il
suo capo, lo faceva pensare vagamente a un tempio antico e la canna, su cui s‘appoggiava stanco, al bastone ricurvo di
un augure. Un senso di paura dell‘ignoto mosse il profondo della sua stanchezza, una paura di simboli e di portenti:
dell‘uomo in forma di falco, suo omonimo, che s‘involava dalla prigionia sopra ali di vimini; di Thoth, il dio degli
scrittori, che scriveva su una tavoletta con un giunco e portava sullo stretto capo d‘ibis la luna falcata.
Sorrise pensando all‘immagine del dio, che gli ricordava un qualche giudice camuso, in parrucca, intento a metter
virgole a un documento tenuto alla distanza del braccio, e sapeva che non aveva ricordato il nome del dio, altro che
perché somigliava a una bestemmia irlandese. Pazzie. …
Quando mi trovai insomma a mettere a fuoco le mie prime prove poetiche, era oramai e per
fortuna impossibile scremare tra valenza lirica e attitudine prosaica… ―La Voce‖ aveva per fortuna
ben compiuto la sua piccola rivoluzione, e poeti come Slataper, Jahier, Boine, Sbarbaro, gli stessi
Ungaretti, Bacchelli, e poi Cardarelli (né possiamo omettere i già acclarati, desolati ma incoronati
―crepuscolari‖ come Moretti, Corazzini, Gozzano, F.M. Martini, l‘esordiente Govoni, il primissimo
Palazzeschi & Company), ci avevano donato ―prose‖ di altissima densità e dignità lirica…
E lascio volutamente a parte la folleggiante, cadente stella cometa di Dino Campana, che in quegli
anni – per chi almeno volle accorgersene – davvero infiammò, illuminò da sola quel cielo cupo e
tetro del primo dopoguerra… I Canti orfici (1914), si sa, valgono non meno per le parti in prosa che
per quelle eminentemente liriche, in realtà inscindibili…
La giornata di un nevrastenico (Bologna)
… Numerose le studentesse sotto i portici. Si vede subito che siamo in un centro di cultura. Guardano a volte
coll‘ingenuità di Ofelia, tre a tre, parlando a fior di labbra. Formano sotto i portici il corteo pallido e interessante delle
grazie moderne, le mie colleghe, che vanno a lezione! Non hanno l‘arduo sorriso d‘Annunziano palpitante nella gola
come le letterate, ma più raro un sorriso e più severo, intento e masticato, di prognosi riservata, le scienziate. …
Negli anni successivi, votati e consacrati (per non dire: arresi) ad un trionfante ermetismo
(lasciamo stare gli sfumati distinguo tra le varie, differenti posizioni, diciamo così, degli Ungaretti e
dei Montale, dei Saba o dei Quasimodo… non dimenticando, si capisce, il quieto e impassibile
percorso dei poeti dialettali, sempre ben più affini ai fosforici borborigmi della prosa che alle
uniformi di gala dei lirismi altolocati: e citiamo almeno figure, destini come quelli di Virgilio
Giotti, Raffaele Viviani, Biagio Marin, Delio Tessa, Edoardo Firpo, Vittorio Clemente, Giacomo
Noventa, Tonino Guerra, lo stesso Zavattini…), l‘opposizione più accanita alla vulgata lirica in
auge fu certo quella del giovane Cesare Pavese di Lavorare stanca (1936, bissato nel ‘43 da una
seconda edizione aumentata ed arricchita di un importante scritto di poetica, tutto incentrato
appunto sul tentativo, e la glorificazione, della poesia-racconto):
La composizione della raccolta è durata tre anni […] Andava prendendo in me consistenza una mia idea di
poesia-racconto […] Continuavo a sprezzare, evitandola, l‘immagine retoricamente intesa […] Va bene, dicevo,
sostituire al dato oggettivo il racconto fantastico di una più concreta e sapiente realtà, ma dove si dovrà fermare questa
ricerca di rapporti fantastici?
―L‘esperienza di Lavorare stanca‖ – rileva e rievoca Ermanno Krumm – ―si presenta comunque
come qualcosa di fortemente marcato, per quel tempo. Una specie di isola cui tornare ogni qual
volta si cerca in direzione del verso narrativo e lungo che Pavese fu tra i primi a sperimentare
(preceduto negli anni venti da Piero Jahier ed Enrico Thovez).‖…
La vecchia ubriaca
Piace pure alla vecchia distendersi al sole
e allargare le braccia. La vampa pesante
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schiaccia il piccolo volto come schiaccia la terra.
Delle cose che bruciano non rimane che il sole.
L‘uomo e il vino han tradito e consunto quelle ossa
stese brune nell‘abito, ma la terra spaccata
ronza come una fiamma. Non occorre parola
non occorre rimpianto. Torna il giorno vibrante
che anche il corpo era giovane, più rovente del sole.
…
(da Lavorare stanca, 1936)
Ma torniamo nuovamente, con una bella, energica dissolvenza in avanti, fino agli inquieti e
discussi anni ‘60-‘70… In tempi di strascicato, usurato ―postermetismo‖, e ancor dopo di irruenta,
fastidita ―neoavanguardia‖, gli esiti più ghiotti e sintomatici mi parvero alcuni lampeggianti testi di
Elio Pagliarani, dello stesso Pasolini, perfino dell‘ultimo Montale… La ragazza Carla (1960) fu
certo una rivelazione, e forse anche molti brani di Poesia in forma di rosa (1964) e di Satura
(1971), o del Diario del ‟71 e del ‟72 (1974) e del Quaderno di quattro anni (1977), con la sliricata,
inebetita, quasi, ―macchina da presa‖ sulla nostra ormai minuscola modernità, sventagliata pigra e
attonita in aggiranti inquadrature contropoetiche forse sulla scena stessa (interni ed esterni) del
nostro invecchiato e dismesso ‗900 migliore…
Sul lago d‟Orta
Le Muse stanno appollaiate
sulla balaustrata
appena un filo di brezza sull‘acqua
c‘è qualche albero illustre
la magnolia il cipresso l‘ippocastano
la vecchia villa è scortecciata
da un vetro rotto vedo sofà ammuffiti
e un tavolo da ping-pong. Qui non viene nessuno
da molti anni. Un guardiano era previsto
ma si sa come vanno le previsioni.
È strana l‘angoscia che si prova
in questa deserta proda sabbiosa erbosa
dove i salici piangono davvero
e ristagna indeciso tra vita e morte
un intermezzo senza pubblico. È
un‘angoscia limbale sempre incerta
tra la catastrofe e l‘apoteosi
di una rigogliosa decrepitudine.
Se il bandolo del puzzle più tormentoso
fosse più che un‘ubbia
sarebbe strano trovarlo dove neppure un‘anguilla
tenta di sopravvivere. Molti anni fa c‘era qui
una famiglia inglese. Purtroppo manca il custode
ma forse quegli angeli (angli) non erano così pazzi
da essere custoditi.
(dal Quaderno di quattro anni, 1977)
Uno scenario, ripetiamo, dove nemmeno la celebrata e oramai mitica Anguilla montaliana – e ce
lo dice lui stesso! – potrebbe, vorrebbe sopravvivere, in oscuri botri o maldestro, metaforico fango
poematico…
Ma non dimentichiamo che gran parte della poesia americana, e ovviamente anche europea,
chiedeva alla prosa lirica le atmosfere, pause o distensioni fervidissime, e ignote perfino ala poesia.
Penso a tanti poeti statunitensi che amavamo, non solo della ―beat generation‖ (Kerouac, of course,
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o Ginsberg, Corso, Ferlinghetti) ma anche più ufficiali, per così dire (il William Carlos Williams del
voluminoso poema Paterson, lo stesso John Ashbery). Non è un caso che dalle Foglie d‟erba di
Whitman all‘Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e oltre, fino alle estrose e trasgressive
poesie di Bukowski, c‘è tutta una tradizione americana di lirismo prosaico che seminò e a tratti
infervorò intere moderne generazioni:
Penniwit, l‟artista
Perdetti la clientela a Spoon River
perché tentai di far entrare il cervello nella camera oscura
per afferrare l‘anima della gente.
La miglior fotografia che io abbia mai fatto
fu quella del giudice Somers, procuratore.
Egli sedette ben dritto e mi fece attendere
finché riuscì a raddrizzare l‘occhio storto.
Poi, quando fu pronto, disse: – Pronto.
E io gridai: – Respinto – e il suo occhio girò.
E lo colsi proprio come era solito guardare
quando diceva: – Mi oppongo.
Ed egualmente onoravo anche la splendida eredità poematica di tanti racconti di Lorca, o fulgide
prosette laiche (e gnomiche) di Prévert, Char, Valéry, Jacob… Max Jacob, in particolare, quello
postumo dei Derniers poèmes en vers et prose (1945), e che morì nel ‘44 nel campo di
concentramento di Drancy, ostaggio dei nazisti), ci consegnava con le sue aspre ma favolistiche
parabole ammonimenti supremi anche in rapporto alla tirannìa e ignominia della grande Storia:
Amore del prossimo
Chi ha visto il rospo attraversare una strada? È un uomo piccolissimo: una bambola non potrebbe essere più piccina.
Si trascina sulle ginocchia: ha vergogna, si direbbe? … no! È pieno di reumatismi. Una gamba rimane indietro, ed egli
la richiama. Dove va così? Esce dalla fogna, povero clown. Nessuno ha notato questo rospo per la via. Un tempo
nessuno mi notava per la via; ora i ragazzi si fanno beffa della mia stella gialla. Fortunato rospo! tu non hai la stella
gialla.
Non parliamo poi dei nostri beneamati e correnti poeti russi, capaci di intrigarci e commuoverci
con le ―scene‖ e le ―storie‖ delle loro poesie, come dei veri e propri registi cinematografici…
Citiamo almeno Evtušenko, e il gemello dioscuro Voznesenskij, peraltro laureato architetto… Tutte
le prime liriche di Evgenij Evtušenko (La terza neve uscì nel ‘55), ci donavano degli autentici,
animati quadretti, vere istantànee o quasi cortometraggi della sua, loro – romantica ma anche
disillusa – giovinezza sovietica:
Ultimo vicolo
Ultimo vicolo: un nome adatto…
Qui, in una casa trasformata in bettola,
mi fingo dotto con una cretina
e mi rincretinisco sempre più.
Perché esser poeta per pomiciare
con una borghesuccia su un baule?
Son goffo: un lapot‟ con il tacco alto
nelle grinfie di ―nostra madre‖ Mosca…
In questa stanza, fra trumò e bicchieri,
non salvo con il letto la poesia.
Ultimo vicolo: numero tredici.
Oltre ormai non c‘è più strada.
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Ecco dunque gli anni di gestazione e incubazione delle mie anch‘esse sperimentate, stravissute
Ragazze italiane. Il libro, che uscì nel 1990, gettava in effetti un po‘ di sassi e rametti in uno stagno
che da un lato celava tanta acqua annosa e immota del postermetismo (sempre quella che Pavese
paventava ed evitava quale ―immagine retoricamente intesa‖) – e dall‘altra favoriva, certo per
reazione, la fioritura acquatica di strane e finanche mostruose ninfèe sperimentali, votate
unicamente, intenzionalmente, al gioco pseudofonico o joke paralinguistico. Edoardo Sanguineti, ad
esempio, dissacrava e autoironizzava in prospettiva diaristica – vero e proprio, elucubrante spaccato
intellettualistico – l‘in fieri e l‘in progress di ogni pensiero o pensarsi poetico, metaforizzandolo
come prosa e diagnosi stessa creativa…
Raccomando ai miei posteri un giudizio distratto, per i poeti del mio tempo:
(perché fu il tempo, dicono, della distratta percezione):
è inutile pensare, adesso,
ai neostrutturalisti dannunziani (e a tutti gli ―orecchini‖ che verranno, se verranno):
(come è inutile diagnosticarli, rigidi, questi sciamani di Lucifero, e le loro squisite
disperazioni, tra le fedi e le speranze dell‘ultima spiaggia borghese, tra i lampi
ardenti dell‘apologetica indiretta apocalittica):
io non sono così, e non voglio
essere così: (e l‘altra sera potevo concludere, all‘Italsider, confessandomi chierico):
sono un chierico rosso, e me ne vanto:
(e oggi, guarda, mi sorprendo che canticchio,
facendomi la barba, all‘improvviso, ―Montale, gli ottant‘anni ti minacciano…‖):
(da Postkarten, 1978)
Le storie, il raccontare storie era oramai mestiere dimesso, al massimo relegato, lasciato,
subappaltato ai cosiddetti ―cantautori‖ di grido, più o meno poetici (citiamo almeno, a parte
l‘assestata e ―francesizzante‖ scuola genovese dei Paoli, dei Tenco e dei De Andrè, taluni pregevoli
ballatisti o comunque interpreti dal pop al rock, come Lucio Dalla – guardacaso in splendida
collaborazione col poeta Roberto Roversi, un ex civile aedo di ―Officina‖ – Guccini, il vituperato
ma ascoltatissimo Battisti (che schitarrava alla grande suadenti pensieri e parole: cioè le briose
romanticherìe di Mogol), e poi ancora il trasgressivo Renato Zero, gli allor giovani menestrelli
progressisti Antonello Venditti e il più metafisico De Gregori, Ivan Graziani e perfino il primissimo
Vasco Rossi, più scombiccherato beatnik di provincia che il successivo rocker ultramplificato e da
megaconcerto nei grandi stadi che sarebbe diventato:
Albachiara
Respiri piano per non far rumore
ti addormenti di sera e ti risvegli col sole
sei chiara come un‘alba, sei fresca come l‘aria.
Diventi rossa se qualcuno ti guarda
e sei fantastica quando sei assorta
nei tuoi problemi, nei tuoi pensieri.
…
… E ci fermiamo qui, con l‘italico cantautorato... (Non a caso – pochi lustri più tardi – uno
sperimentatore come Tommaso Ottonieri si provò in una gustosa parodia di molti testi di canzonette
sanremesi…). E in ogni caso venivamo un po‘ tutti da una tradizione, recente ma già consolidata,
che aveva visto un Bob Dylan (citiamo lui per tutti) inanellare, cantilenare, strimpellare, gracchiare
o comunque intonare con le sue fulgide, pulsanti ballate e canzoni folk-rock, le più vitali, necessarie
―poesie-racconto‖ di quegli anni di transizione dal futuro sognato al futuro in atto, e ancora al futuro
da costruire, perseguire, propagandare, convertire…
a ramona
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ramona vieni qui vicino
chiudi dolcemente i tuoi occhi di brina
il dolore della tua tristezza passerà
mentre i tuoi sensi si sveglieranno
i fiori della città
sebbene siano come il respiro
a volte diventano come la morte
e non serve a niente cercare di capire
quelli che stanno per morire
anche se non riesco a dirlo a parole
le tue labbra screpolate di campagna
voglio ancora baciarle
e essere vicino alla forza della tua pelle
i tuoi magnetici movimenti ancora catturano
i minuti in cui io sono
ma addolora l‘amore del mio cuore
vedere che cerchi di essere parte
di un mondo che semplicemente non esiste
è tutto soltanto un sogno
è un niente è un inganno
che ti risucchia e ti fa sentire
come adesso
…
Ma l‘atmosfera concreta, il retaggio intellettuale che tutto ciò scatenava nell‘aria, nelle tetre
temperie di quello che Pasolini stigmatizzava, denunciava come conformismo
dell‘anticonformismo, era poco meno severo e triste del papalino, reazionario non possumus…
Quando Antonio Porta, nel gennaio 1982, mi pubblicò su ―Alfabeta‖ Tre ricordi, nient‘altro era in
effetti che un evocante, risvegliato e struggente racconto lirico:
Com‘era bello il tuo ricordo!,
prima che tu stessa lo spegnessi
per tornarmi viva, riapparire
luminosa nel presente: identica
a come ti volevo – miracolosa
incarnazione della mia idea.
Prima che ti sognavo indimenticabile:
metà, concreta speranza insaziata,
esaudita ma rinnovata; metà,
bugiarda promessa mantenuta…
―Allora ci vediamo domani!
Facciamo alle quattro a Piazza
di Spagna‖ – ―Sì!, ti aspetto
intorno alla fontana. Capito?
Vengo con la metro…‖. Amore
nostalgico, ripetitivo ma fedele
al suo appuntamento quotidiano
coll‘immediato futuro di ieri.
…
(poi in L‟Amore visto dall‟alto, 1989)
L‘affettuosa recensione di Giuseppe Conte alle mie successive, adunate e rinarrate Ragazze
italiane (uscita sul ―Mercurio‖ di Repubblica nel settembre 1990), dissipava in effetti ogni sospetto
recondito: ―I versi sono lunghi e narranti, elegiaci, come tradotti da un latino anacronistico: fanno
pensare più a Tibullo e a Properzio che a Gozzano‖… E ancor più fece, bontà sua, Eraldo Affinati
in un saggio di poco posteriore (su ―Via lattea‖, luglio/dicembre 1994): ―Il mimetismo acrobatico di
Plinio Perilli non è frutto di una tecnica: discende semmai dal suo respiro creativo che vive sempre
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in un surplus allegorico dell‘emozione lirica, in grado di accogliere, così atteggiato, gli stimoli
provenienti dalla quotidianità.‖…
Ma eccole, alcune raccattate, convocate briciole di queste esistenze – scrisse Rosita Copioli nel
1990, prefando le mie Ragazze italiane – ―che qualcuno ha dimenticato e che lui non permetterà si
perda.‖
Un paio di brevi esempi a caso. Una scheggia lirica come Il sorriso perduto:
Siccome anche tua Madre ha i tuoi occhi,
io li guardavo come se un po‘ tu mi guardassi.
C‘era malinconia e luce, c‘era l‘ombra
dopo il sorriso. Forse il Suo sorriso sei tu:
Lei lo ha donato a te che lo porti per strada.
Ma anche un altro squarcio sublime e banale d‘esistenza come Le briciole, amabile residuo di
ogni nostra dolce e invaghita nuga quotidiana:
Al bar ti piace la pasta alla crema,
ridi, mi ringrazi, sorridi troppo,
masticando te ne scordi, ti vedo
le briciole tra i denti – te ne accorgi,
chiudi subito le labbra e arrossisci.
Il tuo pudore mi fa ridere, ed ora
sono io che ti mostro gengive
di briciole colorate, a decorarmi
gli incisivi. La figuraccia per fortuna
è reciproca!: uno pari, palla al centro.
…
E vennero finalmente gli anni, il tempo ormai maturo per i racconti in versi… Al punto che ce ne
sentimmo addirittura invasi, circondati, perfino sommersi… Glissiamo sui nomi – ma non ci fu
moderno, anzi postmoderno lirico di ruolo che non giocò il suo jolly. Naturalmente la posta esigeva,
meritava un rischio molto più sincero (e comunque articolato).
Ci volle il gran lavoro romanzesco e lirico assieme del grande Attilio Bertolucci con La camera
da letto, per ribaltare un po‘ le quotazioni, e comunque concimare quell‘inaridita, isterilita gran
pianura secondonovecentesca che divinava spunti novissimi, soffriva talentuose Autobiologie e
scombiccherate, baluginanti Vite in Versi, profetava Stelle del Libero Arbitrio e Geometrie del
Disordine, Paesaggi col serpente e Laborinti, ma in realtà allungava (al massimo insaporiva) il
brodo dei decenni precedenti – di cui già i massimi rappresentanti avevano auscultato, registrato e
diagnosticato la sfinitezza… Perché, altrimenti, la via di fuga della prosa lirica nelle gran carriere di
Montale e Sinisgalli, dello stesso Gatto, e poi Vigolo, Leonetti e Roversi, Risi ed Erba, Giudici e
Raboni?…
XI
IL BAMBINO CHE VA A SCUOLA, A SEI ANNI
Il bambino che va a scuola, a sei anni
muta profondamente la sua vita,
si ferisce di continuo e guarisce
da solo, i ginocchi e i polsi,
prima intatti, fioriscono di croste
che l‘aria dei mattini d‘inverno
lustra come rubini o come quelle
bacche per cui la siepe è ancora viva
casa e dispensa al passero e ai suoi figli.
Se l‘anima gli si lacera, si cura
nascondendosi agli altri e più a chi
149
sino ad oggi gli ha dato gioie e affanni.
…
(da La camera da letto, 1984-89)
Mario Luzi, è vero, cercava, cercò (e trovò) altre soluzioni: in parte teatrali, in parte di fortissima
prosodia gnostica (Nel magma, 1963; Dal fondo delle campagne, 1965; Su fondamenti invisibili,
1971)… Ma questo è un altro discorso.
La corriera
La corriera procede a strappi, muglia.
Chi nativo di qui ravvisa il giogo
cima per cima segue in lontananza
tutta l‘azzurra cavalcata: il vento
profila i primi monti
bruciati dall‘altezza,
fa livido il colore
più cenere che fiamma
che ha il querceto d‘inverno
su queste terre d‘altipiano,
sferza, ostacola i muli sulla tesa,
stride sui cumuli di brace. Gli altri,
chi recita il breviario a voce bassa,
chi sonnecchia, chi parla dei suoi traffici
di buoi, di lana, di granaglie e volge,
se volge, un occhio disattento al vetro.
…
(in Dal fondo delle campagne, 1965)
Nessuno, in pieni anni ‘80, credeva più nel verso sonante, nemmeno chi ancora lo cercava, lo
anelava – come Diogene l‘uomo, la lanterna in mano… (Non era stato addirittura l‘ottocentesco e
umbertino Carducci, ad ammonire, inveire, nell‘acceso e fervoroso Preludio delle Odi barbare:
―Odio l‘usata poesia: concede / comoda al vulgo i flosci fianchi e senza / palpiti sotto i consueti
amplessi / stendesi e dorme…‖!?).
Intanto, nella nostra grande-piccola Europa, quanto mai travagliata e ancora ferita da muri,
glaciazioni e contrapposizioni ideologiche, la Bachmann era approdata al fortilizio apotropaico
della prosa; e anche un Enzensberger, o soprattutto un Ted Hughes, usavano la poesia per grandi,
dirompenti riflessioni memoriali o impennate, galoppanti cogitazioni narrativo-epocali…
Ricordi come raccoglievamo i narcisi?
Nessun altro lo ricorda, ma io sì, lo ricordo.
Tua figlia arrivava con le braccia piene, entusiasta e felice,
aiutando il raccolto. L‘ha dimenticato.
Non si ricorda nemmeno di te. E li vendevamo.
Sembra un sacrilegio, ma li vendevamo.
Eravamo così poveri? Il droghiere, il vecchio Stoneman,
strabico, con la pressione che virava al viola barbabietola
(fu la sua ultima occasione,
sarebbe morto nella stessa grande gelata in cui moristi tu),
fu lui a convincerci. Li comprava sempre,
ogni primavera, sette pence la dozzina,
―usanza della casa‖.
…
(da Lettere di compleanno, 1998)
Baldi poeti giovani di quei fervorosi e per fortuna inquieti tardoanni ‘70, praticarono la prosa non
so se come ―nutrice del verso‖, ma certamente quale ancella, amica più emancipata (leggi: più
libera, errante/erotica/eretica) della poesia… Franco Cordelli, lo ricordo bene, confessò nel suo
150
unico libro di poesia questo disagio e questa energia (che definì egli stesso ―un palinsesto
concettuale della scrittura di tipo lirico, e dunque monologico, che anima e forse sovrasta ai primi
romanzi‖):
dall‘etica della parola il transito
a metamorfosi il mondo il ruminar della scienza
e tu mi parli della carta di Atene la sola
visione in punti trentatré dell‘architettura
che nel passaggio alla tecnica scongiura
l‘edilizia il bulldozer che arriva
infastidito a squassare colline sterpi il bubbone
di giardini incolti e case abusive ai margini
della città, le cancroperiferie, la grande
salute dei piani quinquennali
nel trionfo netto degli stili, un superamento
mi dici (per chiudere la storia delle cellule impazzite)
che sia sempre di tutti i cittadini il raccoglimento
…
(da Fuoco celeste, 1976)
E prose liriche ispirate, anche trascinanti, ne scrissero in quegli anni il majakovskjiano Adriano
Spatola, Mario Lunetta chez Apollinaire, il transoceanico postsurrealista Luigi Fontanella, il
nerudiano Umberto Piersanti (mi diverto a pennellare per ciascuno un aggettivo connotativo)…
Il lavoro di Giuseppe Conte verteva in effetti più sul recupero mitico, e quello di Milo De Angelis
sulla volizione orfica. Se aggiungiamo il chissà perché quasi dimenticato e invece bravissimo
Gregorio Scalise (i Poemetti uscirono nel ‘77, La resistenza dell‟aria nell‘82), e naturalmente
l‘occhio razionale e pensante dell‘esordiente Valerio Magrelli (Ora serrata retinae uscì nell‘80), il
panorama è pressoché completo. Ma ecco il Conte ―mitomodernista‖ de L‟Oceano e il Ragazzo
(1983); tutto natura naturans, natura naturata ed enjambements:
Il vento bisognava sentirlo sul
mare alzare i marosi, stracciare
le nuvole e ritesserle, staffilare
le alberature, rauco, fiorito di
salino, buio, inumano.
Divorare la sabbia, sibilare tra gli
scogli, spingersi sino a far tremare le automobili
sui viadotti.
Fare lividi sotto l‘orizzonte: bruciare
gli occhi.
Si è persa la memoria di Mentone
dove le onde salivano a lasciare
laghi sulla strada della frontiera, di
Vado dove al largo i turbini
levavano brevi alberi
di nebbia.
Quanto all‘Autopia della Neoavanguardia, essa andava probabilmente e interamente riformulata
(oggi si direbbe riformattata): ed è quanto in effetti fecero alcuni ―vecchi‖ giovani come Antonio
Porta e Giampiero Neri. Il primo, immettendo gnomica, allertata vis teatrale e luminosi filosofemi
cronachistici nelle sue ultime raccolte (a partire da Passi passaggi, 1980; Invasioni, 1984; Il
giardiniere contro il becchino, 1988); il secondo, con la sua nomenclatura scientista da
similpoemetto didascalico di un Settecento modernamente anticato: ―La Pavonia maggiore o
Saturnia / la farfalla Atropo ed altre specie notturne / sono un notevole esempio di mimetismo.‖
(L‟aspetto occidentale del vestito, 1976).
151
Lo stesso Elio Pagliarani poetò adottando prose antique del Savonarola e addirittura incalzanti
sillogismi, enunciati ed Esercizi platonici (1985). O comunque lavorando per tre decenni un
incalzante, temprato romanzo in versi, La ballata di Rudi (1995):
Stamattina al reparto T.A. il ritmatore
della Siemens, a San Siro, è stato allentato di una frazione di qualcosa
e il tempo fra i due lampi verdi entro i quali lampi le operaie
dobbiamo svolgere il lavoro è durato più a lungo
nessuna a differenza di ieri è svenuta, io sono venuta qua
per tutta la giornata un via vai di tecnici e ingegneri a far conti
ad applicare formule attorno alla posizione undici là dove
per otto ore al giorno c‘è da saldare fili a migliaia e migliaia di millanta
rossi gialli bianchi continuando a chinarci a terra per risalire adagio adagio
fino a riempire di fili tutto il pannello di trentasei relé
ritto verticale di fronte a me
…
Lo sperimentalismo dentro e oltre il postmoderno, tento e provò su se stesso nuovi vaccini, come
fecero, ciascuno a suo modo, autori originali e cauterizzanti quali Marco Palladini (Autopìa è un suo
titolo del ‘91, Ovunque a Novunque del ‗95), Luca Ragagnin, e, last but not least, Aldo Nove…
Ecco ―Soluzione Soledad‖, un monologante, autòpico gesto sliricato di Palladini, vezzosamente
prosaico eppure sentìto, sofferto, engagé, ispirato di corriva ma ardita giovinezza, e del suo baldo,
brioso, viscerale malessere (il brano fa parte di un ben più lungo componimento, davvero uno
struggente e inconsolabile epicedio – che è anche compianto epocale – in memoria di Maria
Soledad Rosas, anarchica, spiega e annota Marco, ―suicidata dalla società‖ nell‘estate del ‘98):
sei la poesia del mondo che si ritira dal mondo
– muri innalzati a respingere l‘onda
―normale‖ globale e kriminale
dell‘in(de)formazione che tutto immerda –
terminale sfiducia nella parola, ogni parola
è menzogna, pensare in forma di parola è
menzogna – rifiutarsi di parlare, rifiutarsi
di comunicare, rifiutarsi di dialogare –
assolutamente separarsi dalla società
della logorrea-spettacolo, del talk show
permanente – frivola merce-chiacchiera
vomitata sul dolore inesprimibile dell‘uomo
a far profitto e osceno coro di canaglie –
fascista è la costrizione a dire – ché non c‘è
più nulla da dire – nessuna libertà
nella parola, dunque soltanto la mutezza
può esserti cara compagna verso la salvezza
…………
(da Fabrika Póiesis, 1999)
Anche molte poetesse adottarono una cadenzata, caparbia prosa lirica come scudiscio, un po‘
ideologico un po‘ stilistico, di sacrosanti redde rationem femministici… Amo molto talune
indimenticabili prose liriche di Anna Cascella o Giovanna Sicari, Biancamaria Frabotta e Jolanda
Insana… E sono addirittura devoto al fascino inesauribile, sconcertante e malioso, del Diario ottuso
(1990) di Amelia Rosselli:
… Entrare nel silenzio della borghesia, a piccoli passi sicuri anche se apparentemente esitanti noi facciamo di
noi stessi una specie di lavatoio pubblico: una querela lasciata a metà, un inchiostro sbiadito dai secoli sulla pagina
fiacca di lacrime mai versate. Apparentemente il mio dilemma era derisorio: profondamente invece esso era giusto e
previggiente: il disastro si sarebbe compiuto, negli anni futuri e nel passato degli altri, la loro querela troppo pericolosa
per essere circuita definitivamente, o apertamente combattuta, o apertamente espressa. …
152
Per non parlare delle prose autobiografiche (eppure tutte fantasiose, visionarie) di Alda Merini –
registrazione di puri eventi e malesseri mentali, prima ancora che incandescente, romanzesco e
purgatoriale resoconto esistenziale:
Ho un letto voluttuoso come quello di Messalina, dotato di ben sei materassi ereditati dalla sorte. Tutti concupiscono
il mio povero letto, che è grande e disordinato, ma estremamente pacifico. Però in quel letto l‘amore non si fa, perché
inevitabilmente i materassi si dividono e l‘amante di turno cade nel mezzo senza più riuscire a liberarsi dal lenzuolo che
viene ad avvolgerlo come una specie di sudario. I più audaci hanno provato a ghermirli e si è sentito un tonfo pesante.
Gli inquilini hanno protestato e si sono chiesti: ―Ma chissà cosa fa quella lì di notte‖. Niente, trasportavo materassi dopo
che l‘aspirante amante se ne era andato via sbattendo pesantemente la porta.
(da Il tormento delle figure, 1990)
Più o meno lo stesso faranno, negli immediati anni a seguire, autrici come Antonella Anedda e
Anna Maria Farabbi, Maria Grazia Calandrone e Nina Maroccolo – con quei loro versi lunghi che si
riallineano alla prosa, rigenerandosela come una lirica coltura in vitro, un propedeutico, congelato
deposito di ovuli fecondati… forse di ultrapoetiche e future cellule staminali…
Dopo aver letto la luce
dai monaci amanuensi e dai calligrafi cinesi
ho rotto la scuola. E l‘uovo.
Attraversando le mani di una maestra elementare
che mi ha creata strega accolgo
il paesaggio e la dimora.
Fin qui esposta pubblica
e contemporaneamente profonda in me stessa.
Premo in te l‘orografia della mia impronta digitale
la mia identità senza inchiostro l‘andatura del sangue.
Rumino senza ali piena di gobba.
Al buio la mia mano fosfora:
spacca con un colpo la melograna
schizza i semi dentro la carta ovunque sia.
Ho imparato a firmare sull‘acqua
a segnare con il fiato.
A raccogliermi in posizione fetale dentro la o
per rinascermi erba o atomica.
…
(da: Anna Maria Farabbi, La Magnifica Bestia, 2007)
Parlo di implose o arcane prose liriche: ometto perciò volentieri la un po‘ oscura disamina dei veri
e propri romanzi scritti, compitati dai poeti di ruolo (ma citiamo, tra i migliori, almeno il Valentino
Zeichen di Tana per tutti, 1983, e naturalmente il Conte di Primavera incendiata, 1980, Equinozio
d‟autunno, 1987, etc.).
Idem valga per i non pochi libri di poesia sliricata frutto e dono di molti valenti narratori di ruolo:
da Antonio Delfini a Tommaso Landolfi, da Luigi Bartolini a Juan Rodolfo Wilcock, da Ottiero
Ottieri a Paolo Volponi, dalla stessa Elsa Morante alla cara Anna Maria Ortese, da Giorgio Bassani
a Giovanni Testori…
Parafrasando Engels
Tutto ciò che esiste è degno
di perire recito anche io fra me e
me parafrasando
Engels
153
Ed ecco nel rosso deserto crepuscolo appena dopo
Bologna ecco quasi subito
volando io continuamente in discesa lungo il dritto asfalto laggiù
verso il buio il silenzio la
solitudine
eccola là già in vista la grande la tiepida
dimora
eccola ancora là la mia
gioventù
(da: Giorgio Bassani, In rima e senza, 1982)
Provvido e proficuo discorso a parte ci comporterebbe una sacrosanta sintonia col dialetto – di cui
per molti versi Franco Loi ci parve in quegli anni un campione esemplare, duttile e rigoroso,
sensuale e integerrimo. Ecco le sue osterie, i suoi bar, il suo Teater inoppugnabile di vita, caldo,
animoso e indimenticabile come la vita in prosa nutrice del verso:
Tìrum l‘urlògg indré e fèm ‘na fenta:
‘dèss sèm al Cafè Piola tra quj màster
che, tra ‘n dama e i cart, scròcchen ‘na menta
e ‘l temp e la miseria fan pullàster.
Ne la saletta in fund, campiun de stecca,
i gran vivör de spunda e gran nuttàmber,
la cricca che d‘inturna la te becca,
e, in mezz al füm, un lampedà de facc.
…
Facciamo girare all‟indietro l‟orologio e costruiamo una finzione: / adesso siamo al Caffè Piola tra quei maestri /
che, tra una dama e le carte, scroccano una menta/ e il tempo e la miseria fanno pollastri. / Nella saletta in fondo,
campioni della stecca, / i gran viveur della sponda e abituali nottambuli, / la cricca che attorno sta a criticare, / e, in
mezzo al fumo, un lampadario di facce. …
(da Teater, 1978)
Ragazze italiane, ripeto, sanciva denudava e arrischiava dei cadenzati ―Racconti in versi‖ (era
infatti il sottotitolo). Più o meno in parallelo, Valerio Magrelli predicava e levigava loiche, sottili
Nature e venature (1987), filigranate in pensiero, ma soprattutto sani, svelati e arcani Esercizi di
tiptologia (1992)… E a seguire, di lì a poco, addirittura l‘artigianato civil-giornalistico delle
didascalie (aggiornata versione del vecchio poemetto eroicomico): Didascalie per la lettura di un
giornale (1999)…
Porta Westfalica
Una giornata di nuvole, a Minden,
su un taxi che mi porta
in cerca di queste due parole.
Chiedo in giro e nessuno sa
cosa indichino – esattamente, dico –
che luogo sia, dove, se una fortezza
o una chiusa. Eppure il nome brilla
sulla carta geografica, un barbaglio,
nel fitto groviglio consonantico, che lancia
brevi vocali luminose, come l‘arma
di un uomo in agguato nel bosco.
Si tradisce, e io vengo a cercarlo.
Il panorama op-art si squaderna tra alberi
e acque, mentre i cartelli indicano ora
una torre di Bismark, ora il mausoleo di Guglielmo,
la statua con la gamba sinistra istoriata
154
dalla scritta: ―Manuel war da‖,
incisa forse con le chiavi di casa, tenue
filo dorato sul verde del bronzo,
linea sinuosa della firma, fiume
tra fiumi. Lascio la macchina, inizio a camminare.
…
(da Esercizi di tiptologia, 1992)
Pochi anni dopo, mi tuffai in ancora più ardito diario lirico giorno per giorno… Petali in luce,
terzine di lunghi polimetri a raccontare e salvare il nucleo e fulcro lirico di tante quotidiane poesia
trasparenti, umile denudata e tagliente scheggia di mera realtà… Giuseppe Pontiggia amò
battezzarle, ripeto, catulliane nugae (―… una inezia apparentemente ai margini del quadro. Ma
proprio il contatto con la cornice li risospinge in primo piano, lo slancio centrifugo trova l‘equilibrio
con la forza centripeta.‖)… Oggi, ripercorrendole (riproiettandole?), potrei forse io stesso definirle
microsequenze, frammentati cortometraggi, contingenti barlumi d‘esistenza:
……
L‘intensità mi premia: scivola in gioia una lacrima…
sul viso che girato non scorgi. Ti penso il volto che amo,
che conosco. Mi volto e già non sai che per te ho pianto
***
Questo Cenacolo distratto e gaio… Sei camerieri che cenano,
dopo la mezzanotte, bianco povero rito. Ormai pochi i clienti,
e in fuga: come anime perse, se il sonno o la fede ci chiamano.
***
Riaccompagnandoti a casa, fermi sotto il portone, l‘auto
appannata d‘affetto. ―Fumo questa e poi vado‖. Stinto hai
il rossetto, già archiviata una gioia. La notte ci sorride.
***
Gl‘immigrati riuniti, il giovedì festoso! – quando è pausa al
dramma del lavoro. Ho visto nelle piazze i filippini sorridere
fra loro – rito gioioso! – mangiare in piedi insieme trasognati.
***
All‘uscita di chiesa, t‘aspetta l‘obolo, la pietà doverosa
– fede contrìta – il mendicante che su un cartone annuncia:
HO FAME. GRAZIE. E un cagnolino con lui, che guarda e giudica.
***
Quanti bagagli sposta, Giovinezza?! Quanti sogni contengono?!
Valigie e zaini, viaggi o miti inesausti… Di stazione in
stazione le sorride amore – e forse vero peso è solo il cuore.
***
Ce lo ricorda un gatto, il tepore del mondo… Proprio lì dove
manca, o s‘irradia a caso. Acciambellato lo scorgo sul cofano!
Ancora calda la macchina, più umana così, senza il padrone…
…………
(da Petali in luce, 1998)
Credo che sempre e dietro ogni poesia ci sia un‘immagine – Imago etica, sia ben chiaro, come un
piccolo umile fulcro al sublime – che condensi un nucleo di microracconto. Attenzione, non una
mera verve descrittiva (giammai); piuttosto quasi il bisogno di argomentare, rinarrare l‘accadimento
stesso dell‘emozione. Che sprizza, letteralmente gemma da scorza dura come luce da ombra,
carezza da attesa, svolazzante e policroma parola/farfalla dopo orride crisalidi interminabili di
silenzio…
Sprizza e spunta, rigemma, fiorisce – magari anche ―Nel sonno‖, o nel dormiveglia perenne della
lirica, come ancora ci insegnano Gli strumenti umani, sempre oliati e metaforici, affilati e puntuali,
di Vittorio Sereni, con quella sua aria da eterna, ormai impigrita sequenza neorealista, pasionaria
155
nell‘osso della mente, ma con un pensoso, cinematografico sorriso trasandato e lieto, più romantico
che romanzesco: nazionalpopolare...
Anima e stile di celluloide, da proiettare su uno schermo che non è più solo quello bianco,
abbuiato dell‘Io, ma il dono, e l‘eredità, di un‘intera epoca immemore – e memoria epocale:
L‘Italia, una sterminata domenica.
Le motorette portano l‘estate
il malumore della festa finita.
Sfrecciò vano, ora è poco, l‘ultimo pallone
e si perse: ma già
sfavilla la ruota vittoriosa.
E dopo, che fare delle domeniche?
Aizzare il cane, provocare il matto…
Non lo amo il mio tempo, non lo amo.
L‘Italia dormirà con me.
In un giardino d‘Emilia o Lombardia
sempre c‘è uno come me
in sospetti e pensieri di colpa
tra il canto di un usignolo
e una spalliera di rose…
(da Gli strumenti umani, 1965)
Non lo amiamo il nostro tempo, che pure vorremmo amare – e non ci ama, proprio non vuol farsi
amare, riamando…
*******
P.S. – Qualche anno dopo – per la precisione, a Roma, il 14 aprile ‘94 – trovandomi a casa da Elio
Pagliarani, maestro beneamato, ne ebbi in dono un suo libro rarissimo del gennaio ‘59 edito da
Veronelli, Inventario privato, e soprattutto una dedica che ancor oggi mi rende fiero:
―All‘autore delle Ragazze italiane, l‘autore della Ragazza Carla, con stima, simpatia e tanti
auguri‖.
Non c‘è nessun libro, dunque, che mi sia più caro: e non per ovvio narcisismo (ahinoi!), ma per
buffa sintesi aneddotica e tranciante diagonale storica. Per il resto mi affido anch‘io alle auree,
controsublimi, giacché querule e un po‘ cantilenanti deduzioni dell‘ultimo Montale:
Si dice che il poeta debba andare
a caccia dei suoi contenuti.
E si afferma altresì che le sue prede
debbono corrispondere a ciò che avviene nel mondo,
anzi a quel che sarebbe un mondo che fosse migliore.
Ma nel mondo peggiore si può impallinare
qualche altro cacciatore oppure un pollo
di batteria fuggito dalla gabbia.
Quanto al migliore non ci sarà bisogno
di poeti. Ruspanti saremo tutti.
(da Diario del ‟71 e del ‟72, 1973)
Più o meno negli stessi anni – gli ultimi della sua disperata vitalità – Pier Paolo Pasolini,
reoconfesso, in questo, e acremente fiero, irrideva e trasformava la sua richiesta e necessità di
poesia nel rito laico e sconsacrante di una ―libertà linguistica rasentante talvolta l‘arbitrarietà‖,
liricizzando, in definitiva, ―l‘affermazione caparbia e quasi solenne dell‘inutilità della poesia‖…
Operazione e terapia omeopatica – sia ben chiaro – ma che diede comunque il timbro e
156
l‘accelerazione a tutti i residui anni a venire. Per mera, feconda e polemica scelta stilistica, infatti, le
sue ultime liriche furono in sostanza dei voluti ed inseguiti ―Comunicati all‘ANSA‖:
Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza
di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo.
Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero.
Naturalmente per ragioni pratiche.
(da Trasumanar e organizzar, 1971)
Ma nessuno si sogna per questo di affermare che la migliore e più informata, impegnata poesia
―contemporanea‖ coincida col giornalismo, né la citata ed elogiata prosa con la raggiunta e distillata
poesia… L‘immaginazione, e soprattutto lo stile, distillati e autoproiettantisi, proprio non lo
consentirebbero! E chiudiamo, così come abbiamo aperto, con una affilatissima, illuminante
intuizione di Leopardi; il quale, esattamente il 5 Nov 1821, chiosava e ci consegnava, per
vademecum e a futura memoria, la seguente inoppugnabile sentenza:
―L‘immaginazione in gran parte non si diversifica dalla ragione, che pel solo stile, o modo,
dicendo le stesse cose. Ma queste cose la ragione non le saprebbe né potrebbe mai dir così; e solo il
poeta vero le esprime in tal modo.‖
Plinio Perilli
157
IN DIALOGO
158
ALFONSO BERARDINELLI
1) Qual è la sua idea della prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto
alla questione dei generi)?
Le definizioni vengono meglio e sono più chiare se procedono per comparazione. La prosa, rispetto
alla poesia, sembrerebbe avere meno regole: non si va a capo, non si devono avere buone ragioni
per tagliare i versi, non si è spinti a inventare metafore e a moltiplicare gli artifici e le figure
retoriche ecc. Ma più precisamente si dovrebbe dire che la prosa ha regole diverse: chiarezza,
razionalità, una certa più naturale discorsività, meno inversioni sintattiche, più idee che metafore,
più dati e fatti che immagini e visioni… Naturalmente esistono diversi tipi di prosa: quella
didascalica, impersonale dei trattati e dei testi didascalici, quella più soggettiva, informale e mista,
retoricamente movimentata, della saggistica vera e propria, e poi la prosa propriamente narrativa. I
generi poi sono spesso in concorrenza, o collaborano e si mescolano un po‘. La prosa delle Operette
morali, per esempio, ingloba poesia e filosofia, la prosa d‘arte antica (la ―Kunstprosa‖ analizzata da
Eduard Norden un secolo fa) e un certo allegorismo illuministico. I saggi di Orwell sono spesso,
almeno in parte, narrativi e autobiografici. Lettere luterane di Pasolini e Palomar di Calvino hanno
un rigore, una misura stilistica che fa pensare alla poesia…
2) Guardando a posteriori al suo “La poesia verso la prosa” (1994), e alle reazioni che ha
suscitato, quali pensa siano i principali problemi emersi dal dibattito che ne è seguito? Ritiene vi
siano stati fraintendimenti importanti circa le tesi che intendeva sostenere? Ci sono aspetti della
sua posizione che pensa debbano essere precisati o modificati?
Le reazioni più accese furono anche le più banali. Si possono sintetizzare in una contestazione
risentita: ―No, non è vero! la poesia non è prosa!‖. Naturalmente lo sapevo bene. La mia polemica,
il mio suggerimento aveva un bersaglio più determinato. Negavo due cose. Anzitutto che il
linguaggio poetico sia una lingua speciale, distinta dalla lingua d‘uso comunicativa, un codice
esclusivo ontologicamente distinto dalla discorsività prosastica. Poi negavo che la stessa poesia
moderna fosse così antiprosastica come era sembrata a molti teorici. È vero che Leopardi teorizza la
brevità e quindi la concentrazione lirica, ma Le ricordanze e La ginestra sono quasi dei saggi in
versi. Lo stesso succede in Baudelaire, in Eliot, in Benn. Nel Novecento ci sono stati anche poeti
molto prosastici, come Machado e Saba (che tra l‘altro hanno praticato la prosa aforistica e
sapienziale). Se si separa troppo la poesia dalla prosa si impoveriscono e si indeboliscono entrambe.
La poesia è anche una forma di pensiero. Due esempi: Hans Magnus Enzensberger e Derek
Walcott. In Italia non abbiamo avuto solo Ungaretti e Zanzotto, ma anche Gozzano e Giudici. E
tutto l‘ultimo Montale mette in versi piuttosto liberi il ritmo prosastico dei suoi pensieri.
Comunque, dopo le prime polemiche, mi sembra che molti poeti siano andati ―verso la prosa‖: si
fanno capire di più, cercano di comunicare qualcosa al lettore… Questo non sempre è un vantaggio.
Quando si scrive poesia oscura è più facile barare, imbrogliare, soprattutto quando i lettori di poesia
sono, come oggi, piuttosto distratti e poco competenti, e molto raramente sanno distinguere una
buona poesia da una pessima o inesistente… Se si va verso la prosa, allora diventa più evidente il
vuoto, la povertà intellettuale, il non sapere cosa dire.
3) Nel panorama contemporaneo, internazionale e italiano, o nella tradizione, ci sono autori (di
prosa poetica, prosimetri, poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le
interessano particolarmente?
159
A chi scrive in prosa credo che faccia bene leggere e avere letto poesia (purché non si scrivano delle
melense prose poetiche). La poesia è una scuola di precisione e concentrazione sia semantica che
ritmica. Il prosatore che ha orecchio per la poesia è meno sciatto, approssimativo, ridondante. Ma la
poesia italiana degli ultimi vent‘anni ha corretto una maggiore prosaicità con un recupero intensivo
della metrica tradizionale. In questo sono stati maestri Caproni, Penna, Giudici: ragionano e
raccontano, sono epigrammatici e diaristici, ma lo fanno in versi che suonano come versi, e con
molte rime. Così la prosa inglobata nella poesia interagisce con una musicalità verbale più energica
e riconoscibile. È quella che ho definito ―postmodernità neoclassica‖. Lo si vede benissimo in molti
autori, per esempio in Bianca Tarozzi, Patrizia Cavalli, Durs Grünbein…
4) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera di critico e scrittore? Che tipo di lavoro
le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali sono le prerogative o gli strumenti
della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
All‘inizio ero attratto dall‘idea del poeta-critico: scrivevo poesie (poche e non ne ero soddisfatto) e
recensioni. Ora scrivo recensioni per necessità di lavoro, perché i giornali me le chiedono, mi
considerano un critico letterario, ma preferisco recensire saggistica e non narrativa e poesia. È da
molto ormai che mi dedico a una saggistica che spesso parte da considerazioni letterarie, ma finisce
quasi sempre in critica culturale e sociale, in discorso sulla ―vita pubblica delle idee‖. La critica
letteraria in senso stretto mi annoia un po‘. Da un lato mi sembra troppo facile, dall‘altro mi
inibisce, mi sembra di non avere aggettivi sufficienti per definire gli scrittori… Tra l‘altro trovo che
la critica sia un‘attività ―indiscreta‖: il critico si intromette con le sue interpretazioni e valutazioni
nella testa di autori e lettori, entra di prepotenza nel rapporto molto delicato e imprevedibile che chi
scrive e chi legge ha con il libro che ha scritto o ha letto. In molti casi la mia critica letteraria si è
trasformata spontaneamente in satira culturale. Ho perfino scritto saggi aforistici. Più che il verso,
mi interessa la frase…
5) Che tipo di contraccolpo ha avuto sul suo lavoro l‟esperienza di traduzione di autori di prosa
poetica, o di altri tipi di scrittura in prosa?
Ho tradotto lo Spleen de Paris di Baudelaire, ma mi sono accorto che in fondo preferivo la ―prosa‖
che c‘è nelle Fleurs du Mal. Da anni il poeta che mi attira e che leggo di più è Auden. Qualche
volta provo a tradurlo. Ma lo faccio solo per me, come esercizio e gioco. Non c‘è traduzione che mi
sia venuta bene. Anche la sua saggistica mi piace moltissimo. Come critico è sottovalutato. Gli
storici e i teorici della critica non lo citano quasi mai, ma io credo che non sia inferiore a Eliot,
anche se è stato meno influente.
160
GHERARDO BORTOLOTTI
1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla
questione dei generi)?
Per quel che mi riguarda, la prosa è la forma naturale della scrittura, intendendo per ―naturale‖
quella che non ho bisogno di scegliere, quella con cui sento un‘intimità specifica e le cui regole
riesco più facilmente a riconoscere ed infrangere. Il mio lavoro con la prosa, tuttavia, non si limita
ad abitare questa intimità ma tiene conto di quella che può essere (o può essere stata) l‘idea di prosa
nel dibattito critico e nel lavoro di altri autori. In questo senso, allora, la mia proposta di prosa può
essere vista come una specie di forma generale e generica di letteratura, una sorte di materiale
letterario grezzo, al di là o al di qua delle articolazioni di genere (si potrebbe quasi dire:
merceologiche) della scrittura. Di nuovo, però, non posso non riconoscere proprio in quell‘intimità,
in quel senso di appartenenza che mi dà la prosa, la base di questo atteggiamento indifferenziato, da
differenziare, che nutro nei suoi confronti. La prosa, per me, è una specie di campo di possibilità
d‘ordine sia soggettive che oggettive e cerco di sfruttare la sua natura amorfa, il suo potenziale di
accumulo proprio in vista di esperimenti sull‘ordine e sull‘accumulazione.
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟“abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
Rifacendomi a quello che scrivevo più sopra, non credo affatto che la prosa sia il termine di un
processo di abbassamento ma piuttosto il campo per un set di regole testuali riferibili all‘accumulo e
all‘ordine. Al di là del merito, però, vorrei sottolineare che qualunque teoria dell‘―abbassamento‖
suona piuttosto come il sintomo di una gerarchia di valori (talmente superata, per altro, da poter
apparire appunto come sintomo soltanto) che non un approccio critico utile a qualcosa. Ho anche
l‘impressione però che, impostando la questione nei meri termini di rapporto tra prosa e poesia, da
una parte questa opposizione si carichi necessariamente di giudizi di valore impropri (introducendo
concetti e metafore di arricchimento o impoverimento) e, dall‘altra parte, si perda di vista
l‘orizzonte generale in cui i testi si collocano. Per come la vedo io, si tratta di un orizzonte
soprattutto segnato dalle tecnologie della comunicazione (tecnologie che adesso hanno raggiunto un
apice ma che stanno avendo effetti da ben prima di internet), dall‘approccio al fatto linguistico che
queste implicano (un approccio basato sull‘accessibilità e sulla produzione di contenuti) e da una
rinnovata prevalenza della scrittura (a differenza della direzione verso l‘oralità che, fino a qualche
tempo fa, sembrava essere preminente) che tende a privilegiare la prosa e a diversificarne l‘utilizzo.
Quindi, ecco, se dobbiamo porci la questione della prosa nella poesia contemporanea, lo porrei nei
termini che ho detto. Termini, tuttavia, che mi portano di nuovo al punto di partenza e ad
abbandonare un‘articolazione in prosa/poesia (o addirittura in narrativa/poesia), cercando piuttosto
di stipulare una specie di ―letteratura indifferenziata‖ attraverso cui lavorare, in modo
adeguatamente critico, all‘interno dell‘orizzonte che mi sembra di vedere.
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
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vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
In effetti, scrivo solamente prosa. Per lo più micro-prosa, con testi che vanno dal paragrafo alla
frase al singolo sintagma, ma sempre all‘interno di strutture più ampie che cercano di sfruttare
l‘accumulo e la lista come fonti di una specie di fascinazione originaria verso il testo scritto (non
bisogna dimenticare, infatti, che i primi esempi di scrittura sono stati enumerazioni, elenchi,
cataloghi) oltre che come modalità privilegiate di relazione con il mondo e l‘esperienza
contemporanei, basati sull‘accumulazione (dei dati, delle merci) ed i suoi ordini interrotti e
incongruenti.
4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,
poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche
non italiani)?
Di autori ce ne sono parecchi ed elencarli in questa sede sarebbe forse eccessivo. Mi limito a dire
che le letture che mi hanno permesso di ragionare su alcuni aspetti della scrittura in prosa che mi
sembrano essenziali (tra tutti, di nuovo, l‘ordine e l‘accumulo) vanno da Sterne a Calvino, da
Balestrini a Perec, da Markson a Espitallier, da Silem Mohammad a Rosselli e via dicendo (e si noti
che non tutti sono necessariamente prosatori e che nessuno può essere classificato come tale in
modo ovvio).
5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
Sì e, tra l‘altro, con una certa difficoltà, data la mia scarsa conoscenza delle lingue. Tuttavia, mi
sono trovato a tradurre perché i testi stranieri che venivo scoprendo mi sembravano affrontare le
questioni su cui anche i miei testi si focalizzavano, e consideravo importante farli circolare in
italiano per aprire un eventuale dibattito sulle medesime questioni. Tra gli autori che ho citato
prima, un esempio può K. Silem Mohammad, che ho tradotto nel 2004-2005. Nel caso di
Mohammad, l‘approccio ―indifferenziato‖ che auspico è molto marcato ed è per questo che ho
cercato di farlo conoscere. Tecnicamente scrive, per lo più, quelle che immagino vadano definite
come poesie. Eppure, il fatto che il materiale testuale che organizza nei suoi testi sia ricavato dalla
rete, attraverso la tecnica del cosiddetto googlism, cioè dell‘interrogazione mirata di Google o
comunque dei motori di ricerca, mi sembra davvero emblematico di un approccio al di là o al di qua
delle articolazioni di genere e delle distinzioni tra prosa e poesia.
6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
Considerando quanto detto più sopra, ovvero che scrivo solo in prosa, direi che uno qualunque dei
miei testi può essere esemplificativo dei punti accennati nell‘intervista.
162
FRANCO BUFFONI
1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla
questione dei generi)?
Il primo racconto l‘ho scritto a otto anni. Diciamo che ci sono nato dentro. Poi il genere letterario è
cambiato. Adesso sto tornando alla narrativa dopo tre decenni dedicati alla poesia e alla saggistica,
ma si tratta di una narrativa molto particolare. Difatti a Dedalus-Pordenonelegge mi mettono in
classifica nella sezione ―Altre scritture‖. Ultimamente ho scritto due libri di questo tipo: Più luce,
padre, 2006, Sossella; Zamel, 2009, Marcos y Marcos. E un più canonico libro di racconti: Reperto
74, 2008, Zona.
Preponderanti nella mia produzione sono certamente gli otto libri di poesia: nove con ROMA
appena uscito da Guanda. È chiaro che la poesia è il genere letterario in cui mi sono maggiormente
espresso. Che cosa significa la scrittura per me? Non riesco ad immaginare la mia vita senza. Ma la
scrittura intesa come studio, intesa come conclusione di una fase di studio e di riflessione, che mi
permette di elaborare un testo secondo i canoni di un genere letterario che poi sarà la saggistica, la
poesia oppure la narrativa; oppure un testo border-line, narrativa/saggistica (come Più luce, padre e
Zamel). Quindi direi che il libro come prodotto commerciale è proprio l‘ultima cosa che ho in
mente. Io intendo continuare a studiare, a imparare. Poi quando il progetto (anceschianamente
inteso) nella mia testa comincia a prendere forma, può anche darsi che nasca un libro.
Naturalmente, con il passare del tempo, questa operazione diventa meno innocente. So già che un
certo esercizio, una certa ginnastica mentale, una certa ―ricerca‖ diventerà un libro, mentre da
giovane ero più incerto, non lo sapevo: questa forse è la differenza.
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
Vorrei essere molto chiaro: scrivo poesie per la stessa ragione per cui non scrivo romanzi. Non
posso scrivere romanzi perché del romanzo non sopporto quella parte centrale (corrispondente al
5O, 6O% dell'intera "narrazione") in cui percepisco che l'autore sta menando il can per l'aia. Dopo
quelle prime venti pagine pressoché perfette, e prima di quel finale deciso da lungo tempo, c'è il
limbo dell'invenzione a freddo, della falsificazione, del mestiere.
Amo scrivere poesia perché questo limbo mi viene totalmente risparmiato, perché il testo può
procedere per successive illuminazioni, per sintesi efferate, oppure può sfogarsi sul dettaglio, senza
dover dare spiegazioni. Il libro, la sezione, la plaquette vengono dopo: me li ritrovo sul tavolo come
un trenino in stazione in un'estate tranquilla sistemando i vagoncini contenenti le parole scritte per
necessità.
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
Tollero abbastanza bene la scrittura saggistica e/o giornalistica, come quella che sto praticando in
questo momento: queste cose non le potrei e non le vorrei dire in poesia. In poesia ("il foglietto a
portata di mano / la biro da scaricare" come ho scritto nel Profilo del Rosa) sento musica scrivendo,
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quella che Keats definisce "without tune", la musica più bella e senza melodia che mi fa mettere
tutte le parole a posto e me le fa scegliere scuotendole e porgendomele all'orecchio come
conchiglie. Certe volte questo processo è molto lento: scrivo e riscrivo, magari lasciando riposare
quel testo per stagioni intere. E in molti casi sine die. Per fortuna non sono costretto da contratti
firmati, o da anticipi ricevuti, a consegnare nulla entro prescritti termini.
Un critico e caro amico, Fabio Zinelli, recentemente ha scritto: ―Zamel è il making of di Noi e
loro, come Più luce, padre lo è di Guerra‖. In effetti, cronologicamente, l‘affermazione ci sta tutta: i
libri in prosa sono nati successivamente ai libri di poesia. Il primo capitolo di Più luce, padre non è
che la dilatazione della nota (in prosa) con cui si conclude Guerra.
Posso aggiungere che le due o tre pagine in prosa che sono solito apporre a conclusione dei miei
libri di poesia sono parte integrante del macrotesto. E che queste pagine invece di costituire un
sigillo nei confronti del libro di poesia, si pongono in modo dialettico nei confronti del lettore,
aprendo la via a futuri sviluppi (in prosa). So bene che canonicamente dovrebbe avvenire il
contrario (Leopardi docet), per questo sottolineo la mia anomalia (non è l‘unica, come ognun sa).
4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,
poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche
non italiani)?
Certamente, da Lichtenberg a Puskin, da Baudelaire a Ruskin. In particolare nella seconda metà del
decennio 80, in cui scrivevo i miei racconti in versi, poi in parte confluiti in Suora carmelitana e
altri racconti in versi, Guanda 1997. In seguito ho cominciato a concepire i libri di poesia anche
come lunghi racconti unitari (dal Profilo del Rosa a Theios, da Guerra a Noi e loro).
5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
Ho molto tradotto nella mia vita – un nuovo ―quaderno di traduzioni‖ dal titolo Una piccola
tabaccheria uscirà prossimamente da Donzelli – e sono andato sempre più convincendomi che la
vera differenza non è tra prosa e poesia, ma tra una scrittura provvista di un proprio ritmo interno e
una scrittura che non lo possiede.
Lo sosteneva già Beda il Venerabile con la chiarissima distinzione: ―Il ritmo può sussistere di per
sé, senza metro; mentre il metro non può sussistere senza ritmo. Il metro è un canto costretto da una
certa ragione; il ritmo un canto senza misure razionali‖. Una distinzione che ritroviamo
modernamente espressa nel Traité du rythme di Meschonnic e Dessons: ―Il ritmo non è formalista,
nel senso che non è una forma vuota, un insieme schematico che si tratterebbe di mostrare o no,
secondo l‘umore. Il ritmo di un testo ne è l‘elemento fondamentale, perché ritmo è operare la sintesi
della sintassi, della prosodia e dei diversi movimenti enunciativi del testo‖. Con i poeti (ma uso il
termine in senso anceschiano, molto ampio) ciò che conta del ritmo è il momento in cui esso si fa
parola, cioè diventa linguaggio, e dunque si realizza attraverso una particolare intonazione. (In
quanto il ritmo è soggetto, se un poeta trova il ritmo, trova il soggetto; se non lo trova, i versi che
sta scrivendo non sono arte).
È evidente che le difficoltà di ordine traduttologico che incontro traducendo The Four Quartets
appartengono alla stessa famiglia di difficoltà che incontro traducendo The Waves, anche se ad
occhi ingenui T.S. Eliot ha scritto in poesia e Virginia Woolf in prosa.
6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
Un cammello un dromedario una pantera un gatto
Sulla sua schiena all‘incontrario,
La maglietta rivoltata a dimostrare
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Dalle scapole sui fianchi un cameriere
Umbro rurale
Buono a reggere alabarde al Perugino,
Nero costante popeline ordito
Più fitto della trama garantito
Fine Quattrocento.
Mentre la disadorna
Facciata tripartita
Tra i sugheri compare,
Svitata cattedrale
Accatastata a raggio
In ombra alle absidiole
- La cortina a beccatelli sorvegliante sullo sfondo Dal sorriso somigliante alla lunetta del portale
Il fanciullo che ritrae sguardi e mance
Si dispiega carezzando
A segnare il giorno e l‘ora
Teocrito Buceo
Savium basium
Osculum
Meum.
Questo testo appare nella prima sezione – intitolata ―Quella stellata sopra il Foro italico – di Roma.
Sbaglierò: ma la sua ―traduzione‖ in ―prosa‖ per me consiste esclusivamente in una questione di
scansioni, di punteggiatura, di lettere iniziali maiuscole. Il respiro profondo di questa scrittura non
muta. D‘altro canto vi chiedo (e mi chiedo): la Bibbia è scritta in prosa o in poesia?
Un cammello un dromedario una pantera un gatto, sulla sua schiena all‘incontrario, la maglietta rivoltata a
dimostrare dalle scapole sui fianchi un cameriere umbro rurale, buono a reggere alabarde al Perugino: nero
costante popeline ordito, più fitto della trama garantito fine Quattrocento.
Mentre la disadorna facciata tripartita tra i sugheri compare, svitata cattedrale accatastata a raggio in ombra
alle absidiole - la cortina a beccatelli sorvegliante sullo sfondo - dal sorriso somigliante alla lunetta del
portale, il fanciullo che ritrae sguardi e mance si dispiega carezzando, a segnare il giorno e l‘ora: Teocrito,
Buceo… savium, basium, osculum. Meum.
165
ANNA MARIA CARPI
1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla
questione dei generi)?
Scrivere in prosa, e intendo narrativa o saggistica. è più difficile che scrivere in versi. La prosa
richiede un‘organizzazione della materia, direi in orizzontale; in poesia si spara in alto, a colpi
isolati. Detto altrimenti: in prosa si combatte in mezzo agli altri, nel senso che si deve essere
plausibili, in poesia si combatte invece da soli, perché la poesia ha qualcosa d‘arbitrario e
incontrovertibile. Di qui anche la difficoltà di giudicarla.
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
Il ―prosastico‖ può dare dei bellissimi effetti in poesia a patto che stia nel bel mezzo di ―alzate‖
dell‘immaginazione creando così imprevisti salti di registro. Se per es. i miei esperimenti di poesie
―biografiche‖ (come le chiamava G.Benn) rispondano a quest‘intento non so.
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
Se voglio riferire, diciamo da fuori, di cose viste o vissute in forma di reportage o di fiction, mi
occorre lo spazio lungo della prosa. Sono grosso modo una realista, che ha difficoltà a inventare
trame. Mi piace soprattutto elaborare climi, ambienti, atmosfere, cioè anche qui tiro dopotutto al
poetico.
4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,
poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche
non italiani)?
M‘interessano le prose – medaglioni di caratteri e situazioni contemporanee – di Tiziano Rossi
(Faccende laterali, 2009). I massimi esempi di poesia d‘oggi li vedo nella Szymborska, in Heiner
Mueller (più noto per il teatro), e nel poemetto Della neve (2003) di D.Gruenbein.
5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
Di prosa ho tradotto in passato da Th.Mann e dai contemporanei P.Handke e di W.Herzog: senza
nessun contraccolpo sul mio lavoro in versi. Una decisa influenza ha invece esercitato Nietzsche
con lo Zarathustra, e più ancora, s‘intende, con la sua poesia.
6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
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Segnalo l‘ancora inedita ―Un romanzo‖, ―L‘ode di Shelley al vento‖da E tu fra i due chi sei
(Scheiwiller, 2007) e una piccola prosa a uso giornalistico. Lascio al scelta ai redattori.
UN ROMANZO:
chi non lo vuole scrivere?
È andare con passione nella vita
girare il mondo
tutto il mondo è storia.
Anch‘io osservo, anch‘io guardo,
anch‘io ci sono e c‘ero.
Il fatto è che del vero non m‘importa.
Allora inventa,
dice qualcuno, pensa ad una trama.
Ma perché io non posso?
Ciò che invento fa ridere.
Mie care poesie,
mie piccole arroganti,
come i gechi nella notte estiva,
le dita aperte, in agguato sui muri,
preistoria
in attesa di sbadate prede.
L‘ODE DI SHELLEY al vento. al Westwind.
La recita un inglese.
Riempie il cortile Shelley
di aliti di buffi di boati di beffe.
Le sedie ascoltano
e chi non sa l‘inglese,
i polmoni si gonfiano
senza vascelli andiamo
la notte non si vede
e nemmeno più i volti
e tutto è suono e mai uditi prima
accenti folli e guizzi
canto incostanza gioia perdizione.
Monchi, muti ascoltiamo
noi d‘oggi e piange il cuore:
poesia,
poesia oramai impossibile.
MONT NOIR ospita una dimora per scrittori. La casa natale della Yourcenar è andata distrutta nella prima
guerra, gli scrittori stanno in una sua dépendance aperta verso sud, su un immenso prato digradante fino a
una cupa barriera di grandi alberi. Tutto nuovo l‘interno del castelletto fine secolo, sia la saletta con internet
sia le nostre stanze con bagno, sia il corridoio con moquette e fotocellule e tutto dipinto di giallo; verde è
invece la saletta da pranzo al pianoterra che dà su una terrazza e sulla valle. Di giorno ognuno stava chiuso
nella propria stanza nella folle trasferta dello scrivere, la sera si scendeva a cenare assieme, serviti da
un‘eccellente cuoca – un‘eroica fata dai piedi deformati dall‘artrite. Eravamo in quattro, un inglese
ridanciano che attendeva a una biografia ed era deputato a portar su i vini dalla cantinetta, una giovane
polacca ardente di un sogno di gloria, un giovane francese malinconico che avrebbe poi pubblicato il
romanzo ―L‘enfant de la pluie‖ e io che scrivevo il mio autobiografico ―Principe scarlatto‖. Parlavamo
francese e inglese. Eravamo affiatati e felici come quattro principini ereditari.
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MAURIZIO CUCCHI
Qual è la tua idea della prosa? Come si definisce il tuo approccio alla prosa, rispetto alla
questione dei generi, e in considerazione del fatto che il tuo romanzo, Il male è nelle cose, precede
l‟esordio poetico (e quindi un discorso sulla prosa, che si interseca con la scrittura poetica, era
presente già dall‟inizio del tuo percorso)?
Per quanto mi riguarda, quando ero ragazzo non sapevo molto bene dove orientarmi. Il romanzo è
stato scritto nel 1965, quando avevo composto già delle poesie… Ma la storia personale non è
importante. Credo molto nel superamento dei generi, anche perché viviamo in un momento storico
in cui la narrativa sembra essere molto più orientata verso l‘intrattenimento e, di conseguenza, è una
proposta bassa dal punto di vista culturale. Credo invece che certi livelli alti di narrativa italiana,
come quelli offerti da Gadda e Tozzi, potrebbero essere tranquillamente ricompresi sotto una
definizione generale di ―poesia‖ in senso lato. Negli anni Sessanta in Francia su questo si teorizzava
molto, attraverso ciò che si definiva écriture, a mio avviso un tentativo molto importante, perché
cercava di superare uno dei nodi della poesia del Novecento, vale a dire la metrica. Mi sembra che
molto spesso si vada avanti con la versificazione, con l‘uso del verso, più per inerzia che per una
motivazione forte: e non è certo il recupero del verso tradizionale che può risolvere questo
problema, perché la ripresa del verso tradizionale oggi è più che altro un citazionismo che fa
diventare avanguardia ciò che una volta era tradizione depositata.
Manierismo?
Manierismo, ma senza rendersi conto che se Pascoli scriveva sonetti in metrica regolare, la
percezione che se ne aveva era della norma, mentre se oggi si scrive un sonetto, la percezione che se
ne ha è di trasgressione, o comunque di un intervento volutamente anacronistico: e quindi l‘effetto
che ne risulta è tutta un‘altra cosa.
Credo invece che dovrebbe essere praticata molto di più la prosa poetica, perché qualsiasi prosatore
non può non tener conto del ritmo, del senso della parola, e dell‘economia del linguaggio. Elementi
che sono alla base della costruzione della poesia, o di una poesia che guardi alla ricerca profonda di
una verità espressiva.
Quale è la tua idea di prosa poetica?
La mia idea di prosa poetica è qualcosa che io stesso faccio fatica a praticare. Ho visto pochissimi
esempi interessanti: Giampiero Neri, e pochi altri. Personalmente, mi è capitato di farne uso molto
raramente e con qualche difficoltà. La prima volta è stato in Glenn, che nelle intenzioni iniziali
voleva essere un vero e proprio racconto in prosa. Non riuscito però, perché ad ogni passaggio di
scrittura eliminavo via via le cose che mi sembravano espressivamente scariche. Mi spiego: la mia
era forse una forma di non piena comprensione del senso della prosa… Ad esempio, tu dici ―Entrò e
disse‖… Ma se lo fa Balzac ci sarà una ragione forte, e un tipo differente di equilibro e di rapporto
con i ritmi. Lì si gioca tutto. Devi renderti conto che l‘economia che c‘è nella prosa narrativa è di un
tipo, e l‘economia che c‘è nella prosa poetica o nella versificazione è di un altro. Non è facile. I
poeti, comunque, quando hanno scritto in prosa, hanno fatto un ottimo servizio alla lingua.
Pensiamo a Penna, a Saba, a Sereni… Ma non tutti: alcuni hanno avuto difficoltà evidenti.
Quindi uno degli effetti della prosa sulla poesia è il ripensamento della struttura ritmica di
quest‟ultima?
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Leopardi diceva che il verso non è affatto essenziale alla poesia. E aveva perfettamente ragione.
D‘altra parte abbiamo esempi francesi di grandissima qualità: Ponge, Char, che è straordinario,
senza tornare all‘Ottocento… Peraltro mi sembra che lo stesso Baudelaire dicesse che in un
momento di ottimismo particolare tutti noi abbiamo pensato di scrivere un bel poemetto in prosa.
Sono convinto un po‘ astrattamente che questa sia la direzione. A un certo punto che cosa è
diventato il verso? Certo ci sono le pause. Come nel teatro: a teatro si sente l‘attore che recita senza
seguire una linea di senso logico del discorso: interrompe per mettere in evidenza delle parti e crea
delle pause…
Se dobbiamo trasgredire la norma, allora questa trionfa sempre. Ma la norma non c‘è più. C‘è un
altro modo di intendere la cosa, si devono superare certi blocchi. L‘endecasillabo non è un‘idea
platonica: Bonvesin de la Riva scriveva in alessandrini… Sono convenzioni, certo, che tutti noi
abbiamo dentro. Si legga, nella prosa, ad esempio Il sorriso dell‟ignoto marinaio di Consolo, che è
tutto scritto in endecasillabi. Consolo è uno dei nostri migliori prosatori, ma quando me ne sono
accorto ha cominciato a pesarmi. Stendhal diceva che non bisogna mettere versi nella prosa: Balzac
però, e anche Zola, ne sono pieni. Anche in D‘Arzo, per esempio: in Casa d‟altri troviamo una tale
serie di ottonari che a un certo punto, se ci cadi dentro, ti spaccano la testa.
Una questione che nel discorso critico sul rapporto tra poesia e prosa è più volte riemersa è quella
dell‟abbassamento prosastico Ŕ la poesia verso la prosa – dell‟avvicinamento della poesia alla
dimensione radente della prosa, come possibilità aperta nella poesia italiana dall‟ultimo Montale.
Anche questa è una delle modalità, anche se non la sola, con cui si configura il rapporto tra poesia
e prosa. Credi si tratti di una opzione centrale, oppure quanto dicevi poc‟anzi, come ci sembra di
cogliere, va in una direzione differente?
Tutto il Novecento ha praticato questo tipo di opzione: l‘abbassamento prosastico è la scoperta
dell‘acqua calda. Montale lo ha fatto, ma non perché avesse un progetto di quel tipo: è stato il più
grande poeta del Novecento e a un certo punto ha pensato di sfociare in una forma diaristica perché
era stanco di tenere il tono. Il progetto della poesia del Novecento è l‘inclusività: l‘assunzione di
materiali linguistici ed esperienziali che appartengano a qualsiasi forma. L‘idea di una poesia
impostata verso l‘alto è molto ingenua, anche se c‘è ancora qualcuno che crede che la poesia sia
poesia perché differente dalla prosa, poeti che impostano il tono così come un cattivo attore recita
come crede si debba recitare. Ma il grande attore non recita: Salvo Randone sembrava stesse
parlando normalmente. La grandezza dell‘attore sta proprio qui. La grandezza del poeta sta nel
rendere normale quello che invece è elevato. Quanto all‘avvicinamento alla prosa, basta leggere
Prufrock: ―Nella stanza le donne vanno e vengono./ Parlando di Michelangelo‖. Naturalmente nella
traduzione questo emerge ancora di più, perché si perdono tutti gli accorgimenti prosodici. È una
questione presente continuamente nella tradizione più alta del Novecento. Credo che il problema
della poesia non sia quello di darle un tono che la faccia sembrare poesia. Pensiamo alla tradizione
comico-realistica della poesia italiana dal Duecento in avanti. Non è la linea che ha vinto, certo – ha
vinto la linea petrarchista: Petrarca era un genio, al contrario dei suoi imitatori, un fisico atomico
che ha inventato delle modalità e una lingua che non c‘erano – tuttavia la linea comico-realistica è
stata altrettanto presente lungo i secoli, con un abbassamento e uno sporcare la pagina che, dai
toscani in poi, e non solo nei grandi dialettali come Porta e Belli, erano cosa normale… Si pensa di
venir fuori dalla retorica ottocentesca con l‘abbassamento verso la prosa. Ma non è così, tutto
questo c‘era già anche nell‘Ottocento: nel secondo Ottocento, ad esempio, se si leggono le poesie di
Remigio Zena, di Bettini, di Betteloni, si trova anche la poesia racconto che introduce a Gozzano.
Qui c‟è un altro elemento, che va distinto, vale a dire quello narrativo. Avvicinarsi alla prosa non
significa peraltro necessariamente introdurre elementi narrativi, ma anzi può significare
rimescolare i generi e uscire dalla stessa narratività.
169
L‘elemento narrativo è un aspetto che è sempre stato tipico della grande poesia. A parte i poemi, la
narrazione costituisce i tre quarti della poesia di tutti i tempi, forse anche di più.
Quando utilizzi la prosa in poesia senti prevalere in te questo elemento narrativo?
No. Sento prevalere un altro ritmo, un‘altra economia della parola, un‘altra durata dei tempi, di
estensione della poesia. Non un cambio di genere, piuttosto un cambio di passo, e di registro.
Personalmente, sono stato perseguitato dall‘idea che la mia poesia sia narrativa. In realtà, ho sempre
cercato di far finta di raccontare. Anche nel Disperso: come si può definire narrativo un discorso
che svicola continuamente da un‘altra parte? Dove un personaggio diventa di continuo un altro
personaggio? Certo, non mi offendo se mi dicono che si tratta di poesia narrativa, ma non vorrei si
equivocasse sull‘idea che io voglia raccontare delle storie. Tutt‘altro: volevo raccontare delle storie
che non sono storie, che non riescono mai ad avere una consequenzialità logica.
Per tornare a Montale e all‘idea che abbia inventato l‘‖avvicinamento alla prosa‖, stiamo attenti a
non pensare che magari non sia poi il contrario. Nel clima in cui c‘era Giudici, c‘era un certo
Sereni, e c‘era il primo Raboni, anche Montale forse si è reso conto che si poteva abbassare il
registro e andare un po‘ di più verso la prosa.
Ha captato?
I grandi captano sempre. Spesso crediamo che arrivi il personaggio che inventa. Ma neanche Dante
aveva inventato. La discesa agli Inferi c‘è in Bonvesin de la Riva, in Uguccione da Lodi e in
Gerardo Patecchio. I grandi sono dei grandi veicoli. Così Montale, che pure dopo Xenia mi piace
molto meno: lì c‘è come una voluta noncuranza, una trascuratezza che non condivido per niente;
così in Transumanar e organizzar di Pasolini, che non è poesia: sono solo chiacchiere.
Passando allo specifico della tua scrittura, guardando alle singole opere e ai cambiamenti
intervenuti nelle diverse fasi del tuo percorso: che tipo di lavoro ti interessa fare nella prosa
rispetto al verso?
A me la prosa piace molto. Quasi in tutti i poeti con il passare degli anni il tentativo di usare la
prosa diventa più naturale. Ricordo che Sereni negli ultimi tempi diceva di voler fare solo prosa. Si
veda Tiziano Rossi, che è arrivato a scrivere solo in prosa. Ad un certo punto arrivare alla prosa è
una cosa fisiologica. Ci può essere un tempo in cui non ce la fai, e un tempo in cui ci riesci, o
almeno credi di riuscirci. Personalmente, credo di avere ora un rapporto con la prosa molto più
facile, e piacevole. Faccio fatica – ma questo è forse un problema che dovete risolvere voi scrittori
più giovani – a trovare il modo di scrivere dei veri componimenti poetici in prosa: sono più per una
prosa che vada verso un finto racconto, con un respiro più ampio. La fase intermedia, che potrebbe
essere la migliore, mi riesce più difficile.
Infatti dopo Glenn hai diminuito gli inserti di prosa nei lavori poetici…
Non ho mai progettato a freddo. Glenn l‘ho scritto con la convinzione di dover scrivere un racconto,
o un romanzo, e non ci sono riuscito. Poi, con Il male è nelle cose, ho ripreso il vecchio romanzo
scritto quaranta anni prima, perché mi dispiaceva lasciare incompiuta una cosa cui tenevo
moltissimo. Complessivamente l‘ho attualizzato, perché non mi ricordavo più come andava il
mondo nel Sessantacinque, e poi l‘ho tagliato e asciugato. Però la struttura, il personaggio, le
vicende, erano già quelli: e anche una certa idea della prosa, anche se più immatura, e con meno
strumenti. D‘altra parte quasi mai è successo che un ragazzo di vent‘anni abbia scritto un romanzo
170
compiuto. Quasi sempre, nella prima giovinezza, si comincia con la poesia. Anche narratori molto
noti, come Bassani, hanno iniziato così.
Tornando alle tue raccolte di poesia, a parte il caso di Glenn, dove c‟è un‟intera sezione, la prima,
che costituisce un poemetto di prose brevi, ci sono anche altri modi in cui vai oltre il verso. In Per
un secondo o un secolo, con una modalità anticipata già nelle Poesie della fonte (dove compare la
prosa di Incendio) affiorano tra i versi diverse pagine in prosa. Una modalità ancora differente e
particolare si trovava poi nel Disperso, nella forma di un avvicinamento asintotico, un verso che si
allunga, si allunga, e a un certo punto diventa un inserto di prosa.
Un blocchetto.
Ci sono ad esempio degli elenchi, che hanno la forma grafica di blocchetti di prosa inseriti tra i
versi, un procedimento peculiare del Disperso, e che dopo non hai più ripreso.
Proprio così.
Guardando ora al panorama contemporaneo, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri, poemi in
prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che ti interessano particolarmente?
Alcuni nomi son già venuti fuori, come Char e Ponge, anche se dopo quest‘ultimo la poesia
francese non è più stata così interessante. Da noi, Pagliarani: La ragazza Carla è un testo strepitoso,
ad altissima definizione. E tra i più giovani, Massimo Daviddi, poi tornato al verso.
Hai mai fatto esperienza di traduzione di autori di prosa poetica? Se sì, che contraccolpo ha avuto
il lavoro di traduzione sulla tua scrittura in versi?
Ho tradotto poca poesia e molta prosa. Ma in generale le mie traduzioni non hanno avuto
contraccolpi. Se penso a Stendhal, ciò che mi ha interessato è la sua lingua fantastica, di efficacia
immediata, ottenuta con grande economia di mezzi: una prosa che per asciuttezza, rigore e sobrietà
mi sembra preferibile a quella di Balzac e Zola. È comunque molto importante che i poeti leggano
prosa. In un autore come Faulkner, ad esempio, vi è qualcosa di estremamente vicino al discorso
poetico: il suo modo di raccontare che lascia in sospeso… E quanto c‘è da apprendere da Bestie di
Tozzi! Tra i contemporanei, De Lillo: tutta la prima parte di Underworld, e poi Rumore bianco, e
quell‘idea che con l‘omicidio di Kennedy la fiction entra nella storia. La Trilogia di New York di
Paul Auster, e I miei luoghi oscuri di Ellroy, che mi ha colpito anche per motivi personali.
Ci puoi segnalare un tuo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto?
A proposito del rapporto tra scrittura poetica e lettura di prosa narrativa, voglio segnalare un testo
che compare nella prima sezione di Vite pulviscolari, che è una vera e propria versificazione di un
brano di Dickens.
Ti disturbava quel fervore chiassoso
dell‘officina, quel gran disordine
di ferro in barre, in cunei, in lamiere,
serbatoi, assi, ingranaggi, manovelle,
marmitte soprattutto, e tute di operai
giovani, sporchi di fuliggine e di gesso
e le montagne di frantumi arrugginiti.
171
Avessi visto invece, come nell‘album
delle figurine, la nobiltà del ferro
giovane, abbagliante. Il ferro rosso
di fuoco o bianco incandescente, il ferro
nero freddo, e un gusto forte
di ferro, un odore aspro
di ferro…
Una operazione simile si trova anche ne La luce del distacco, dove mettevo in versi un brano di
Meister Eckhart:
Ecco, il distacco
costringe Dio ad amare me,
è molto più nobile che lo costringa
a venire a me,
che non costringermi ad andare,
io, a lui.
Già, eppure l‘angelo più alto,
l‘anima e la mosca
hanno in Dio un archetipo comune.
Dio non può creare senza di me
un solo verme…
Donna è il nome più nobile
che si può dare all‘anima.
Molto più nobile che vergine.
(Conversazione con Alessandro Broggi e Italo Testa, Milano, 10 febbraio 2010)
172
UMBERTO FIORI
1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla
questione dei generi)?
Volendo ridurre tutto ai minimi termini, la prosa è l‘ambito letterario in cui – a differenza che in
poesia – la scrittura tende a presentarsi principalmente come veicolo per comunicare questo o quel
contenuto. In realtà – lo sappiamo – anche lì la forma, lo stile, il significante, hanno il loro peso;
quello che conta è che non arrivano mai (o quasi mai) a ―rubare la scena‖ alle cose da dire. La
retorica – fondamento della prosa – è un‘arte ―di servizio‖, che non ha certo la pretesa di occupare
da sola il centro dell‘opera. Nella scrittura in prosa mi piace il fatto che il ritmo, l‘articolazione del
discorso, i nessi argomentativi etc., quando sono ben controllati, fanno scorrere il testo senza farsi
troppo notare. Mi sembra – in generale – un‘arte più discreta di quella della poesia o – per essere
meno generici – di certa lirica ―verticale‖ del Novecento e oltre. Scrivere in prosa è un esercizio
fondamentale, io credo, anche per chi si dedica principalmente ai versi (Franco Fortini lo
raccomandava con insistenza): senza questa prova, questa ginnastica, la poesia rischia di perdere
ogni contatto con le radici profonde della lingua, con il suo humus.
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
L‘idea di ‖abbassamento prosastico‖ e quella di una fusione dei generi sono – a mio modo di vedere
– due aspetti di un approccio puramente estetico-letterario al rapporto tra poesia e prosa, approccio
che mi sembra abbia mostrato negli anni la sua sterilità. Per me non si tratta di ―abbassare‖ la lingua
della poesia o di creare per ibridazione nuovi generi: misurarmi con la prosa – e in particolare con la
prosa argomentativa, col saggio – ha significato e significa sottrarmi almeno in parte al rischio
dell‘arbitrario, del gratuito, che sempre incombe sulla lirica, per riscoprire una parola poetica
―responsabile‖, una parola capace di misurarsi anche con il senso comune e – fin dove è possibile –
di dar conto di sé al lettore.
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
Nella mia prima plaquette, Case (1986), un‘intera sezione era in prosa. Nei primi anni ‘80 ero
molto interessato a un racconto scorciato, rarefatto, una sorta di ―narrazione senza storia‖. In
seguito, ho preferito realizzare quest‘idea in versi (una poesia di Esempi, Treno, è la rielaborazione
di una prosa, Possibili soste in colonna, che si trova in Case). Le ragioni di questa scelta –a distanza
di tanti anni – non mi sono più così chiare. Forse volevo semplicemente evitare ambiguità di genere,
forse il petit poème en prose non era poi tanto nelle mie corde. Come ho già detto, la prosa che più
mi interessa è quella di natura argomentativa. Fin dagli anni ‘70 ho avuto occasione di scrivere di
musica: alla recensione, all‘articolo, ho preferito in genere la forma del saggio. Mi piace individuare
questioni, approfondirle, formulare domande, argomentare. Più tardi ho cominciato a mettere per
iscritto anche le mie riflessioni sulla poesia, a partire da questo o da quell‘autore, da un problema
173
teorico, dalla lettura di un‘opera: questa attività critica mi pareva il naturale complemento della mia
scrittura poetica. In prosa ho scritto anche un romanzo e un dialogo, ma si tratta di episodi isolati:
quello che più mi interessa e che mi sembra più legato al mio modo di intendere la poesia è la
riflessione critica, l‘interpretazione, l‘analisi testuale. È un lavoro che mi stimola, a volte, quasi più
della scrittura in versi.
4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,
poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche
non italiani)?
A parte il Baudelaire dello Spleen de Paris (che qui mi pare superfluo nominare), mi hanno
interessato molto fin da ragazzo Piero Jahier (di recente ho riletto il suo bellissimo Con me e con gli
alpini), Camillo Sbarbaro, Giovanni Boine. Poi c‘è Sereni: in lui mi interessa l‘intreccio (e il
contrasto) tra poesia e narrazione, tra i versi del Diario d‟Algeria e certe prose de Gli immediati
dintorni (su questo ho scritto di recente). Un altro autore che trovo affascinante, e che mi sembra
aver rinnovato in Italia il genere del poema in prosa, è Giampiero Neri. Tra i narratori che più ho
frequentato citerei Gadda, ineguagliabile virtuoso di quella smisurata tastiera che è la lingua
italiana, e Kafka: quando si affronta la sua opera, la distinzione tra prosa e poesia –e l‘idea stessa di
genere letterario – davvero perde senso.
5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
Non ho mai avuto occasione di tradurre prose poetiche. In prosa ho tradotto soprattutto saggi di
argomento musicale.
6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
Segnalerei i due testi che nominavo prima: Possibili soste in colonna (in prosa, da Case, del 1986) e
Treno (da Esempi, 1992), che del primo è una rielaborazione in versi, con variazioni importanti.
Confrontandoli si può forse capire da dove nasca la mia decisione di accantonare la prosa poetica.
Anche qualche passo dai saggi (raccolti in La poesia è un fischio, 2007) potrebbe servire a chiarire
la mia idea di prosa, ma forse è più sensato rinviare a una lettura integrale (per chi abbia il tempo e
la voglia di farla); estrapolare questo o quel passo non è facile e potrebbe essere fuorviante: quando
scrivo un saggio non penso alla singola frase, alla singola pagina, ma all‘intero svolgimento del
ragionamento, alla sua ―trama‖.
174
MARCO GIOVENALE
1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla
questione dei generi)?
La mia idea di prosa è ovviamente anche un‘idea o massa-matassa non solo mia: è di fatto
trasmessa, sovrascritta: è una cosa e una casa anche altrui, costantemente. Precisamente per il fatto
di appartenermi, è altra, composita, giocoforza differenziale, effusa direi anzi dissipata ossia
sprecata in diffrazioni, prassi e diversioni da prassi (da quelle prediffuse, usurate). È cioè una
specie di gomma-somma non aritmetica e anzi mosaico o ventaglio di eredità, microlabirinti e
ricodifiche, giostre in buona parte e assai volentieri disallineate dall‘usuale asse e traccia playback
della prosa che si legge nei libri degli editori generalisti.
(Rispetto a questi ultimi trovo, semmai, e spesso, consonanza felice fra prosa scritta mia e flusso
parlato casuale, eavesdropping, banalità da bar, eccetera: però, anche lì, è il quid normante del
normale a indispettirmi. Il già dato, il precompreso, il predetto, quanto si sa e si vuole già letto
dall‘ebetudine dello spettatore di pagina o di festa aggiornato che si fa dire da giornali e inserti
cos‘è che deve scandire, ritenere, immettere in chat).
Quanto a(l) ―me‖ in abito di lettore-lettore talvolta agìto, che cioè si sa e si vuole ingenuo, ben
volentieri spendo tempo sulle pagine di Bram Stoker. Per dire. Non avanzo però molto in qua nel
presente, se si tratta di cose così. Stili e modi così. Racconto-racconto. Certo, uno vede il
gazzettone, la tabula recensoria dei best editoriali, e si domanda: ma quale roba non è così, in
scaffale? Un esercito di marchese e contesse e raccontesse fanno le gare di puntualità. Il tè si serve
alle cinque spaccate. Chi c‘è c‘è. (Ci stanno tutti).
Al posto della ―figura dell‘editor‖, a una rimota et aliena omai intellezione bisognerebbe più tosto
un auditor. Un udente tacito. Bene, non v‘ha. (Bene non v‘ha).
E gli autori, che fanno? Gli autori, gestori gestiti, giovani holding, si fanno demoltiplicare dalle x
fisse che moltiplicano il mercato. È storia vecchia, di vecchi razzi, vecchi trucchi e gare tra mondi,
poli, blocchi. E più gli alfabetieri sono prossimi già per loro VIRTVS allo zero, più certo è che
partono avvantaggiati. Alleati naturali dell‘attrito mancante, della veloce rotazione-turnazione delle
faccette sul blogscaffale.
Insomma. Caro Broggi, che vuole che le dica? lei mi è sodale nella diffiziosa ventura di Prosa in
prosa, presso Le Lettere. Dunque ambinoi_ahinoi bene sappiamo che nulla salus si dà extra
mercato, fuori dai modi di prosa cuciti dalla confindustrietta della carta. Rade chances. Pinto che
traduce Schmidt o Zaffarano che traduce Gleize o Bortolotti che volta in italiano il Derksen, per
lunga pezza si staranno con noi nel basso dei geli.
Apro una parente. Sembra sia un particolare tipo di prosa a persuadermi: è certo anzi. E però mai,
per questo, sottrarrei ascolto (tantomeno stima) a quelle vie del narrare in senso strettissimo che
hanno tutti i pregi del depistaggio e dell‘antiromanzo, dell‘ombra e del non detto, perfino ove
classicamente offerte. (Pur esse vie non sempre vantando, forse, statura di oggetti estetici). Penso a
uno dei migliori prosatori degli ultimi decenni, quel Roberto Bolaño inaspettatamente accolto dalle
braccia del lettore medio, di recente. (Ma mi permetto di preferire il dedalo compatto e pieno di
175
incertezze di Monsieur Pain, al pur geniale 2666). D‘altro canto tutte le lingue del colonialismo, se
hanno covato e trasmesso il predatore peggiore degli ultimi secoli, il romanzo, hanno anche
incubato ed espresso i migliori capovolgimenti del medesimo. Ha lo spagnuolo il Cortàzar, l‘inglese
il Beckett, Pynchon pure, il francese il Perec, il Tarkos.
(Poi penso al senso che Beckett e Bernhard hanno nel pensiero filosofico di Emilio Garroni, e sono
tentato di aprire una parente nella parente; invece mi forzo alla doppia chiusura).
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟“abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
Una delle ragioni per cui la razza umana ha impiegato milioni di anni per arrancare fino al
linguaggio, è che c‘erano importanti critici letterari.
A fare ostacolo, barriera. Anche prima. Anche prima del linguaggio.
Tu disegnavi due corna sulla roccia, su una bulla, su un toblerone d‘argilla, e il critico ti suggeriva
il bisonte sotto. Corna = bisonte. In fondo non c‘è bisonte che manchi di corna, ti dicono. Dunque
con due spunzoni tracciati, l‘animalone fia sottinteso.
Vàgli tu a spiegare che quelli lì magari sono segni, che sono delle A, o una V, e che i tuoi neuroni si
stanno facendo un culo tanto per inventare l‘alfabeto. No, loro completano i (tuoi) disegni con
l‘allucinazione del loro déjà-vu. E così, dàgli, giù bisonti e bisonti per migliaia di anni.
Vedi tu se non sarà così anche con poesia e prosa. E col romanzo. Il novissimo bisonte.
Una delle bufale meno insensate dunque più ripetibili, poi, riguarda il cosiddetto abbassamento alla
prosa della (dalla?) lirica, che qualche sùpero di genio ha evidentemente posto a guardia & fons
sacra della scrittura sensata=potabile, anche da prima che si dichiarasse il verbo divino tombé giù in
mota dalla zucca highclass dei vescovi, e idem il verbo poetico conciato come Baudelaire dice, con
quella storia dell‘aureola.
Ma gli autori, nuovi, che non si pongono (più, mai) il problema della ―lirica‖, non si pongono
nemmeno quello degli ―abbassamenti‖. Scrivono e non si danno troppo pensiero dello scontornarsi
delle righe.
Codice e coscienza (dei codici), ci vogliono, sì, in chi scrive. Ma ci vuole anche, da parte del lettore,
una permeabilità al nuovo, al ricodificando, una disponibilità / disposizione ad andare verso il testo,
ad accettare come parte del gioco ermeneutico l‘accumulo di non detto, di marcatori formali non
individuati, di ombre e geometrie non note che il testo implementa. Non è facile trovare questa
disponibilità nel lettore italofono, abituato com‘è all‘aut aut prosa da una parte (che si autotraduce
issofatto nell‘imperio muggente del manzone) O poesia dall‘altra (immancabilmente lirica, sorgiva
nell‘anthropos come la dromomania nel cucciolo).
In questo comico cosmo-duopolio, è evidente che se la poesia ―s‘abbassa‖ casca a pera nel narrare
(epica? Spesso. Anche post-Novecento?! Così pare, così pera. Dolciume, retorico, catabasi
rotondosa). MENTRE se la prosa ―s‘inalza‖, e svetta, diventa sic et simpliciter prosa lirica, poème
en prose.
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Vàgli tu a indicare, ai pomìprosi rondisti, che Perec ha scritto L‟infra-ordinario qualche bel
decennio fa. Vàgli tu a mostrare le V sulla parete. Disegneranno sempre un manzo sotto, o un
tabernacolo sopra, radiante.
Proprio non ce la fanno ad andare verso l‘opera che hanno di fronte. Non sapendo andare, devono
adorare. Non leggendo, eleggono. (L‘eletto, il già dato, il sempre uguale).
E così i millenni passano, e nel loro piccolo gli anni, e nel loro nulla gli annuari.
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
Le mie narrazioni à la Cortazar non innamorano l‘editoria corrente. Del resto non faccio quasi mai
tentativi e proposte di narrazioni. In ogni caso, tempo addietro un amico anche redattore di rinomata
rivista mainstream (ma non chiusa chiusa a esperimenti) definì i miei testi narrativi con suoni
gutturali da fumetto, non con formole di critico. Di questo gli sono profondamente quanto
inutilmente grato. Mi convinse da allora che i lettori ideali di quel tipo di pagine sono forse proprio
lettori di fumetti, di fantascienza, di cattiva letteratura. Testi di surrealtà troppo malata, da fotografo
d‘antan che i sali d‘argento se li beve. (Va da sé che quei ―fluff zing smack crash‖ – come furo detti
– persistono inediti tutt‘ora).
Questo, per il racconto. Se raccontare si deve, quando si fa, quando si vuole. (Non è mica vietato,
basta aver dato una scorsa anche veloce a seimila anni di mucche in riga, per sapere che fare, cosa
evitare).
Detto ciò, penso a tutt‘altro, ossia (per esempio) a La casa esposta, uscito per Le Lettere nel 2007.
Lì convergono – nell‘architettura – tre elementi: una poesia vagamente assertiva, in realtà
fittamente sviata, ritorta, twisted, soprattutto sul piano sintattico; uno stack & stock di fotografie in
bianco e nero che documentano il caos di un informe enorme duro doloroso scasamento e
sradicamento interminabile; e infine una sequenza di prose presentate anche con corpo tipografico
differente/differenziante, scritte e assemblate in vari modi – ma volentieri attraverso googlism (roba
diversa dal cut-up propriamente detto).
Ebbene, il libro è in disequilibrio, il libro è un disequilibro (lasciatemi divertire). Le foto sono
inserto ‗di mezzo‘ (d‘intralcio?), ma che non compare collocato al centro-centro; semmai spostato,
mosso, sfocato di un grado verso l‘inizio del testo. Poi il libro ―finisce‖ con delle note ... ma
ricomincia subito dopo con le prose. Struttura bislacca.
In sostanza, prose e versi, blocchi e righe e immagini, non si guardano in cagnesco ma nemmeno si
spalleggiano. Anzi forse si contestano a vicenda. L‘impianto, la struttura, non è di contrafforti
simmetrici, non c‘è Rinascimento (senza che per questo si voglia cascare in barocchetto). Né le
fotografie traggono luce dai testi, che per parte loro non giocano il gioco della didascalia.
Le prose di quella sezione si intitolano Tranne un oggetto. Le ho portate con me – tradotte in
francese da Michele Zaffarano – a Lione nel 2008 per una lettura. Le medesime traduzioni sono
uscite sul numero recente (n. 6) di «Nioques».
177
Ciò detto, derivo dai vari noccioli di discorso sparso per via: la prosa nel mio lavoro non ha un
ruolo marginale, di ―chiusura‖ (lampo, cerniera) nei libri, o di (absit iniuria eccetera) poème en
prose.
Anzi.
Vorrei con qualche scàndolo gittare alle maestranze delle lettere contemp. l‘indicazione che le mie
(seppure di nulla eco) prose sono totalmente disinteressate allo statuto di prosa, come allo statuto di
versi. Anche i versi hanno questo deplorevole atteggiamento, ma forse (ancor meno echeggianti)
pubblicizzano poco e male la faccenda. (Tanto che curatori e cocuratori mi invitano spesso ―a‖
reading e ―in‖ antologie con neolirici e neorealisti, ignoro perché).
Non nego che una fortissima gioia di prosa(tore), joie du proseur, mi faccia di sé repleto come la
colomba di pentecoste, con tutti i canditi e i mandorlini nella panza, quando pongo quotidiana mano
alle lussurie di http://differxit.blogspot.com, ma pur basta/basterebbe prendere atto del lavoro svolto
negli anni con altri testi, già da Curvature (La camera verde, 2002), e direi già da La Welt
addomesticata (nell‘ultimo numero di «Rendiconti», 1997), per dar contezza della sostanziale
permeabilità di struttura versale, a-capo non metrico, metri ironici, gleiziana prosa in prosa, nonracconto, prosa franta, e altri Franti eventuali, che in capo a un decennio e qualche spicciolo ho
avuto la malaidea di diffondere in carte e bytes.
Di una delle ultime letture di Amelia Rosselli a cui ho avuto la ventura di assistere (Roma, via dei
Riari, 1993? ‘94?), ricordo: introducendo il suo Diario ottuso, spese parole molto nette e dure di
critica alla tradizione italiana del poemetto o poesia in prosa, e della prosa lirica. Parlò, anzi, di
necessità di matematica, geometria, di freddezza, di misura. Poco mancava che dicesse
precisamente prosa in prosa. (Dato assodato: non parlava di romanzi...)
Riprendendo il filo: Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso?
Mi interessa produrre oggetti estetici (quella compagine incerta di enti sdefiniti, non garantiti, che il
Novecento sembrava aver reso familiare a tutti, come ―(non)categoria senza caratteristiche‖,
produttori di senso-non-senso; se non fosse che l‘Ottocento governa e rigoverna il Paese, via video,
da troppo tempo ormai).
4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,
poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche
non italiani)?
Nella tradizione c‘è da sbizzarrirsi, e lo faranno un po‘ tutti rispondendo a questa inchiesta con i
nomi che sappiamo. Glisso e metto a fuoco invece, dei contemporanei italiani, Nanni Cagnone per
testi come Enter Balthazar (Edgewise, 2000), geniale, non a caso pubblicato negli USA. Autore
diversissimo è Carlo Bordini, che riesce a disintegrare o bellamente bypassare plot e regolarità
narrative a colpi di candore-ghigno anche quando si getta nel(l‘apparenza di) romanzo: di lui
bisogna soprattutto citare un libro, che sarà pure confluito in altra opera successiva, ma ha
indipendenza e potenza: Pezzi di ricambio (Empiria, 2003). Una breve ricerca in rete dimostrerà
quanto siano validi, oggi, alcuni esperimenti di autori come Roberto Cavallera (appartatissimo,
finora ―on paper‖ ha pubblicato slm, presso le edizioni Arcipelago, nella collana ChapBook di
Bortolotti e Zaffarano).
Spostando l‘osservazione solo leggerissimamente indietro nel tempo, va fissato lo sguardo su alcuni
nomi cardine. Emilio Isgrò, sicuramente, e Giancarlo Majorino. Così come mi sembra quasi
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insuperabile il Porta di Partita. E: inutile dire che le giustapposizioni del Balestrini di Tristano
(proprio nei singoli blocchi di prosa, a prescindere dal concetto complessivo di montaggio del libro
come tale, pur estremo e acuto, innovativo) sono quelle che accolgo con più favore (rispetto, per
dire, al flusso di Vogliamo tutto). (Mi spiego: le slogature e i salti logici impliciti in Tristano sono il
versante a mio parere più gustoso proficuo geniale, e attualmente ahinoi non vincente, della linea di
lavoro che dal cut-up porta al googlism; mentre la consequenzialità colloquiale, pur fluida, di
Vogliamo tutto, ha trovato decisamente più eredi, anche se si vorrebbe dire epigoni).
Inoltre mi limito a (ri)suggerire autori tradotti da Zaffarano e Bortolotti per http://gammm.org :
Jean-Marie Gleize, Éric Suchère, Éric Houser, Christophe Marchand-Kiss, Jean-Michel Espitallier,
Christophe Tarkos, Tao Lin, K.Silem Mohammad, Jeff Derksen, Lyn Hejinian. Ed è un elenco
rapido/incompleto.
Vorrei poi nominare Robert Crosson, Paul Vangelisti, Laura Moriarty, Michael Palmer, Leslie
Scalapino. Senza contare gli autori della language poetry, Charles Bernstein, Ron Silliman. Uno
degli scrittori di nuova prosa a cui è più dimostrabilmente sensato legare testi miei (almeno per una
parte del mio lavoro, dico, p.es. per Tranne un oggetto) è Rodrigo Toscano, e in particolare mi
riferisco alle sue 62 prose units written in illness, tradotte da Gherardo Bortolotti per la collana
ChapBook dell‘editore Arcipelago.
In sintesi. Non posso non pensare a quegli scrittori che, in tradizioni soprattutto non italiane, hanno
fatto della permeabilità o piena esplosione del confine tra prorsus e versus una costante che è
sintomo di due cose: 1, passaggio avvenuto del Novecento (non a caso miscompreso in questa
attuale squallitalia da tre tenori); 2, attestazione sempre più netta, pervasiva e positiva, durante e
dopo il Novecento, dell‘oggetto estetico (linguistico, visivo, verbovisivo, installativo, performativo,
concettuale, ...).
[«Estetico» è sempre da intendersi nell‘accezione trasmessa da Emilio Garroni attraverso le sue
letture kantiane]
5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
Ho tradotto Kathleen Fraser, e autori di diversa generazione come Jennifer Scappettone, Susana
Gardner, Drew Kunz, Linh Dinh, Nellie Haack, Eric Baus. Alcuni testi di Scappettone, con versi
molto lunghi che lavorano non immediatamente sul piano metrico ma su quello dell‘irradiazione
semantica (vocaboli e incontri di vocaboli che moltiplicano i piani di significato, senza che però mai
cedano ad alcun ―connotativo‖ tipico del ―poetico‖, ossia alla ―suggestione‖), mi hanno dato molto
da riflettere su una serie di cose che sto scrivendo dal 2001 in versi che sondano in tutti i modi
(anche grafici) la modalità del non-verso.
Ma non posso dire che tradurre abbia riorientato e sovrascritto in forma totalmente determinante
alcune mie scelte. Mentre devo e posso dire che l‟insieme dei testi letti in traduzione e in originale
(inglese e francese) mi ha confermato in molte persuasioni che avevo, in tema di scrittura di ricerca.
E ha accelerato certi processi miei, o certe radicalizzazioni. Le letture sono quelle che si trovano su
gammm, insisto.
Faccio infine una digressione non troppo estesa per toccare un tema a cui tengo:
Sono particolarmente interessato ai caratteri installativi dei testi verbali, che sarei tentato di definire
in molti casi postverbali. Macchine elencative interminabili, blocchi verticali di textus che esce
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proprio quantitativamente dal campo della tessitura, del rinvio sonoro, lineare, performabile, per
entrare semmai in quello della scultura, del volume-massa, dell‘oggettualità piena, fissa. (Words to
be looked at, recita significativamente il titolo del saggio di Liz Kotz dedicato non a caso a
«Language in 1960s Art», MIT Press, 2007).
Se penso a Il dramma della vita, di Valère Novarina (la cui conclusione esce in italiano su Nazione
indiana, tradotta da Andrea Raos), o ai monoliti che punteggiano le uscite di
http://hotelstendhal.blogsome.com, o ai flowchart ritoccati di Brunt, di Emilio Villa, o ancora alle
opere in rete di Jim Leftwich, Jukka-Pekka Kervinen, Peter Ganick, non mi torna affatto come eco
distante un‘idea di scrittura di scena che (si) fa muro: muro-scena, opera verbovisiva in sostanza.
(Che perda o meno il suo carattere alfabetico cellulare, costituitivo). È una delle vie di
comunicazione verso la visual poetry, anche.
Ma qui si entra in altro tema ancora. E siamo in chiusura di digressione e di intervista.
6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
Mi sento di segnalare quattro testi usciti recentemente su «Ekleksographia», e tradotti in inglese da
Linh Dinh:
http://ekleksographia.ahadadabooks.com/ballardini/authors/linh_dinh.html
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ANDREA INGLESE
1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla
questione dei generi)?
A me interessa soprattutto l‘idea che vi sia una zona dell‘invenzione situata a distanza sia della
poesia che della narrativa. Quando si parla di ―prosa‖ si evoca qualcosa di estremamente ambiguo: è
poesia divenuta prosa, poesia senza verso, oppure è saggistica, ma non accademica, capace di dare
spazio all‘io singolare piuttosto che al noi scientifico, o è semplicemente prosa narrativa, racconto
breve, romanzo sperimentale o tradizionale? Evocare quindi il termine prosa, che non è ovviamente
un‘indicazione di genere, significa assumersi in qualche modo questa ambiguità, questo possibile
gioco di malintesi. Per chi viene dalla poesia come me, ma è familiare anche con il saggio o con il
racconto, la prosa diventa quindi una zona contigua a quella della scrittura poetica, che può
permettere una sorta di estensione di campo – come accade nel Paterson di Williams –, oppure una
sorta di via di fuga, zona di transizione verso un genere altro.
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
Non so. Quando si parla di abbassamento prosastico, bisognerebbe dire che cosa la poesia
―incamera‖, guadagna, in termini tonali, timbrici, lessicali, ecc., attraverso questo tipo di fenomeno.
A me, nell‘abbassamento prosastico interessa un ritmo che possa ricalcare il flusso dell‘oralità –
impossibile da riprodurre nelle forme metriche, troppo cristallizzanti –, ma anche l‘apertura
all‘idiozia e al banale, sia in termini sintattici che lessicali e tematici, come avviene in certe prose di
Beckett. Vi è poi la fondamentale lezione di certi libri di Perec (Specie di spazi) e la nozione di
infraordinario. Oppure l‘assorbimento nella scrittura poetica della riflessione critica, come avviene
in certi libri di Ponge (Per un Malherbe). Insomma, ribadisco: la prosa non è un genere, ma una
zona d‘affluenza dai vari generi. Dipende da quale versante ci si posiziona, e che cosa si vuol far
affluire…
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
Nei miei libri di poesia (da Prove d‟inconsistenza a La distrazione) non vi è spazio per testi in
prosa, privi di verso. Anche se l‘abbassamento prosastico è presente come fenomeno. Ho poi
qualche esperienza come narratore. E forme di narrazione si ritrovano anche in certi miei interventi
di tipo saggistico o polemico. In questo momento ho aperto due cantieri, in cui la nozione di prosa
come l‘ho intesa più sopra è centrale. In uno, sto sperimentando forme di narrazione breve o
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brevissima, che partendo dal modello standard del racconto, giochino sugli stereotipi di genere – sia
guardando al romanzo sia alle narrazioni televisive o cinematografiche. Se questa è in qualche
modo la pars destruens, esiste anche una pars costruens incentrata su di un lavoro ritmico e
sintattico, che restituisca una sorta di multidimensionalità alla scrittura narrativa, in modo da
arricchire la sua natura di discorso progressivo e lineare. Credo di aver scritto con questo intento i
testi presenti nel libro collettivo Prosa in prosa e che s‘intitolano Prati e un‘altra serie, a cui sto
ancora lavorando.
L‘altro cantiere persegue un obiettivo per certi versi più ambizioso. Sto lavorando infatti da un paio
d‘anni, seppure in modo intermittente, ad un libro su Parigi come città erotica. Ora, in questo caso
ho scelto la prosa, perché è l‘unico terreno che mi garantisca una complessità che la poesia non mi
garantisce da sola. In questo testo, la componente saggistica è strettamente legata a quella narrativa,
ma anche a una dimensione lirica. Potrebbe essere un romanzo, se volessi raccontare una storia che
comincia e finisce. In realtà, mi interessano degli intervalli di storia, e dei materiali eterogenei, che
in qualche modo ho esigenza di ―poetizzare‖. Quindi la forma romanzo non mi conviene. Si tratta
insomma di un libro sperimentale, ma non nel senso che il termine ha acquisito in Italia, a causa del
suo provincialismo culturale. In Italia sperimentale significa più o meno: ―quelli che ancora
continuano a scrivere come gli autori della neovanguardia degli anni Sessanta‖. Intendo qui il
termine sperimentale, nel senso in cui un poema come quello di Majorino Viaggio nella presenza
del tempo è un‘opera sperimentale. Ma ciò vale per ogni lavoro, in cui la ricerca della forma
appropriata accompagna ed è simultanea alla raccolta di materiali da mettere in forma. Certo, una
faccenda rischiosa.
4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,
poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche
non italiani)?
Tutto m‘interessa, se è buona letteratura. Posso citare solo alcuni autori o libri a cui sono
particolarmente affezionato: Michaux, Ponge, Maurice Roche, Perec, Tarkos, Luca (Levée d‟écrou),
Tholomé, Giraudon; Il libro dell‟inquietudine di Pessoa, Beckett (la Trilogia e i Testi per nulla),
Casi di Charms. In Italia, oltre allo straordinario Sbarbaro, in ordine sparso mi vengono in mente
opere singolari come Nostra signora dei turchi di Bene, lo strepitoso Il presepe di Manganelli, i più
recenti L‟uomo avanzato di Bàino, I Cristi polverizzati di Di Ruscio, e poi il lavoro dei compagni di
strada di GAMMM. Non è ovviamente che una lista parziale, e soprattutto ho tenuto fuori i
cosiddetti narratori puri, come Gianni Celati, il Parise dei Sillabari, i Diari di Delfini, i romanzi di
Marosia Castaldi, ecc.
5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
Tradurre è sempre un contraccolpo. (Ho tradotto Michaux, Tarkos, delle prose di Viton, di Nathalie
Quintane, dei brani dei romanzi di Volodine, ecc.). Solo che se il colpo lo ricevi sempre, non sai
mai bene dove.
6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
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Un racconto dal primo cantiere:
Azione dimostrativa
Militanti alla conquista della scena. Accesi, allarmanti. Prendono tutti di sorpresa: sono vestiti benissimo. Gli
uomini della sicurezza scontano un ritardo motorio. Le signore, tacchi a spillo dorati e plastica facciale, non
scendono più la scalinata. Coccodrilli e cobra gonfiabili fluttuano a mezz'aria, la strategia dell'elio. Tutti o
quasi i nemici ora come scomparsi. Gli avversari di classe, i manutengoli del sistema, la servitù mediale. Il
presentatore ancora in piedi, ma come svenuto. Fuori dagli studi ammassano elettrodomestici nuovi di zecca,
per dare loro fuoco durante un urlo risanatore. Non tutti i propositi insurrezionali vanno a buon fine. La gente
si è tirata fuori dal letto, almeno per qualche ora. I colori acquistano intensità, si staccano a poco a poco dalle
superfici. I militanti soddisfatti, accorati, esausti. Scatenano infine una discussione sui motivi veri della
militanza. La gente li ascolta dai diffusori, versandosi bicchieri di latte. I motivi falsi e apparenti non
bastano. Bisogna tutti calarsi nel pozzo dei veri motivi. È quanto sostiene uno biondo, tenendo alte e aperte
le palme delle mani. Le forze dell'ordine sono rallentate da un sistema di sensi unici alternati. E gli uomini
della sicurezza stanno avanzando con estrema calma oltre le fantasiose barricate di animali gonfiabili.
Secondo alcuni, i militanti sono persone che fanno quello che fanno per pura disperazione numerica. Si
sentono dei numeri, ma dei numeri bassissimi, con molti zero davanti. E vogliono con azioni eclatanti
raggiungere lo splendore dei numeri interi, ma abbastanza alti, che superino almeno il cinquanta. Altri
sostengono invece, schiumando dalla bocca, che tutto è frutto d'imperizia sessuale. L'impossibilità di una
brevissima penetrazione genera energia rivoluzionaria: l'atto sessuale mancato produce un'azione di disturbo
riuscita. Il terzo gruppo, poco propenso a repliche, difende la nota tesi dell'arrivismo attraverso la miseria. Il
miserabile usa la sua verificata infelicità, la sua patente e indubitabile disperazione, come capitale per piccoli
e progressivi investimenti simbolici, che lo porteranno a divenire il primo dei cameraman o degli esperti
luce. I numerosi leader dei militanti – ogni tre militanti ne esiste uno – decidono di comune intesa di ballare
intorno al marchingegno che emette una nebbia inodore. Questo balletto nella nebbia artificiale avrà un
valore di denuncia per chi guarda da fuori. Quanto agli spettatori, la maggioranza dei quali non ha avuto il
coraggio di tornare a letto, non può vedere nulla, in quanto le trasmissioni sono state sospese. Proseguono
solamente le sigle pornografiche di sottofondo.
*
*
*
Un brano dal secondo cantiere (Materiali per un libro su Parigi):
tra le cose difficili l‘amore è tra le cose più difficili è tutta latenza erotica nessuno sa in questa complicazione
quale desiderio come esattamente vorrebbe siamo in superficie a galla del desiderio è una frase di psicanalisi
ci provano anche nei momenti sbagliati talmente difficile che basta poco all‘amore diciamo questo nome
come fumo negli occhi diciamo questo per placare le vite siediti ecco ristorante due cose da dirti una volta
assieme facciamo i turni piatti e lavatrice poi mi trovo nuovamente a masturbarmi in bagno e tu sei salita con
un tipo nell‘ombra non vi vedeva nessuno ancora nella latenza solo in sogno ho visto come prendere davvero
le cose prendile come vengono fammi venire come puoi dicono che Jacques che Fred che Vincent che
Delphine chi si faceva talmente male chi piangeva uno ha messo tutta le testa dentro vetri compresi rimasti
un bocca uno zampillo di sangue
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ANGELO LUMELLI
COME SALTARE SULLA SPALLIERA DELLA SEDIA(1)
L‘esempio che sto per fare mi attira al punto che lo farò, pur avendo tutte le qualità di un esempio
sconveniente.
Tanti anni fa, Giancarlo Majorino, poeta, in visita a casa mia alla Ramata, manifestò a mio padre,
contadino, una curiosa perplessità sull‘imponenza di un toro piemontese, effettivamente grave di
mole, nell‘atto di saltare sopra una femmina, tanto più gentile alla vista e minuta sulle zampe.
Mio padre rispose: si fa leggero.
Giancarlo Majorino rimase favorevolmente impressionato dalla risposta, la quale mentre risolveva
un interrogativo ne poneva ben altri.
Le mie idee sui versi potrebbero anche fermarsi qui.
Con ciò mai più vorrei attribuire al verso una oscura attinenza sessuale, quasi il verso voglia
montare la lingua, eccezionale istante dell‘alzarsi, una eccitazione primaria in virtù della quale
saltare ogni indugio e prevenire la narrazione.
Non sono nemmeno sicuro di voler dire che la lingua, esasperata dalla moltiplicazione da lei stessa
intrapresa, si ravveda immolandosi nel rito della festa, dove esistere nella sua doppiezza, tra scisma
e dogma, tra il crimine della ragione e il crimine dell‘identità.
In ogni caso il verso comincia dai blocchi di partenza, segnale chiarissimo che qualcosa è a termine
e che non si tratta di una prosecuzione.
Un altro esempio evitabile mi viene dall‘incantesimo infantile del treno.
La presa di velocità del treno, nel mio ricordo di terza classe, era marcata dalla tacca dei giunti delle
rotaie, quasi una pronuncia osservante ogni passaggio inciso, la quale, dapprima lenta e sillabante,
si lanciava in un indistinto fragore di ferro fino a diventare un percorso liscio e silenzioso.
Il sopruso della velocità, che tanto mi piaceva, non riusciva mai ad abolire il pensiero di quegli
inizi, tacca dopo tacca, per cui, all‘entrata delle stazioni, finito quel precipizio del continuo, mi
sembrava venisse ripristinato il merito e perfino la giustizia del buon percepire.
Chi vuole può riflettere a lungo se l‘incisione possa essere considerata la genitrice abbandonata
della velocità o un prodotto tardivo della discriminazione.
Questi esempi, che non esito a riconoscere ambigui oltre che démodé e poco ortogonali, risultano
ancora ragionevoli a fronte di quest‘altro che riguarda la causalità e una attitudine alla preghiera.
Un gioco delle infanzie molto riservate consisteva nel fare accadere le cose attraverso l‘apparizione
di un segno con funzioni di annuncio e di indovinello.
Innanzitutto bisognava prendere una cosa in quanto segno, per esempio e per comodità una nuvola.
Se la nuvola getterà l‘ombra su quell‘albero, accadrà qualcosa.
Il vincolo tra almeno due cose, tre includendo il soggetto, costituiva una minima rete di garanzia, un
po‘ statistica, un po‘ oracolo e un po‘ retorica.
Le pretese infantili le ricordo modeste e abbastanza furbe, per esempio apparirà un uccellino, dei
quali c‘era abbondanza nei dintorni.
Penso, in realtà, che la posta in gioco fosse molto più alta, forse sacra e non pronunciabile.
Accadde invece che il gioco finì nei termini qui esposti delle corrispondenze, lasciando tuttavia una
impronta metodologica.
Il simbolo diventò un interrogativo che mai avrebbe potuto essere risolto da una apparizione.
La latenza dell‘apparizione non assolveva la nuvola dai suoi compiti verso di me e forse viceversa.
Quel simbolo non consumato mi tiene ancora oggi a guardare i più diversi fenomeni senza altra
attesa che la mia pura relazione, inerme, devota e senza ulteriori speranze.
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La speranza da qualche parte c‘era, ma non prendeva sede in me, che facilmente l‘avrei trasformata
in impazienza e disappunto, bensì, rifugiandosi dall‘altra parte, nelle cose stesse, faceva in modo
che fossero le cose a sperare in me.
Raggiunta questa parità alternata, tutto rimaneva com‘era e accadeva tutt‘altro.
Quest‘ultimo esempio sembra assai poco congruente con l‘assunto degli altri due, ma è
indispensabile, a mio avviso, per fomentare i segni senza esito, nobile esercizio dell‘annunciare,
esperienza che simula il nostro stesso essere segni, alla mercé di grammatiche che non si fanno
abbindolare o che, abbindolate, scrollano la testa e ridono ridono.
Il verso, in quanto alzarsi senza toccare la meta, fa sicuramente parte degli incantesimi per
coincidere in modo breve e tuttavia non si tratta di un suo innestarsi in coppia, bensì di un modo di
farsi espellere, a bella posta e con vanto, una rappresentazione senza finestre (Leibniz?), tanto che, a
dispetto dei sadici che vorrebbero continuare il gioco, succede che uno, alla lunga, implori il
linguaggio lineare (quello definito cattivo) e la conseguente sottomissione all‘accordo, in riga,
come sa benissimo il corpo vivente, disposto a quasi tutto.
―Le tue parole sono forse prove?‖ dice Giobbe.
Lo sono, anche se prove di tutt‘altro.
Il verso persegue un‘anomalia che lo preserva nel suo stato di scambio fittizio, senza residui e
uguale a zero non per la perfezione dei termini, quanto per il fatto che il termine è uno (il detto) e
l‘altro è il non detto, per cui non c‘è avanzo o rifiuto in questa astinenza delle parti…
Senza accumulazione non c‘è sistema e il verso, mentre realizza l‘utopia del non contraddetto, sa
che intraprende una espansione al contrario, una restrizione in realtà, fino al collasso.
La poesia vive al di sopra delle proprie possibilità?
Sarebbe più semplice dire al di sotto, ma non può permetterselo.
A lungo andare, si potrebbe dire in modo sfacciato, la poesia rischia di passare confini che sono
stati rimossi.
Come nelle comiche cerca una porta sprangata che non c‘è più.
Luciano Berio racconta un episodio al quale fu testimone, da ragazzo, nel corso di uno spettacolo di
Grock, il grande clown che aveva preso casa a Imperia, una villa uguale a lui, tanto rigorosa quanto
beffarda e fiabesca…
Alla fine dello spettacolo, ―Why? perché?‖ pronunciò rivolto al pubblico, dopo essere saltato sulla
spalliera di una sedia suonando una trombetta e disceso con un inchino.
Quel ― Why?‖ era dentro o fuori dal numero?
Se fosse stato fuori, quale aggiunta estemporanea, bisogna riconoscere che il senso maggiore dello
spettacolo veniva da fuori e all‘ultimo minuto.
In ogni caso, anche fosse stato un soprassalto di intelligenza, ironia e pietà di quella sera, ―Why?‖
rientra immediatamente nella rappresentazione.
Il senso di ―Why?‖ esige che il salto sulla spalliera della sedia sia eseguito alla perfezione.
In un veloce passaggio sugli schermi televisivi, nei primi giorni di questo gennaio 2010, con
immagini da Rosarno, luogo della prima sommossa dei neri in terra italiana, si è visto un bellissimo
volto di donna, nera, che diceva a nessuno, ―perché?‖
Era la poesia in persona.
Enunciava una conoscenza senza ulteriori soluzioni, ultima, regolati tutti i conti possibili, spinta
indietro nel suo confine estremo, non parola intermedia di un dialogo, già mangiato in quella
posizione di massimo sapere.
In questi ultimi giorni ho letto una poesia di Adriano Sofri, pubblicata su Repubblica, nobile e
conforme a ciò che la poesia può fare sotto la spinta dell‘emozione e del dovere, sul tema degli
stessi fatti di Rosarno.
Questa poesia di Sofri, onorevole, non contiene il ―Why?‖ finale che prevede il salto sulla spalliera
della sedia, né può considerarsi lo spettacolo che crolla e risorge sotto i colpi inferti dalla coscienza
dell‘istante.
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Nemmeno il ―perché?‖ della donna nera di Rosarno è una poesia, in quanto manca la controparte
della menzogna.
La controparte che istituisce la posizione di poesia, mettendola in mappa, è già alle spalle, un
termine con il quale non parlare, ma decisivo di ogni parlare futuro.
La poesia come lingua colpevole è stata graziata da sempre, ufficialmente, dalle grandi istituzioni.
La sua illegalità, (tanto che mai il verso dovrà farsi prendere sul posto), è già stata punita attraverso
il riconoscimento del suo ruolo, ivi compresa la reclusione volontaria.
L‘allarme di molti, mi sembra, è di non riuscire più a essere colpevoli, una nuova colpa sostitutiva,
ma troppo di seconda mano per dare soddisfazione.
Se penso alla mia gioventù, mi sembra di poter dire che il concetto di merce sembrava ancora
sorprendente, un po‘ menzogna e un po‘ cura, un po‘ galera e un po‘ scampo, alla fine una
sostituzione ancora imperfetta, con larghe aperture di anima, un originario eventuale, per cui
l‘emersione dal sommerso e dal tutto pieno era sorretta da un‘idea di luogo, strana patria da
rintracciare in tutti i dispersi.
Quella iniziazione barbarica sulla piazza del mercato poteva essere un dolore necessario, se non
fosse che il mercato l‘ha preso in parola. Affare fatto.
Il mercato ha fatto sapere che di poesia ne bastano un po‘ di campioni, l‘indispensabile per un
allestimento rappresentativo, un po‘ per ogni tipo, un po‘ di oracoli, un po‘ di regresso
nell‘insoluto, un po‘ di caparre sulla lingua futura.
A questo servono le antologie generaliste.
La religione, avveduta, non è mai cascata nel tranello e, difendendo la propria illegalità logica e
merceologica, se la passa niente male.
Se dico che della poesia rimane valido, anche di questi tempi, il suo compito, vorrei anch‘io pensare
in modo esteso e generoso (tornato di moda, mi sembra, più per sfinimento che per volontà),
promovendo un‘idea di mestiere che si faccia carico di registrare le tacche disgiuntive delle quali la
mente è reticolata, già superate dall‘arte della truffa o della buona salute che induce a incontri
solidi come morse.
La cura si nutre del male e difficile è dire chi guarirà.
Per quanto possa sembrare inattuale, la poesia è fatta per il lettore.
Miserabilmente impedita a parlare per convincere, alla poesia non rimane che trovare un
insediamento nella lingua e là aspettare.
Le sue triangolazioni con lingua e storia non garantiscono che sarà rintracciata e amata, ma se
comincia a sbracciarsi non c‘è più niente da fare.
Una poesia iniziata è una poesia finita, senza prolungamenti fittizi.
Infatti il lettore non è l‘interlocutore, ma il luogo.
Essere luogo significa essere intatti, tassativamente non intercambiabili, tuttavia visibili, esposti.
La poesia è cinica tutte le volte che vuole sembrare fraterna e ―mon semblable‖, nel caso ci tenga a
essere rappresentato, penso vorrebbe estirpare la poesia dal suo luogo e umiliarla insieme a sé,
grandiosa battaglia giullaresca di un linguaggio futuro.
È tuttavia nel presente che la poesia cerca rifugio, se non fosse che il suo arrivo, anticipato da
premonizioni nell‘andatura, infligge una incisione sconcertante, nella quale rimane imprigionato il
suo slancio di libertà.
Quella tacca nella rotaia aveva un senso e il verso dice e ricorda tutto ciò.
Il suo esistere, irrevocabilmente compiuto, non appartiene a una fantastica catena positiva
dell‘essere con la sua staffetta di mani esplicite o soverchianti.
Il verso si rende immune non dal ludibrio, che va messo nel conto, ma dal divieto di parlare fuori
posto, attraverso l‘anello mancante che gli prepara uno spazio discontinuo.
Il verso si alza, affermativo, affinché il taciuto possa espellere il proprio dire, il quale è esattamente
dire del taciuto, una fin troppo palese rappresentazione della morte.
Nel verso la prima cesura è all‘inizio, tra verso e non.
Quella cesura invisibile, spacciata per inizio, è il segno che siamo già alla fine.
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La poesia è passiva e tale debolezza disarmata esige un accumulo sproporzionato di forze per
mantenere la posizione.
Se la poesia intende scaricare le immani sollecitazioni statiche su fondamenta di sicurezza, quali il
discorso o immaginarie confraternite, vuole dire che ha scavalcato il confine che la assicurava nel
suo unico destino di essere corpo.
Dal punto di vista energetico, la passività della poesia è enormemente dispendiosa.
Questo sentimento della poesia sembra immobilizzare ogni positività del dire poetico a favore di
una tautologia del perduto, della quale il verso è traccia e imitazione, con ciò producendo la propria
fine con l‘aria di fare un colpo di mano.
Quando succede che il verso non sta più in piedi, per incredulità propria e smentite continue dei
parlanti, può irridere se stesso prolungando il gioco o prendere atto che è arrivato il tempo non della
fine ma di un ulteriore accanimento.
Tale accanimento può avvenire nel ripristino delle ragioni che non lo assolvono, ma lo esigono.
Il verso è stato tradito dalla letteratura che è il suo mercato, non dalle ragioni sue proprie, le quali,
comunque vada, sono sempre ragioni lampeggianti e brucianti, rimorsi più che progetti.
Si tratta sempre di regolare conti prima ancora di escogitare, per cui, c‘è da supporre, il lavoro non
manca.
La sua sacralità è nel contrastare, dal suo remoto cronicario, la salute che fa più morti della malattia.
Aleggia forse nell‘aria l‘idea che la poesia possa curarsi con la prosa?
È come dire all‘ammalato che la morte lo guarirà, come per altro è vero.
Il verso è sempre ammalato, allo stesso modo che è sempre un‘ infrazione.
Se penso a una speranza di verso, non posso sperare che abbandoni la sua posizione insostenibile.
È là che esercita la sua funzione intollerante di ogni risultato.
Questo sacrificio di rappresentare sparizioni, vincolandosi ad esse, con ciò equivalendo nel destino,
non penso appartenga soltanto alle ossessioni personali, ma a un procedere che deve essere
costantemente riportato sul posto, là dove è avvenuto il misfatto.
Non è una soluzione, è un sacrificio.
Si tratta di un arcaico scambio simbolico?
Si tratta di appartenenza a una cultura manuale e a un tempo psichico nel quale il passato non cede
che passo passo al futuro?
Siamo ancora a pronunciare i ―Nove miliardi di nomi di Dio‖ (racconto di Arthur Clarke)?
Erano secoli che i monaci tibetani eseguivano il compito, alla fine del quale sarebbe finito anche il
mondo. Stanchi del lavoro senza fine, invitarono i tecnici dell‘IBM con un potente calcolatore, il
quale si mise a decifrarli in tempo breve. I tecnici, temendo che i monaci se la prendessero a male
per la profezia fasulla, lasciarono il monastero mentre il calcolatore finiva il suo compito. Nella
discesa videro che una stella si spegneva, poi l‘altra, poi l‘altra.
Si tratta dunque di regredire?
Si tratta di stare faccia a faccia con gli inconvenienti invece che essere definiti e portati avanti dalla
meta irresistibile?
Si tratta di salvare la pelle?
Se penso a un verso che non proponga seduzioni servili, penso alla pantonalità di Schoenberg,
incluso il destino della musica seriale di non avere avuto futuro se non di vecchiaia, come ha fatto
in tempo a constatare T.W. Adorno.
Sperare nella dissonanza è come sperare nel dolore, ma si tratta di un dolore di cui il mondo
risuona, originario, nitido, senza ritorsioni.
Si incontrano, su questa strada, i concetti di verso continuo e bipolare.
Qualcosa di simbolico e qualcosa di artigianale si attiva sotto questi termini.
Il verso continuo è un verso di perdono per la cesura iniziale in virtù della quale le parole non si
donano, ma si espongono.
L‘inizio che chiamava verso di sé, per cui il verso era tutto su quel confine, viene preso alle spalle, a
partire da un punto ingenuo.
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Dentro la temporalità che ha fatto breccia, si annida il sotterfugio della vita?
Si tratta dunque di un trucco?
Viene minimizzata la natura del verso, abissale anagramma, introducendo elementi clandestini e tali
da comportare un definitivo sbilanciamento verso l‘eccentrico?
Attenti alle fughe in avanti! si diceva una volta.
Pensare che io sto dalle parti di Fausto Coppi.
La privazione su cui si staglia il verso, atto che indirizza l‘evidenza nel sempre differito, viene
dunque dispensata dalla stretta osservanza e mille mani getteranno il loro perduto come disperati
fiori e ogni temibile eccetera?
Non sarà esattamente così, in quanto la poesia mangia il proprio futuro e la sua espiazione non ha
nulla di penitenziale né promessa di ravvedimento.
Non si tratta di liberazione dell‘antecedente (presente compreso), ma di una rinuncia al suo dominio
fino al punto di mettersi nelle sue mani.
Il principio escluso, diventato beffardamente ragione, ha ciò che gli spetta: essere frutto del dopo.
Il verso che è preso in tutto ciò, sarà un verso che ama la dissonanza come affermazione senza
seguito.
L‘intimità della poesia è promossa dalla sua articolazione architettonica , ripari senza preavviso che
sono le condizioni formali dell‘accoglienza in un universo sia totalitario che indifferente.
La pluralità medesima, mito di noi stessi, come il transito delle voci, sciame che mitiga e subito
acuisce ogni destino, si comporta come i voli di storni che si dirigono, all‘unisono, verso direzioni
superidentiche, immediatamente variabili e quelle.
Così può comportarsi il verso continuo, un assoluto per mancanza di prove.
Mi è capitato di pensare in questi giorni (sarà un preavviso?) a persone amate nella mia infanzia,
uno soprattutto, che mi costruì un burattino che salta sullo spago, oggetto delizioso e difficile da
spiegare.
Di queste persone non c‘è continuità genetica (e anche se ci fosse?), né altra memoria se non la mia,
insufficiente e a termine.
Il codice che li aveva registrati (l‘uomo del burattino è stato in un campo di concentramento), è
ancora lì, ancora più perfezionato nei suoi aspetti totalitari, a dimostrare che la contabilità dello
scambio ha eliminato la grande smemoratezza su cui si fonda la memoria, il gioco cruento con la
sparizione e con il dono.
La loro perfetta mancanza di tracce è un verso che fa il suo dovere.
Animali cancellano con la coda le loro impronte. Sono poeti?
L‘imprendibile ha strane geometrie, tra le quali, tutte esatte, c‘è quella che verrà, immediata e
futura, inviolabile.
La passività del testo, manomessa da chiunque, rimane tuttavia inviolata.
Contrariamente a ogni discorso volitivo, la poesia continuerà a esporre la sua salda dicitura dove
abita l‘ingenuità.
Non si può dire con maggiore chiarezza di Hölderlin il dovere di difesa dell‘ingenuo come dimora
iniziale e finale della verità:
―Trascrivila tre volte,
ma bisogna che resti, come è ora
inespressa…‖ (Germanien – trad. Enzo Mandruzzato)
Ancora una volta l‘inespresso, meravigliosamente attribuito alla poesia, non chiama la melodia ma
la dissonanza.
Non mi riferisco all‘Hölderlin di allora, ma a ciò che di lui ci ha raggiunto, adesso.
La filologia (e la traduzione) hanno il loro da fare per stare alla lettera (o altrimenti dove?).
Il difetto di compiuto nel massimo di compiutezza e irreversibilità è un ulteriore indizio che il verso
sente da lontano e del quale deve tenere conto, tra molte colpe, affanni e infamie della mente.
Da queste parole si immagina ben poco di ciò che sogno per i versi futuri.
Se sarò sognato e là mi troverò, è un'altra questione ancora.
188
Almeno è chiaro che non parlo di un programma, ma di una immaginazione.
Non si fanno programmi per l‘improvviso.
Ritengo non abbia senso pensare alla prosa come evoluzione della poesia, né facendo valere le
dominanti poetiche (intendo ritmiche e anagrammatiche, più conniventi con se stesse che con il
lettore dei fatti), né facendo valere uscite di disimpegno che, tuttavia, tempi e mercato inducono a
considerare come principio di realtà.
Può la poesia volere la propria catastrofe?
Non mi riferisco alla catastrofe primaria, quella connessa alla propria illegalità, ma alla catastrofe
successiva, determinata dal riconoscimento di una funzione, alla quale funzione viene chiesto
seguito.
C‘è da immaginare e sperare che tutto avverrà altrove, non per via diretta e rovesciata, la poesia
contro qualcosa.
Non si potrà nemmeno dire, tuttavia, la poesia al posto di qualcosa.
Rovesciare il rovesciato non è detto che metta le cose dritte e c‘è il sospetto che, nel gran finale, il
corpo, là dove si trova, sia ancora il testimone non tanto in grado di discutere con il codice, ma di
fondare la propria assenza.
Quel ―perché?‖ della donna nera di Rosarno e il ―why?‖ di Grock non danno pace né possono
essere sciolti rispondendo.
Sembra non venga da Karl Marx, ma si trova nei Grundrisse (I,291): ―Il lavoro è produttivo solo in
quanto produce il suo contrario‖, intendendo per ―contrario‖ il capitale.
Difficile cavarsela.
A questo punto viene in soccorso il coltello di Chuang-tzu (cito da Baudrillard), che non taglia il
pieno ma attraversa i vuoti, esso medesimo senza spessore.
È un cuoco che parla e descrive la propria arte nel tagliare la carne : ―Quando iniziai…vedevo
soltanto il bue. Ora mi affido allo spirito… nelle giunture vi sono dei vuoti…nei vuoti c‘è spazio
più che sufficiente per il coltello.‖
In questo modo Chuang-tzu non deve cambiare coltello ogni mese, come fa il cuoco mediocre, in
quanto il suo coltello non tocca ostacoli, né li distrugge, distruggendo la forma stessa delle cose.
A continuare il paragone non saprei se la lingua è il coltello perché non so cosa rappresenti il bue,
se il mondo o la lingua stessa.
Di sicuro rimane questa miracolosa inviolabilità di ogni cosa.
È lo stesso che dire ingenuità o lo stesso che dire smemoratezza in difesa della memoria, invece che
repertorio e catalogo.
Di fatto il catalogo bussa a ogni porta, non per visita d‘amore ma per compilare il suo foglio di
magazzino.
Il tutto pieno che è riuscito a produrre è lo stesso che il tutto vuoto.
In questa completa reversibilità, la quale non toglie in alcun caso le posizioni assegnate, veramente
si sente il gemito dei sottostanti, qualcosa che non avrà più bisogno di essere parte, in quanto ha già
deciso per un altro luogo.
Non mi rimane che il mio agire dissonante.
La musica era stanca dei suoi tromboni che scuotono il cuore e ingannano il tempo?
T.W. Adorno dice che la disperazione esigeva non di essere detta ma di dire attraverso il proprio
suono.
Si usava, tra galantuomini, essere uomini di parola.
È questo che le parole hanno reso così difficile.
189
OH VOI DORMIENTI ANGELI
1.
nel tratto che intercorre non è il fine che fa ordine né vegliare né dormire è possibile o muoversi fatato in
essere o piegato in due è un interno inutile è quello sciame di suono e polveri manca una parete in quella casa
sul pavimento c‘è una scarpetta rovesciata né uno né tanto solo e complesso è il vento tra conifere ma bello
di nuovo è il fuori di ogni cosa oh generalmente oh subito io o unito o lontano come è lontana la luna e
l‘argento così fossi punito necessario è oscurare da vicino singolo è il tempo del particolare una morbida
belva l‘accaduto o quelle flottiglie di pesci che ti toccano il fard dei tuoi occhi tra corni di luna eu quereria o
la corona dei fatti o quella buca diamantata para ser o para recusar nel denso chiamare me veridico se rendi
vera la domanda ma testa dell‘angelo dormiente in quel limbo così che messi fuori o come scapoli o nel
neutro accadere un‘altra cosa è la pace sociale o l‘essere per cui fu tolto quell‘ingombro di occupanti i poveri
fanno le pulizie di pasqua teneri discorsi come punte di dita oh lacerata retina come lacerarsi è guardare io ti
chiamo ma dappertutto è chiamare o chi tornò dalle madri non sue le uniche possibili perdonate voi
arcobaleni alte palme nella luce incrollabile nel ricovero dell‘intimo piccole ciotole e preghiere.
2.
né chiede seguito né l‘appoggio dei poveri né più crudele è il deperire mirabile che collega il paesaggio
nell‘imbrunire si spegne tutto il singolo in quella massa anche i cereali che splendono sensibili al riverbero
sto sulla soglia e il chi va là se l‘essere trama ancora meglio dove lancia un fischio il distinto è fuori mente o
introdotto in fatti solidali o in coppia o diversa è l‘accensione del folle topazio un posto vuoto è il raggiunto
ma mandami piacere in punta di dita iris è il fiore più profondo colpevole è la sosta di domanda o il viola e
quella tenebra che luccica o le madri di allora c‘è buio nella borsa della spesa la parziale oscurità dei sedani i
mucchietti di seta e foulards en aceite de olivas sardine portoghesi o me mucho o se fuere l‘eterno anche
discusso a ritroso meu amigo de alma.
3.
l‘aperto così come discusso che se va bene rimanda periodico in notte o le scure violette che allevò io non è
chiaro nel passaggio né il chiarore che introdusse la pioggia e quelle gocce del simile né il chiamare rende
fermi al contrario consola il prelievo di me che tu fai cosa o luna che ti devolvo tra sì e no quelle girandole
mangiatrici l‘io centrale che cedo in riscontro che come appare sono anch‘io appena per non essere o diventa
solido il simile un‘ombra armata o fare bau orco necessario che ci sei che ti invito con la testa che venne
dalla notte degli ulivi o dall‘uno o controparte che si aprì la scura nuvola anche le guance ne risentono con
veloci lustrini.
4.
nei reparti silenziosi dell‘essere in quiete e in vasetti come in vasetti è il sole sotto vetro cade il tempo in
pulviscolo al di qua delle tendine io dico di questi chicchi in fila uno è il semprevivo dei tetti l‘altro è il
giorno che disse questo giorno che fu finché cade all‘interno è incremento di te che sbucci come fave o
piselli il contenuto di interni come il rosso di sera in occidente e il suo lampo sul vetro ben lontano è il polo il
bipolare di base oh ciò che tiene distanti i soggetti chi bussa è l‘inizio o la fine diversamente complesso è il
mare quei navigli di vele non frutto di sguardo è il diviso cade da una parte l‘anima viola imprendibile ombra
ai tuoi piccoli piedi per questo la pupilla si sbianca vecchie maestre pregano i caduti.
(da ―Bambina teoria‖, Corpo 10, 1990)
Nota.
(1) (N.d.R.) Angelo Lumelli ha preferito, in risposta al questionario da noi inoltrato, rispondere con questo
testo saggistico, fatto seguire da un proprio lavoro in prosa.
190
GUIDO MAZZONI
1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla
questione dei generi)?
Comincerei ricordando una cosa ovvia che però, come succede spesso alle cose ovvie, rischia di
sfuggire alla riflessione. Per le abitudini della nostra cultura, la prosa costituisce il medium ordinario
del discorso, mentre la poesia è uno scarto rispetto alla norma. La prima è oratio prosa, «discorso
che procede in linea retta», la seconda è legata al rituale del versus – «linea», «riga», ma anche «ciò
che è girato indietro». La prosa è percepita come un discorso di grado zero, la poesia come un
discorso coperto da un ornamento. Quest‘ultima si trova dalla parte dell‘artificio da oltre due
millenni, cioè da quando la cultura greca antica, seguendo l‘esempio di Anassimandro, comincia ad
affidare i propri discorsi veridici a frasi che non vanno a capo seguendo un rituale. Da quel
momento, la versificazione diventa un tropo, cioè una svolta rispetto al corso ordinario del
linguaggio. La storia della poesia è anche la storia dei tentativi di legittimare il verso, cercando di
mostrare come questo rito permetta di accedere a una dimensione originaria del linguaggio, a uno
strato di senso che sfugge al discorso piano.
A partire dalla seconda metà del Settecento, la scrittura in versi subisce l‘egemonia del genere che
oggi chiamiamo lirica, la forma di poesia nella quale una prima persona espone contenuti personali
in uno stile che vuole essere personale. A ben vedere, l‘idea che si possa fare della poesia usando la
prosa nasce dalla stessa svolta da cui ha origine la poesia moderna. Da quando lo spazio letterario
della poesia cominciò a identificarsi con la sfera della soggettività, il tratto distintivo del genere non
fu più la scansione metrica, come era accaduto per millenni, ma l‘espressione autentica di sé, il
pathos lirico in quanto forma dell‘individualità. Nella logica di questa metamorfosi è implicita
l‘idea che nulla obblighi la soggettività libera ad andare a capo. Si può dunque scrivere, senza
rispettare il rituale del verso, un testo che appartiene, per slancio lirico, al territorio della poesia.
La riflessione sulle origini serve a creare una morfologia elementare della poesia in prosa.
Distinguerei due grandi famiglie: quella che, per compensare la perdita di marche letterarie legata
alla perdita del verso, rafforza i tratti stilistici della lirica moderna (il patetismo sentimentale,
l‘oscurità, il metaforismo, i giochi col linguaggio); e quella che usa la prosa per recuperare temi e
forme esclusi dal territorio della lirica. La più diffusa è la prima. Appartengono a questa tendenza i
testi che cercano di rendersi interessanti attraverso uno straniamento linguistico e metaforico, come
accade nel poème en prose di origine simbolista o surrealista, o in molti degli esperimenti usciti
dalla seconda stagione delle avanguardie novecentesche. L‘altra famiglia ha una tradizione mossa e
una genealogia più sfrangiata. Personalmente non ho mai avuto interesse per la poesia in prosa del
primo tipo, che ai miei occhi replica, in minore, i rischi di chiusura gergale caratteristici della poesia
moderna. La seconda invece mi attrae molto, perché rompe il rituale artificioso del verso, perché
allarga il territorio del dicibile e perché consente di narrare e di riflettere, cioè di recuperare due
giochi linguistici che la lirica moderna espelle o emargina dal proprio territorio.
Nel corso del XX secolo, la poesia moderna ha cercato di praticare la narrazione e la riflessione per
lo più attraverso la forma-poemetto. In Italia, il poemetto conosce la sua età di maggior fulgore fra
gli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Settanta, un‘epoca nella quale il rapporto degli
scrittori con la politica è intenso, la cultura italiana scopre le scienze umane e la letteratura italiana
scopre le grandi costruzioni antiliriche della poesia modernista in lingua inglese. Molti scrittori
sentono il bisogno di oltrepassare il territorio egocentrico della poesia soggettiva e di mostrare le
circostanze politiche, sociali, antropologiche che si nascondono nell‘apparente immediatezza delle
esperienze personali. I poeti di «Officina» e i poeti della neoavanguardia trasformano il poemetto in
191
una scelta apertamente antilirica, almeno nelle intenzioni; altri lo usano in modo riformistico, per
allargare lo spazio della prima persona e includervi nuove dimensioni narrative, saggistiche o
teatrali. È così che agiscono Bertolucci, Caproni, Sereni, Luzi, Fortini – ma anche Zanzotto, almeno
nella fase delle Ecloghe.
Io credo che si possa leggere la poesia in prosa degli anni Zero come il corrispettivo di ciò che,
negli Cinquanta, Sessanta e Settanta del XX secolo, veniva espresso nella forma del poemetto.
Perché oggi si ricorre alla prosa? Secondo me, ciò accade perché sta diventando sempre più difficile
giustificare la scrittura in versi. Quanto più la poesia diventa un genere marginale e privo di
mandato, quanto più la versificazione appare un rito lontano e libresco, tanto più diventa complicato
legittimare il gesto di andare a capo prima della fine tipografica del rigo. Oltre che ad allargare il
campo, la prosa serve anche a uscire dall‘artificio. In questo senso, esiste forse un legame fra il
recupero della prosa e quella tendenza a versificare come se la metrica tradizionale non fosse mai
esistita, una tendenza che attraversa in modo sotterraneo la poesia italiana degli ultimi anni. La
ritrovo in libri come Ritorno a Planaval (2001) di Stefano Dal Bianco, Il catalogo della gioia
(2003) e Dal balcone del corpo (2007) di Antonella Anedda, Umana gloria (2004) e Pitture nere su
carta (2008) di Mario Benedetti. In modi diversi fra loro, questi autori ricercano una scrittura
ultralirica e postletteraria, fondata su un‘esigenza di autenticità che sta prima (o dopo) la
mediazione della forma – come già accadeva e come continua ad accadere, peraltro, nella poesia di
Viviani o di Fiori e, prima ancora, nella poesia di Milo De Angelis. Uno dei luoghi in cui questo
atteggiamento si rende visibile è la forma interna dei versi, che sembrano ignorare la tradizione
metrica italiana, o per sprezzatura (come nel caso di Dal Bianco, studioso di metrica), o per
estraneità (come nel caso di Benedetti). Si tratta di un movimento uguale e contrario a quello che ha
portato, fra la fine egli anni Settanta e gli anni Ottanta, al recupero manieristico dei metri
tradizionali. Il significato culturale mi pare lo stesso. Sono due modi di reagire a un anacronismo
oggettivo.
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
Qualche poeta continua a servirsi della prosa per creare un abbassamento prosastico; ma forse la
categoria dell‘abbassamento non aiuta più a capire il rapporto che intercorre fra poesia e prosa nella
letteratura contemporanea. E forse neppure la metafora hegeliana della prosa del mondo. Mi sembra
che oggi il rapporto fra poesia e prosa segua l‘antitesi fra artificiale e naturale, fra compresso e
disteso, fra centripeto e centrifugo. L‘antitesi fra alto e basso è tutto sommato secondaria.
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
Uso la prosa per aprire uno spazio riflessivo, saggistico. Non c‘è una vera rottura tonale con le
poesie, perché forme di riflessione sono presenti anche nei testi in versi; e tuttavia la prosa
introduce un cambio di passo, un moto centrifugo, un allargamento.
Questa variazione è stata decisiva per l‘architettura dei Mondi. Risponde innanzitutto a un bisogno
ideologico. La forma di vita contemporanea riconosce, come unica zona di sacralità, la mera
esistenza privata. Si vive per se stessi, o per gli esseri che formano la cerchia prossima degli altri
significativi. La cultura cui apparteniamo ha imparato a fare a meno delle trascendenze; i nomi
stessi delle trascendenze passate (Dio, il Dovere, la Politica, la Rivoluzione) sono diventati
impronunciabili, vagamente o apertamente ridicoli. Questo movimento è inscritto nella logica della
192
vita borghese moderna, ma la stagione che si aperta negli anni Ottanta del XX secolo lo ha
accentuato, mostrando, con chiarezza brutale, la dialettica di una società fondata sull‘economia di
mercato, sull‘ethos dell‘individualismo, sulla presunta impersonalità delle grandi decisioni
collettive. L‘umanità occidentale vive in piccole sfere private e (per ora) abbastanza protette;
all‘interno di questi territori ognuno ricerca una felicità privata o, più modestamente, un equilibrio
fra desideri e realtà. Alla relativa sicurezza e alla relativa autonomia di cui gli individui godono in
questa sfera corrisponde la rinuncia a qualsiasi potere sulle scelte di fondo che determinano
l‘orografia generale dei nostri territori esistenziali, e dunque i nostri destini. Incontriamo
quest‘esperienza di spossessamento ogni giorno: per esempio quando constatiamo la crisi di ogni
agire politico degno di questo nome, o l‘immutabilità delle grandi scelte economiche e sociali della
nazione cui apparteniamo, qualunque sia il governo in carica; quando pensiamo ai rapporti di classe
che assegnano a ciascuno un certo posto nel mondo, allo Zeitgeist che ci fa pensare e parlare in un
certo modo, alla nostra impotenza di fronte a tutto questo. E prima ancora, su un piano ulteriore,
quando i presupposti ontologici della nostra esistenza, che normalmente non percepiamo se non
astrattamente, si rivelano in un piccolo evento quotidiano, in un‘epifania casuale.
Le scritture autobiografiche – dalla poesia lirica al narcisismo di massa dei social network –
intercettano uno strato profondo del presente. Esprimono infatti la chiusura monadica e
microcomunitaria delle vite contemporanee, l‘ultraindividualismo della nostra epoca. La società
dello spettacolo si incarica ogni giorno di mostrare, nello stesso momento, la crisi della poesia lirica
tradizionale e la vitalità della lirica come forma. È quello che accade con la fortuna planetaria delle
canzoni pop: una prima persona racconta le proprie esperienze personali davanti a milioni di altri
esseri isolati che attribuiscono un‘importanza assoluta a storie puramente soggettive. Ma se i destini
privati sono, per noi, l‘orizzonte che non possiamo oltrepassare, ogni traiettoria individuale è in sé
del tutto condizionata e sostituibile. Basta allontanarsi per un attimo dal cerchio della propria vita
per capire che siamo come tutti gli altri, che siamo parlati da potenze sovrapersonali, che la nostra
differenza soggettiva è un fenomeno, una facciata. Non possiamo non dire io; e al tempo stesso l'io
è, alla lettera, una singolarità qualunque, un personaggio-che-dice-io. Volevo provare a tenere
insieme questa dialettica senza uscita: ammettere che, in ultima analisi, siamo solo delle monadi, e
al tempo stesso cercare di trascendere la miopia della prima persona attraverso la riflessione, per
recuperare ciò che normalmente non vediamo. A volte, il fascino della poesia moderna nasce da
un‘eclissi momentanea della coscienza desta, da una regressione. A costo di fallire come opera
d‘arte, I mondi cercano di trattare il lettore come qualcuno che non rinuncia a pensare. Una parte
decisiva di questo esperimento passa per la prosa.
4) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
I modelli cui guardo non sono italiani e non rientrano nella genealogia canonica del poème en
prose. In particolare, mi sento del tutto estraneo alla tradizione che più ha lavorato sulla poesia in
prosa, quella francese.
La famiglia letteraria che ho in mente non forma un genere riconosciuto. Potremmo dire che si tratta
di una famiglia di fatto. Vi includerei certe pagine dei Diari di Constant, alcuni aforismi di
Nietzsche, certe pagine di Kafka (da Betrachtung, dai Diari e dai Quaderni in ottavo), le parti
riflessive della Recherche, certe pagine della Nausea di Sartre, certe prose di Benjamin e di Bloch,
di Adorno. Ciò che accomuna queste scritture è il fatto di calare un processo di pensiero nelle
circostanze biografiche dalle quali il pensiero nasce, e alle quali ritorna. Sono opere che intrecciano
Erlebnis e riflessione; trasmettono un‘esperienza intellettuale, e non un semplice contenuto
filosofico. Nella costruzione della nostra identità, le esperienze intellettuali contano quanto le
esperienze che chiamiamo vissute: il processo che ci porta a capire qualcosa di importante su di noi,
sugli altri, sul mondo non è meno importante dell‘attimo nel quale il nostro destino subisce una
svolta, o del processo attraverso il quale si capisce di amare o di odiare una persona. Ma mentre la
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mimesi delle passioni e il racconto dei fatti appartengono a generi precisi, le esperienze intellettuali
non hanno una patria letteraria definita. O meglio: la loro patria è la famiglia di fatto di cui
parlavamo prima. Nella mia percezione, che è parziale e limitata, si tratta di una famiglia soprattutto
straniera. Gli unici esempi italiani che conosco appartengono a Calvino (certe pagine della Giornata
di uno scrutatore, per esempio), ma soprattutto a Fortini.
Fra la fine del XX e i primi anni del XXI secolo, la poesia in prosa è diventata una tendenza diffusa
nella letteratura italiana contemporanea, grazie soprattutto ai prosimetri di Anedda, Magrelli e Dal
Bianco (Residenze invernali, Esercizi di tiptologia, Ritorno a Planaval, Il catalogo della gioia). Ho
letto da poco Prosa in prosa e trovo delle somiglianze fra alcuni dei testi raccolti in quest‘opera e le
prose dei Mondi. Mi sembra che la poesia in prosa sia ormai un fenomeno significativo della
letteratura contemporanea. Per certi aspetti, questo rimescolamento dei generi codificati ricorda
quanto è accaduto quasi un secolo fa, negli anni Dieci del Novecento.
5) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
Ne propongo due, di lunghezze diverse:
SUPERFICIE
Ora che la conversazione ti lascia da parte in una specie di cono e le cose che pochi minuti fa provocavano
un‘increspatura nei rapporti fra te e le persone sedute al tuo tavolo sembrano prive di peso, percepisci ancora
il campo di tensioni che un discorso sulle automobili, sulle forme di un vestito, su un modo di vivere, su una
notizia che fra dieci giorni dimenticherai può aprire all‘improvviso, ma fatichi a recuperare il valore di ciò
che per un attimo è stato così importante da rappresentare la tua identità e da meritare una difesa. La risacca
che ti trascina via lacera la patina delle tue azioni e ti fa capire quanto sia piccola la distanza che ti separa
dagli altri, quanto siano fragili i contenuti con cui riempiamo il gioco di equilibri e di squilibri che lega
insieme le persone, generando la superficie dove ci muoviamo. Tu però vivi sulla superficie, tu sei la
superficie che ti ha fatto parlare con una foga assurda di un‘elezione amministrativa o di un individuo che
non conosci; ed è per questo che, quando uscirai poco prima dell‘alba e la rete dei fanali, gli alberi allineati
fra le case del sobborgo, le sagome dei pendolari che vanno a lavorare ti sorprenderanno, verrai colto da una
forma di vergogna che supererai facilmente, perché questa è ormai la tua vita, l‘unica cosa che conta per te,
l‘orizzonte che non puoi oltrepassare.
PARCHEGGIO
Benché la vita di queste persone che escono dalle auto parcheggiate fra le strisce degli spazi condominiali gli
sembri incomprensibile ora che sta uscendo dall‘infanzia, sa bene che il luogo e il tempo in cui è nato lo
destinano a diventare come loro, una versione migliorata di loro. Per non posteggiare la propria auto davanti
a un palazzo come questo, per non perseguire avanzamenti di carriera fra i quadri intermedi di una gerarchia
aziendale, dovrà attraversare dei conflitti invisibili e feroci con gli esseri che oggi formano il suo mondo, con
le persone che ama. Appoggiando la fronte al legno degli infissi, studiando la cura insensata con cui i vicini
incerano le macchine prima di coprirle con i teli, crede di sentire il peso di quello che sta per accadere. Ha
tredici anni; sa che la vita è solo sua; vede solo se stesso.
Non vede invece che è stato il lavoro di queste persone, la fatica che hanno fatto per uscire dai poderi
mezzadrili e raggiungere una periferia residenziale, a consegnargli il potere di essere diverso, di coltivare
altre mete e altre paure. Nella crudeltà della prima adolescenza può capire solo poche cose degli individui
dispersi lungo il piazzale. Vivono per sé; accettano la sfera di relativa sicurezza che questa periferia sembra
custodire; non credono in nulla che oltrepassi i destini familiari. Fra pochi mesi forze ignobili gli faranno
desiderare di trascendere ciò che vede, di vivere vite più prestigiose o più morali. Cercherà di procurarsi
un‘altra biografia, proverà passioni per conflitti lontani, soffrirà per ingiustizie che non gli appartengono,
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finché un giorno, con vergogna e ostinazione, darà a questo desiderio la forma più banale, mettendo su carta
il proprio io ingigantito per sperare di sopravvivere più a lungo.
Vent‘anni dopo, mentre le stesse strisce ridisegnate brillano sotto gli alberi di Natale e i suoi coetanei
ritornano nelle case dove sono cresciuti portando passeggini, crede di capire meglio. Oggi pensa che nulla
possa trascendere la nostra sorte singolare, la vita infissa nei lineamenti che la luce bianca sembra cancellare
quando tocchiamo i pupazzi appesi sopra i cruscotti o attraversiamo l‘aria fra le macchine vuote, seguendo la
traiettoria che forze invisibili hanno preparato per noi, l‘ellittica di una deriva personale. Oggi crede che non
esistano valori ma solo vite, modi di interpretare un destino che rimane solo privato, per tutti. Loro lo sanno
da tempo: tutta la loro identità è modellata su questa certezza. Sanno che quanto accade in questo recinto è
tutto quello che realisticamente esiste qui e ora, ai margini di una città europea di medie dimensioni; e dentro
questo spazio ricavano le loro minime sacche di valore, rimuovendo ciò che li trascende e che un giorno si
mostrerà all‘improvviso in un prepensionamento, in un divorzio, in un‘analisi medica, in un incidente
stradale.
Miliardi di uomini che hanno vissuto o vivono in altri tempi o in altri luoghi hanno desiderato e desiderano la
vita che la classe media occidentale ha conosciuto nella seconda metà del ventesimo secolo, dopo millenni di
violenza e povertà. E se è vero che la sicurezza di queste case nasce sul risvolto di rapporti di forza che
infliggono violenza e povertà a miliardi di esseri lontani per i quali sarebbe difficile, sarebbe irrealistico
provare qualcosa, è altrettanto vero che pochissimi degli individui che occupano questo luogo e questa epoca
ne sono consapevoli o hanno colpe. Oggi capisce la dignità, la complessità delle persone che esistono per sé,
senza bisogno di trascendenze, risarcimenti, giustificazioni. Il parcheggio si è coperto di automobili; nelle
borse giacciono i regali di Natale. È come loro, e non ha nulla da opporre se non il proprio sguardo, la rabbia
senza oggetto con cui osserva i volti dei nuovi individui, le sagome delle nuove costruzioni sotto il solito
cielo.
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LAURA PUGNO
1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla
questione dei generi)?
La mia idea di prosa è quanto più lontana dal poema in prosa possa esservi, è prosa-prosa e in
qualche modo si definisce a contrario: la prosa serve a fare tutto, tranne quello che si può fare in
poesia, vale a dire, parlare di ciò per cui non abbiamo, o non abbiamo ancora, una lingua. Se questa
lingua esiste, è già il regno della prosa.
In merito alla questione dei generi, credo che l‘essenziale sia fare una distinzione, capire se
parliamo del genere come strumento descrittivo, di cui non si può fare a meno, o come formula
commerciale, diciamo così, ―normativa‖: il problema di molta discussione critica sul tema è che non
si fa chiarezza linguistica e si confondono i due piani.
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
In questo momento, in realtà, poesia e prosa in Italia mi sembrano estremamente distanti, non tanto
nel senso di possibili avvicinamenti stilistici, ma di non frequentazione tra i due mondi. Chi scrive
poesia e chi scrive prosa in Italia sembra abitare due piani della realtà diversi: in uno esiste il
mercato e nell‘altro no.
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
Nella mia storia di scrittura, la prosa arriva tardi, poco prima dei trent‘anni, e in modo imprevisto,
passando attraverso l‘interesse per la scrittura per il cinema. Col tempo ho imparato ad apprezzarne
l‘infinita libertà. Esiste in me una sorta di osmosi interna per cui immagini che appaiono prima in
poesia poi si riversano, in forma diversa e con diversa funzione, in prosa. Più raramente succede
anche il contrario. Detto questo, sia la prosa che la poesia richiedono una disciplina: se la poesia è
scatto la prosa è resistenza, e va sostenuta nel tempo, con una grande fatica.
In quanto alle prerogative e agli strumenti, per diversi anni ho scritto racconti di insight, che Andrea
Cortellessa ha felicemente definito installazioni. Poi nella mia opera è entrato il tempo, forse perché
nella vita di noi tutti c‘è un momento in cui del tempo si impone la percezione irreversibile, e sono
passata al romanzo, che è la forma a cui adesso mi sto dedicando. Di questa forma mi interessano le
sue possibilità narrative specifiche, anche se la produzione di prosa italiana contemporanea, con
scarse eccezioni, anche quando viene definita romanzo ha sostanzialmente caratteri non narrativi.
Dico questo senza polemica, perché credo nella libertà di scrittura di ciascuno.
4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,
poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche
non italiani)?
196
Sì, ma non farei una lista. In quanto al poema in prosa, confesso una certa freddezza, anche di
lettura, verso il genere, indipendentemente dalla bravura dell‘autore, anche se scrive in francese.
5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
Non ho tradotto in modo significativo autori di prosa poetica, mentre ho un passato di traduttrice di
lavori sia in prosa che in versi, ma in modo particolare in prosa, con una decina di romanzi e saggi
per varie case editrici (Theoria, Fazi, Minimum Fax). Ho iniziato a tradurre molto giovane, prima di
iniziare a scrivere prosa – ma non prima di iniziare a scrivere poesia, dato che per me dura da
sempre – e sicuramente la traduzione mi ha traghettato, in qualche modo, verso lo scrivere prosa.
Anche se l‘ossessione di fondo di chi scrive poesia, vale a dire il controllo completo del testo e del
bianco, non mi ha mai abbandonato.
6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
Scelgo tre testi, intorno all‘immagine della sirena. Una poesia de ―Il colore oro‖ (Le Lettere 2005),
scritta nel 2007, in cui le sirene fanno una prima apparizione; qualche riga dall‘incipit del di poco
successivo romanzo ―Sirene‖ (Einaudi 2007).
metti la ciotola davanti alla porta,
ritirati dove non sei visto
le sirene verranno a mangiare strisciando,
facendo forza sulle mani
la sera latte bianco e piccante
o ti morderanno alla gola
[―Il colore oro‖, Le Lettere, 2007]
**
DA SIRENE
Samuel salì sulla piattaforma che sovrastava le vasche e aprì uno degli armadietti. Si tolse la tuta col logo
western standard della yakuza – una y stilizzata in un cerchio enso, che sembrava tracciata col sangue – e
indossò la muta di neoprene.
Il bordo vasca era deserto, non c‘era nessun altro nell‘allevamento. Con l‘epidemia di cancro nero, c‘erano
stati tagli al personale. Erano rimasti solo due sorveglianti, Samuel e Ken‘nosuke, che lavoravano su turni, i
tecnici veterinari e gli addetti alla macellazione della carne.
Quello era uno degli impianti più piccoli, uno dei primi. C‘erano stabilimenti più grandi e moderni in altri
punti della riserva marina yakuza.
La monta delle sirene stava per iniziare. Subito dopo, dal pannello di controllo del sistema di svuotamento
delle vasche, Samuel avrebbe attivato il ricambio dell‘acqua. Era una delle cose che gli piaceva fare.
L‘acqua dell‘oceano entrava con un risucchio e un gorgoglio. La griglia di filtraggio ne regolava la potenza,
permettendo un‘osmosi dolce e controllata tra mare esterno e mare interno, ma se Samuel avesse commesso
un errore, se non avesse fatto incastrare perfettamente la griglia nel quadro a cerniera, la furia dell‘acqua
avrebbe spazzato via tutto.
Allo stesso modo l‘oceano spazzava le piattaforme esterne degli allevamenti nella riserva yakuza al largo
della costa della Nuova Baja California, nelle acque di Underwater, dove nessuno, e soprattutto non il
governo dei Territori, avrebbe potuto scoprirli, e certamente non avrebbe avuto voglia di mettersi lì a
197
controllare cosa facevano gli yakuza nelle loro riserve. Non con l‘epidemia di cancro alla pelle – cancro
nero, sole nero – che divorava la popolazione.
Se Samuel avesse voluto distruggere tutto, poteva farlo.
Questo pensiero gli era di grande conforto.
Sadako era morta l‘anno prima, a diciassette anni. In piena estate, quando il cancro nero è più feroce. Lo
chiamavano cancro ma era qualcosa di più di una proliferazione impazzita di cellule. Era, almeno così diceva
il Mermaid Liberation Front, il giudizio di dio per quello che la specie umana aveva fatto alle sirene.
Samuel aveva dei dreadlocks biondi lunghi fino alla vita. Il giorno in cui aveva iniettato l‘eutanasia a
Sadako, si era rasato a zero. Sadako non avrebbe voluto questa forma di omaggio. Un cranio rasato significa
cancro nero quasi certo, cominciando dalla testa, soprattutto in un fototipo I.
Ma Sadako era morta.
Sotto, nella vasca, i maschi di sirena coprivano le femmine.
[da Sirene, Einaudi, 2007]
198
FABIO PUSTERLA
1) Qual è la sua idea della prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto
alla questione dei generi)?
Non sono certo di avere ―un‘idea della prosa‖; in ogni modo, siccome della prosa sono soprattutto
un grande lettore, si tratterebbe eventualmente di un‘idea meno precisa e meno orientata di quella
che forse potrei avere della poesia, che invece scrivo. Leggo molta prosa, senza grandi distinzioni di
genere (al più, ci sono generi che non pratico quasi mai). Mi interessa, comunque, una prosa che si
ponga come obiettivo prioritario quello di rappresentare il mondo (una fetta di mondo),
interrogandone le contraddizioni. La prosa può far questo in molti modi diversi; ma se rinuncia a un
simile orizzonte, allora non mi interessa più particolarmente.
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
Mi pare che il cosiddetto ―abbassamento prosastico‖ abbia ormai da tempo dato i suoi frutti; e, al di
là di qualche eventuale commistione, non mi sembra per ora di notare fenomeni nuovissimi. Non
credo neppure che il dialogo tra poesia e prosa debba a tutti i costi risolversi in mutamenti visibili
del linguaggio poetico: la prosa rimane il grande territorio in cui chi ama leggere vaga alla scoperta
di qualcosa. Se questo lettore nomade vuole poi anche provare a scrivere, e se sceglie la poesia, non
c‘è dubbio che le sue letture avranno un‘importanza fondamentale, eppure non sempre visibile.
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
Nelle cose che ho scritto non ci sono, mi pare, inserti in prosa; le poche prose che ho inserito in
alcune raccolte poetiche sono piuttosto prose ―liriche‖, mediamente meno narrative di alcune poesie
limitrofe. Allora semmai quello che talvolta mi è potuto interessare è la ricerca, all‘interno del
linguaggio lirico, di una dimensione narrativa. Non per scrivere delle vere e proprie ballate
narrative; piuttosto per tentare di mantenere una specie di ―tensione narrativa‖ latente, dentro la
singola poesia e anche, a volte, lungo l‘intera raccolta. Un altro aspetto, del resto ovvio, che mi
affascina, è la ricerca di un ritmo che non sia semplicemente metrico o para-metrico; un ritmo del
pensiero e della sintassi, un fluire della voce; e qualcosa del genere non è impossibile trovarlo nella
prosa migliore. Se non sbaglio, Henri Meschonnic ha chiamato questo ritmo ―rythme énonciatif‖,
opponendolo al più tradizionale ―rythme numériste‖. Per quanto il ―ritmo enunciativo‖ non sia
facilissimo da definire, se non come ―movimento della parola nel linguaggio‖, che è una definizione
assai metaforica, mi sembra che l‘immagine suggerisca qualcosa di importante. Qualcosa che il
lettore appassionato e attento della prosa conosce da sempre.
199
4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,
poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche
non italiani)?
La cosa più importante della domanda è messa fra parentesi. Io direi: soprattutto non italiani,
perché la prosa italiana più recente, sia pure con le debite eccezioni, non mi sembra particolarmente
interessante. Invece leggo molto volentieri la narrativa che proviene da altre tradizioni e da altre
lingue, e che spesso (non sempre) mi sembra avere un respiro e un coraggio più ampi, soprattutto in
rapporto a ciò che dicevo al punto 1. E poi, ma forse è una questione di età, mi piace sempre di più
rileggere alcuni grandi classici.
5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
Ho tradotto un breve romanzo del portoghese Nuno Judice,Adagio, le Cento piccole storie crudeli di
Corinna Bille, e alcune opere scritte in prosa da Philippe Jaccottet (Libretto, Austria, La ciotola del
pellegrino, Paesaggi con figure assenti), oltre a qualche articolo o saggio scritto da poeti e filosofi.
In generale, la prosa che ho tradotto è stata sostanzialmente una prosa poetica, qua e là (come nel
caso di Judice) spostata verso la dimensione narrativa. Non so se si può parlare di un contraccolpo
sulla mia scrittura, come chiede la domanda; e non so se, in tal caso, io sono la persona più adatta
per parlarne. Ho l‘impressione, tuttavia, che i due aspetti più significativi di questa esperienza
traduttoria abbiano riguardato il ritmo (l‘ho già detto prima: leggendo, e a maggior ragione
traducendo, bisogna per forza ascoltare un ritmo particolare, ogni volta diverso e originale; e questo
probabilmente apre l‘orecchio, e speriamo anche la mano, a nuove possibilità espressive) e
l‘elasticità linguistica (cioè la capacità, che deriva dell‘esercizio pratico e dalla necessità
drammatica che il traduttore avverte, di accendere velocemente associazioni linguistiche – lessicali,
sintattiche, foniche, ecc.— più o meno distanti dal proprio uso consueto). Se e come questi due
aspetti si siano poi manifestati nella mia scrittura, sta eventualmente ai lettori dirlo.
6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
Non è che non voglio, è che non vedo bene cosa potrei segnalare. Me la caverò con una poesia
recente, che farà parte del mio prossimo libro, in cui forse l‘orizzonte vagamente narrativo e la
dimensione ritmica a cui accennavo prima si possono almeno intuire.
MILANO CENTRALE, GENNAIO 2006
Fossi appena – e lui rimane accampato testardo
nel suo silenzio nero di quasi zingaro, con unghie
rotte, orecchini, e il cartone malchiuso del mistero
che oscilla sopra grate di sostegno, nel concerto
variopinto di laptop cellulari amazzonici pagers,
pellicce di finto lupo e montoni da indossare, parka –
se fossi solamente meno debole, con quello che ho passato, che ogni vita
200
mi sembrava di averla già vissuta, e malattia,
con tutto questo, capisci che tu devi andartene, adesso,
sono più vecchia di te, quarantaquattro come secoli,
tu fresco di trenta, e puoi ancora trovare qualcuno,
quei figli e la famiglia che oggi no ma domani vorrai,
e io se fossi soltanto meno debole,
mi sarei come sai tirata un colpo alla testa da tempo
già in Kossovo forse, o poco dopo, se soltanto
fossi stata capace di farlo, vai via, per favore
vai via…Ombre che in controluce
appaiono a Sesto e poi scompaiono appaiate
nella bruma del giorno che comincia,
come in una fiumana
dolorosa, ombre remote
e prossime, transito d‘esistenze
quasi solo intuite
e fraterne, distanti (e l‘altra, prima,
salita a Monza, imbacuccata, che spiegava a una voce lontana
sì, vado a trovare lo stronzo, benché malata, come senti,
ma questa me la paga, proprio oggi, e intanto sto malissimo,
febbre senz‘altro, e brividi,
ma certo, la puttana è su a sciare, beata lei. Io qui da sola).
Pianissimo entra in porto trenitalia, e tutti vanno
rapidi verso quello che li attende,
rassegnati o frementi, nel ronzio
che sale dai cunicoli, e folate
di vento freddo spazzano via Gioia.
Milano chiama, la stazione è un‘onda bruna,
una promessa che inghiotte, un destino, una gola.
201
ANDREA RAOS
1) Qual è la sua idea della prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto
alla questione dei generi)?
C‘è del buono un po‘ dappertutto. L‘essenziale è che sia a disposizione dei lettori il maggior
numero possibile di strumenti. È una questione politica, di politica editoriale, molto più che
strettamente estetica.
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
La cosa più importante è non ragionare in termini di alto e basso. Ne derivano solo azioni molto
meccaniche. Mi interessa molto di più la polifonie pigmee.
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
Tutte. Tutti. Tutti.
4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,
poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche
non italiani)?
Sannazzaro, Arcadia.
5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
Direi soprattutto la poesia di Volodine e la prosa di Reznikoff. Non me ne vengono in mente altri, al
momento.
6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
Segnalo questo mio post scritto a Lettere nere (raccolta pubblicata in forma parziale nel libro
collettivo Prosa in prosa, Le lettere, 2009)
202
post scritto a Lettere nere
L'avevo richiesto, sperato, eppure dapprima volli quasi tirarmi indietro di fronte alle scosse irradiate da
questo accostare versi e prosa. Perché già dalle prime caotiche stesure l'effetto si rivelava duplice: un
inchinarsi delle poesie, anti-vestizione di ogni lucore carismatico derivante dal vuoto reso naturale fatto stare
accanto a ciascun verso - ne ho ascoltati troppi detti in pubblico che per la voce sembravano stupendi ma di
cui a leggerli non restava più niente. Proprio questo ho voluto evitare, e questi sono versi sottratti tanto al
vuoto fisico della carta quanto al raschiare del fiato nei bronchi. Se la stessa voce è trasmessa sulla pagina da
quel bianco che odio, che mi odia, di cui non faccio a meno, allora questa, se è poesia, lo è per residuo,
scrostatura di migliaia di gesti non pensati e di parole non richieste, sì, ma anche di silenzi non attesi. Alcuni
dicono che la «più bella cosa» in una poesia resta attraverso, malgrado, ma anche grazie a una pessima
traduzione - e se è così i pochi presenti in questo libro sono versi 'tradotti', con la più grande violenza di cui
sono stato capace (comunque poca, ho la disgrazia di un carattere mite). Ricordate quel passo glaciale e
straziante della Vita agra in cui Bianciardi deporta in inglese dal Lavoro culturale il suo sogno di gioventù?
Io ho amato una donna, quando mi ha pisciato in bocca.
Per la prosa. Nel poco che so e capisco di 'narrazione' ho voluto impiantare quanto mi sembrava uno dei
massimi risultati raggiunti dai poeti che mi piacciono, cioè una possibilità di aperture multiple dell'io, di
frantumazione e dialoghi frantumanti come tutti i dialoghi (in questo senso, solo in questo, sono davvero un
'lirico'). Questi poeti sono, fra quelli ancora vicini e italiani, Zanzotto, Villa e, nel suo modo paradossale e
triste, Fortini - non farò la lista di tutti gli altri, in particolare dei 'classici'. Ho voluto, soprattutto, impiantarvi
un rimpianto di quello stesso 'vuoto' di cui parlavo prima, invertire la rotazione.
Rileggendo quest'opera, che oggi mi sembra stata scritta da un altro, vedo che questo folle dibattersi e
agitarsi scossi, questa forsennata volontà di fracassare la letteratura per vendicarmi di un male che non era
stata lei a farmi - ci si può mai vendicare di chi non sia innocente? -, che questo è il modo che mi si impose
allora - ognuno ha il suo - per non andare a carte quarantotto, per non suicidarmi. Quel che è peggio, mi ci
sono anche divertito.
E dunque oggi che mi sembra di essere un altro - ma anche oggi che non sono stato mai così accerchiato
dalla vita, non me lo potrei nascondere - in questa vita non sono più così sicuro che un cercare frenetico la
porta sia il modo migliore per uscire - e pure è certo che per me la vera scommessa, il vero rischio, iniziano
ora. Mi alzo per uscire. Mi alzo, esco.
Yubujima, 30 aprile 2000
203
FLAVIO SANTI
1) Qual è la sua idea della prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto
alla questione dei generi)?
La mia idea di prosa – in relazione alla poesia – è molto intuitiva e rozza, temo, e rimanda a Rino
Gaetano, Nuntereggae più: ―Vivremo nel terrore che ci rubino l‘argenteria, è più prosa che poesia‖.
Ecco, la mia prosa ama il contingente, sia come dato storico che personale. Bieco, squallido,
minoritario, opaco contingente. La poesia, invece, è la follia pura, sia linguisticamente che
tematicamente. Quanto alla questione dei generi, rilancio con due citazioni: ―Esistono solo due tipi
di libri. Quelli scritti bene e quelli scritti male‖ (Oscar Wilde); ―Gli unici generi che conosco sono i
mariti delle figlie‖ (Ennio Flaiano, e anche il principe Antonio De Curtis).
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟“abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
Credo che la questione sia capziosa, come spesso capita (cfr. la questione dei generi).
Personalmente un avvicinamento della poesia alla prosa ha a che fare con la progettualità, con lo
sviluppo di un‘idea poematica forte, un intreccio, un plot, una trica, come dicevano gli antichi
commediografi latini. Sarò un nostalgico, un ingenuo, ma a me l‘idea della narrazione sta molto a
cuore.
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
Nella prosa lo spazio bianco non parla (o parla meno). Nella poesia sì. Questa, almeno per me, la
più grossa differenza (oltre a quanto già detto sopra). Per dirla con un nostro grande irregolare,
Luigi Di Ruscio: ―Quando va per le lunghe è prosa, sennò è poesia‖. Sottoscrivo in pieno. Un po‘
come se la poesia fosse un fotogramma (di un sentimento, una storia, un‘esperienza), la prosa la
possibilità dell‘intero film. Anche se spesso mi struggo all‘idea di quanto sia bello pensare un‘opera
e basta (come diceva Pasolini-Giotto nel Decameron: ―Perché realizzare un‘opera quando è così
bello sognarla soltanto‖).
4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,
poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche
non italiani)?
Letture folgoranti, in ordine sparso: Oneghin di Puskin, Golden Gate di Vikhram Seth, Georgiche
di Virgilio, Omeros di Walcott, Della neve di Grünbein, Metamorfosi di Ovidio, L‟Orlando Furioso
di Ariosto, La camera da letto di Bertolucci, Allergia di Ferretti, Le ceneri di Gramsci di Pasolini. Il
fatto che sia sempre avvenuto un passaggio dalla poesia alla prosa, e mai viceversa (mai! non si dà
un solo caso di romanziere folgorato sulla via della poesia: perché?), vorrà pur dire qualcosa? O
sono millenni che tutti si sbagliano tragicamente? (Non è nemmeno da escludere questa ipotesi
comunque. Pensate: la storia dell‘umanità come colossale errore compulsivo.)
204
5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
Di recente ho tradotto per i tipi di Tararà L‟évangile selon Judas di Maurice Chappaz. Grande
delirio testuale e filosofico. Grande divertimento e grande sofferenza nel tentare di trasporre lo
spirito totalmente libero dello svizzero. Per ora non registro alcuna reazione sul mio lavoro, né in
versi né in prosa. Il che non mi turba: sono un diesel, assorbo e rumino lentamente.
6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
Allego un breve ―racconto in versi‖, scritto prima che scoppiasse il caso di Via Anelli a Padova.
Non so perché, ma è una cosa che mi capita di constatare non poche volte: sono una sorta di
parafulmine, per cui pre-sento certe tendenze (che, per carità, sono cicliche). Qualche esempio? Il
mio primo romanzo, Diario di bordo della rosa, anticipò il ritorno del romanzo sperimentale in anni
di personalismi e ombelichismi vari; il mio secondo, L‟eterna notte dei Bosconero, anticipò il
ritorno dei vampiri; e altri casi che non allego per non tediarvi. Non credo, però, che sia un bene:
quando i miei lavori escono, infatti, tutti mi prendono per pazzo, per uno non sintonizzato, poi
quando – come si suol dire – ―il trend si consolida‖ naturalmente nessuno si ricorda di te. Sic transit
gloria mundi.
PADOVA, VIA ANELLI
È tempo di bombe inesplose,
si capisce dall‘aria e dall‘odore di stallatico
che brucia in città.
In via Anelli ci arrivo una mattina
che dalla stazione mancano due chilometri
e poche ore a una festa sacra
di italiani miti e incapsulati.
Ma la Pasqua non ha più rametti
né pronti seminaristi né fioretti
o giochi di carta, e dalle scale
si è liberata una lenta processione
di cristiani, bianchi e vegetariani.
Certo, sarebbe tempo di pasque,
mi fa capire anche una merla mostrandomi
il suo culo piumato, ma io cosa festeggio?
Ghetto di via Anelli, «negri ovunque,
marocco, tunisi, muri pidocchiosi,
brande e vetri rotti,
arrivare qua non è bene,
venire qui è ammalarsi, consumarsi
di pigrizia e tristezza».
Questo sento dire dalla nostra cristiana Pasqua.
Le case sono quelle lì
dei negri, la muffa ferma sul muro
che sale, i fili della luce scoperti,
sotto il tetto finestre senza vetri e poco più,
orbitali di cemento, cumuli d‘immondizia,
205
benedetti dal Signore delle Pesti
e lasciati sulle strade come altari.
Ma allora le spacconate edili,
quando i verricelli
lamentavano assenze di bravi muratori,
non erano che una glassa
per ammansire qualche troglodita,
inganni di un‘ideologia
che rapinava ai poveri per dare
ma a chi?
Da loro le bombe cadevano a grappoli
da noi i muratori sembravano ormai
attrazioni da circo,
così sono migrati qua,
questi esseri mutanti, zombie,
che nessuno vuole, nessuno ama
paga bassa e tirare dritti...
A una certa ora
si attirano tutti qua
come sul miele le mosche
e c‘è nell‘aria
il loro sapore
e se uno ti fissa
è un chiodo nelle orbite.
Spacasciate sono le case, dice Osama.
Sfasciate.
«Sei anche tu uomo che se ne frega?»
«Girare intorno a cose lo fanno
bimbi con triciclo, anche voi»
«Quando gli uomini non laveranno
e non puliranno più i vostri residui,
che ne sarà? di voi intendo
e della vostra razza»
«Insomma la mattina uno si sveglia,
e quello che deve fare non è alzarsi
per fare piacere a se stesso, ma alzarsi
per andare ad arricchire qualcun altro»
«Uomo che se ne frega,
voi pensate sempre brutto,
siete come uccelli che stanno
nel nido di mamma»
«Stupido uomo di bene e di male,
c‘hai detto che libertà è assenza
di sogni e bisogni…»
«Dopo bella scopata
uccello pisciotta fuori
come fontana» mi assale Nadir,
esiliato dal cesso, adesso sembra
un Napoleone sullo scoglio
estremo dell‘isola di Sant‘Elena,
«con cagata in canna» aggiunge.
Ma deve aspettare, il cesso è uno solo
per quindici di loro.
«La storia è fatta di strati
206
di merda e gemme d‘onice»
L‘allegria scamiciata di questi ragazzi
è contagiosa e drammatica.
Dare l‘antiruggine
ai fatti della vita, se solo si potesse...
Fermare i momenti più belli
e solo quelli portarsi qua...
E invece ho visto le loro anime
incrinarsi come lattine di birra.
«Ma questa realtà
quanti cammelli vale?» si chiede Mohamed.
«Boh»
207
GIULIANO SCABIA
1) Qual è la sua idea della prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto
alla questione dei generi)?
Prosa è andare diritto, verso è voltarsi e andare a capo. Il sentiero, fin che non svolta, sarebbe prosa.
Andare diritto (prosa) fino a chissà dove, e magari nel chissà dove improvvisamente scoprire in una
radura una compagnia di attori dilettantistico amatoriali che battono nella voce i versi bianchi di
Shakespeare. Come sono impressionanti i versi di Shakespeare (in inglese). Come quelli del Tasso
drammaturgo dell‘Aminta. Una volta ho sognato che cascavo dalla Divina Commedia (versi) nel
Decameron (prosa). Chissà. Però con Virgilio e Dante si camminava nella prosa, ma in versi, su per
la scalinata di terzine dall‘Inferno al Paradiso.
2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini
dell‟“abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come
importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ
altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?
Nella prosa posso raccontare grandi storie, più lunghe che in poesia. Solo la prosa ha reso possibile
il romanzo moderno. Ma i primi romanzi europei (quelli di Chretien), erano in versi, e cantati. C‘è
mistero su verso e prosa. Bisognerebbe interrogare i cavalieri messi in verso e poi passati
derisoriamente in prosa da Cervantes quando non ci si credeva più. Nelle poesie succede però che, a
volte, per come nascono, si va più nell‘abisso, ad ascoltare il non si sa che.
3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente
scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa
vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali
sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?
Nel romanzo molto importante è la struttura, l‘architettura. C‘è gran lavoro per accordare tutto, per
me anni di lavoro. Ma poi in un libro per me centrale (Teatro con bosco e animali) c‘è prosa,
poesia, teatro. I generi, che sono natura, sono anche un po‘ stupidi, come tutte le definizioni. La
lingua, per fortuna, è matta. Nei versi cerco di ascoltarla secondo fiato, ritmo, musica, tono, timbro,
umidità, armonia, invincibilità. Nella prosa secondo gentilezza, amore e bizzarria.
4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,
poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche
non italiani)?
Uno dei compagni di viaggio di cui mi ha impressionato la prosa, molto vicina alla poesia e al
teatro, è Dylan Thomas. Poi Lorca. E Maiakowski. E Brodski. E Pasternak. E Palazzeschi. E Dino
Campana. E Zanzotto. E Meneghello. E Rigoni Stern.
5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in
prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?
Ho tradotto versi da molte lingue, per esercizio interiore. Ma non prosa poetica (forse qualcosa di
Char, anni fa).
208
6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al
discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?
Come esempio vi segnalo la Visione notturna, in Nane Oca rivelato (Einaudi, 2009). Ma tutto il
ciclo di Nane Oca è poesia e prosa, prosa e poesia.
VISIONE NOTTURNA
Che notte blu scura.
Le stelle tremano, fanno firmamento.
C'è la brina.
Guardo Orione, le sue luci.
Ecco Betelgèuse, la stella più luminosa.
Come mi piacerebbe raggiungerla. E poi andare oltre, fino al margine dell'universo che si espande.
Sto camminando verso il platano alto.
I passi scricchiolano su qualche velo di ghiaccio del sentiero.
Piano piano vicinando sento un concerto di vocali e consonanti: sì, sono loro, forse provano le voci - forse
cercano di parlare con la notte, o le stelle, o l'infinito - forse fanno così per chiamarmi.
Com'è certezza trovarvi, o poeti del platano alto - sapere che siete là fra i rami a tessere i suoni - come
ricamatori, come infilaperle.
Chi siano le parole delle bestie e degli uomini, e dei pianeti e stelle e galassie del cosmo universo
cerchiamo di capirlo nominando, decifrando.
Caro Giovanni là appollaiato a cantare su uno dei rami, dopo le foreste sorelle (che sono infinite: anche
ogni persona, bestia, pianta, sasso è una foresta) andrai fin laggiù?
Si che ci andrai, perché sei figlio di Aura la fata e Celeste lo sposo - e là forse finalmente capirai dove
tutto sta andando, da dove viene - e avrai l'ultima rivelazione sul vero significato del tuo sopra nome, cosi:
Stanno gli astronomi intanati
nei loro telescopi sedentissimi
intenti a sopra nominare
stelle e spazi lontanissimi.
Anche l'astronomo Zanibon
osserva ciò che appare:
ed ecco che improvvisamente
sulla prua della nave di luce
che entra nel buio senza fine
gli sembra vedere Nane Oca
polleggiare nel vento stellare –
e gli domanda: Sei in oca?
Si che sono, – risponde Nane Oca, –
perché adesso finalmente è rivelato
che andare in oca è
a gamba lenta dondolare mentre
per un poco appare la visione
del tempo senza fine in espansione
e poi tornare – coi piedi per terra –
ai baci avere e dare.
Anch'io adesso salgo sull'albero e mi unisco al canto.
209
O poeti dei Ronchi Palù (e del mondo), orafi e calligrafi, coltivatori dell'attesa nel silenzio, innamorati
delle Muse e del respiro - ecco (approssimativamente) l'immagine di quello che vedo e ascolto - e sempre
ascolterò:
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IDEE DELLA PROSA
211
GIORGIO AGAMBEN
IDEA DELLA PROSA
È un fatto sul quale non si rifletterà mai abbastanza che nessuna definizione del verso sia
perfettamente soddisfacente, tranne quella che ne certifica l'identità rispetto alla prosa attraverso la
possibilità dell‘enjambement. Né la quantità, né il ritmo, né il numero delle sillabe – tutti elementi
che possono occorrere anche nella prosa – forniscono, da questo punto di vista, un discrimine
sufficiente: ma è senz'altro poesia quel discorso in cui è possibile opporre un limite metrico a un
limite sintattico (ogni verso in cui l‘enjambement non è, attualmente, presente, sarà, allora, un verso
con enjambement zero), prosa quel discorso in cui ciò non è possibile.
Vi sono poeti – Petrarca ne è il capostipite – in cui l‘enjambement zero costituisce la regola,
altri – e Caproni è fra questi – in cui il grado marcato tende, invece, a prevalere. Nell'ultimo
Caproni, tuttavia, questa tendenza si esaspera fino all'inverosimile: l'enjambement divora allora il
verso, che si riduce a quei soli elementi che permettono di attestarne la presenza – al suo specifico
nucleo differenziale, dunque, se l‘enjambement individua, nel senso che s'è visto, il tratto distintivo
del discorso poetico. Citiamo da una poesia recentissima:
........ La porta
bianca...
........ La porta
che, dalla trasparenza, porta
nell'opacità...
........ La porta
condannata...
La tradizionale consistenza metrica del verso è qui drasticamente contratta, e i puntini di
sospensione, così caratteristici del tardo Caproni, stanno appunto a segnare l'impossibilità di
svolgere il tema metrico del verso al di là del suo nucleo costitutivo (che – osservazione non
triviale, anche se, dopo quanto si è detto, scontata – sta non al principio, ma in fine, nel punto della
versura), così come, nell'adagio del quintetto schubertiano op. 163, di cui Caproni ha messo a frutto
la lezione, il pizzicato ribadisce ogni volta l'impossibilità, per gli archi, di formulare compiutamente
una frase melodica. Non per questo la poesia cessa di essere tale: ancora una volta, l‘enjambement,
diversamente dal bianco mallarmeano, che annette la prosa al campo della poesia, è condizione
necessaria e sufficiente della versificazione.
Che cosa, dunque, è propriamente in esso in questione, perché gli venga conferito un simile
potere delle chiavi sui metri della poesia? L‘enjambement esibisce una non-coincidenza e una
sconnessione fra elemento metrico e elemento sintattico, fra ritmo sonoro e senso, quasi che,
contrariamente a un diffuso pregiudizio, che vede in essa il luogo di una raggiunta, perfetta
adesione fra suono e senso, la poesia vivesse, invece, soltanto del loro intimo discordo. Il verso,
nell'atto stesso in cui, spezzando un nesso sintattico, afferma la propria identità, è, però,
irresistibilmente attratto a inarcarsi sul verso successivo, per afferrare ciò che ha rigettato fuori di
sé: esso accenna un passo di prosa col gesto medesimo che attesta la propria versatilità. In questo
gettarsi a capofitto sull'abisso del senso, l'unità puramente sonora del verso trasgredisce, con la
propria misura, anche la propria identità.
L'enjambement porta così alla luce l'originaria andatura, né poetica né prosastica, ma, per
così dire, bustrofedica della poesia, l'essenziale prosimetricità di ogni discorso umano, la cui
precoce attestazione nelle Gatha dell'Avesta o nella satura latina certifica il carattere non episodico
della proposta della Vita nuova alle soglie dell'età moderna. La versura, che, pur restando
212
innominata nei trattati di metrica, costituisce il nocciolo del verso (e la cui esposizione è
l‘enjambement), è un gesto ambiguo, che si volge a un tempo in due direzioni opposte, all'indietro
(verso) e in avanti (prosa). Questa pendenza, questa sublime esitazione tra il senso e il suono è
l'eredità poetica, di cui il pensiero deve venire a capo. Per raccoglierne il lascito, Platone, rifiutando
le forme tràdite della scrittura, tenne fisso lo sguardo su quell'idea del linguaggio che, secondo la
testimonianza di Aristotele, non era, per lui, né poesia né prosa, ma il loro medio.
Giorgio Agamben
[Da: Giorgio Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2002.]
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ALFONSO BERARDINELLI
I CONFINI DELLA POESIA
Per conoscere i confini di una qualsiasi regione si deve avere un'idea di quella regione. O forse
meglio: è la conoscenza dei confini che ci fa capire di quale territorio stiamo parlando. Con la
poesia questo discorso dei confini e dei limiti diventa un bel guaio. Infatti, come tutti sanno, noi
sappiamo e non sappiamo che cosa la poesia è e di che cosa parliamo parlando di poesia. Definire la
poesia, cioè tracciarne i confini, è stata una delle più appassionanti e fallimentari imprese del
pensiero estetico. Da anni, ormai, direi da decenni, l'impresa è stata abbandonata. Qualche ragione
deve esserci, Tempo perso, devono aver pensato i filosofi, o almeno i più razionalisti, i più
onestamente empirici, i meno teologi.
A chiedersi che cos'è la poesia sono rimasti infatti i teologi, o i filosofi (e oggi sono molti)
per i quali la filosofia è una specie aggiornata della teologia. Cosi, nella riflessione o rimuginazione
di questi filosofi-teologi, i discorsi sulla poesia finiscono per somigliare al discorso su Dio: che si
mostra e si nasconde, si rivela nelle superfici e si ritrae negli abissi. Il discorso sulla poesia prende
cosi la forma di un trattato di teologia negativa: un «infinito intrattenimento», per usare la formula
di Maurice Blanchot, in cui la necessità di tacere di fronte a un'entità indefinibile dà luogo
viceversa, o per paradosso, a discorsi senza fine. Il discorso diventa discorso sul silenzio e somiglia
sempre più a un rumore di ebollizione. Nel corso dì questa ebollizione il pensiero filosofico perde il
suo statuto concettuale: prima diventa liquido, e poi evapora. Della poesia intesa come qualità
ontologica non si può parlare, ma si deve, in effetti, tacere.
Ho azzardato un'espressione forse suggestiva, perfino filosoficamente suggestiva, ma certo
tutt‘altro che chiara: «qualità ontologica». Se i discorsi sulla poesia si rivolgono a questa qualità
intrinseca entrano nella dimensione del tautologico. Con l‘aria di dire la cosa essenziale, non dicono
altro che questo: la poesia è quello che è, la poesia è poesia. Questo vicolo cieco indica almeno una
cosa interessante: che quando abbiamo a che fare con una poesia che sia poesia, questo
riconoscimento è una constatazione empirica che non può essere giustificata o argomentata
concettualmente. Non ci sono ragionamenti, non ci sono prove razionali, non ci sono metodi certi
per accertare la presenza della «qualità ontologica» chiamata poesia in un certo testo. L'ultimo e più
scientificamente specioso tentativo di «rassicurazione metodologica» è stato compiuto in questo
senso, qualche decennio fa, da Roman Jakobson. Con Jakobson l‘ontologia si veste di terminologia
linguistica. La poesia, la quidditas poetica, l'essenza che distingue un testo poetico da un testo non
poetico, secondo Jakobson era quella che lui chiamava «funzione poetica».
Fra le diverse funzioni del linguaggio (emotiva, conativa, referenziale, metalinguistica,
fàtica) ce ne sarebbe una distinta dalle altre: la funzione, appunto, poetica, la cui caratteristica
sarebbe quella di non comunicare altro messaggio che il messaggio di comunicare un messaggio. La
letterarietà, oggetto esclusivo della scienza della letteratura, avrebbe come carattere distintivo la
«non referenzialità», il non riferirsi alla realtà extra-linguistica, ma solo all'organizzazione dei segni
linguistici.
La lingua poetica, secondo questa teoria, è nettamente distinta dalla lingua comune: e mentre
la lingua comune serve anzitutto a comunicare, la lingua poetica sarebbe tanto più se stessa quanto
più si sottrae al funzionamento comunicativo. Interrotto il rapporto con la realtà extra-linguistica (il
referente) e con il lettore (o destinatario), la lingua poetica viene definita come svuotamento e
sospensione del significato. La sua semantica è per definizione delusiva (deludente?).
214
Come è stato osservato in diverse occasioni (da Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo),
oltre ad essere contestabile sul piano linguistico, questa teoria di Jakobson non sarebbe che una
versione tardiva e ammodernata della poetica dell'arte per l'arte. La letteratura non incarnerebbe,
quindi, una più energica e viva attitudine comunicativa, ma sarebbe fuga dalla comunicazione e dal
significato. I confini della poesia sarebbero in questo senso confini che stringono quella dimensione
insieme sublime e depauperata in cui il linguaggio si disincarna, anche se più denso e spesso è il suo
tessuto di figure.
I procedimenti della letterarietà sarebbero quindi procedimenti che staccano la poesia dalla
comunicazione, che isolano la funzione auto-referenziale o poetica dalle altre funzioni linguistiche,
e che infine isolano la poesia dagli altri generi, soprattutto dalla prosa. Lo scrittore più adatto alla
teoria jakobsoniana sembra, alla fine, essere Mallarmé, forse fra tutti il poeta più lontano dalla
prosa. Mentre il romanzo moderno era nato dalla fusione e dalla mescolanza, all'inizio un po'
informe e caotica, di diversi generi letterari sia vecchi che nuovi, più tardi, intorno alla metà
dell'Ottocento, la poesia moderna si fissava come lirica nel modello opposto della purezza, della
depurazione, dell‘interruzione dei rapporti dialogici e dinamici con gli altri generi letterari.
La cosa curiosa è che anche le avanguardie novecentesche più audaci e iconoclaste, più
sfrenatamente nemiche in apparenza della purezza estetica, come il futurismo e il surrealismo, sono
finite in realtà nello stesso alveo della «poesia pura», magari per altre vie: per esempio con il rifiuto
violento della convenzione stilistica, del pubblico, della discorsività, della rappresentazione, della
narrazione. Fra uno charme di Valéry e un testo surrealista prodotto con la tecnica della «scrittura
automatica» le differenze, da questo punto di vista, non sono poi molte. Anche se le scelte formali
sembrano opposte (da un lato metrica classica e lessico selezionato, dall'altro magma linguistico e
mostri dell'inconscio), la distanza dalla prosa è nell‘un caso e nell'altro fortissima. È, più
precisamente, una distanza voluta, ideologica e di principio. Raccontare, esprimere, ragionare e
rappresentare sono, sia per Breton che per Valéry, qualcosa che deve restare al di là dei confini
della scrittura poetica.
Questo tipico cammino della modernità poetica, di solito, viene dato per concluso da tempo,
al punto che non se ne parla più. Eppure, attraverso una serie di prestigiose teorizzazioni (che
arrivano fino a Roland Barthes e oltre), grazie al lavoro di innumerevoli epigoni, e con l'aiuto di
un'egemonia strutturalistica e neo-formalistica durata nelle università per circa vent'anni, il
linguaggio poetico ha continuato sulla strada della depurazione anti-comunicativa e si è
progressivamente svuotato e indebolito. È diventato sempre più inadatto all'elaborazione di
esperienze nuove. Quasi senza rendersene conto, ipnotizzati da un'autorità teorica che definiva la
lingua poetica come lingua che fugge dalla discorsività, dall'emotività e dalla rappresentazione, la
maggior parte dei giovani autori che hanno cominciato a pubblicare dagli anni settanta in poi non
hanno varcato i confini e i recinti ristretti fissati dall'estetica formalistica e dalle avanguardie
informali, secondo cui, in poesia, tutto era possibile, tutto era concesso, fuorché dire qualcosa.
Nonostante la sua insistenza sulla tecnica, il formalismo, quando si è trasformato da
attenzione al linguaggio in estetica e in teoria generale della letteratura come letterarietà, ha finito
per produrre idealismo. Cioè: la letteratura come idea e il linguaggio poetico come mito. Con una
certa approssimazione provocatoria, si potrebbe dire che l'ultimo vero mito prodotto dalla letteratura
europea è stata proprio l'idea di Scrittura letteraria come infaticabile e inflessibile distruzione di
valori semantici. Un mito il cui merito e la cui responsabilità sono da attribuire soprattutto alla
cultura francese: che, dagli anni sessanta in poi, è riuscita a fare a meno tanto del romanzo quanto
della poesia a tutto vantaggio della critica e della scrittura filosofica, post-filosofica e teorica.
Quanto meno poesia e narrativa si scrivevano, tanto più grandiose, suggestive, pervasive e
internazionalmente influenti diventavano la critica e la teoria letteraria prodotte in Francia. Una
sontuosa propaganda fatta alle possibilità trasgressive, critiche, generative di una letteratura in
215
verità assai esigua, quasi sparita, ridotta appunto all'idea di se stessa. Tutto, d'altra parte, in linea di
principio, diventava letteratura, cioè Scrittura: la critica, la storiografia le scienze umane, la
filosofia.
I confini della Letteratura, intesa come macchina testuale che divora se stessa, si dilatavano
enormemente, impedendo che l'idea e l'essenza letteraria facessero davvero attrito con qualcosa di
diverso e di estraneo.
Nonostante la dipendenza coloniale della cultura letteraria italiana da quella francese, in
realtà nella nostra poesia qualcosa di interessante e di inatteso stava avvenendo in quegli anni. Per
brevità, faccio solo due nomi, quelli di Montale e di Pasolini. Due casi di progressivo e accelerato
avvicinamento della poesia alla prosa, della lirica alla discorsività. La vicenda è tanto più
interessante per la diversità di temperamento e per la distanza generazionale fra questi due poeti.
Montale era stato in Italia il punto culminante della poesia tardo- e post-simbolista, un virtuoso
manierista del monologo allusivo, cifrato, in codice. Pasolini era partito dal lirismo dialettale per
arrivare al poemetto civile. Sia l'uno che l'altro, all'inizio degli anni settanta, portano la poesia verso
la prosa. Montale da Satura in poi diventa un poeta satirico, colloquiale, cerimoniale semigiornalistico e blandamente auto-divulgativo. Pasolini, sempre più scontento di sé, con Trasumanar
e organizzar tocca il limite dela trasandatezza stilistica: le sue poesie diventano sciatti articoli in
finti versi.
La sua versificazione sempre più incerta e informe era ormai inadatta a esprimere una poesia
che stava diventando sempre più potentemente e aggressivamente argomentativa. Montale aveva
sciolto e articolato in nessi razionali, in gradazioni ragionevoli, le sue perentorie e intimidatorie
allegorie, quasi mettesse in ritmo e rima i suoi corsivi sul «Corriere della sera». Pasolini inventava
un nuovo efficace organismo formale: il poemetto ideologico in prosa, l'articolo «di poesia».
Soprattutto con Lettere luterane questa riconversione del poemetto civile in una prosa
argomentativa energicamente ritmata (in cui la frase prende il posto del verso) viene portata a
compimento. L'attenzione tecnica viene spostata sulla prosa polemica. Toccare i confini della
poesia, spostarli, forzarli diventava un atto vitale necessario per uscire da sistemi stilistici che
tendevano a chiudersi. Ed è significativo, credo, che anche un poeta come Pasolini, che si era
formato nella polemica contro l'ermetismo e la poesia pura, abbia alla fine sentito il bisogno di
andare oltre la poesia in versi, trasformando il poemetto di confessione e di denuncia in una prosa
saggistica costruita sulla ritmica dell‘argomentazione.
Una tendenza della poesia a spostarsi verso la prosa si era comunque notata già da tempo,
anche in altre letterature. Tutti sanno che alcuni dei maggiori e più originali poeti del Novecento
sono tipicamente anti-lirici e prosastici e hanno applicato tutta la loro inventività formale nella lotta
e nell'attrito con contenuti e messaggi che sembravano refrattari al linguaggio poetico: Eliot,
Majakovskij, Brecht hanno scritto meditazioni, manifesti, satire, monologhi teatrali e discorsi
politici in versi. L'idea del linguaggio poetico come fuga dal significato e dal referente extralinguistico già con molti poeti del primo Novecento non funziona. Ma, più tardi, dagli anni trenta in
poi, quando la Modernità sembra aver finito di inventare se stessa (o la propria ideologia), alcuni
poeti più giovani si rendono conto che il «progresso» della rivolta e dell'esoterismo si è bloccato e
rischia di replicare se stesso; basti pensare a un poeta tipicamente prosastico come Wystan H.
Auden, che mette in versi satire, epigrammi, fluviali elucubrazioni saggistiche. Perfino in area postsurrealista avviene qualcosa di sintomatico: Francis Ponge scrive poemetti di osservazione e di
riflessione saggistica in prosa, anche se spesso il risultato è dubbio (direi: vale più il proposito che il
risultato).
Pochi altri poeti danno come Auden il senso di un cambiamento d'epoca nella poesia
moderna. Quanto a capacità inventive e abilità tecnica, come poeta intellettuale e morale, e perfino
216
forse come critico letterario, Auden, ad esempio, non è inferiore al suo più fortunato e influente
predecessore, Eliot. Eppure c'è in tutta la sua opera una curiosa instabilità.
Dopo le sorprendenti raccolte poetiche del suo esordio, dopo la prima affermazione negli
anni trenta come poeta «impegnato», Auden sembra entrare in una vasta, troppo vasta terra di
nessuno nella quale la poesia può fare mille cose ma, nello stesso tempo, non sa più con precisione
che cosa fare. Auden scrive versi a centinaia, lunghi poemi di riflessione redatti diligentemente in
forme metriche tradizionali, con rime sempre pronte e puntuali a dare forma e limite e arguzia
fonica al variare camaleontico del ragionamento. Poeta tutt'altro che puro e puramente lirico, capace
di versificare qualunque cosa, da un programma pubblicitario per le ferrovie a una ricetta medica,
Auden non mette confini tematici, di tono e di argomento alla sua poesia. Può parlare di tutto.
Varia, riprende commenta altri testi, divaga solennemente e umoristicamente sulla storia della
civiltà a cui appartiene, butta giù appunti di diario e pettegolezzi teologici o sessuali su personaggi
storici e sui propri amici. Usa abbondantemente la forma dell'epistola in versi e del dialogo. Ha
scritto in versi un libretto d'opera per Igor Stravinskij (The Rake's Progress). A volte quasi
ferocemente giùdica la propria epoca. A volte gioca e scherza amabilmente su se stesso e la propria
cerchia. A volte esprime la sua gratitudine di creatura terrestre e umana al supremo ente divino che
con tanta saggezza ha distribuito qualità e quantità nell'ordine del mondo. Le sue frasi in versi sono
costantemente governate da un'arte del legamento discorsivo e musicale. Diversamente dai
simbolisti, dai poeti puri, dagli ermetici, diversamente dai visionari e dai nuovi metafisici,
diversamente dai surrealisti ma anche da Pound e Eliot, in Auden non troviamo fusioni di immagini
e accostamenti per pura analogia, non troviamo neppure la tecnica dell'immagine singola che balza
fuori dal vuoto e dal buio, e non troviamo collages o montaggi di brani. I suoi versi sono funzionali
all'espressione di idee e di sentimenti definiti. La teatralità della sua versificazione, a volte
parodistica e a volte oratoria, riporta la poesia nelle dimensioni della conversazione, della satira,
dell‘ecloga, dell'invettiva, del saggio e del sermone. Perfino la cosiddetta conversione cristiana di
Auden potrebbe essere interpretata, almeno in parte, come un bisogno di più salda organizzazione
formale del pensiero e dell'esperienza: bisogno cioè di una retorica, di una stilistica della vita
morale e psichica, nelle diverse gradazioni dal privato al pubblico.
In un'altra regione letteraria, vasta, prestigiosa e ben nota all‘estero come quella francese, è
stato forse più di altri Francis Ponge a segnalare nella poesia moderna l'opportunità di una svolta.
La letteratura francese è una letteratura che esibisce svolte repentine, clamorose inversioni di
tendenza. È certo una letteratura sommamente ordinata e organizzata, nella quale lo sfruttamento
razionale delle risorse ha sempre garantito una straordinaria stabilità e fecondità produttiva. Ma è
anche una letteratura che fa periodicamente saltare in aria il fiero e composto decoro delle sue
tradizioni. In nessun altro paese occidentale la poesia moderna aveva radicalmente rielaborato come
in Francia il suo codice teorico e linguistico. Come l'idea di rivoluzione, così anche l'idea di poesia
moderna ha trovato in Francia il suo codice più perfetto e in apparenza esportabile: attraente e
maneggevole come un elegante e spietato teorema.
In modo molto diverso da Auden, anche Ponge potrebbe essere considerato protagonista di
una svolta «neoclassica» (oggi si direbbe: post-moderna) rispetto alla poesia cresciuta fra
simbolismo e avanguardia surrealista. Come Auden, anche Ponge spoglia il linguaggio poetico del
suo sublime impulso mistico (eroico, a volte, e a volte evasivo). Per vie opposte, rinunciando
esplicitamente alla versificazione, anche Ponge indirizza il lavoro della poesia verso la prosa. I
bizzarri saggi poetici, o poemetti prosastici, di Ponge sono interessanti soprattutto come programma
di igiene mentale per la disintossicazione del linguaggio poetico dalla massa delle sue scorie liriche.
Ma Ponge si lascia spesso andare, forse senza volerlo, ad una certa blanda musica dell'umiltà
prosastica, una musica che vagheggia o corteggia la prosa.
217
Il volenteroso rigore nuovo che il poeta si propone di perseguire con i suoi esercizi
descrittivi (descrive un ciottolo, un ragno, un prato ecc.) è un'idea di rigore, è una posizione di
principio che stenta a trovare corpo, e crea invece suggestivi ma vacui ectoplasmi verbali. Ponge
finge poeticamente di condurre per mano, come a scuola, la poesia verso la prosa. Ma i suoi
resoconti sono le tracce un po' sbiadite di una fantasticheria intorno alla precisione: una rilassante,
disintossicante, ma forse troppo prolungata vacanza dai generi. Senza assumersi né la responsabilità
della prosa ne quella della poesia, Ponge sembra intrattenersi con divaganti propositi.
È nel corso delle sue ricerche e nei suoi vari esperimenti sulle modalità fondamentali della
prosa che Italo Calvino, ad un certo punto, incontra Ponge. Di questo poeta insolito, la cosa che
attira di più Calvino è la discrezione, la voce bassa, l'abito di modestia, il tono sommesso di chi fa
prove e «saggi» per misurare i vari sforzi e incidenti di adeguazione delle parole alle cose. Calvino
negli anni settanta stava scrivendo i capitoli del suo Palomar, e faceva quindi a sua volta esercizi di
descrizione delle cose dal vero. Ma già dai tempi delle Città invisibili, dieci anni prima, aveva
provato a imprigionare una narrazione in una descrizione: la favola raccontabile si era trasformata
nella favola racchiusa in un emblema da contemplare nella sua fissità inesauribile. Infine, con le
Lezioni americane, che sono una sorta di autobiografia teorica di scrittore, Calvino mostra la sua
crescente attrazione di prosatore per certe qualità e certi procedimenti del linguaggio dei poeti. O
almeno per la precisione analitica, descrittiva e prosastica di certi poeti, come William Carlos
Williams, Marianne Moore, Eugenio Montale e, soprattutto, Francis Ponge.
L‘amore di Calvino per la poesia non era disinteressato, ma egoistico e utilitario. Mentre
aumentava la concentrazione, leggerezza e rapidità della propria prosa imparando dai poeti, metteva
molto bene in evidenza la sostanza, il sostrato di prosa che rende resistente e vitale il tessuto
stilistico di molti poeti. Non solo poeti antichi come Lucrezio e Ovidio, molto amati da Calvino, che
ragionano e raccontano, ma anche poeti del Novecento intensamente attratti dai mille aspetti del
mondo visibile e portati a trasformare una visione della mente in un'accurata descrizione e
un'accurata descrizione in una favola morale.
Mi chiedo se in futuro non possano essere i più diversi prosatori, Proust o Kraus per
esempio, a influenzare i poeti.
Alfonso Berardinelli
[Da: Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Bollati
Boringhieri, Torino, 1994.]
218
UMBERTO ECO
IL SEGNO DELLA POESIA E IL SEGNO DELLA PROSA
Le banalità diffuse dal romanticismo circa l'arte come creatività assoluta, libertà espressiva, e sulla
creatività intellettuale come arte, ci hanno abituato a ritenere che non si possano svolgere né
componimenti poetici né riflessioni filosofiche a tema fisso. Riteniamo che male facessero i sofisti a
imporsi l'elogio o la condanna di Elena come tema per una riflessione intellettuale sulla colpa o
sull'innocenza. E ci pare barocco, nel senso negativo del termine, il comando graziosamente e
preziosamente impartito dalla preziosa al poeta secentesco affinché si esercitasse su un tema scelto
a capriccio. Ma se Rossana non avesse imposto a Cristiano di discettare sul bacio, Cyrano, sotto il
balcone, non ne avrebbe scoperto tante e così poetiche implicazioni. Ringraziamo Rossana, la
creatività è valore che si manifesta solo di fronte a un ostacolo.
E cosi ringrazio gli organizzatori del convegno che mi hanno imposto, prima che io potessi
protestare, il tema "Il segno della poesia e il segno della prosa". Che non pare aver connessioni
immediate né con le giornate filologiche né con il prosimetrum né con lo spoudogéloion, né forse
coi miei interessi semiotici, perché di primo acchito mi son chiesto quale sia e se esista il segno
della poesia o il segno della prosa e cosa queste espressioni significhino.
Poi, trattenendomi dall'esigere una modificazione del programma, mi sono detto che la sfida
andava raccolta, e sono a voi per esporvi una serie di riflessioni, ingenue e non sentimentali, sulla
poesia e sulla prosa, forse tra il serio e il faceto, rispettando così parte del programma espresso in
greco ed in latino e rispettando anche il genius loci, perché i genovesi, come noi altri piemontesi, e
specie noi piemontesi di frontiera dell'alessandrino, siamo gente concreta, e credo che di tutte le
definizioni della poesia e della prosa siamo portati a preferire le più terra terra, del tipo "la poesia è
quella cosa che va a capo prima che la pagina sia finita, e la prosa quella che continua sino a che si
possa sfruttare una porzione di carta, riducendo al massimo i margini, perché la carta costa, anche in
senso ecologico, e piuttosto di andare a capo troppo in fretta si accetta anche di spezzare una parola
in due, ciò che la poesia di solito non fa, salvo nei deliri della più estrema avanguardia, e guardate
quanto tira lunghi i suoi versi, l'avanguardista Sanguineti, da buon genovese, pur di non comperare
un altro quaderno".
Quale è la differenza tra serio e faceto? Quello che vorrei suggerire è che la facezia è spesso
via alla verità, e che le cose un poco facete che ho detto sinora andranno prese con la massima
serietà, perché nell'imbroglio in cui mi trovo è dalla definizione testé fornita (la poesia va a capo
prima della prosa) che vorrei partire.
Anche perché, e sia questo non ultimo omaggio a questo consesso di filologi classici, così ci
hanno insegnato gli antichi, che hanno se non altro il merito di averci fornito un aggancio
etimologico (come è loro costume) e di averci messo di fronte a un punto di partenza da cui non
possiamo prescindere, per tanto che gli estetologi abbian detto dopo: perché di qui non si scappa,
prorsus è ciò che va in linea retta e diretta, teste Quintiliano (Institutio, I, 8, 2), mentre versus è il
solco, il filare, ciò che va per un po', poi s'arresta e, o torna indietro bustrofedicamente, o riprende
da dove era partito, ma una riga sotto.
Dunque partiamo di qui, e cioè da ciò che tutti sanno: che un articolo di giornale è prosa e
che la Vispa Teresa è poesia. Magari nessuno dei due è arte, ma l'uno è non arte in prosa e l'altro è
non arte in poesia. E che, nel campo dell'arte, se il Rimbaud della Saison en enfer passa da una
pagina in cui va a capo quando arriva al margine a una pagina in cui va a capo molto prima, una
differenza ci sarà, e questa differenza non ha nulla a che fare con l'arte perché, sfido chiunque a
negarlo, la Saison è arte sempre. Per quale ragione Rimbaud decide di amare la prairie in rima e il
desert in prosa? Non lo so, o non lo so ancora, e in questa sede non voglio saperlo, perché non
discuterò che cosa sia l'arte. Mi avete solo chiesto di distinguere la poesia dalla prosa.
219
E di distinguerla, immagino, da semiologo, perché avete usato la parola "segno". A questo
mi atterrò. Sono avvantaggiato dal fatto che il segno (ammesso che esista, dato che molti ne
discutono) è un artificio umano usato per porre qualcosa al posto di qualcos'altro, e questo artificio
viene usato per molte funzioni, per indicare cose e stati del mondo, per impartire ordini, per
manifestare desideri, per suscitare passioni, per parlare di altri segni e talora per provocare una sorta
di conoscenza mista a diletto che variamente si chiama piacere estetico, o artistico, o anche poetico.
E di questo parlerò: di cosa voglia dire usare dei segni (nella fattispecie parole o sequenze di parole)
per produrre testi che vengono qualificati come poesia o come prosa.
Parlerò cioè di due modalità di uso dei segni, mentre i segni di per sé sono per così dire
anteriori a queste modalità. Infatti posso dire "une fleur" in tanti modi, al fioraio per ottenere una
merce, al botanico per indicargli le caratteristiche di un tipo specifico di vegetale, a una sposa per
lodarne, non molto poeticamente, la salute. Ma quando Mallarmé dice "une fleur!", lo sappiamo,
"musicalment se lève, idée même et suave, l'absence de tous bouquets". E qui occorre che quello
che era un segno sia posto in una qualche posizione strategica, o tra altri segni verbali o nello spazio
acconcio di una pagina sufficientemente bianca.
È nel trovare e produrre, o annullare, questo bianco intorno a una parola (oppure sostituire il
bianco con un silenzio, l'andare a capo con un respiro) che si stabilisce la differenza tra prosa e
poesia. Occorre essere espliciti e affermare con Zirmunskij che "il linguaggio poetico si distingue
dalla prosa per l'ordinamento regolare del suo materiale fonetico". Questo ordinamento regolare può
essere di tanti tipi, purché il poeta si sia imposto una regola. E il materiale non deve essere
necessariamente o solo fonetico: la regola può essere anche grafica. Grafica o fonetica che sia, la
regola impone un ritmo. "Regolare alternarsi nel tempo o nello spazio di fenomeni omogenei"
(Tomacevskij), il ritmo in poesia ha una funzione predominante, non vicaria, non occasionale, come
ci ha ripetuto Tynijanov.
Dobbiamo quindi rifiutare subito una accezione troppo lata del termine poesia, tanto per
capirci, quella crociana e non solo crociana, per cui la categoria della poesia diventa coestensiva a
quella dell'arte, e non solo dell'arte verbale. Se accettassimo e incoraggiassimo questo equivoco,
tanto varrebbe cambiare argomento e interrogarci su cosa sia l'arte. Interrogativo illustre, ma che
per il momento non ci riguarda. Come non ci riguarda, per il momento, spiegare perché una delle
modalità d'uso dei segni a fini artistici ed estetici (non discuterò neppure questa opposizione o
omonimia che dir si voglia) sia diventata, per curiosa e certamente motivata sineddoche, il nome di
quella attività che tanto bene esemplifica senza tuttavia esaurire.
Visto che abbiamo deciso di definire la poesia e la prosa come due modalità di uso dei segni
dobbiamo cercare la poesia come modalità d'uso anche là dove Croce avrebbe visto solo letteratura,
e cioè nella Vispa Teresa o nei versi del signor Bonaventura. Così come dobbiamo trovare la prosa
anche là dove Croce avrebbe parlato di poesia per dire che un romanzo gli andava a genio.
L'estendere il poetico all'estetico non è stato solo un vizio crociano. Aveva cominciato Aristotele,
quando aveva individuato la poesia come discorso sul possibile e sul verisimile, contro la storia
come discorso sul fattuale. A giustificare la decisione aristotelica sta forse il fatto che ai suoi tempi
il discorso sul verisimile, dal poema epico alla tragedia, assumeva necessariamente la modalità
poetica in senso stretto, e cioè la forma del verso. Ma non è su questo versante che va individuata la
ragione della sua sineddoche. È che già con Aristotele iniziava il tentativo di identificare il poetico
attraverso il suo effetto sul versante del contenuto.
Sia chiaro che da questo momento mi sto rifacendo alla distinzione hjelmsleviana tra
espressione e contenuto: di conseguenza parlerò di espressione sempre per indicare la faccia
significante di ogni segno o sequenza di segni, senza riferimento alle connotazioni "poetiche" del
termine /espressione/ così come è staro usato nell'estetica crociana; e parimenti non opporrò
contenuto a forma, ma contenuto a espressione, dato che sia espressione che contenuto sono
soggetti a pertinentizzazione formale.
L'Aristotele della Poetica identifica l'effetto o il risultato poetico con la capacità che la
poesia ha di comunicarci un contenuto universale; tutte le sue indagini sulle manipolazioni
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dell'espressione, anche quando fatte in sede di poetica, riguardano la manipolazione retorica e sono
valide anche per il discorso non poetico. Caratterizzare la poesia per quel che essa realizza a livello
del contenuto serve senz'altro quando si identifichi poesia con arte o effetto estetico, ma non serve a
distinguere poesia da prosa. Tutto quello che Aristotele dice sulla poesia si potrebbe applicare alla
prosa di Stendhal (e infatti la Poetica, più che una teoria della poesia, è una teoria della narrativa;
ma d'altra parte Aristotele con poièsis non intendeva ancora quello che noi intendiamo con poesia, e
quindi il problema andrebbe visto altrimenti).
Ma deve essere chiaro, che ogni volta che si tratti di identificare la poesia con una modalità
di produzione segnica che affetta principalmente il contenuto di una espressione, si perviene
all'accezione "lata" di poesia. Si veda quanto avviene, in tempi ben più recenti, con la Rhétorique de
la poésie del Groupe μ, dove il poetico viene identificato con una particolare struttura semantica
(anthropos, logos, kosmos). Non intendo soffermarmi ora su questo approccio: non è chiaro se esso
lasci fuori dalla poesia il signor Bonaventura e la Vispa Teresa, ma è certo comunque che con un
minimo di buona volontà si può ritrovare la dialettica logos-anthropos-kosmos anche in opere dette
di prosa, dai Promessi Sposi alla Critica della Ragion Pura.
Ancora una volta, ammesso che la Rhétorique de la poésie (1) sia una buona teoria dell'arte
(o almeno di quella verbale), essa non costituisce una definizione soddisfacente di cosa sia poesia in
senso stretto in quanto distinta dalla prosa.
Naturalmente il Groupe μ si muove nell'ambito strutturalista, e conosce la lezione
Jakobsoniana, per la quale il poetico nasce da un particolare modo di legare espressione e
contenuto. A questo mirano infatti le nozioni di ambiguità e auto riflessività del messaggio poetico,
e tipico della lezione Jakobsoniana sembra l'attenzione portata al significante o all'organizzazione
dell'espressione nella misura in cui essa affetta il contenuto.
Tuttavia anche la poetica Jakobsoniana va vista come una teoria dell'arte (verbale) e non
come una teoria della poesia in senso stretto.
Voglio dire che tutte le caratteristiche che Jakobson individua come tipiche del poetico
possono essere estese a quel prosastico a cui si riconosca valore estetico.
Jakobson lo sa in partenza, quando afferma che "il compito fondamentale della poetica
consiste nel rispondere a questa domanda: che cosa è che fa di un messaggio verbale un'opera
d'arte?" Quello che fa di un messaggio verbale un'opera d'arte è "la messa a punto rispetto al
messaggio", come è noto. Perché "l'orribile Oreste" e non "il disgustoso Oreste?" Perché orribile sta
meglio. E perché sta meglio? Perché realizza una paronomasia. Ma come si vede subito dopo,
questo principio della paronomasia, che anticipa e prefigura il fenomeno dell'equivalenza,
fondamentale per la definizione Jakobsoniana del poetico, lo si può ritrovare benissimo anche nella
prosa, vedi lo slogan "I like Ike".
Jakobson ha dato un contributo insostituibile allo studio della semiotica del verso, ma a
questo proposito bisogna osservare che, da un lato, la struttura del verso rappresenta qualcosa che
va al di là del semplice principio di equivalenza, mentre d'altro canto molte delle caratteristiche che
Jakobson attribuisce al verso sono proprie della modalità prosastica, o di altre modalità produttive
in altri sistemi: per esempio il concetto di attesa frustrata si applica anche a una strategia fondata
sulla manipolazione di struttura narrativa e Jakobson stesso lo ha applicato al di fuori del verso, per
esempio alla analisi del significato musicale. La rima rappresenta certo un caso di parallelismo, ma
ci sono casi di parallelismo che non hanno nulla a che vedere col verso e basti citare la sequenza di
onomatopee di cui si sostanzia l'undicesimo capitolo dello Ulysses di Joyce.
E nemmeno mi pare persuasiva l'identificazione della poesia con la metafora e della prosa
con la metonimia. Non solo perché la differenza tra queste due figure è meno netta di quanto si
creda (cfr. il mio "Metafora" sulla Enciclopedia Einaudi(2)) ma perché non si possono ridurre le
leggi della poesia alle leggi della retorica. Molte delle modalità che sono tipiche della poesia
(numerus, clausula, cursus) sono fenomeni che la retorica classica ascrive all‘elocutio,
distinguendoli dalle figure, considerandoli sotto la rubrica dell‘ornatus in verbis coniunctis. Ma
come tali questi fenomeni di compositio sono presenti anche nella prosa. Ciò che caratterizza la
221
poesia è l'assumerli come organizzati e prescritti da un sistema di regole particolari. Quindi la
modalità poetica non è caratterizzata da questi artifici retorici, ma dalla decisione di usare questi
artifici in un certo modo.
Nessuna figura della retorica classica è di per sé poetica. Per quanto riguarda le figure in
verbis singulis, nessuna di esse da sola costituisce poesia, neppure la metafora, che pure da molti è
stata presa come metafora di poesia, la quale poesia è presa come sineddoche di arte. Si veda il
recente Metaphors we live by di Lakoff e Johnson, dove si mostra in modo persuasivo come il
linguaggio nel suo complesso sia non solo intessuto di metafore, ma basato sul principio della
metaforicità, anche ai suoi livelli più quotidiani, scientifici e denotativi.
Quanto alle figure in verbis coniunctis anch'esse possono ricorrere sia in poesia che in prosa.
Che la prosa cerchi, poi di evitare, per esempio, l'allitterazione o l‘omoioteleuton, e la poesia invece
li incoraggi, è ancora cosa tutta da vedere.
La prosa di Marinetti incoraggia l'allitterazione e la poesia di Manzoni, come vedremo tra
poco, fa il massimo possibile per evitarla. C'è poesia che evita quella torma di omoioteleuton che è
la rima, e prosa che la sopporta benissimo. Naturalmente siccome il modo di produzione poetico si
realizza, come vedremo meglio, sempre e comunque in verbis coniunctis, si può dire che le figure di
questo tipo sembrano ricorrere con più frequenza in poesia, mentre si può dire che nessuna metafora
(come nessuna metonimia o nessuna antonomasia) presa da sola può permettere la modalità poetica.
Sembra che siamo ad un punto morto: a caratterizzare il poetico in senso stretto non valgono
parametri estetici; non valgono parametri che riguardino il solo contenuto; non basta quella
specifica relazione tra espressione e contenuto che si può manifestare come parallelismo o come
autoriflessività del messaggio; infine non valgono categorie retoriche. Dove andremo a cercare il
discrimine?
Lo abbiamo detto, dobbiamo partire dalle nostre esperienze più banali, dall'istinto volgare
che induce a riconoscere qualcosa come poesia rispetto a qualcosa che è invece prosa.
Abbiamo a disposizione alcuni criteri. Il primo, che scarterei subito perché dipende dai
seguenti, è editoriale. Non è irrilevante, ma non è indispensabile cercare le ragioni per cui un
editore come Mondadori decide di pubblicare un testo nella collana Lo specchio e un altro nella
Medusa. L'editore sa benissimo cosa il pubblico, magari ingenuamente, si aspetta. Può violare la
regola, ma per ragioni provocatorie, proprio perché la regola esiste e si vuole che la sua violazione
sia sentita come significante (così come decise Vittorini quando pubblicò nella "Medusa" i fumetti
di BC: voleva sostenere che si trattava di buona letteratura e di buona narrativa, ma proprio perché
lui e gli altri sapevano che le regole della narrativa verbale sono diverse dalle regole di quella
narrativa visivo-verbale che è il fumetto).
Il secondo criterio è visivo, grafematico o se volete grammatologico: la poesia, come si è
detto, va a capo prima che sia finita la pagina. Ci deve essere una ragione. Nei calligrammi, nei
carmi figurati, nella poesia spaziata di Mallarmé, la ragione è appunto grammatologia. Nella poesia
tradizionale, e in gran parte di quella moderna, la ragione è fonica. Fonica, non fonologica, e
dunque non grammaticale, non linguistica, caso mai totemica, paralinguistica, soprasegmentale.
L‘andare a capo suggerisce un respiro, impone una pausa.
Questa regola è di solito ignorata dai cattivi attori che recitano poesia ―con sentimento‖, per
far capire che essi ―interpretano‖, ovvero che hanno capito di cosa si parla. Di fronte alla Pentecoste
di Manzoni, un cattivo attore reciterà:
Madre de' santi, immagine della città superna (pausa)
del sangue incorruttibile conservatrice eterna (pausa)
tu che da tanti secoli soffri, (pausa breve) combatti e preghi...
Il buon attore, o il poeta che legge i suoi versi, direbbe invece:
Madre de' santi (pausa breve) immagine (pausa lunga)
della città superna (pausa lunga)
222
del sangue incorruttibile (pausa lunga)
conservatrice eterna (pausa più lunga)
Tu che da tanti secoli (pausa lunga)
soffri, combatti e preghi...
La prima regola è dunque che la misura del verso imponga un ritmo fonico (lo spiega molto
bene Jean Cohen ne La struttura del linguaggio poetico) che non ha nulla a che fare col ritmo
semantico, e cioè con quello che sarebbe imposto da ciò che l'espressione vuol dire (le ragioni
remote di questa scelta, le origini della poesia dalla danza, eccetera, in questo momento non mi
interessano).
Qualunque cosa il poeta voglia dire, o si salva nella rottura del ritmo semantico (ovvero ne
emerge un ritmo semantico più profondo, meno abituale, che impone di accentrare l'attenzione sul
contenuto in modo deautomatizzato), oppure si ha il nonsense. La misura del verso è un ostacolo
scelto per provocare un effetto di straniamento semantico. Ecco perché è importante che la poesia
vada a capo, qualsiasi sia la ragione scelta per decidere quando e dove andare a capo. E se in
qualche modo la poesia consente di non andare a capo (e modi di imporre l'a capo ve ne sono di
infiniti, anche quelli imposti dal verso libero, che non ha né metro né rima, ma in qualche modo ha
delle regole magari idiolettali che impongono un certo respiro indipendente dal respiro semantico),
se in qualche modo la poesia permette che non si vada a capo con la voce senza tuttavia perdere
nulla, ecco che il discorso non può essere definito poesia.
Con tutto ciò si è detto che il verso, come artificio espressivo, detta leggi al contenuto. Il che
non equivale a dire che il poetico consiste in un gioco puramente espressivo. Il contenuto deve per
così dire adattarsi a questo ostacolo espressivo, ma riuscirne rinforzato e amplificato.
Ma vediamo intanto cosa caratterizza la prosa. La caratterizza il fatto che l'espressione fa di tutto
per adeguarsi al contenuto. Se il contenuto è una successione di oggetti, la prosa assume il ritmo
parattatico dell'elenco, se è una implicazione di cause ed effetti assumerà quello sintattico di un
periodo denso di subordinate- Il principio della prosa è rem tene, verba sequentur, il principio della
poesia è vero tene, res sequentur. Purché si intenda con res il contenuto, e non dei referenti esterni,
ovvero dei possibili referenti esterni ma già organizzati, pertinentizzati, formalizzati in contenuto.
Dunque il principio di discriminazione non gioca sulla prevalenza del contenuto o dell'espressione,
ma neppure si rifà a una generica adeguazione tra i due livelli, si chiami essa autoriflessività o
parallelismo. Quelle che dobbiamo individuare sono due modalità specifiche di correlazione tra
espressione e contenuto che caratterizzano due diversi modi di costruire una funzione segnica, la
funzione istituita dalla poesia e quella istituita dalla prosa.
A questo punto non posso che rifarmi a una distinzione che ho posto nel mio Trattato di
Semiotica generale e, si noti, non nella prima parte dedicata alla teoria dei codici o alla struttura dei
sistemi di significazione, ma in quella dedicata alla teoria dei processi comunicativi, ovvero dei
modi concreti di produrre segni. In quella sede cercavo di articolare meglio una serie di opposizioni,
ancora ambigue, tra arbitrario e motivato, convenzionale e naturale, simbolico e iconico, attraverso
la opposizione tra ratio facilis e ratio difficilis.
Queste due rationes non riguardano il modo in cui un segno si correla ai propri referenti, ma
il modo in cui una espressione si correla al proprio contenuto. Nella ratio facilis abbiamo una
espressione preformata, e infinitamente producibile come occorrenza di un tipo ben definito, che
viene correlata per convenzione a un certo contenuto. L'espressione /cane/ è fonologicamente
precostituita e foneticamente producibile all'infinito, e solo una convenzione culturale decide se
vada correlata a una serie di proprietà che caratterizzano e delimitano, in italiano, un certo animale,
o a una serie di marche operative che caratterizzano, in latino, l'ingiunzione a emettere suoni vocali.
La ratio difficilis si ha invece quando le modalità di articolazione dell'espressione e i suoi tratti
pertinenti vengono fissati modellandosi in base ai tratti pertinenti del contenuto, attraverso regole di
proiezione più o meno codificate o inventate ad hoc. Così l'espressione costituita dal quadrante
dell'orologio viene organizzata (è stata organizzata per la prima volta ma può venir riscoperta sotto
questo profilo ogni qual volta si riconsideri con freschezza semiotica il quadrante dell'orologio)
223
sulla base di un modello di contenuto che mette in forma il movimento apparente del sole intorno
alla terra. A tanto spazio ricoperto dal sole in moto corrisponde proporzionalmente tanto spazio
circolare sul quadrante. Come si vede, il rapporto è tra espressione e contenuto, non tra espressione
e referente o stato del mondo, non solo perché è irrilevante al funzionamento semiotico
dell'orologio che siano il sole o la terra a muoversi, ma perché oltretutto la regola di proiezione
inverte sul quadrante il moto del sole quale lo si concepisce guardando e poi modellizzando il suo
tragitto da est a ovest, per un osservatore con gli occhi al nord.
Ora il linguaggio verbale è quasi sempre ispirato a ratio facilis per quanto riguarda il lessico
e quasi sempre ispirato a ratio difficilis per quanto riguarda la sintassi. II rapporto tra una
espressione singola e il suo contenuto è ispirato a ratio facilis (non c'è rapporto di motivazione tra il
modello di contenuto corrispondente al cane o all'unicorno e la forma delle parole /cane/ e
/unicorno/), tranne casi eccezionali come l'onomatopea (e anche qui il rapporto tra parola e suono
reale è mediato dal contenuto e cioè dalla rappresentazione culturale del suono reale, cosicché il
suono del tuono e il chicchirichì del gallo o l'abbaiar del cane vengono onomatopeizzati in modi
diversi da diverse culture).
In sintassi invece il rapporto è di ratio difficilis, perché la differenza posizionale tra /Pietro
ama Giovanni/ e /Giovanni ama Pietro/ (così come la differenza non posizionale ma flessionale tra
/Petrus Paulum amat/ e /Paulus Petrum amat/) sono prescritte da ciò che si vuol dire. L'espressione
riflette, mappa, imita, mima a modo proprio (e in modi e secondo regole di proiezione variabili da
cultura a cultura) i rapporti di contenuto. Ora se negli esempi citati la ratio difficilis è per così dire
accettata e sovente non riconosciuta come tale, in quei casi di uso estetico del linguaggio in cui sì
parla di parallelismo e autoriflessività del messaggio, abbiamo invenzioni originali secondo
modalità di ratio difficilis non ancora sperimentate. Quindi nell'uso estetico del linguaggio parole
quasi sempre prodotte per ratio facilis sono disposte (e talora prodotte) per ratio difficilis.
Ma mi rendo conto ora (nello svolgere il presente discorso) che la mia opposizione soffriva
ancora dei difetti che rimproveravo a Jakobson e ad altri teorici strutturalisti dell'effetto poetico.
Essa lascia indiscriminata la differenza tra prosa e poesia.
Dirò di più, mi rendo conto ora che essa rende conto solo di quell'uso estetico del linguaggio
che si attua mediante la modalità della prosa. Una bella prosa è appunto quella in cui l'espressione,
manipolata con sapienza, si adatta mirabilmente, in modo insostituibile, a ciò che vi è da dire. Non
sto dicendo che ciò che vi è da dire preesiste al modo in cui lo si esprime: dico che se ciò che vi è da
dire viene espresso bene è perché tutto nell'espressione è sfidato ad adattarsi a ciò che vi è da dire, e
ad imporre persino respiri, ritmi, pause toniche (oppure grafematiche) tali che ciò che vi è da dire
appaia come deve apparire (il che non significa nel modo più facile, ma anzi nel modo più
sorprendente, inaspettatamente evidente).
Cosa intendo dire apparirebbe in modo chiaro se avessimo tempo di rileggerci passo per
passo la prima pagina de I promessi sposi.
Quanto l'espressione mimi il contenuto ce ne rendiamo conto se rileggiamo il brano tenendo
sotto gli occhi una carta geografica. Manzoni non sta partendo da decisioni verbali ma da decisioni
epistemologiche. Egli ha deciso che la sua descrizione dell'ambiente deve procedere anzitutto per
un movimento che un tecnico cinematografico chiamerebbe di zoom e come se la ripresa fosse fatta
da un aereo: cioè la descrizione parte come fatta dagli occhi di Dio, non dagli occhi degli abitanti.
Questa prima opposizione tra alto vs basso, ovvero questo primo movimento continuo dall'alto al
basso, individua prima il lago e il suo ramo, poi scende lentamente a individuare (come non si
potrebbe da una altezza "geografica") il ponte e le rive. La decisione geografica è rinforzata dalla
decisione, sempre epistemologica, di procedere da nord verso sud, seguendo appunto il corso di
generazione del fiume; e di conseguenza il movimento descrittivo parte dall'ampio verso lo stretto,
dal lago al fiume, ai torrenti, dai monti ai pendii e poi ai valloncelli, sino all'arredamento minimo
delle strade e dei viottoli, ghiaia e ciottoli.
La visione geografica, man mano che procede dall'alto verso il basso, diventa visione
topografica e include potenzialmente gli osservatori umani. E come ciò avviene, la pagina compie
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un altro movimento, questa volta non di discesa dall'alto geografico al basso topografico, ma dalla
profondità alla lateralità: sino ad arrivare a dimensioni umane, dove la carta si annulla nel paesaggio
concreto, la visione scende dall'alto al basso; a questo punto l'ottica si ribalta, e i monti vengono
visti di profilo, come se finalmente li guardasse un essere umano a piedi. Per cui si dice del
Resegone che "non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte...". E a quel punto anche i pendii e i
viottoli visti prima dall'alto sono descritti come se fossero "camminati", con suggestioni non solo
visive, ora, ma anche tattili. Solo a quel punto il visitatore, che cammina, arriva a Lecco, E qui
Manzoni compie un'altra scelta, non più epistemologica (dal cosmo all'esperienza individuale) ma
direi in termini di consuetudine enciclopedica (che forse ricalca la progressione del Genesi): dalla
geografia passa alla storia. Ed ecco che Manzoni narra la storia del luogo or ora descritto
geograficamente.
È chiaro che le decisioni che Manzoni prende non sono linguistiche, anche se sono ancora
semiotiche. Esse coinvolgono problemi di semiotica della cultura, dello spazio, del corpo, della
percezione. Attraverso di esse egli predispone un modello di contenuto, e del contenuto fa parte la
tecnica di scoperta di un ambiente, tecnica che avrebbe potuto essere anche opposta, Lecco e il lago
via via scoperti da un passeggero umano che vi arriva pian piano, spuntando da dietro una
montagna: ma è ovvio che Manzoni, per ben iniziare, procede con gli occhi della Provvidenza che
ha disposto così il paesaggio, non con gli occhi dei piccoli uomini che lo abiteranno.
Non dico che le decisioni linguistiche seguano questa decisione; forse cronologicamente, nel
senso del progresso dell'invenzione scritturale, la precedono: ma è chiaro che generativamente, alla
luce di una modellizzazione dei vari livelli testuali, le decisioni di contenuto, anche se sono istituite
e concretate dalla scrittura verbale, la precedono, la fondano, ne decidono il destino. Narrare in
prosa non è anzitutto scrivere, è concepire un mondo. La decisione è cosmologica.
Cosa accade invece con la poesia? Il poeta sceglie una serie di costrizioni espressive, e poi
scommette che il contenuto, qualsiasi esso sia, e per quanto esso potesse precedere la scrittura, si
adeguerà alle costrizioni espressive, e tanto meglio se ne verrà modificato. Il poeta guarda al mondo
così come le costrizioni del verso gli impongono. Non solo, ma in tal modo guarda anche alla
lingua. Perché se la prosa, prima che un fatto linguistico, è un fatto cosmologico, la poesia, prima
che un fatto linguistico è un fatto paralinguistico. In. entrambi i casi la lingua è come presa nel
mezzo, e reinventata alla luce di una delle due costrizioni. In entrambi i casi la lingua è determinata
da altri sistemi semiotici. Non è il ritmo (sia esso piede, metro, cadenza libera, verso secondo
l'orecchio o il respiro, cesura fissata arbitrariamente ma in modo ciclico) che si adegua alle parole,
ma le parole che si adeguano al ritmo. Le parole sono scelte dal ritmo. Cosi come in prosa esse
erano scelte dal contenuto. "Orribile Oreste" è antonomasia, ma è prosa, perché a decidere
l'antonomasia sia il fatto che Oreste non sia grazioso.
"Parenti serpenti" è invece poesia, perché è la rima che impone di disprezzare i parenti,
indipendentemente da quanto noi pensiamo dei rapporti parentali. Certo, la rima ammetterebbe
anche "parenti sergenti", che fa meno senso, ed è per questo che la buona poesia impone un
rapporto che appaia necessario tra contenuto ed espressione, tra suono e significato. C'è differenza
tra la poesia come opera d'arte e di conoscenza e il nonsense rimato. E la Vispa Teresa avrebbe
anche potuto sorprendere tra l'erbetta una gentil cavalletta. Ma allo stesso titolo Manzoni avrebbe
potuto rispettare lo stesso approccio cartografico iniziando il suo romanzo con "Quella diramazione
del Lario che, puntando a sud tra due sequenze di dossi...". Ma lo si è detto, qui non si sta cercando
di stabilire la discriminante tra arte e non arte, bensì quella, elementarissima, tra prosa e poesia.
E così dirò che, se in prosa si realizza il caso esemplare di una ratio difficilis per cui
l'espressione si adegua alle esigenze del contenuto, in poesia si attua una ratio che ora definirò
difficillima, in cui il contenuto si adegua alle esigenze dell'espressione.
Come modelli metaforici, citerò l'onomatopea e l'allitterazione. L'onomatopea è prosastica,
la forma dell'espressione deve adattarsi alla forma del contenuto, che precede. L'allitterazione è
poetica: la forma dell'espressione – fondata sulla ripetizione di un suono – detta legge all'invenzione
del contenuto. Come diceva Tynijanov, "in poesia il significato delle parole è modificato dal suono,
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nella prosa il suono è modificato dal significato". Più recentemente Stefano Agosti ricorda che "i
significanti in poesia, se, da un lato, rimandano pur sempre ai significati, dall'altro si costituiscono
invece entità autonome e, al limite, depositarie esse stesse di senso".
Come esempio di ratio difficillima cercherò di ripercorrere la storia di alcune varianti
apportate da Manzoni a una poesia teologica quante altre mai, La Pentecoste, che sembra nata, e
di.getto, nella sua cantabilità di settenari dall'apparenza naturale e facilissima, da una ispirazione
religiosa e morale che abbia preceduto la scelta delle parole.
Giugno 1817, Manzoni abbozza una prima stesura, che inizia in modo assai diverso dall'inno
definitivo, e pone l'accento sul popolo d'Israele e sulla chiesa primitiva ai tempi della passione(3).
Monte ove Dio discese,
ove su l'ardue nuvole
…
Salve o pendice eletta
del solitario Sinai,
…
Caliginosa rupe
ove ristette Adonaì...
(p, 146)
(s, 146)
(p, 146)
(p, 146)
(p, 146)
(s, 146)
A parte le difficoltà di rendere accettabile la rima in /Sinai/ (si veda l'orrore di quell'Adonai),
Manzoni trova evidentemente che qualcosa non va: sposta, ricompone, arriva alla pietosa soluzione
di:
salve o terribil Sinai
salve famoso, ond'Ei
ai liberati Ebrei
il suo voler dettò,
(p, 146)
(t, 146)
(t, 146)
(t, 26)
Quando, nell'aprile del 1819, arriviamo al secondo abbozzo, la critica riconosce con interesse
contenutistico che egli, avendo scritto la Morale Cattolica, sposta l'attenzione dal mondo ebraico
primitivo alla chiesa militante nel pieno del suo trionfo ecumenico. Ed ecco che l'inizio suona ora:
Madre dei Santi, immagine
della città superna,
del Sangue incorruttibile
conservatrice eterna...
(s, 146)
(p, 146)
(s, 26)
(p, 26)
Mutamento di contenuto? In realtà tra queste due stesure noi troviamo qualcosa di molto più
interessante. È che Manzoni nel 1817 aveva decisa la misura del settenario, ma non ancora
l'alternanza delle rime (che tentativamente è ABACBDDC), tipo di costrizione che definisce in
questo secondo abbozzo del 1819 (ABCBDEEF). Ma c'è di più. Quegli imbarazzi tra Sinai, Adonai,
Ei ed Ebrei, derivano anche dal fatto che egli non aveva ancora deciso circa un'altra costrizione, e
cioè se i settenari dovevano avere accenti sulla prima, quarta e sesta sillaba, o sulla seconda e sesta
(se cioè dovevano essere trocaici giambici, o giambici) e sposta nelle varie correzioni i suoi versi,
come se ogni rima fosse buona per qualsiasi cosa, alla ricerca di una soddisfacente soluzione
accentuativa. E inoltre non aveva ancora deciso quali versi dovessero terminare sdruccioli, quali
piani e quali tronchi, ma infila tronchi anche a metà strofa. Nella versione 1819 ha deciso
definitivamente che la successione sdruccioli-piani sarà la seguente: sp, sp; sp, pt. E anche se non
ha fissato una regola per il succedersi dell'accento iniziale sulla prima o sulla seconda sillaba, ha
ormai deciso che in ogni strofa deve esserci una alternanza regolata dei due modelli.
Ma ecco che (sempre in questo abbozzo) egli non sa come risolvere una questione di
contenuto (ancora una volta geografica), ovvero il modo in cui dovrà rappresentare la diffusione
della religione cattolica sino agli estremi confini del mondo. Come per il Manzanarre e il Reno, egli
va per sciabolale degne di una compagnia aerea (Manzoni aveva una vocazione cartografica), e per
226
il momento decide in questi termini. Dopo aver nominato a volo d'uccello la Vistola e il Tebro, la
Senna e l'Ebro, ecco che si avventura oltre oceano:
A te della pacifica
onda i sanguigni liti,
a te si piega il bellico
coltivator d'Haiti...
(s, 26)
(p, 146)
(s, 26)
(p, 146)
Segue, alcuni versi più avanti, il Libano.
Ma la faccenda non pare funzionare ancora, anche se l'alternanza sp (e quella degli accenti)
pare corrispondere alla regola che si è posto. Forse ha resipiscenze dal punto di vista del contenuto,
non sa se l'haitiano sia meglio identificato come selvaggio bellicoso o come pacifico coltivatore. E
tenta:
Te salvator l'armigero
Padre di tutti il bellico
coltivator d'Haiti
fido agli eterni riti
canta disciolto il piè
(s, 146)
(s, 146)
(p, 146)
(p, 146)
(t, 146)
Che è bruttarello assai, anzitutto per la faticosità sintattica (l'armigero coltivatore dovrebbe
cantare dio padre di tutti, ballando col piede disciolto e fido ai suoi riti eterni, immagino, o ai riti
eterni della vera religione…). Ma la cosa non può funzionare anche perché, per cedere a una
impennata di contenuto quasi dionisiaco, Manzoni ha dimenticato le costrizioni che si era posto, e si
ritrova tra le mani due sdruccioli di seguito e poi tre piani, e inoltre i cinque versi sono tutti
accentati sulla prima sillaba, e la bella alternanza che si era proposta, sia pure cum grano salis, è
andata a farsi benedire.
Cosa interessa a Manzoni? La bellicità del coltivatore o l'alternanza degli accenti?
L'alternanza.
Ed ecco che nel settembre del 1819 Manzoni tenta un miglioramento, invero assai limitato:
Te sanguinose invocano
consolator le sponde,
cui le vermiglie battono
e le pacific'onde;
Te Dio di tutti il bellico
coltivator d'Haiti,
fido agli eterni riti
canta, disciolto il piè.
(s, 146)
(p, 146)
(s, 146)
(p, 146)
(s, 146)
(p, 146)
(p, 146)
(t, 146)
Troppo poco, la successione di sdruccioli, piani e tronchi può funzionare ma l'accento è
sempre e costantemente sulla prima sillaba.
Nel settembre del 1822, Manzoni riprende, rifonde, e, per amor d'accenti e di sdruccioli, butta
a mare il bellicoso, il coltivatore, gli eterni riti e il piè disciolto, che chiaramente non gli
importavano nulla:
O spirito! Supplichevoli
ai tuoi novelli altari
soli per selve inospiti
vaghi in deserti mari
sparsi dall'Ande al Libano
dalla scogliosa Haiti
sparsi d'Ibernia ai liti
ma di cor uni in Te.
(s, 26)
(p, 26)
(s, 146)
(p, 146)
(s, 146)
(p, 146)
(p, 146)
(t, 146)
227
Dove la successione st è quella buona, ma due soli versi accentati sulla seconda sillaba sono
seguiti da sei versi accentati sulla prima. Di interessante c'è da notare che, per semplificare,
Manzoni scopre che Haiti è montuosa, e sul piano del contenuto questo gli permette di recuperare
connotativamente la bellicosità degli haitiani, perché è noto che i popoli montanari sono
bellicosissimi. Il coltivatore, pazienza, e d'altra parte come si può coltivare sugli scogli?
Nell'ottobre del 1822 Manzoni ritrascrive la precedente versione in pulito, mantiene i primi
quattro versi, e sostituisce così gli ultimi quattro:
Dall'Ande algenti al Libano
da Ibernia all'irta Haiti
sparsi per tutti i liti
ma d'un cor solo in te.
(s, 26)
(p, 26)
(p, 14)
(t, 146)
Dove si ottengono i seguenti risultati. Gli otto versi ora rispondono mirabilmente al modello
sp, sp, sp, pt; due versi ad accento 2/6 si alternano sempre a due versi 1/4/6; l'arrivo dell'Ibernia
permette un parallelismo di contenuto con l'opposizione freddo/caldo che si sottende all'opposizione
Ande/Libano; l'Ibernia impedisce ad Haiti di essere scogliosa, ma tanto meglio, /irta/ porta le
connotazioni sia di scoglioso che di bellicoso, e inoltre è più poetico. Infine, quel /cor solo in te/ mi
pare meglio di quel /di cor uni in te/ ed è peccato che alla fine, come vedremo, scompaia.
E arriviamo all'edizione definitiva del 1855, che è quasi come quella originale del '22, salvo
che Manzoni alla strofa fatidica apporta correzioni in bozze e mentre il verso finale ritorna ad
essere:
uni per te di cor
(scelta che rimane responsabilità sua della quale non vorrei rispondere), il distico geografico
diventa:
Dall'Ande algenti al Libano
d'Erina all'irta Haiti.
(s, 26)
(p, 26)
Scelta che lascia perplessi e per due ragioni. Il nuovo toponimo è meno comprensibile del
primo, e non vale sia più arcaico né si vede il perché di tanto snobismo, dato che pur sempre
d'Irlanda si tratta. Inoltre mentre l'accentuazione d'Ibernia è priva di ambiguità, non è chiaro se il
verso, con Erina, debba essere letto 1/4/6 o 2/6, e se fosse buona la prima soluzione (Èrina), si
perderebbe la giusta e simmetrica alternanza dei modelli accentuativi. L'unica spiegazione, a
dimostrare che si ha poesia quando si fissano per bene i criteri di costrizione (e che nessuna figura
retorica da sola fa poesia) e che la /b/ di Ibernia allitterava con la /b/ di Libano, e questo a Manzoni
non piaceva.
Questa è una spiegazione che mette in crisi il mio modello di poesia, perché le ragioni per cui
l'allitterazione viene evitata sembrano di tipo prosastico: una ripetizione di suono imporrebbe un
pietinage sur place in una volata geografica che si vuole senza sosta e trionfale, e quindi qui
l'espressione si adegua alle esigenze del contenuto. Ma il sospetto è salutifero, perché ci dice che i
modelli, compresi quelli di modalità poetica e di modalità prosastica, sono appunto modelli, e si
realizzano poi in modo misto all'interno di contesti detti poesia o prosa a seconda della assoluta
predominanza, non dell'esclusività, di uno dei due.
All'opposto penso che il parallelismo di contenuto (Ande e Erini, fredde, Libano e Haiti,
calde) sia un effetto di senso che non è stato deciso in anticipo, ma derivato come guadagno di
contenuto, premio all'essersi piegato così docilmente alle costrizioni dell'espressione.
Come conclusione diremo che, se il modello di scrittura poetica proposta è valido, la poesia
appare come una modalità che educa all'ostacolo, che tiene in esercizio il contenuto, ovvero tiene in
esercizio il pensiero, perché si tratta di dire qualcosa di accettabile anche se lo dice per tener fede a
228
una costrizione puramente espressiva. Col che si vede che il principio di adeguazione del contenuto
alla espressione è ratio difficillima perché, ancorché risolversi in bieco formalismo, come
accadrebbe nella cantilena e nel nonsense, riesce bene e vittorioso quando il contenuto è sfidato a
ripensarsi in modo inatteso ma non vuoto. La poesia produrrebbe allora creatività a livello del
contenuto attraverso un'automatizzazione dell'espressione. Il che è bell'esercizio ginnastico, e ci
dimostrerebbe che la poesia è salute.
Rimarrebbero da esplorare le situazioni di frontiera che si dà il caso siano la norma: e cioè i
casi di attualizzazione della modalità poetica nell'esercizio della prosa e viceversa. Perché dovrebbe
essere ascritta a modalità prosastica la faticosa sintatticità di Proust, che deve riprodurre nel
linguaggio i ritmi congetturali ed esplorativi della memoria, ma è lecito il sospetto che, solo dopo
aver preso una decisione di sintatticità assoluta, per non essere come il paratattico Hemingway,
Proust abbia veramente realizzato la sua vocazione di rimemoratore a tempo pieno. Il che vale a
dire che, sempre, una scelta di stile coerente, instaura il principio della poesia nella prosa, e questo
vale a giustificare quanti hanno identificato il poetico con l'estetico, e col trionfo dello stile, tout
court. Ma del pari, ogni qual volta un modello non linguistico di contenuto ha diretto la scelta delle
cadenze linguistiche, anche in un poema, il principio della prosa si instaura nella poesia.
Ma oggi si trattava solo di delineare dei modelli euristici, partendo dalla domanda "perché la
poesia va sempre a capo prima della fine del foglio?" A questa domanda, almeno, spero di avere
risposto.
Umberto Eco
[Da: Umberto Eco, Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985.]
Note.
(1) Bruxelles, Complexe, 1977.
(2) Ora in U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi, 1984.
(3) nei versi che seguono, p/s indica l‘alternanza di piani e sdruccioli, mentre i numeri da 1 a 6 indicano le
sillabe su cui cade l‘accento.
229
SCENARI EUROPEI
230
GIANFRANCO CONTINI
«SANS RYTHME»
«Une prose poétique, musicale sans rythme et sans rime»: tale la celeberrima definizione che del
modello ideale baudelairiano dà la lettera-dedica a Houssaye. Ma è ben noto che, pur in assenza di
rime, la realizzazione difficilmente si potrebbe chiamare aritmica, se non nel senso restrittivo che
non vi è perseguita la ricerca sistematica d'un'iterazione di misure. Nella stessa dedica si riverbera a
ritroso la fenomenologia dei Petits poèmes propriamente detti, il cui centro è costituito dalla
frequenza dell'emistichio di alessandrino, tesa al limite della sua immediata ripetizione, e perciò
della ricostituzione del verso.
Basta esaminare la struttura del primo paragrafo per ricavarne la prova della non-aleatorietà
(ciò che non significa di per sé intenzionalità cosciente) dei fatti. Esso termina infatti con un
alessandrino: «j'ose vous dédier le serpent tout entier», la cui infrazione alla canonicità consiste
puramente nella rima interna, che a sua volta rima con l'«amuser» precedente; questo sembra anche
il solo caso di ritmo rafforzato dalla rima, sia pure, trattandosi di rima non ricca, di rima pochissimo
baudelairiana, sprovvista del suo vero tratto pertinente. Ora, ogni clausola nel paragrafo (innanzi a
forte pausa, segnata tipograficamente da punto fermo, in un caso da punto e virgola) è un emistichio
di alessandrino («le lecteur salecture», «se rejoindront sans peine», «peut exister à part»): la
posizione rende probabile che questa misura sia significativa, mentre da soli gli esempi ìnterni
(«puisque tout, au contraire», «seront assez vivants», ecc.) non riuscirebbero perentori.
Alcune altre clausole sono alessandrine («alternativement et réciproquement», «nous offre à
tous, à vous, à moi et au lecteur» di seguito a «cette combinaison»), rendendo ugualmente
incontestabili gli alessandrini interni («dont on ne pourrait pas dire, sans injustice», «car je ne
suspends pas la volente rétive»). La sola eccezione parrebbe allora «[d'une] intrigue superflue»,
emistichio crescente di una sillaba, se esso non fosse preceduto da un emistichio sintatticamente
legato, contenente infatti il determinato «au fil interminable»: la somma produce un « alessandrino
doppiamente crescente» più simile d'ogni altro all'andatura d'un alessandrino classico, in particolare
baudelairiano, «au fil interminable + d'une intrigue superflue». Alessandrini crescenti saranno più
oltre «n'a-t-il pas tous les droits a être appelé fameux?» e addirittura quello finale della dedica
(anomalo per il ce enfatico), «d'accomplir juste ce qu‘il a projeté de faire».
Agli «alessandrini crescenti a destra» (che si comportano «glissando » su un'e muta,
intrigue, appelé, projeté, non più centro di sillaba) fanno riscontro quelli che si possono chiamare
«alessandrini crescenti a sinistra», caratterizzati da emistichi sinistri in -ie(s) non sinalefizzati con
una vocale iniziale a destra. Tale «ou plutôt d'une vie moderne et plus abstraite», che dunque è in
realtà, secondo l'ortodossia tradizionale, la somma di due emistichi. A iniziale di paragrafo, punto
quasi altrettanto visibile che la clausola, si può per esempio avere un numero dispari di emistichi,
uno, «Mais, pour dire le vrai», ma fino a tre, «Quel est celui de nous | qui n'a pas, dans ses jours |
d'ambitïon, rèvé». È dalla fusione sintattica di coppie di simili emistichi che nasce l'alessandrino, un
cui ultimo esempio è «du croisement de leurs innombrables rapports».
Un'analisi affine si può allargare con risultati non meno probatori ai singoli poèmes en
prose. Se ne possono citare alcuni provvisti di qualche interesse generale. Così, la clausolaemistichio compare fin dal primo (L‟Étranger): «les merveilleux nuages!» che rinnova nella sua
misura, a poche sillabe indeclinabili d'intervallo («là-bas... là-bas...»), il sintatticamente parallelo
«les nuages qui passent…». In un largo numero ci viene innanzi un compiuto alessandrino, talora
fra i più straordinari che Baudelaire abbia scritto: «au loin je ne sais quoi avec ses yeux de marbre»
(Le Fou et la Vénus; se si tien conto della caratteristica che antecede questa mantissa, «Mais
l'implacable Vénus regarde», dove si isola l'emistichio «l'implacable Vénus», si ottiene il duplice
ricordo dei finali di Don Juan aux Enfers, «Mais le calme héros […] | Regardait le sillage [...]», e
del precedente L'Homme et la mer, «[...] ô frères implacables!»); «servir de confident aux douleurs
231
solitaires» (Les Veuves); «est incommunicable, + même entre gens qui s'aiment!» (Les Yeux des
pauvres); «Mon Dieu! Seigneur, mon Dieu! faites que le dïable | me tienne sa parole!» (Le joueur
généreux); «[et] graviter vers la gloire ou vers le déshonneur» (Les Vocations; dopo una cascata
ritmica in cui si accumulano un alessandrino, «allant, à son insu, selon les circonstances», e un
doppio emistichio, «mûrir sa destinée, scandaliser ses proches»). La combinazione si complica se
una clausola alessandrina risponde, mordendosi la coda, a un attacco ugualmente alessandrino. À
une heure du matin comincia «Enfin! Seul! On n'entend plus que le roulement» e termina su «[je]
ne suis pas inférieur a ceux que je méprise!», trascurando i pianerottoli intermedi. Si rilevi anche la
figura offerta da Le «Confiteor» de l'artiste: aperto da un bellissimo alessandrino doppiamente
crescente («Que les fins de journées + d'automne sont pénétrantes!»), continua con alessandrini di
affine irregolarità a inizio di ogni altro paragrafo («[Grand] délice que celui de noyer son regard»,
«Toutefois, ces pensées, + qu'elles sortent de moi»), tranne l'ultimo che si compensa con un
emistichio terminale («avant d'ètre vaincu»). Naturalmente questa antologia di alessandrini-fuoridei-versi perderebbe alcuni dei suoi lemmi più illustri se trascurasse, oltre gli interni, quelli finali, se
non di poème, di paragrafo; «[et] remplissait la maison de ses glapissements» (Le Désespoir de la
vieille, ogni cui clausola è un emistichio, «sans dents et sans cheveux», «des mines agréables »,
«que nous voulons aimer!»), «la curïosité et l'admiratïon», «minute par minute, + seconde par
seconde!» (La Chambre doublé, grondante in séguito di alessandrini interni, «il n'est plus de
minutes, + il n'est plus de secondes!», «ce taudis, ce séjour de l'éternel ennui», «mais si plein de
dégoût, un seul objet connu»).
Un'attenzione particolare meritano i tre poèmes dello Spleen che hanno ugual tema e titolo in
altrettanti delle Fleurs, La Chevelure (poi quello in prosa Un hémisphère dans une chevelure: che è
un doppio emistichio acefalo), L'Invitation au voyage, Le Crépuscule du soir. Per la verità un
rapporto diretto coi versi si ha soltanto nel primo caso: gli altri due testi poetici, particolarmente
L‟invitation che non ha nessun rapporto con l'alessandrino, sono già tanto lontani da non aver
lasciato tracce formali nei loro omonimi in prosa. Con La Chevelure si pone invece un problema di
cronologia relativa, che qualcuno è stato addirittura tentato di risolvere nel senso opposto a quello
che è ovvio le altre due volte, in maniera disforme dalla successione delle stampe principes (1857 la
prosa, 1859 la poesia). Il punto di stile che qui interessa è in grado di contribuire alla soluzione.
Il glorioso finale del penultimo pentastico suona:
Sur les bords duvelés de vos mèches tordues
je m'enivre ardemment des senteurs confondues
De l'huile de coco, du musc et du goudron.
Ed ecco il finale, sintatticamente distinto (nei due casi precede punto e virgola),
dell'ugualmente penultima lassa prosastica (le lasse corrispondono ordinatamente ad altrettante
strofe): «sur les rivages duvetés de ta chevelure je m'enivre des odeurs combine du goudron, du
musc et de l'huile de coco». Non sembra sussistere dubbio sull'entropia del rifacimento: soprattutto
inverosimile sarebbe che bastasse un colpo di pollice, invertendo esattamente l'ordine dei termini, a
ottenere un così sublime alessandrino (l'eventuale della prosa, nella sua abnormità, sarebbe «du
goudron, du musc et | de l'huile de coco»), inverosimile in subordine la seriatura «du goudron, du
musc», dal più esteso al meno esteso, concepibile solo polemicamente (l'ordine nella sua unità
primitiva, cioè l'emistichio, è infatti quello normale). Con questo, tuttavia, va detto addirittura, non
si persegue nel passo, o almeno non si consegue, una messa in prosa radicale che elimini qualsiasi
traccia del linguaggio poetico (si pensi alle vestigia esametriche permanenti in prosificazioni come
il frammento dell'Aja o lo Pseudo-Turpino) : se «rivages» per «bords» annulla l'impronta del verso,
«des odeurs combinées» per «des senteurs confondues» lascia persistere l'emistichio, della prosa
inoculando puramente l'abbassamento di tono. In questa lassa, del resto, s'introduce ex novo uno
splendido alessandrino, «resplendir l'infini de l'azur tropical», oltre gli emistichi «je respire l'odeur»
e «à l'opium et au sucre». Baudelaire, nonostante tutto, parla, per così dire, naturalmente in
alessandrini o loro frammenti anche là dove li smorza e riduce.
232
Altra prova dell'anteriorità del verso si ricava dalla chiusa della quarta strofa,
D'uri ciel pur où frémit l'éternelle chaleur.
La prima redazione in prosa legge «sur un ciel immense où fremit une chaleur éternelle», la
definitiva «sur un ciel immense où se prélasse l'éternelle chaleur». Se veramente il testo in versi
procedesse da quello (originario) in prosa, questo si trasformerebbe (né di per sé l'ipotesi d'una
doppia e press'a poco coeva rielaborazione sarebbe assurda) e in poesia (dove si serberebbe «où
frémit») e in prosa (dove si serberebbe «immense»). Tanto in questo caso quanto nell'altro più
semplice in cui la poesia preceda, si assiste comunque alla ricostruzione, se non d'un impeccabile
alessandrino, d'un doppio emistichio, «immense où se prélasse + l'éternelle chaleur», per ottenere il
quale si rifabbrica attraverso il verso o, nell'ipotesi più verosimile, si recupera dal verso primigenio
«l'éternelle chaleur». La lassa si arricchisce degli emistichi «de chants mélancoliques » e (questo
secondo solo nella terza e ultima redazione, Un hémisphère...) «fines et compliquées». E simili
acquisizioni s'incontrano, magari in fattispecie meno appassionanti, in ogni lassa, toltane la quinta,
assolutamente prosastica. La prima offre l'inizio (dunque assoluto) «Laisse-moi respirer longtemps,
longtemps, l'odeur» e «plonger tout mon visage, + comme un homme altéré»; la seconda, l'attacco
«Si tu pouvais savoir», l‘interno «j'entends dans tes cheveux! » e soprattutto la clausola «comme
l'âme des autres hommes sur la musique» (eco del verso «Comme d'autres esprits voguent sur la
musique»); la terza, gli emistichi «contiennent tout un rêve» (resto del verso «Tu contiens, mer
d'ébène, un éblouissant rêve»), «plus vaste [poi bleu] et plus profond», il doppio «dont les
moussons me portent + vers de charmants climats» (da altro «climats» in rima), il doppio finale
«par les fruits, par les feuilles + et par la peau humaine». Solo riduttiva diventa l'ultima, dove
«mordre, mordre longtemps» in Un hémisphère... perde un «mordre», e l'alessandrino «[je] mordille
tes cheveux solides et crépus» è smantellato dal sostitutivo binomio «élastiques et rebelles», tanto
più forse perché gli tiene dietro, a chiusura del poemetto e quasi a rispecchiamento del canonico
inizio, il simil-alessandrino (con «je» enfatizzato) «il me semble que je mange mes [poi des]
souvenirs».
La divaricazione fra Le Crépuscule du soir in versi e il petit poème suo omonimo risalta dal
loro associarsi in quella che è per quest'ultimo l‘editio princeps. In esso, s'intende secondo tale
redazione più antica, manca ogni presenza di alessandrino, ma non un certo numero di emistichi
hexasyllabes, di cui alcuni in posizione demarcativa, finali di periodo («fait la nuit dans le leur») o
di paragrafo («éclairent mon esprit») o addirittura del poemetto («et m'étonne toujours»), iniziale
una volta di paragrafo («Mais j'ai eu deux arms»). Nessuno di essi permane nella redazione
definitiva, molto modificata, l'ultimo esempio citato scompare anzi anche prima (per sostituzione di
«Cependant» a «Mais»). Nella definitiva ritroviamo ancora alcune microcadenze interne («un
excellent poulet», «plus sombre, plus taquin», «d'une réte intérieure») che il lettore comune
potrebbe essere tentato di credere obbligatorie e non significanti, pur pensando ai toni bassi che
dominano la parte finale della poesia, se qualche dato non allarmasse l'attenzione. Anzitutto: la
clausola (davanti a punto e virgola) «sa maîtressei et son fils» è surrogata, ma a parità di lingua
colloquiale, da «sa femme et son enfant»; come mai non intervengono in questa fenomenologia né*
«sa maîtresse et son enfant» né* «sa femme et son fils» se non perché non deferiscono a uno
schema, per così dire, congenito, fondamentale (in positivo o in negativo)? Ancora: la serie più
abbondante di correzioni, a prova dunque d'insoddisfazione, è nella lezione primitiva la
consecuzione «La venue du soir gâtait les meilleures choses» – idem, ma con «pour lui» inserito
dopo il verbo – «Le soir, précurseur des voluptés, lui gâtait les choses les plus succulentes»;
finalmente la lezione definitiva, introducendo «profondes» dopo «voluptés», placa l'inquietudine
dell'autore (e l'enunciato, così baudelairianamente approfondito, simmetrizza sostantivo e aggettivo,
connotato questo da costanti foniche), ma frattanto la placa attraverso il consueto rimedio
dell'emistichio, «des voluptés profondes». A questo punto non ci si meraviglierà più di constatare
che il passaggio da ritmicità ad aritmicità, denunciato dai luoghi demarcativi, ceda il posto, a più
233
accurato scrutinio, a un andirivieni che perennemente discuta, in fatto, la categoria di ritmicità.
Perdita di ritmicità convenzionale, nel passaggio da primo a ultimo stadio della redazione definitiva,
denunciano la riduzione dell'alessandrino «crescente a sinistra» (consecutivo al vero alessandrino
«du haut de la montagne arrive à mon balcon») «à travers les nuées transparentes du soir» mediante
la sostituzione con «nues» e quella dell'emistichio clausulare «doux et tendre et brillant!» mediante
la soppressione di et brillant. Ma questo mostra il transito da «hospice des Antiquailles» a «hospice
perché sur la montagne» (quasi a contatto, per di più, col triplo emistichio in cui si imbricano due
alessandrini, «[en] contemplant le repos de l'immense vallée, hérissée de maisons»); l'ampliamento
di «mais sur lui-même» (ereditato dalla prima redazione) con l'inserzione di«aussi» dopo «mais»; il
passaggio da «les feux des lampes» a «les feux des candélabres»; la formazione del doppio
emistichio (ad apertura di paragrafo) «On dirait encore une + de ces robes étranges», dove «une»
risulta da «d'une». Questi piccoli ritocchi arricchiscono un testo dove già allignavano altri tripli o
doppi emistichi («apaisement se fait | dans les pauvres esprits | fatigués du labeur», «les lourdes
draperies + qu'une main invisible», «les splendeurs amorties + d'une jupe éclatante»). Quanto più ci
si allontana nel tempo dai distici del Crépuscule du soir poetico, tanto tornano ad abbondare gli
atomi del tessuto alessandrino.
Se con La Chevelure si aveva una derivazione immediata dal testo poetico e con Le
Crépuscule du soir un mero ricordo dello schema che vi è istituzionale, L'Invitation au voyage offre
ancora un'altra situazione, poiché vi è abbandonata quasi ogni memoria della specifica base metrica,
in tutto remota dall'alessandrino che pur domina le Fleurs (è eccezionale che clausole come «et mon
dahlia bleu!» o «qu'a peint mon esprit, ce tableau qui te ressemble?» rammemorino «De tes traîtres
yeux» o «Aimer et mourir | au pays qui te ressemble!»); in compenso abbondano, non meno che nei
casi fin qui esaminati, le tessere settenarie e le loro derivazioni, fino alla chiusa «de l'Infìni vers
toi». Per misurarne la portata dà anche qui sufficiente materiale la collazione con gli stati
precedenti. La prima clausola di periodo, «avec une maîtresse chérie», diventa totalmente
l'emistichio (crescente) «avec une vieille amie» (precede già «un pays de Cocagne», segue quasi
sùbito l'alessandrino «l'Orient de l'Occident, la Chine de l'Europe», poi l'emistichio «s'y est donné
carrière»). Nel secondo paragrafo l'alessandrino «où le luxe a plaisir à se mirer dans l'ordre»
(immediatamente preceduto da «riche, tranquille, honnête») risulta dalla soppressione di «l'air de
prendre» fra «a» e «plaisir», e «[...] l'imprévu sont exclus» sostituisce «[...] l'imprévu n'existent
pas», imbricandosi con «exclus; où le bonheur est marié au silence», più «[où] la cuisine ellemême». Il terzo, che ne è in sostanza una variazione, gronda e grondava di emistichi, solo in parte
coincidenti, ma l'alessandrino «qui s'empare de nous dans les froides misères» (anche nel penultimo
stato) surroga un primitivo «qui s'empare de notre esprit dans les plus dures misères», quasi a
compensare la perdita di «ta Mignon, ta Mignon aimée et protégée». Nel paragrafo che, solo, è
aperto da un alessandrino («Sur des panneaux luisants, ou sur des cuirs dorés»), un semplice «et» lo
separa da una successione di emistichi che nel centro si costituisce in alessandrino, così (secondo il
testo primitivo); «d'une richesse sombre + vivent discrètement des peintures heureuses, + pleines de
calme, comme + les âmes des artistes », interventi successivi hanno attaccato la parte fra
«peintures» e «comme» – attualmente «béates, calmes et profondes» –, lasciando intatto
l'alessandrino, ora chiuso su «béates», e sopprimendo unicamente il ritmo dell'elemento successivo,
sintatticamente artificiale; ma perfino questa tenue riduzione, che in fondo è come se rettificasse un
equivoco, trova un compenso poco più oltre, dove «[des] âmes civilisées» si migliora ritmicamente
in «des àmes raffinées», circondato da una moltitudine di clausole affini. Anche nel séguito,
gremito a profusione di emistichi che talora si saldano in alessandrini impeccabili («comme dans la
maison d'un homme laborieux», «cet ordre, ces parfums, ces fleurs rniraculeuses », «tout chargés de
richesses, et d'où montent les chants», «tout en refléchissant les profondeurs du ciel»), per un
emistichio che se ne va («plus l'âme est délicate», simmetrico a «l'éloignent du possible», si dilata
in «plus l'âme est ambitieuse et délicate») un altro permane attraverso la modificazione («combien
comptons-nous d'heures» per «combien y a-t-il d'heures»), entro un periodo aperto del resto da una
frazione omologa, «Chaque homme porte en lui». Tanto lusso si presta a una sola interpretazione,
234
che epigraficamente si potrà enunciare come trasformazione dell‘Invitation in un equivalente della
poesia in alessandrini.
«J'ai une petite confession à vous faire. C'est en feuilletant, pour la vingtième fois au moins,
le fameux Gaspard de la Nuit, d'Aloysius Bertrand [...] que l'idée m'est venue de tenter quelque
chose d'analogue, et d'appliquer à la description de la vie moderne [...] le procédé qu'il avait
appliqué a la peinture de la vie ancienne, si étrangement pittoresque». Questa insigne chiamata di
correo, contenuta nella dedica dello Spleen de Paris, puntualmente sollecita a un collaudo sul
«precursore» di ogni proposizione formulata circa i petits poèmes, e all'obbligo non può sottrarsi il
presente suggerimento. È da dire sùbito che, con tutto il grondare che anche Gaspard fa di emistichi
di alessandrini, e il non infrequente raggruppamento binario o magari di grado superiore, in
posizione il più delle volte casuale, eppure in non pochissimi casi significativa, se ne ricava
un'impressione complessiva totalmente diversa. Se il verso archetipo dominante – poco importa a
che livello di consapevolezza e di programma – lo Spleen è un alessandrino mediante fra Racine e
Ìe Fleurs, non sembra accidentale che il motto di Gaspard sia composto in alessandrini, ma in quelli
più seducentemente prosaici delle Consolations sainte-beuviane, «Ami, te souviens-tu qu'en route
pour Cotogne […]»: uno schema da certo Victor Hugo accennante verso Francois Coppée, nel cui
campione letteralmente figura, perfino con la stessa andatura ternaria, il «Piove. È mercoledì. Sono
a Cesena» di un francese del 1830, «Un dimanche, à Dijon, au cœur de la Bourgogne». La parola di
Bertrand è (retrospettivamente) calante di molti toni rispetto allo Spleen, appartiene infatti al
dominio del «pittoresque», non a quello, che Baudelaire gli oppone, di una vita «plus abstraite»,
cioè del presente eterno.
Accade allora che fin dal primo paragrafo di Gaspard l'alessandrino faccia un'apparizione
centrale, in sostanza iterandosi a ritroso: «[…] qui a initié son cœur. – Enfance et poesie! Que l'une
est éphémère, et que l'autre est trompeuse!»; esso si rinnova poi, al termine del brevissimo
paragrafo, nei simili-alessandrino «ses fleurs sont parfumées + et ses fruits sont amers». Ma la
liricità è di tenue durata. Non per niente i prossimi alessandrini sono «joueurs de violon et peintres
de portraits» e «s'échappa a son insù une fleur desséchée», e gli emistichi intercorrenti della portata
di «J'étais un jour assis», «ainsi nommé de l'arme», «et du peintre Guillot», «La toux d'un
promeneur» (inizio di paragrafo), «C'était un pauvre diable» (inizio del periodo successivo),
«misères et souffrances» (chiusa dello stesso periodo), «dans le même jardin», «son feutre
déformé», «brosse n'avait brossé» (che a rigore fa alessandrino con quanto precede, incatenandosi al
lemma anteriore, «déformé que jamais»), «sa physionomie», «chafouine et maladive»,
«condamnent à courir», «Nous étions maintenant» (altro inizio di paragrafo). Sono esempi la cui
qualità sembrerebbe a prima vista deporre per la loro natura interamente aleatoria, non so (perché
me ne manca purtroppo la tecnica, mentre qui ci vorrebbe un Monod della filologia) se
numericamente prevedibile col calcolo delle probabilità. Certo, se tutti fossero del tipo «et du
peintre Guillot », citabile solo per probità di completezza sì da portare l'elencazione al limite del
ludicro, la risposta positiva non si farebbe aspettare: sono i dati sintattici di posizione rilevante, le
incatenature, le simmetrie, le duplicazioni a far propendere per la tesi della pertinenza (in senso
tecnico), almeno nella forma attenuata che, posta la cultura francese del verso discorsivo e teatrale,
un assunto di prosa in qualche modo poetica importa «naturalmente» strutture ritmiche che gli si
riferiscano. (È una questione affine a quella, in realtà qualche volta caricaturalmente affermata,
dell'endecasillabo entro la prosa italiana, alla cui soluzione dava un valido contributo Eugenio
Montale il giorno che mi segnalò gli endecasillabi regnanti, dal manifesto affìsso in una stazione,
negli enunciati di una notissima impresa: «Scuole riunite per corrispondenza. Impiegati, operai e
contadini!»), Non nego che alessandrini rischino d'incontrarsi dappertutto: apro a caso il primo libro
raggiungibile con la mano, che si trova esser opera di autori addirittura non francofoni (il Répertoire
métrique di Mölk e Wolfzettel), e in uno stesso paragrafo incontro, per trascurare i copiosi
emistichi, i perfetti alessandrini «nous avons appliqué le principe suivant», « au-dessous du schéma
de vers correspondant». Ma esiste anche una prova in negativo, cioè la difficoltà di scovare in uno
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stilista programmatico quale Flaubert degli «alessandrini interni» che pure non mancano del tutto,
quali «voulant ensevelir cette histoire de vol» (L 'Education sentimentale) o « + savait brider un
cheval, engraisser les voiailles» (Un cœur simple): ciò non vuol dire che nel passaggio attraverso il
«gueuloir» i segnali più vulgati dello stato poetico vengono repressi, se non proprio farisaicamente
obliterati? (In una lettera proprio a Flaubert l'anziana George Sand si rimprovera di essere incorsa in
un alessandrino involontario). Importa comunque tener fermo, per ciò che è di Bertrand nella parte
di «precursore», che la presenza di istituti astrattamente simili dà luogo in contesti diversi a
qualificazioni diverse.
Non si potrebbe sottoporre senza sazietà a un'analisi come quella esercitata sulle primissime
pagine di Gaspard la totalità del libretto. Se ne ricaverebbero risultati sensibilmente uguali, pur
prevalendo le modalità descritte nel Bertrand introduttivo piuttosto che nella maggioranza dei
singoli poemetti, costitutivi delle Fantaisies. Ma è utile estrarre dal materiale analizzato qualche
conferma o precisazione dei risultati ottenuti. Se nella conversazione che s'inizia con l'«inconnu»
sùbito oltre il punto dove s'era fermato lo scrutinio, compaiono alessandrini lapidari come «Vous
avez cherché l'art! Et l'avez-vous trouvé?» (in risposta a una battuta consistente essenzialmente in
un alessandrino «crescente a sinistra», «si c'est être poète + que d'avoir cherché l'art!») e «Une
chimère!... Et moi aussi je l'ai cherché!» e ancora «Qu'est-ce que l'art? – L'art est la science [se
bisillabo] du poète», è chiara l'ascendenza dell'enfasi teatrale, e con ciò una delle fondamentali
etimologie culturali. La narrazione prosegue con resurrezioni della cadenza (da integrare con
cascate di emistichi, «charnier d'un bouquiniste», «sur une bandérole», «le livre énigmatique», ecc.)
quali «effleurait le clavier de l'orgue universel» (clausola) o «J'enjambai la fenêtre, et je regardai en
bas» (periodo, più «O surprise! rêvais-je?») o «n'est plus qu'une Béatrix a la robe azurée» (clausola,
uncinata all'altro alessandrino sintatticamente impossibile «encore inassoupie! Elisabeth n'est plus»
e seguita da «Elle est morte monsieur»), per giungere ad alessandrini interni ma irrecusabili come, a
poche righe d'intervallo, «d'un rayon de soleil ou d'une ondée de pluie» o «de tous les coins du ciel,
en bandes fatiguées», clausolari in quanto entrambi precedenti una pausa necessaria entro un
periodo complesso tutto tritato di movenze settenarie. Non c'è, letteralmente, pagina che non si
presti a commenti. Fatta o rifatta questa indispensabile riserva, ecco dal Gaspard introduttivo,
sempre in ordine topografico, qualche ultimo esempio più segnalato; «un Dijon d'aujourd'hui, un
Dijon d'autrefois» (finale di paragrafo erompente direttamente dalla matrice sainte-beuviana); «qui
frissonne à l'air vif et piquant du marin» (clausola); «Cependant un héraut sonne de la buccine»
(attacco di paragrafo a cui si salda l'emistichio «sur la tour dulogis», e che a un periodo di distanza è
confermato dall'inizio, se pluvieux si legge trisillabo, «Le temps est pluvieux; une brume grisâtre»),
«où l'encens a fumé, où la ciré a brûlé, où l'orgue a murmuré» (sesquialessandrino che segue di
poco a «des chevets de tombeaux, des dalles d'oratoires» ed è di altrettanto poco seguito da «ont
fléchi le genou», sempre nell'ambito di una reggente che comincia «vos pas y heurteront»); «Cette
ville n'est plus que l'ombre d'elle-même» (periodo intero alla cui piattezza prelude l'antecedente
emistichio «au domarne royal»); «[Gargantua escamota] les cloches de Paris, Philippe-le-Hardi
l'horloge de Courtray; chaque prince à sa taille» (serie di emistichi montabili ad libitum in
alessandrini altrettanto, per intenderci, sainte-beuviani); «il agiote à la bourse. On le grave en
vignettes, + on le broche en romana» (sparsamente preceduto da «Néanmoins il existe», «Cela est
positif», «II pérore a la Chambre», sindrome di apertura a cui nel séguito si oppone clausularmente
«que les miroirs de poche ont été inventés»); «Qui, monsieur, j'ai longtemps cherché l'art absolu! O
delire! ô folle!» (altro sesquialessandrino in parlato).
Più rapidamente si può passare sui poemetti delle Pantdisies, dove la raccolta sarà anche
statisticamente meno straripante, ma in compenso si colora di maggior necessità. Gli alessandrini
clausolari o addirittura a senso compiuto di Le maçon («Voilà qu'un cavalier tambourine là-bas») o
di Départ pour le sabbat («escalada les bords du magique volume») si coronano nella posizione
finale di poemetto in La chambre gothique («plonge son doigt de fer rougi à la fournaise! », che
solo il tenue cuscinetto d'un y stacca dal precedente «qui, pour cautériser ma blessure sanglante»),
La ronde sous la cloche («les fleurs de mon jasmin secoué par l'orage») e anche Le deuxième
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homme («cette pierre angulaire + de la création», beninteso se création è letto quadrisillabo). Anzi,
la frequente comparsa di emistichi settenari in posizione, nonché terminale di paragrafo (le
ocorrenze da citare sarebbero davvero troppe), finale di poemetto (Le falot: «du damoisel de
Luynes!»; Le raffiné: «un bouquet de violettes», se letto con sineresi; La messe de minuit: «son
missel sous le bras»; La cellule: «un tromblon sous sa robe») già sembrerebbe conferire pertinenza
a questa più facile figura se non intervenisse a togliere ogni dubbio la sua adozione al termine di
tutte le lasse in Les lépreux («dans de clairs marécages», dopo «que de hérons pèchant»; «lentes
pour la souffrance! ». che un si stacca dall'omologo «rapides pour la joie»; «de leur éternité», dopo
l'intreccio «sur le cadran solaire + dont l'aiguille hâtait la fuite de leur vie» | «de leur vie et
l'approche», «reclus à leurs cellules»). Altra prova della consistenza dell'atomo settenario la duplice
ripetizione, in La chasse, a fine di paragrafo, della formula ternaria (a rigore, emistichio +
alessandrino), enunciata sull'inizio «claire étant la journée, + par les monts et les vaux, par les
champs et les bois» (tutti i residui paragrafi tranne uno sono ugualmente chiusi da emistichio). Altra
ancora, l'iterazione iniziale in Les muletiers: «[Elles] égrainent le rosaire ou nattent leurs cheveux,
les brunes Andalouses + nonchalamment bercées». Analogo il finale del primo paragrafo in
Octobre: «comme les hirondelles + précèdent le printemps, ils précèdent l'hiver»; o l'inizio (vero e
proprio doppio alessandrino) del paragrafo terzo e centrale di Scarbo: «Que de fois je l'ai vu
descendre du plancher, pirouetter sur un pied et rouler par la chambre» (del resto un alessandrino vi
chiude il paragrafo successivo, «un grelot d'or en branle à son bonnet pointu! »).
Più spaziata ma nell'insieme più elegante, è dunque, come ci si poteva aspettare, la
fenomenologia delle Fantaisies a costituire semmai un degno precedente, anche in questo rispetto
tecnico, dello Spleen de Paris. Il divario capitale sta nel fatto che in Baudelaire la prosa d'intenzione
poetica si nutre del suo proprio verso dominante, un alessandrino discendente per diretto tramite
dall'esametro virgiliano (ne convince l'analisi degli esametri baudelairiani magistralmente condotta
da Marino Barchiesi), mentre Bertrand sembra piuttosto aver praticato la metrica melica del
romanticismo minore. Il suo alessandrino gli viene dalle letture, non dal laboratorio. La poesia in
prosa gli è in qualche modo il surrogato d'una metrica adeguata.
Se si esauriscono facilmente gli antecedenti, vasto, se non oceanico, è il comprensorio dei
conseguenti. Seguendo il filo usato fin qui, si possono compiere esperimenti assai vari; qui non si
può dare più di un campione, e conviene sceglierlo con qualche accortezza. L'esempio da adottare
sarà dunque quello di Saint-John Perse, opportuno per tutta una serie di motivi: perché la presenza
dell'alessandrino è flagrante, perché essa è unanimemente riconosciuta, e finalmente perché su
quella che, per intenderci rapidamente, sarà chiamata (con definizione da lui respinta) prosa poetica,
l'autore ebbe ad esprimersi molto esplicitamente.
Per la constatazione di base tanto vale rifarsi dalla citazione già addotta da Valery Larbaud
in quella recensione a Éloges (1911) che costituisce il più antico lemma della bibliografia su SaintJohn Perse. Il «passage pris au hasard» è ricavato dalla Récitation a l'éloge d'une reine (ora parte di
La Gioire des Rois):
J'ai dit, ne comptant point ses titres sur mes doigts:
ô Reine sous le rocou! grand corps couleur d'écorce, ô corps
comme une cable de sacrifices! et table de ma loi!
Aînée! ô plus Paisible qu'un dos de fleuves, nous louons
qu'un crin splendide et fauve orne toa flanc caché,
dont l'ambassadeur rêve qui se met en cbemin
dans sa plus belle robe!
(ma a rigore bisogna aggiungere il ritornello comune a tutte e cinque le lasse di cui questa è la
seconda: «- Mais qui saurait par où faire entrée dans Son cœur?»). La scansione è qui sottolineata,
più di quanto non accada per solito, tipograficamente, segnalando l'intenzionalità come versi del
primo elemento, del terzo (stampato da Larbaud di séguito al precedente), del quinto (inoltre del
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refrain), mentre il penultimo e l'ultimo equivalgono, con la stampa adottata, a un alessandrino
«crescente a sinistra» più un emistichio (se fossero stati stampati di séguito, sarebbero stati
interpretati come un emistichio femminile più un alessandrino: la soluzione adottata è di ragione
epodica, perché tutte le lasse terminano su un elemento più breve, ma intanto autorizza l'amalgama
di emistichi dei due tipi, anche se sarà prudente farne per Perse un uso esegetico moderato). Il
secondo elemento è interpretabile come un alessandrino (da Reine a écorce) avvolto di connettivo,
il quarto forse come un alessandrino anch'esso «crescente a sinistra» più louons.
Presenze analoghe percorrono, con maggiore o minore abbondanza (ad esempio minor copia
in Exil), tutta l'opera di Perse, perentoriamente segnalati come significativi o dalla ripetizione dello
schema o dal distacco tipografico o dalla posizione (iniziale, finale, di ritornello). La proclamazione
di un pensiero produce con naturalezza epigrafica un alessandrino («Je porterai plus haut l'honneur
de ma maison», entro il primo paragrafo della parte VI di Chronique, aperto da altro alessandrino,
«Comme celui, la main au col de sa monture», e connotato da altri ancora, fra cui uno a immediato
séguito dell'enunciato, «et la plaine à ses pieds, dans les fumées du soir»). È commovente per il
critico constatare che l'ultima (1971) pagina di poesia inclusa da Perse nelle Œuvres complètes della
Pléiade (1972), Chant pour un équinoxe, cominci con un alessandrino, anzi con una serie di due
alessandrini e mezzo ripartiti in due versetti, «L'autre soir il tonnait, et sur la terre aux tombes
j'écoutais retentir || cette réponse à l'homme, | qui fut brève, et ne fut [que fracas]» (oppure
emistichio da «et» a «fracas») e l'alessandrino rispunti continuamente, spesso isolandosi anche
graficamente come epodo in un distico («et l'amour, en tous lieux, remontait vers ses sources»,
«Dieu l'épars nous rejoint dans la diversité», «où le ciel fut sans voix et le siècle n'eut garde»), fino
all'isolamento dello stico terminale, «équinoxe d'une heure entre la Terre et l'homme». Misura
pertanto riduttiva, basilare.
Tanto rigore di fedeltà nella durata d'una vita poetica induce a chiedersi se Perse abbia mai
scritto «veri» alessandrini, e quali. Almeno uno specimine lo conosciamo da un testo giovanile (Des
villes sur trois modes) riprodotto «à titre documentaire» nelle Œuvres complètes (pp. 651 sgg.): ora,
questi alessandrini (non rimati) dell'amico di Jammes, che in Italia si definirebbero volentieri
«crepuscolari», possono presentare irregolarità attorno alla cesura, non violano però la norma del
numero totale di sillabe, in particolare se si tratta di versi «crescenti a sinistra» (come il primo, «Des
villes plus absentes qu'au miroir des mortes»). Ma l'alessandrino sotteso alla poesia di Perse è
quello classico (con al massimo, ma non frequentissima, la licenza «baudelairiana» dell'emistichio
femminile «crescente»): invano, credo, vi si cercherebbe il descritto tipo «prosaico», se non forse
nel semiclandestino testo del 1907 Cohorte (ora riprodotto in Œuvres complètes, pp, 682 sgg.), tra i
cui sporadici alessandrini regolari se ne trova uno preceduto da uno «prosaico», «Et d'autres vont,
les pattes longues sur l'eau rousse, | comme les maringouins au-dessus de nos mares...» (da notarsi
di passata che in questo testo si parla dell'albatro, anche in alessandrini, «L'Albatros est vorace et ne
pond qu'un seul œuf. (Nid d'herbage pétri de terre et d'excréments) », con una disistima che ha tutta
l'aria di essere polemica antibaudelairiana).
Nell'assetto definitivo dell'opera di Perse, e precisamente in La Gloires des Rois, figura un
solo componimento in versi regolari, Berceuse, che, benché edito la prima volta nel 1945, si
presume risalga agli anni giovanili di Éloges. Diversamente dal rifiutato Des villes, esso ha, nella
sua misura specifica, infinite corrispondenze entro l'opera accettata: associati in pentastici non
rimati, sono octosyllabes «giambici», indifferentemente femminili o maschili, « Première-Née –
temps de l'oriole, Première-Née – le mil en fleurs»… Gli octosyllabes, o novenari se si preferisce,
abbondano a partire da Anabase, anzi dalla prima pagina di Anabase, la Chanson a preludio;
«Bitume et roses, don du chant! | Tonnerre et flutes dans les chambres! | Ah! Tant d'aisance dans
nos voies, | ah! tant d'histoires à l'année, | et l'Etranger à ses façons | par les chemins de toute la
terre!... [quest'ultimo crescente, verosimilmente con escamotage della finale di toute]». La serie ne
segue peraltro una (a semplice variazione dell'inizio assoluto) di alessandrini: «Il naquit un poulain
sous les feuilles de bronze. | Un homme mit ces baies amères dans nos mains. | Étranger. Qui
passait. Et voici d'un grand bruit | dans un arbre de bronze». È facile, d'ora in poi, trovare cascate di
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siffatti novenarì: « Dans l'Été vert comme une impasse, | dans l'Été vert de si beau vert, | quelle aube
tierce, ivre créance, ouvre son alle de locuste?» (Exil); «Ici la grève et la suture. | Et au-delà le
reniement... | La Mer en Ouest, et Mer encore, | à tous nos spectres familière» (Vents, paragrafo
autonomo).
Con non minore sicurezza, anche se a più parca frequenza, si possono isolare dei
décasyllabes o endecasillabi ugualmente di razza «giambica». Così i due che tengon dietro ai
quattro octosyllabes, nell'esempio di Exil: «Bientôt les hautes brises de Septembre | tiendront
conseil aux portes de la Ville»; seguono ancora un octosyllabe e un décasyllabe, «sur les savanes
d'aviation, | et dans un grand avènement d'eaux libres». Il décasyllabe si trova in una stessa pagina
associato all'octosyllabe come l'alessandrino (da Amers: «Et la fraîcheur du linge est sur les tables, |
l'argenterie du dernier soir | tirée des coffres de voyage...», «Et dans les temples sans offices | où le
soleil des morts range ses fagots d'or»). Se i risultati della scansione trovassero una sistematica
rappresentazione tipografica, questa si apparenterebbe, salvo la polimetria, alla Laus Vitae
dannunziana meglio che a ogni altro termine di confronto. La Laus Vitae si strutturava attorno a un
novenario di base, e una quota di variabilità ineriva al suo stesso assunto. La poesia di Perse
ammetterà certo ipotesi di misure crescenti o anche calanti (un paio ne sono state messe in opera qui
sopra), ma sarebbe urgente procedere in prima istanza, se si volesse addivenire a un tentativo di
scansione concreta, a un passaggio per le maglie della massima regolarità; non si può probabilmente
prescindere dalla presenza di tessuto connettivo ritmicamente neutro, ne d'altra parte dalla
plurivocità d'interpretazione metrica di certe consecuzioni (ad esempio di tre emistichi di
alessandrino): se questa «prosa» risultasse semplicemente da un artificio Di somma senza accapi,
perderebbe la dignità della sua necessità. Fin d'ora appare evidente che la posizione di monopolio, o
anche di semplice predominio, della funzione alessandrina è fortemente scossa.
La tesi dell'alessandrino di base è affermata da una parte della critica. «C'est», precisava
Larbaud nel suo studio del 1911, «l'alexandrin de Malherbe et de Racine, restauré par Baudelaire (et
assoupli - désarticulé, plutót - par Verlaine et Coppée), qui en est la base». L'impressione era
comprensibile a livello di Eloges, ma reiterarla per Anabase (prosodia «basée sur l'Alexandrin»,
nella «Nouvelle Revue Française» di gennaio 1926; non so se da lui o per spontanea convergenza
Ungaretti) è senza dubbio semplicistico. L'inizio di Anabase, si è visto, parla per l'alessandrino, ma
parla non meno energicamente per l‘octosyllabe. Per accorgersene ci volevano un filologo come
Albert Henry (1963) e, press'a poco nello stesso tempo, un quasi-filologo come Jean Paulhan.
Henry, «la nette prépondérance des groupes syllabiques "pairs": six, huit, dix ou douze "pieds", et
jusqu'à seize et plus; "vers" blancs, ou bien [...] groupes assonancés ou allitérés» [l'osservazione
sull'assonanza compie quella già di Larbaud sulla frequenza di rime]; ma Henry sùbito aggiunge
l‘importanza dei «volumes impairs», e più radicalmente sottomette le misure e la periodicità
accentuativa alla«maîtrise des groupes de souffle», in cui si giustificano tutte le «irregolarità» («les
rapports entre ces masses [sonores] pouvant s'exprimer en un nombre simple, le nombre deux, le
plus souvent; et qu'à partir d'un certain volume, il y ait, par exemple, dix ou onze "pieds" importe
peu: d'autant que les syllabes qui supportent les accents de groupe sont, presque toujours, charnues
et dilatables»). Paulhan, «dans son verset nombreux et plein, l'alexandrin, l'octosyllabe, le
décasyllabe, et l'hexasyllabe font retentir leurs cadences, et s'enchantent de leurs confluents». Ma
certo solo in un tecnico del livello di Albert Henry si trova una giustificazione generale, e che se pur
tacitamente non può essere se non a posteriori, fondata sull'obbedienza alla «poussée lyrique du
moment»: ragionamento che, se il critico fosse italiano, si direbbe gentiliano, quale è in particolare
l'analisi dell'endecasillabo dantesco tentata da Mario Casella. Si può sospendere, ma con
pregiudizio favorevole e perché si tratta di ritmi entro il non-ritmo e per l'autorevolezza del
proponente, l'assenso fino a una concreta esecuzione di scansione.
Nello stesso senso vanno le testimonianze procedenti dall'autore stesso, qualche volta
perfino dalla più tarda opera poetica (nel Chœur di Amers si susseguono «mètre», «strophe»,
«Ode», «trame prosodique», «récitatif», poi «épode» opposto a «strophe» e perfino «robe
prosodique»), più spesso da lettere accolte nel prezioso, ancorché sovrabbondante, scrigno delle
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Œuvres complètes (nelle cui annotazioni compaiono pure, ricevendone così uno stigma almeno
generico di approvazione, tutte le critiche citate). Importanti le testimonianze sulla «métrique
interne» (pp. 922, 968, e cfr. 564 sgg.) e sul rigore, ma non l'apriorismo, della composizione
musicale, da distinguersi dalla verbale (pp. 750 sgg.); la «versification précise encore
qu'inapparente» di Perse sarebbe del tutto estranea agli istituti, dalle denominazioni messe tra
virgolette, del «vers libre», del «poème en prose» e della «prose poétique», in particolare di
Whitman (e da Whitman non meno che dall'altro prosi-versifìcatore biblico Claudel lo allontana
anche Allen Tate, p. 1295); «le poème français [dunque opposto all'inglese] le plus espansif [...] ne
serait encore fait que pour l'oreille interne» e non ammette la lettura a voce alta; «Les lois les plus
rigoureuses de la composition musicale elle-même, qui relève de la Mathématique, pour être
inéluctables n'en sont pas moins subies». La conseguenza è non solo l'intraducibilità, ma
l'improbabilità di introdurre varianti, occorrendo «même nombre de syllabes et même accent» (p.
563), Un ideale modello possibile è Pindaro, della cui traduzione si possiede anche un frammento
(pp. 724 [lettera proprio a Claudel], 731 sgg., 742 sgg., 753). Ma per quanto spetta alla tradizione
che qui interessa, una testimonianza decisiva reca la prefazione, del 1963, alle Poésies di Léon-Paul
Fargue, uno scrittore che dice di essersi fatto «un vers libre réglé par l'alexandrin». Se il suo genere
dev'essere definito «poème non versifié improprement appelé "poème en prose"» (pp. 518 sgg.),
l'elenco dei suoi cultori dei quali si segna la differenza da Fargue, automaticamente traccia la prima
e più ovvia estensione della presente ricerca; nell'ordine di Perse, Claudel, Bertrand, Baudelaire,
Maurice de Guérin, Rimbaud, Fargue stesso con la sua «métrique invisible». Le qualificazioni sono
probabilmente, ai fini attuali, un po' troppo metaforiche, ma due impongono un riscontro
immediato: Bertrand e Baudelaire, appunto. Ora, se nel primo caso l'epiteto di «pittoresque»
coincide, forse casualmente, con l'aggettivo usato da Baudelaire stesso, svolto nel senso d'una
evocazione «plus visuelle qu'auditive», nulla potrebbe dirsi più alieno dall'analisi qui sperimentata
sui poèmes en prose, che, dice Perse, «n'ont rien du poème, ne poursuivant, sur un mode analytique
ou discursif, sans souci propremenc mélodique, qu'un intérêt psychologique », O al massimo se ne
ricava un attestato in negativo del misticismo diacronicamente statico, sottratto a qualsiasi
drammaticità formale, di Perse in persona. «Aucun trouble métrique».
Gianfranco Contini
[Da: Gianfranco Contini, Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Einaudi, Torino 1989.]
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ERMANNO KRUMM
LA POESIA NARRATIVA: CARVER, BUKOWSKI, DOROTHY PORTER E ALTRI
(RECENSIONI)
W. H. Auden
Col finire degli anni 20 si chiude il grande modernismo della poesia inglese (Dylan Thomas a
parte) e si apre un decennio ossessionato dalle questioni sociali e politiche. Rifiutata l'apertura
transletteraria di Eliot e Pound, in nome di un ritorno alla "realtà", i poeti "trentisti" si appoggiano
alle due culture dominanti, marxista e psicoanalitica. Il più significativo di loro, W. H. Auden
(1907-1973) reintroduce la forma chiusa, la metrica tradizionale da opporre alle sperimentazioni
moderniste, l'io contro la pretesa impersonalità della generazione precedente.
È il periodo di transizione che, in una sua opera, Auden chiama L'età dell'ansia. Con Auden
si ritorna a un linguaggio che – per usare una sua espressione – potremmo dire "intimista", chiuso
all'interno di un interminabile parlottio (le sue poesie, infatti, sono molto lunghe). Il poeta va
almanaccando un po' su di tutto: città, soldati, viaggiatori, diseredati, presi, in generale, come tipi
adatti allo svolgimento di un tema. Al contrario di Eliot e Pound che avevano lasciato l'America
per avvicinarsi alla tradizione europea, Auden lascia l'Inghilterra prima per la Spagna (dove
combatte contro i franchisti) per poi divenire cittadino statunitense (pur continuando a spostarsi in
Italia, in Germania e in Austria).
Le sue poesie – quelle in particolare raccolte con il titolo Un altro tempo – quasi sempre
lunghe e meditative si reggono su un tempo ritmato largo e fluente, difficile da trasferire in un'altra
lingua (dove finisce inevitabilmente per affiorare solo l'aspetto contenutistico). Vi si trovano alcuni
dei testi più famosi del poeta, come quel Musée des Beaux Arts, dove, fra l'altro, si contempla
l'Icaro di Bruegel. Osservando il ragazzo cadere dal cielo, il poeta esclama: "Come ogni cosa
ignora serena il disastro". Lo ignora il contadino che ara la terra in primo piano come la bella nave
che prende il largo.
In Bruxelles d'inverno, la città è una matassa di corda aggrovigliata, dove tutto sfugge,
incapace di ritrovare concretezza, di dire "sono una Cosa". Solo i diseredati sembrano ancora
essere "lì dove sono" ("nel loro abbandono sono tutti riuniti; / l'inverno li tiene insieme come il
teatro d'opera").
Alla fine la poesia stessa pare colpita dall'irrealtà: nel tentativo di sfuggire al modernismo
oggettivante dei padri, Auden si trova in una posizione difficile. Da una parte, il mondo reale,
intensamente ricercato, sfugge nel parlottio delle conversazioni e del sociale; dall'altra manca un
discorso forte dell'"io", non si arriva all'osservatore, il beholder, della grande tradizione romantica
inglese (ancora così efficacemente rappresentato nella poesia americana novecentesca di Stevens o
Lowell).
Seamus Heaney
Con questo poeta irlandese – dotato di una concretezza e di una partecipazione alle sorti della
propria terra degna del suo grande predecessore, William Butler Yeats – i nomi dei luoghi, le
vicende e le tragedie della lotta politica entrano nella poesia con asciutta lucidità.
Lontano da qualsiasi modernismo, si avverte nelle sue pagine occhio da "naturalista" (su
alberi, fiumi, campagne e animali) e asciuttezza d'osservazione. Con una manciata di persone e
piccoli eventi tratteggia un mondo di insensatezza e violenza, con bruciante disillusione.
L'angosciata sensualità finisce con l'incontrare l'altro grande irlandese del secolo, emigrante come
lui e anatomista del grande corpo moderno in sfacimento, James Joyce.
Niente lirismo, solo la responsabilità di dire il vero: un presupposto che ha unito Heaney al
241
russo emigrato Iosif Brodskij e al caraibico Derek Walcott in un dialogo a distanza dove, dalla loro
posizione, insieme istituzionale e lontana dal centro dell'impero, individuano la grande tradizione
poetica del Novecento.
Ho già citato North, la raccolta del 1975 (traduzione italiana di Roberto Mussapi), in cui
Heaney mostra quanto forte sia il suo attaccamento alle proprie origini. Non solo agli uomini e alla
terra dell'amata Irlanda, ma anche alla sua preistoria. In occasione del ritrovamento di alcuni corpi
dell'età del ferro, straordinariamente conservati in una torbiera dell'Ulster, dedica alcune poesie a
L'uomo di Grauballe che "giace su un cuscino di torba": "la venatura dei suoi polsi / è come
quercia di torbiera, / la sfera del tallone // come un uovo di basalto".
Heaney non si ferma con i pescatori, non osserva i contadini, questa volta il poeta
immagina di accompagnarsi con gli antichi abitanti, messaggeri del neolitico, e forse di vedere con
i loro occhi che furono aperti su mondi tanto remoti. North è il libro di una nuova strana solitudine
con la quale sembra abbandonare la superficie della terra per entrare nel profondo del regno fossile
e geologico. Assieme alla pietà e all'interesse per gli antichissimi costumi funerari, si percepisce
una ebbrezza nuova, fatta di cieli deserti, nutrita di "sogni di ambra del Baltico".
Lasciate da parte le cose quotidiane, in questa che è la sua quarta raccolta entra in un
mondo quasi mitico. Scende "nel tesoro di parole" scritte nel buio e affilate al gelo delle albe
boreali e lì nell'incontro con gli inaspettati antenati di stirpe vichinga, Heaney sembra acquistare
forza. Da qui l‘immagine dell‘osso trovato in un pascolo e lanciato con violenza simbolica
dall'altra parte dello stretto di mare contro l'Inghilterra.
Veder cose, la raccolta del 1991 (traduzione di Gilberto Sacerdoti), è segnata invece da un
sistema ritmico-grafico svelto (lontano ormai da Una porta sul buio, del 1969, la felice raccolta in
equilibrio fra paesaggio e i suoi abitanti in cui ogni testo è un microracconto compiuto) e da una
vena più difficile, meno narrativa. Un rapporto complesso di termini concreti e astratti interviene,
in ogni composizione, come un controcanto. In particolare la lunga sezione delle Quadrature fa
pensare un po' ai Mottetti di Montale (più asciutta e scorciata rispetto al precedente delle
Occasioni). Ma manca qui la concentrazione folgorante e le immagini risolutive (del tipo dei "due
sciacalli" al guinzaglio sotto i portici di Modena).
Qui, Heaney imprime al proprio lavoro una nuova curvatura che tende verso l'astratto,
sposta il tiro e realizza un tipo di poesia più linguistica, più compressa, con soluzioni talvolta
sorprendenti. Per esempio in Una cesta di castagne, si parla delle castagne spinte verso l'alto e poi,
per contraccolpo, verso il basso. Alla fine, per una strana procedura, la cesta finisce col diventare il
"correlativo oggettivo" di un pittore e del suo quadro. Ma non lo diventa attraverso qualche
dettaglio fisico, qualche improvvisa epifania, come sarebbe avvenuto in una raccolta precedente: lo
diventa per una specie di tensione verbale che inarca, insieme, concetti astratti e complicati, con
qualche luccichio proveniente dalla cesta. Una soluzione tipica dei poeti metafisici del '600
prevista, d'altra parte, dall'autore stesso.
--------In America
William Carlos Williams
Il Paterson di William Carlos Williams è un'opera monumentale composta in più di quarant'anni,
una sorta di enorme manifesto della poetica oggettiva del suo autore. Vi si rincorrono infiniti toni,
voci diverse, insieme a documenti e materiali vari. Nell'ampio fluire del testo, il lettore è chiamato
a sperimentare il fascino della contemporaneità degli eventi, attraverso i quali si aprirà una via
personale di accesso, scegliendo, scartando, ripigliando e procedendo con la stessa libertà con cui
il libro stesso è stato composto.
Partendo dall'avventura imagista di Pound, Williams trova ben presto una via autonoma in
direzione delle cose, espressa nei famosi versi: niente idee se non nei fatti. In questa via, il grande
242
poeta della modernità si muove liberissimo, usando tutti i materiali possibili in una cornice
"poetica" che va dalla cantilena alla ninna nanna, dal monologo interiore alle voci personificate dei
fiumi e delle città.
Come scrive Robert Lowell,
Paterson è l'America di Whitman fattasi patetica e tragica, brutalizzata dall'ineguaglianza, disorganizzata dal caos
industriale, confrontata con l'annientamento. Nessun poeta ha scritto di lei con una tale fusione di splendore, simpatia
ed esperienza, con tale vigilanza ed energia.
Williams rappresenta uno dei punti più felici e più alti della poesia anglosassone, di quel
tipo di poesia cioè che fonda la propria forza sul potere di irradiazione delle cose. Una passione
profonda – antiletteraria – anima queste pagine, fornendo un'occasione unica di entrare in una delle
più straordinarie officine del modernismo, di quel periodo ormai mitico che si suole chiamare
l'avanguardia storica.
Raymond Carver(1)
Ma la vera ―cultura‖ americana passa da quella sorta di mitologia degli spazi dilatati dove, tra un
whisky e un fumoso locale jazz, si incrociano personaggi perfettamente sospesi sul niente, pronti a
essere inghiottiti nel grande caos di cui fanno eroica e felice parte. Con pochi gesti si entra in un
giallo, in un film d'azione. Lì, tra un bicchiere di superalcolico e un'autostrada, ognuno si muove
con una naturalezza impensabile in Italia.
Tali sono le comparse americane dei brevi racconti di Raymond Carver (1938-1988). E
anche delle poesie. Assieme a Melville, Emily Brontë, Hardy, Williams, Lowry e Bukowski,
Carver è uno dei grandi romanzieri di lingua inglese che scrive anche grande poesia.
Nelle poesie di questi narratori si percepisce tutta la distanza che ci separa dagli Stati Uniti
d'America. Di sicuro, in Italia (dove non mancano scrittori-poeti da Pavese a Pasolini, Bacchelli,
la Morante), non esiste una tradizione come quella cui appartiene Carver: apparentemente
autobiografica ma perfettamente neutra, capace in poche righe di infilzare un mondo. Anche per
questo, la poesia di Carver è doppiamente preziosa: innanzi tutto per la sua forza intrinseca e poi
anche come rimedio, per noi, contro qualunque indugio iperletterario e qualunque gioco linguistico
fine a se stesso.
Nei suoi testi spesso lunghi e narrativi, capaci di salti improvvisi, il narratore sostiene il
poeta, almeno per due cose: primo, il gusto dell'osservazione, dei particolari; secondo la cattiveria.
Si tratta di una dote rara nei poeti-poeti mentre è quasi indispensabile nei veri romanzieri (un nome
su tutti: James).
I suoi microracconti scorciati e compressi in versi si chiudono intorno a una frase, una
ferita, una specie di dislivello dell'esperienza. È il suo modo di teatralizzare i sentimenti familiari,
quasi sempre raccapriccianti. In Su una vecchia foto di mio figlio, una madre e un figlio si
accapigliano intorno a una vecchia e odiatissima foto. La cornice è nitidissima. L'incipit, molto
incisivo, è sul tempo ("Siamo di nuovo nel 1974 e lui è tornato un'altra volta"). La chiusa è cattiva,
rassegnata e ironica ("Tutti miglioriamo col tempo").
Ogni tanto il narratore si addormenta e, in poche righe, lascia il posto al sogno di un poeta
("Le notti tranquille"): "Mi addormento su una spiaggia, / mi risveglio su un'altra. // La barca è
ormai pronta, / tende gli ormeggi."
La raccolta intitolata Blu oltremare si apre con un battere d'ala che riconduce chi parla –
forse il poeta stesso – sulla sua strada. S‘era scordato di tutto, s‘era perso in pensieri lontani, poi
uno stormo di uccelli levandosi dagli alberi aveva segnata la direzione.
Segue una poesia dedicata al braccio intorpidito, di notte, abbandonato sotto le spalle della
donna che gli era accanto. Risvegliati, cercano insieme di sollevare quell'arto formicolante: lei poi
si riaddormenta mentre lui, disteso fino all'alba, con le braccia sul petto, continua a pensare a un
altro viaggio: "Al fatto ineluttabile che persino quando / intraprendiamo questo viaggio, / un altro
243
ancora, molto più bizzarro, / ce ne resta da fare".
All‘ultimo viaggio Carver dedica l‘ultima raccolta, Il nuovo sentiero per la cascata
(edizione italiana a cura di Riccardo Duranti) scritta nell‘imminenza della morte. La sua
compagna, Tess Gallager, ricorda che Ray (il suo Raymond), scriveva persino sul pacchetto delle
sigarette: Now, ora, subito. E tra l'altro, spiega come sono entrati nel libro certi brani di Cechov
(scelti per la sua malattia), Seifert, Milosz, Lowell e altri che accompagnano il difficile cammino
verso la morte. Lui le si rivolge dal libro: in Colibrì, per esempio, una brevissima poesia sull'estate
che il poeta sa di non poter vedere ("quando aprirai / la lettera, ti verranno in mente / quei giorni").
Nessun compiacimento, però. L'ultima partita fa parte dello spettacolo del mondo, come il
pescatore nel porto (La rete): Ray – il personaggio-poeta che si muove nelle poesie – gli passa
accanto senza una parola. Si gira solo quando è lontano abbastanza "da vedere l'uomo preso nella
rete".
Tutto è pronto: il traghettatore si porta via Ray ma lascia i suoi formidabili manuali: vuoi
sapere come fare poesia parlando solo di bibite e scaffali? Leggi Carver. Leggi Limonata. Vuoi
imparare a parlare di tutto con un taglio e uno sguardo sicuro? Segui l'ultima puntata, tutta
anglosassone, di una storia fatta di cose e persone, segui Il nuovo sentiero per la cascata.
Charles Bukowski(2)
Dorothy Porter
Fiumi, nuvole, alberi ce ne sono ben pochi, nei libri di Dorothy Porter ci sono, invece, le persone e
le loro storie. Le situazioni si intrecciano, i personaggi si scontrano e, come nei romanzi, vanno
incontro a un finale d‘effetto. Ma il fatto è che quelle della Porter sono poesie. E che poesie:
pagine e pagine che si leggono d‘un fiato. Tre i libri, tradotti da Fandango, e ciascuno, a suo modo,
un caso (intanto Dorothy Porter, nata a Sidney nel 1954 e attiva a Melbourne, è al suo decimo
libro). L‘ultimo è intitolato Che gran capolavoro, e non per un gioco ironico sull‘opera e il suo
valore, ma per rendere omaggio all‘ironia di Amleto. Il capolavoro, naturalmente, è l‘uomo ―nobile
d‘ingegno e immenso di capacità‖. Proprio come lo psichiatra quarantaduenne protagonista del
romanzo in versi: si chiama Peter e dirige un ospedale psichiatrico con entusiasmo e simpatia per i
suoi pazienti. Ma è il 1968 e la ricostruzione della Porter è spietata (tutto in lei lo è). Peter dispensa
tranquillamente elettroshok (senza anestesia, che costa troppo), cure del sonno all‘insulina e una
quantità di farmaci: è come se tutti i dibatti del tempo, sull‘antipsichiatria e la psicoanalisi,
rivivessero tra le righe, nelle parole della giovane amante noiosissima, quando parla di sociologia e
politica, o della ex moglie, freudiana convinta, che disapprova la sempre più disinvolta professione
di Peter. In poche notazioni tutto è chiaro. Mentre lui sguazza in quella specie di palcoscenico, una
paziente con cui ha una relazione e una mongoloide in cura si suicidano. Alla fine, quando lascia
l‘ospedale per la libera e più redditizia professione, Peter toglie al suo amico paziente e poeta carta
e penna, ben sapendo che ne morirà. Proprio un capolavoro d‘uomo, insomma. E anche di poesia,
però. Strano caso, questo di un autore che nei suoi versi riesce a raccontare quello che vuole e lo fa
con un occhio sul mondo lucido e teso. Lasciando spazio, come un vuoto, un respiro tra una poesia
e l‘altra (ognuna con titolo, svolgimento e finale), Dorothy Porter non spiega tutto. Ma si capisce
lo stesso. E il lettore che ci deve mettere del suo resta avvinto, preso nella costruzione che gli
cresce davanti agli occhi. Improvvise espressioni fiorite, iperboliche e violente riportano all‘idea
che si sta leggendo poesia (come un detective al bar bevendo whisky fa subito giallo). Quando, per
esempio, Peter dice ―Il vino salpa per la sua dolce rotta intorno alla mia lingua‖, non c‘è né
compiacimento né lirismo: solo una botta che funziona.
Derek Walcott
Sensazioni e cose oscillano nella calda aria tropicale: un vapore torrido si leva dalla sabbia, dalla
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terra, e fa tremare i contorni delle cose. Alla fine, tutto sembra preso nello stesso movimento delle
onde del mare. In questo vorticare di alberi, pietre, luoghi, persone e memorie, si snoda Prima luce
(The Bounty, 1997), il recente libro del poeta caraibico Derek Walcott. Un fiume di parole,
allineate in versi molto lunghi che Andrea Molesini traduce dall‘inglese ormai torrenziale del
premio Nobel 1992. Qui non si incontrano più le felici ―ariette‖ dei pescatori delle isole, né l‘acqua
dell‘arcipelago ha più la nitidezza della Goletta ―Flight‖. Ma l‘ampiezza dello spazio e la violenza
della luce aprono sempre, tra gli scogli della sua Saint Lucia, scenari accecanti. Cielo e mare si
mescolano, punteggiati, qui e là, da piccole odissee, che riconducono all‘antico sogno omerico: ―I
Caraibi sognano l‘Egeo‖.
Ma la visione della Grecia è filtrata da mille passaggi: la Francia di Manet e Baudelaire;
l‘Italia cara all‘amico poeta Iosif Brodskij, cui è dedicata una delle numerose sezioni del libro (ma
ci sono anche Montale e Quasimodo); la Spagna di Machado, l‘Irlanda di Yeats. Un crogiolo dove
tutto si va ―creolizzando‖ e nessuno può più riconoscersi solo in una cultura, una comunità o una
lingua.
Con la sua opera, Walcott dà vita a un pensiero-arcipelago – qualcosa di cui parla Édouard
Glissant nella sua Poetica del diverso – dove alberi, animali e pietre sono vivi alla pari delle
persone. E delle parole che sulla pagina si distribuiscono come foglie ed erbe sui prati. È quello
che Walcott chiama euforia di lingue (―Ero sicuro che tutti gli alberi del mondo condividevano la
stessa euforia di lingue, il tiglio, l‘albero della gomma‖ e molti altri ancora). Scrivendo in presenza
di tutte le lingue e di tutte le cose viventi, la poesia di Walcott ritrova il suo respiro antico e il
legame mai veramente reciso con la natura.
Nessun ritegno, nessun limite condiziona il poeta che guarda trionfare intorno a sé la
bellezza dei Caraibi: una sorta di magica retorica gonfia i suoi versi e il suo cuore (―nessun mare è
più pesante del mio cuore gonfio‖). Ed è la stessa luminosa eloquenza dei suoi acquerelli, che
riscrivono, con distratta indifferenza, le medesime pagine di un interminabile diario.
Denise Levertov
Rispondendo, in Poeta e lettore, alla domanda su come le nasce un testo, Denise Levertov
racconta, con immagini fisiche e concrete, di come le si faccia strada attraverso il braccio, la mano
e la penna, finché, poi, quando prende forma ed esiste autonomamente, esplode un canto di gioia
che esprime tutta la felicità per la nuova creazione. Si tratta per lei, in qualche modo, di una strada
tracciata fin dalla nascita. Il padre Philip Levertoff (il cognome è stato cambiato in Levertov da
Denise al suo arrivo negli Stati Uniti) – uno studioso che vuole conciliare la fede ebraica e quella
cristiana – infatti, la educò personalmente, rifacendosi tra l'altro alla tradizione di un antenato
illustre, fondatore di un ramo del movimento hassidico.
Nata a Ilford (Essex, Inghilterra) nel 1923, da una famiglia ebrea russa, a soli 12 anni
Denise invia alcune poesie a Eliot che le risponde incoraggiandola. La ragazzina, intanto, si dedica
sempre di più ai propri studi, che interrompe solo per l'altra sua passione: la danza.
Nel '47 sposa lo scrittore amerifcano Mitchel Goodman e con lui si trasferisce negli Usa. Si
stabilisce a New York dove legge appassionatamente William Carlos Williams che la indirizza
verso una scrittura di oggetti, tessuta di cose reali. Frequenti i ritorni in Europa, in particolare nel
sud della Francia dove con il marito raggiunge Robert Creely, animatore della rivista ―Black
Mountain‖.
Rimasta tuttavia sostanzialmente estranea all'elaborazione teorica del gruppo, insegue
autonomamente propri temi e immagini. Dopo una prima serie di raccolte (assemblate in Collected
Earlier Poems 1940-1960) che Ralph Mills definì poesie dell'immediato – come sottolinea
nell'introduzione Liliana Casati – la poetessa si avvia sempre più decisamente sulla strada delle
contestazioni. Partecipa a manifestazioni e a marce per la pace, interviene contro la guerra e l'uso
indiscriminato del nucleare. Ma non per questo rallenta rallenta la propria attività di scrittura. Le
raccolte si seguono alle raccolte, col ritmo spesso di una all'anno. Alla sua morte, avvenuta nel '97,
245
se ne contano più di una ventina.
Dopo gli anni dell'impegno, col mutare dei tempi, la Levertov si avvicina ai movimenti
ambientalisti: nell'insieme della sua evoluzione, al di là delle poesie a contenuto più spiccatamente
impegnato, sono quelle di ispirazione personale e intima a costituire la costante nel tempo e a dare
i risultati migliori.
Oltre la fine è vicina – almeno per il tono discorsivo, di intima e sommessa riflessività – a
una delle ultime, del '96, a quel "Poeta e lettore" di cui si parlava. Il tema dell'arte torna a più
riprese nel libro: in una pagina del '60, dedicata al "vero artista" che non lavora a caso come
l'"artista disonesto". O nella poesia scritta come una "Lettera a un'amica", dove si analizza il
quadro (una cartolina ricevuta) di una donna seduta a un tavolo con una tovaglia bianca e uno
sguardo luminoso e coraggioso. Numerose anche le sequenze dedicate al matrimonio e poi alla
separazione e al divorzio. Ogni volta l'attenzione per la vita quotidiana occupa la mente dell'artista,
assieme ai segnali di quella "sottile foschia oscura" che comunque – lo si voglia o no – copre come
un'ombra gran parte dei nostri pensieri. Nel tentativo di tenere un equilibrio fra ragione e istinto,
fra ciò che è chiaro e dicibile e ciò che è irrazionale e nascosto (il mistero si ripropone sempre per
la Levertov come un limite estremo), questa poesia traccia un percorso che – nei momenti più
felici – è come un arcobaleno: per un attimo, dopo l'acquazzone, celebra le nuove nozze fra cielo e
terra.
Anne Sexton: L‟estrosa abbondanza
Americana come Robert Lowell (ai cui seminari di scrittura partecipò, nel 1959, con Sylvia Plath),
Anne Sexton (1928-1974) è stata collocata, come gli altri due poeti, nell'area "confessional". La
sua opera è infatti segnata da una particolare concretezza di dati autobiografici e personali.
Bisogna intendersi però: ciò non significa che si tratti di un tipo di poesia tutta sfogo e
confessioni veritiere. Anne Sexton stessa precisa parlando di una sorta di aggiustamento: i suoi
versi partono sì, dal disagio psicologico e mentale, dagli internamenti psichiatrici, dai conflitti
psichici (con la famiglia innanzi tutto) – dati già segnalati dai titoli delle raccolte – ma nello stesso
tempo li trasformano, ne fanno un uso improprio, li trasportano nel mondo della finzione.
Il dato personale, comunque, rimane e dà una forza particolare a queste raccolte intitolate:
"In manicomio e parziale ritorno" (1960), "Tutti i miei cari" ('62), "Vivi o morti" ('66), "Il libro
della follia" ('72), "Taccuini della morte" ('74) e postumo "Il tremendo remare verso Dio" ('75).
L'ampia scelta antologica curata da Rosaria Lo Russo, Antonello Satta Centanin e Edoardo
Zuccato consente (dopo la recente, infelice, edizione delle "Poesie d'amore", '69, curata dalla sola
Rosaria Lo Russo) di entrare nel mondo di questa poetessa con traduzioni di qualità.
Alcune poesie erotiche sono di crudezza e violenza davvero sorprendenti. Scritte negli anni
sessanta, rappresentano il corpo femminile come un'opera muraria che la mano dell'amante
continuerà a costruire, o il corpo della donna sola come luogo di una ricerca ossessiva del piacere.
Nella "Ballata della masturbatrice solitaria", il ritornello – Io da sola ogni notte sposo il letto –
chiude sette strofe di una intensità fisica e visionaria che ha pochi precedenti (Whitman e Wilde).
A parte alcune poesie lunghe, la maggior parte dei testi tradotti sono brevi e folgoranti.
Un'occasione da non perdere, utile anche per riprendere contemporaneamente la stessa Plath e
Lowell (entrambi pubblicati da Mondadori).
Il re di maggio
Si registrano salti, restauri e cadute, nel secondo '900, a distanza di 25 anni anche in due poesie di
Allen Ginsberg. Kral Majales (la raccolta King of May: America to Europe), del 7 maggio 1965, e
Return of Kral Majales, del 25 aprile 1990, trattano entrambe della festa del primo Maggio. Nel
'65, Ginsberg è fatto Re dalla folla di Praga, ma il regime lo tenne segregato una settimana e poi lo
espulse a Londra. Nel '90, non ci sono più gli studenti del Politecnico, né la polizia, né il partito
246
comunista; c'è una commissione federale che proibisce di leggere alla radio o in televisione poesie
"indecenti" nelle ore del giorno. Per il resto al poeta invecchiato, dai capelli imbiancati e radi
(questo è il salto) non resta che "tornare passando dal Paradiso a reclamare la corona di carta" di
una volta (è questo il restauro?). Ora è un re senza amore, un re che canta un mantra sanscrito in
versi che suonano così: "andato, tutto andato oltre l'alto ora vecchia mente Ah".
Siamo alla fine della modernità conosciuta (quella che alcuni chiamano postmoderna, ma
postmoderno a me pare significhi un'altra cosa), non c'è più comunismo e neanche beat
generation. Tutto è andato, resta solo la corona pazza
the foolish crown of no ignorance no wisdom anymore non fear no hope in capitalist striped tie & Communist
dungarees
No laughing metter the loss of the planet next hundred years
la corona pazza della non ignoranza non saggezza non più paura non speranza con cravatta a righe capitalista e tuta da
lavoro comunista / Non fa proprio ridere la perdita del pianeta nei prossimi cento anni.
A una grande utopia si è sostituita una disastrosa previsione (la perdita del pianeta). Tutto andato,
col canto del mantra: "Questo era quando ero giovane", "Ora sono un anziano"
Am I my self or some one else
or nobody at all?
Then what's this heavy flesh this
weak heart leaky kidney?
Sono me stesso o qualcun altro / o proprio nessuno? / E cos'è questa carne pesante questo / cuore debole rene crepato?
Dunque non c'è restauro: in queste condizioni la poesia continua fluviale, ritmata, in un
deserto di oltre duecentomila morti, in mezzo a "milioni di persone che acclamano e sventolano
bandiere di gioia a Manhattan".
Ermanno Krumm
[Pubblichiamo qui il capitolo 15 del saggio inedito di E.K. La statura della cose. Poesia e metamorfosi nel
‟900. Sotto il titolo l‘autore annotava: ―Questo capitolo è ancora da finire: da equilibrare ecc.‖ (N.d.R.).]
Note.
(1) Di Raymond Carver si conoscevano diversi romanzi, Cattedrale (trad. it. Mondadori); Di che cosa
parliamo quando parliamo d'amore? (Garzanti) che gli avevano guadagnato (impropriamente) la fama di
"padre dei minimalisti". Nel 1994 l'editore Pironti di Napoli ha pubblicato la raccolta di poesie Blu
oltremare, a cura di Pasquale Sica. Minimum fax di Roma pubblica, ora (2001, N.d.R.), a cura di Riccardo
Duranti, Il nuovo sentiero per la cascata, una raccolta degli ultimi versi che registrano la sofferenza e
l'avvicinarsi della morte del poeta.
(2) Nel dattiloscritto è indicato qui solo il nome di Bukovski (N.d.R.).
247
GIOVANNI NADIANI
IL VERSO INFRANTOSI NELLA STORIA INTERROTTA
Appunti sul concetto di ―prosa breve‖ come iperonimo
1. A mo‟ di premessa personale
Sempre più spesso mi capita di dover rispondere in margine a letture, spettacoli, performance varie,
che nel mio piccolo, e ben cosciente dei miei profondi limiti estetici, assolvo tuttavia con gioia
solitaria o condivisa con dei musicisti settimanalmente nelle più svariate situazioni e davanti a tipi
diversificati di pubblico nella vasta provincia di questo nostro Basso Impero, non tanto alla
domanda sul ―perché scrivi?‖, ma a quella ben più imbarazzante per me del tipo ―sta‘ un po‘ a
sentire, ma cos‘è ‘sta roba che scrivi, reciti, interpreti?‖
Questione imbarazzante per me, perché assolutamente imprevista, in quanto ciò che rigo con
la vecchia stilo su un taccuino o digito dentro un portatile su un treno in ritardo ―mi viene naturale
così‖ senza essermi mai granché posto il problema: una volta va così, una volta cosà e una volta
proprio non si sa. E lo stesso dicasi in qualità di lettore: il genere è del tutto secondario rispetto a ciò
che cerco: parole per me necessarie che corrispondano al mistero di queste quattro ossa su questo
cemento in questo tempo bituminoso con la forma d‘arte sviluppata dall‘unica specie dotata,
appunto, di parola: la letteratura. Cioè ciò che anche un noto critico militante tedesco, dunque
abituato a confrontarsi col ―consumo‖ quotidiano di letteratura però altresì esponente di una stampa
che non vuole limitarsi alla sola informazione letteraria, ha definito ―innanzitutto un‘opera d‘arte
linguistica, un complesso articolato, pensato con intelligenza, forgiato assennatamente, altamente
organizzato dal punto di vista formale, il cui effetto, sia pure inebriante, dipende da principi
drammaturgici e di economia linguistica. Il piacere che ne deriva, in questi tempi tardo-moderni e
disincantati, si deve alla conoscenza di questi principi. Insomma, è dentro al sapere che noi godiamo
di un‘opera d‘arte, attraverso la conoscenza e per mezzo di strumenti analitici‖ [Winkels: 2006].
È così importante far rientrare forzatamente tale ―complesso articolato‖ dentro qualche
schema predefinito per non si sa bene quale scopo? Per me no: o questo ―complesso‖, con le
strategie sue proprie ―mi parla‖, o ―non mi parla‖. E dal lato della produzione: o sono riuscito a
creare un tale ―complesso‖ in cui tutto si tiene e in quel modo così specifico, o non ci sono riuscito.
L‘etichetta di genere è, tutto sommato, superflua e ininfluente.
Se ciò vale per me, mi rendo conto tuttavia che per il lettore/spettatore/uditore da un lato, e
per editori redattori e librai dall‘altro, una catalogazione di determinati testi possa essere di una
qualche utilità ―scaffalatoria‖, magari tramandata da barbose lezioni scolastiche oppure per
un‘intrinseca necessità di chiarezza dell‘intero sistema editoriale (dalle singole collane fino,
appunto, agli scaffali di una libreria), ma niente di più. Anzi, tale tramandata propensione alla
catalogazione ha (avuto) come ricaduta, sia di critica sia di produzione/distribuzione, la doppia
polarizzazione sull‘estremità positiva (in un intrinseco rapporto assolutamente disomogeneo) dei
soprageneri ―romanzo‖ (fagocitante e annichilente qualsiasi altra forma narrativa) e ―poesia‖, a
prescindere dall‘insignificanza da questa rivestita nell‘intera economia editoriale: anche il
megastore delle catene librario-mediatiche dei monopoli italiani e stranieri con relative lobby della
distribuzione e la piccola libreria vecchia maniera di quartiere, accanto alle ingombranti pile di
cosiddetti bestseller e di romanzi romanzetti e romanzacci di stagione, continuano ad avere da
qualche parte un piccolo scaffale (d‘accordo, sempre più ristretto) con volumi di poesia; e l‘intero
sistema critico-accademico-scolastico continua ad assegnare anche alla poesia e ai poeti un ruolo
significativo. Questa doppia polarizzazione ―in positivo‖ ha, come conseguenza, relegato al polo
opposto tutte quelle scritture, di cui anche la storia e il presente letterari italiani sono ricchissimi,
che per vari motivi, quando ci si è degnati e ci si degna di tenerne in considerazione, sono (state)
248
definite ―in negativo‖ [cfr. Giusti 1999], e alle quali solo in rarissimi casi è stato e viene assegnato
uno scaffale, reale o metaforico che sia. Senza voler affrontare qui nuovamente ben precise
idiosincrasie e storture dell‘attuale ―marketing editoriale‖ o della necessità di reintrodurre concetti
come quello di Trivialliteratur, già trattate altrove in riferimento all‘area linguistica tedesca ma con
forti paralleli alla situazione italiana e non solo [cfr. Nadiani 2009a; 2009b], mi sembra di poter
comunque affermare che queste scritture continuino loro malgrado a scontare pesantemente presso
editoria e critica la ―colpa‖ di essere, nella loro poliedricità e versatilità, sostanzialmente sfuggenti a
qualsiasi catalogazione e, in particolare, a espiare i loro due ―peccati originali‖: la brevità e
l‘ibridismo, o meglio, la polifonia stilistica.
Questo, nonostante che uno dei santi protettori delle lettere italiane, Italo Calvino, abbia
sostenuto a forza in una delle sue Lezioni americane (Rapidità), nel frattempo passate anch‘esse nel
dimenticatoio – tanto può l‘inebriante smemoratezza dell‘epoca MIM (Mega Intrattenimento
Mediatico) – le ragioni delle forme brevi e della relativa serrata ricchezza stilistica per conseguire
un‘espressività unica, memorabile, assolutamente necessaria [cfr. Calvino 1988: 31-53].
Tra l‘altro, laddove la menzionata sanzione critico-editoriale viene parzialmente a cadere, la
reazione del pubblico non tarda a manifestarsi smentendo in tal modo almeno certi preconcetti
editoriali (si veda esemplarmente il successo occorso in patria e nel resto del mondo ai due
sudamericani Augusto Monterroso e Eduardo Galeano, o al francese Philippe Delerm).
Stante comunque il fatto che anche il sottoscritto, prima di approdare alle sue attuali,
―naturali‖ varie forme di espressività non romanzesca e non meramente lirica, linguisticamente e
dal punto di vista dei generi meticciate e performative riconducibili dal suo punto di vista tutte alla
definizione-contenitore prosa breve (sentendo risuonare fortemente nella primo elemento del
sintagma il ―prosaico‖ e il ―quotidiano‖), e al conseguente non porsi più il problema del genere, era
pur partito seguendo due ben precisi solchi tradizionalmente solidi: quello di una poesia
fonosimbolica con forti venature ermetiche da un lato; e quello del racconto (più o meno lungo)
dall‘altro, non gli farà male riprendere in mano vecchi appunti e letture su annose questioni nel
tentativo di ripercorrere la strada fatta, cogliendo l‘occasione offertagli dalla Rivista ―L‘Ulisse‖, per
cercare di chiarire a se stesso (anche in qualità di traduttore di prosa breve principalmente dal
tedesco) il proprio operato – benché in un primo momento egli snobisticamente non lo ritenesse
necessario – e di rispondere in qualche modo all‘imbarazzante domanda iniziale dei suoi quattro
lettori/ascoltatori. Così facendo, attraverso anche la breve disamina della situazione in altre aree
linguistiche, magari si solleveranno questioni di interesse più generale che potranno arricchire il
dibattito lanciato dalla Rivista.
2. Una questione di genere: dalla Kurzprosa alla prosa breve
A differenza del panorama letterario italiano che da sempre mostra una certa idiosincrasia
nei confronti di testualità brevi, di non grande formato e che sembra non disporre di una definizione
specifica per i vari tipi di scrittura di ampiezza limitata (anzi, essi sembrano costituirsi in genere
autonomi a partire dalle definizioni che ne danno gli autori di volta in volta; cfr. Giusti 1999),
nell'ambiente critico-letterario di lingua tedesca è ricorrente il termine Kurzprosa [traducibile col
calco ―prosa breve‖] (e, in certi casi, il suo derivato Kürzestprosa [prosa brevissima]). Che cosa,
tuttavia, esso indichi di preciso non è facile stabilirlo. Quanto afferma Burkhard Spinnen a
proposito della kurze Prosa, concentrandosi in particolare sulle diverse tipologie di testi brevi a
carattere giornalistico di ben noti scrittori quali Robert Musil, Joseph Roth, Robert Walser, Alfred
Döblin, può valere anche per la definizione cumulativa Kurzprosa: ―Già questa denominazione di
genere, diventata nel frattempo corrente, benché essa sembri registrare unicamente elementi
quantitativi dei testi, mostra quanto la prosa breve, nonostante o addirittura a causa della pluralità
dei suoi esempi, si sia dimostrata finora resistente a qualsiasi definizione vincolante‖ [Spinnen,
1991:3] .
249
Già il termine in sé di Kurzprosa e il tentativo, come s‘è visto, di trovare un adeguato
corrispettivo in italiano (―prosa breve‖; ―narrativa breve‖; ―prosa narrativa breve‖; ―prosa d'arte
breve‖ ―prosa poetica breve‖, ―poesia in prosa‖ ecc.), con tutte le implicazioni che comporta il
concetto di ―prosa‖ nella storia letteraria italiana, presuppongono comunque la pacifica accettazione
dell'esistenza di precisi generi letterari e di specifiche suddivisioni testuali al loro interno.
Ma che cosa sono i generi o i sottogeneri e in che modo esistono? Sono solamente quelle
―vuote fantasime‖ che erano per il Croce dell'Estetica [Croce, 1965: 43] all'inizio del Novecento, o
fasci di regole esemplari, o sistemi di classificazione, oppure ―strumenti‖ indispensabili alla
categorizzazione e alla comprensione delle singole opere letterarie, o quant'altro ancora? L'ormai
comune riconoscere che i generi in qualche modo esistono, non implica ancora una risposta univoca
alle domande testé formulate.
2.1. Classificazione e definizione dei generi testuali e letterari. Alcune posizioni.
Come sottolinea Pieter de Meijer ―le incertezze cominciano col termine genere stesso. A che
cosa si riferisce precisamente questo termine? E si riferisce alla stessa cosa a cui si riferiscono il
termine francese genre, che si ritrova nell'uso inglese, e il termine tedesco Gattung? Quest'ultima
domanda non va formulata per soddisfare una semplice curiosità comparatistica, ma riguarda il
nucleo stesso della problematica. Quando ci si pone un problema di tipo ―generico‖, ci si trova
infatti da una parte di fronte a un problema che trascende l'ambiente nazionale [...] e dall'altra si è
costretti a rendersi conto di come le soluzioni del problema, sia sul versante della produzione sia su
quello della ricezione e della sistemazione critica, fanno parte di situazioni comunicative che
differiscono da un paese all'altro‖ [De Meijer, 1997a: 5]. E Paolo Bagni nel suo serrato studio
monografico Genere dà per acquisito che il genere non sia nozione semplice, riducibile a un
significato univoco essendo molteplici i criteri di pertinenza del genere, secondo molteplici
possibilità di integrazione sistematica (Bagni, 1997: 99). Egli si pone sullo stesso orizzonte di
Hernadi preferendo ―il più sobrio principio di discutere di letteratura in una cornice concettuale
policentrica‖ alla ―illusoria promessa di unità e semplicità offerta da molte sommarie
classificazioni‖ [Hernadi, 1972: 153], respingendo ―la fallacia di un principio classificatorio
monistico‖ [Bagni, 1997: 99] e auspicando che le future teorie della letteratura esplorino ―come i
più validi concetti generici proposti negli ultimi decenni possano venire integrati in un insieme di
‗sistemi‘ connessi‖ [Hernadi, 1972: 153]. Si tratterebbe, insomma, di inquadrare la questione del
genere – inteso, al negativo, né come fascio di regole esemplari, né come sistema di classificazione,
né come essenziale principio di sviluppo, ma come qualcosa che si descrive in una molteplicità di
piani e funzioni – nella ben più importante ―questione del rapporto tra la fisionomia del genere e la
letteratura nel suo insieme‖ [Bagni, 1997: 83] concordando ancora una volta con Hernadi che ―le
più apprezzabili classificazioni contemporanee di generi ci indirizzano oltre il loro immediato
obiettivo e mettono a fuoco l'ordine della letteratura, non i confini tra i generi letterari‖ [Hernadi,
1972: 184].
Eppure da un punto di vista di ―pragmatica della fruizione‖, senza volere addentrarsi nei
fondamenti delle varie teorie della letteratura, sembra indubbia l'utilità di disporre di definizioni e di
delimitazioni, per quanto insufficienti, del termine ―genere‖ e di eventuali classificazioni dei generi.
Nella cultura letteraria italiana, nonostante gli importanti contributi di diversi studiosi (come
si vedrà più avanti), la valenza del termine ―genere‖ è rimasta vaga, potendosi riferire all'epica, alla
lirica, alla drammatica, ma pure al romanzo, al madrigale, alla tragedia ecc. In altri paesi si possono
invece constatare tentativi più o meno riusciti di delimitare il significato del termine,
contrapponendolo ad altre definizioni usate per fenomeni ―generici‖.
Uno dei tentativi più rigorosi è senz'altro quello di Klaus W. Hempfer e della sua
Gattungstheorie. In questo studio l'autore tedesco esamina e discute approfonditamente le teorie
crociane e tutte le teorie sui generi di qualche importanza proposte dalla fine dell'Ottocento in
Europa e negli Stati Uniti, concentrandosi in particolare su quelle formulate dai critici tedeschi, in
250
quanto nella cultura tedesca del Novecento la riflessione sui generi è stata più forte che altrove in
Occidente, e mostra nuove soluzioni e proposte, tra cui una sua particolare terminologia. In un
sistema basato da un lato sul concetto di Sprechsituation [situazione locutoria], in cui si determina
un preciso rapporto fra parlante e uditore, e dall'altro sul concetto di struttura di Jean Piaget,
Hempfer distingue, da una parte, quattro concetti base: Schreibweise [modo di scrivere]; Typus
[tipo]; Gattung [genere]; Untergattung [sottogenere]; ed evidenzia, dall'altra, Sammelbegriffe
[concetti d'insieme] [Hempfer, 1973: 26]. Per Schreibweisen si devono intendere costanti a-storiche
come il narrativo, il drammatico e il satirico; per Gattungen le attuazioni storiche di queste
Schreibweisen come il romanzo, l'epopea; per Untergattungen forme come il romanzo epistolare,
picaresco ecc.. Il Typus indica le possibilità delle Schreibweisen che travalicano i singoli periodi
storici. Ad esempio: la narrazione condotta da un io narrante è un Typus della Schreibweise
narrativa. Hempfer distingue, inoltre, Sammelbegriffe, classificazioni di comodo quali ―l'epica‖, ―la
lirica‖ che servono per parlare di una data forma di un dato periodo [Hempfer, 1973: 27-28]. Il
merito di Hempfer è quello di delimitare in maniera rigorosa il significato del termine ―genere‖, che
non può più significare epica o lirica ecc.
In Francia Gérard Genette, risalendo a Platone e ad Aristotele, sottolinea che nel concetto
traducibile come mode (modo) si può reperire un criterio fondamentale di questi filosofi per la
distinzione di diverse testualità. Il mode si basa sulla situazione enunciativa: o parla il poeta o
parlano i personaggi [Genette, 1977: 394]. Questi ―modi‖ (il narrativo e il drammatico) non sono da
confondersi con ―tipi ideali‖ e non sono da identificarsi con i tre generi (―archigeneri‖), lirica,
epopea, dramma [1977: 394-421]. Per Genette i generi sono ―classi empiriche stabilite
dall'osservazione dei dati storici‖ [1977: 419] e la loro relazione è complessa ma non riducibile a
una ―semplice inclusione‖ dei generi nei modi [1977: 421]. Secondo De Meijer, benché Genette
sembri non essere al corrente dello studio di Hempfer, ―la convergenza fra le due teorie è notevole:
la base trovata nella situazione locutoria o enunciativa, la distinzione dei modi, il rifiuto di generi
naturali o ideali al di fuori della storia, e la distinzione di concetti di insieme, come li chiama
Hempfer, o ―archigeneri‖ come li chiama Genette‖ [De Meijer, 1997a: 7]. Successivamente però
Genette sembra tendere a spostare la nozione di genere su un altro piano, perché, senza contraddire
apertamente la priorità dei modi di enunciazione, delinea un sistema fatto non tanto più di
differenze e opposizioni di tratti costitutivi, quanto di relazioni fra i generi. L'idea centrale è quella
di trascendenza testuale ―tutto ciò che lo [il testo] mette in relazione, manifesta o segreta, con altri
testi‖ [Genette, 1981: 69], che si dispone in una serie di rapporti tra i testi, di transtestualità, ovvero
di: intertestualità, ―la presenza letterale (più o meno letterale, integrale o no) di un testo in un altro‖;
metatestualità, ―la relazione transtestuale che unisce un commento al testo che commenta‖;
paratestualità (rapporti di imitazione e di trasformazione, come il pastiche o la parodia); la
―relazione di inclusione che unisce ogni testo ai diversi tipi di discorso ai quali appartiene. Qui
vengono i generi e le loro determinazioni già intraviste: tematiche, modali, formali e altre(?)‖: i
generi sono dunque l'architesto con cui il testo sta in relazione di architestualità. [1981: 70].
Nella cultura anglosassone nell'ambito degli studi sui generi notevole importanza ha assunto
la proposta di Alastair Fowler Kinds of Literature. A leggere il sottotitolo, An Introduction to the
Theory of Genres and Modes, anche Fowler al pari di Hempfer e Genette sembra proporre una
teoria dei generi e dei modi. I genres e i modes dello studioso americano però non corrispondono né
alle Gattungen e alle Schreibweisen di Hempfer né ai genres e ai modes di Genette. Secondo il De
Meijer il sistema proposto da Fowler è più vicino a quello di Hempfer che non a quello di Genette,
non coincidendo però affatto con il primo in quanto: ―Il termine genres come lo adopera Fowler è
un termine globale che indica sia i generi quali si manifestano storicamente, i kinds del titolo, sia i
―modi‖, che costituiscono selezioni o astrazioni dai generi storici, come il modo pastorale, il modo
storico, il modo tragico, ecc., sia i ―tipi costruttivi‖ (constructional types), che sono procedure
puramente formali o compositive come per esempio l'incorniciamento di una serie di novelle, sia
infine i subgeneres, sottogeneri, che possiedono le stesse caratteristiche del kind corrispondente, e
in più un contenuto più specifico. [...] In particolare il ruolo fondamentale che lo studioso tedesco
251
attribuisce alla situazione locutoria per distinguere il narrativo e il drammatico come ―modi di
scrivere‖ primari rispetto a ―modi di scrivere‖ come il modo satirico o tragico, non ha un
equivalente nella teoria di Fowler, il quale nega esplicitamente un posto privilegiato a quello che
egli chiama un representational mode‖ (De Meijer, 1997: 9).
Nonostante le differenze e la confusione di carattere terminologico tra le diverse teorie sui
generi, tanto più marcate quanto si scende al piano più concreto delle denominazioni di singole
categorie o di singoli generi storici, spesso frutto di concezioni diverse di quanto dovrebbe essere
fondamentale in una teoria dei generi, un orientamento comune almeno in vista di una direzione in
cui cercare le soluzioni non sembra del tutto impossibile. A vedere questa possibilità è il De Meijer
che propone innazitutto una distinzione fra i generi quali si manifestano storicamente e gli elementi
costitutivi di tali generi. Fra questi elementi egli riconosce da un lato modi che riguardano
l'esposizione, l'enunciazione o la presentazione del contenuto (le Schreibweisen primarie di
Hempfer, i modes di Genette, i representational modes di Fowler), e dall'altro modi che riguardano
il contenuto (le Schreibweisen secondarie di Hempfer, le ―categorie tematiche‖ di Genette e certi
modes di Fowler). Per questi due ―modi‖ diversi lo studioso olandese propone i termini ―modi
enunciativi‖ e ―modi semantici‖ [De Meijer, 1997a: 11-12] e in entrambi i modi egli distingue delle
suddivisioni, così come nei generi storici si possono distinguere dei sottogeneri. ―Sono evidenti
soprattutto i vari tipi del modo enunciativo narrativo, i sous-modes di Genette, che si possono
chiamare, con Hempfer, tipi [...]. I modi enunciativi, certi tipi e certi modi semantici (il comico, il
tragico, il satirico, ecc.) sono costanti a-storiche nel senso che possono manifestarsi in generi di
epoche lontanissime l'una dall'altra. Oltre ai modi interviene nella costituzione di un genere ancora
un terzo elemento, il ―mezzo‖ con cui si realizza la mimesi secondo Aristotele, la ―determinazione
formale‖ per Genette: la lingua, come poesia o prosa. Un genere storico si lascia allora descrivere
come l'intersezione delle manifestazioni concrete di un modo enunciativo, un modo semantico e una
scelta linguistica, intersezione nella quale possono però verificarsi varie sovrapposizioni modali e
linguistiche‖ [1997a: 12].
Comune a tutte le teorie fin qui esposte sembra essere la concezione secondo la quale ―i
generi vanno studiati non come analogie di oggetti fisici ma come schemi comunicativi, o come
sistemi di norme comunicative o come codici supplementari nel quadro di una situazione
comunicativa che comprende il mittente, il messaggio ma anche il ricevente‖ [1997a: 13], come
sottolineato anche da Fowler, non certo vicino a impostazioni semiotiche: ―This book has set out the
idea that it is a communication system, for the use of writers in writing, and readers and critics in
reading and interpreting‖ [Fowler: 1982: 256]. In una prospettiva di questo tipo sono da collocarsi
anche i maggiori contributi italiani allo studio dei generi, quelli di Maria Corti e di Cesare Segre.
Nel capitolo ―Generi letterari e codificazioni‖ del libro Principi della comunicazione
letteraria Maria Corti evidenzia un approccio storico-semiotico ad alcuni generi storici, visti come
sistemi di comunicazione letterari codificati da una stretta interdipendenza del livello tematico e del
livello formale. ―Il genere letterario [...] può definirsi il luogo dove un'opera entra in una complessa
rete di relazioni con altre opere; da tale angolazione pertinente è la natura delle relazioni che si
instaurano, il loro carattere di invarianti sicché in un certo senso il genere può dirsi un tipo di
processo letterario‖, in cui, ―a livello tematico, è significativa entro un genere non tanto la presenza
di alcuni contenuti, temi o motivi, che come tali possono essere comuni a più generi letterari [...],
bensì il rapporto fra l'organizzazione tematica e il piano formale, senza di che non vi è genere‖
[Corti, 1976: 156-157]. Corti sottolinea il legame esistente in un genere tra la tematica e il piano
formale: solo dalla loro interdipendenza nasce la codificazione, e non si potrebbe parlare di codici
se non vi fossero regole di interazione fra forma del contenuto e forma dell'espressione. Di qui
discende il tentativo di rinvenimento, in un corpus abbastanza omogeneo di testi, ―delle invarianti
che danno vita al codice, di contro alle varianti dei singoli testi, e delle regole di trasformazione dei
codici stessi‖ [1976: 157]. La codificazione, all'interno di un genere, determinata dalle rispettive
invarianti rinvenute, non ha i tratti normativi, ad esempio, di un sistema linguistico o giuridico, ma
si presenta piuttosto come un ―programma‖ basato su leggi molto generali riguardanti ―il rapporto
252
dinamico fra certi piani tematico-simbolici e certi piani formali, il tutto in relazione distintiva o
oppositiva rispetto al programma di un altro genere‖ [1976: 158].
Segre, nella voce Generi curata per l'Enciclopedia Einaudi, sembra proporre un approccio
non molto dissimile da quello di Corti definendo il genere letterario come ―un particolare tipo di
rapporto fra le varie particolarità formali e gli elementi contenutistici‖, reggendosi tale rapporto
soltanto in certi periodi e ―in minima parte‖ su codificazioni esplicite, di solito invece su ―norme di
coesione‖ non rigide [Segre, 1979: 584].
Al termine di questa breve panoramica e di fronte ad alcuni elementi caratterizzanti una
sorta di orientamento comune non si può però evadere la domanda sulla specificità di tale
orientamento nell'affrontare testi di carattere letterario: ―La scelta linguistica, il modo enunciativo e
il modo semantico, ecco tre criteri, si potrebbe obiettare, che serviranno magari a distinguere generi
letterari, ma anche generi non letterari e come distinguere allora l'insieme dei testi letterari da altri
tipi di testo?‖ [De Meijer, 1997: 16]. De Meijer stesso cerca di dare una risposta a questa domanda,
ovvia ma legittima, innanzitutto a livello dei mezzi espressivi e formali, evidenziando come i generi
non letterari non siano soggetti alle costrizioni formali caratteristiche dei generi letterari. Lo
studioso olandese è cosciente però anche del fatto che le costrizione formali più forti non sono
elementi caratteristici della letteratura in generale, ma solo di alcuni generi, e che se esse, sul piano
dei mezzi espressivi, possono avere un valore discriminante, da sole non sono sufficienti a
delimitare l'ambito dei generi letterari [1997a: 17]. In relazione ai modi enunciativi, De Meijer
sottolinea l'impossibilità di trovare in prima istanza criteri distintivi fra generi letterari e generi non
letterari, potendosi al massimo distinguere alcuni generi letterari da altri non letterari conoscendo
eventualmente le convenzioni su cui si basa la ―finzionalità‖ [1997: 19], secondo un contratto che
l'autore stipula con il lettore che prevede la sospensione di alcune regole della comunicazione
diretta e pratica [Searle, 1975: 155]. Come per il livello dei mezzi espressivi e per quello dei modi
enunciativi, anche per il livello dei modi semantici, per quello tematico e per la funzione sociale
secondo de Meijer è molto difficile reperire dei tratti distintivi precisi, e pur volendo forzatamente
far valere il ―contratto finzionale‖ (cosa comunque da non doversi fare) non solo per i generi
drammatici e narrativi, ma anche per i generi lirici, bisogna giungere alla ―conclusione che lo studio
dei generi letterari si può sviluppare pienamente solo nel quadro dello studio dei tipi di testo in
generale. [...] Pur non configurandosi come un gruppo omogeneo e pur ―imparentandosi‖ da tutti i
lati ad altri tipi di discorso, i generi letterari costituiscono un ―aggregato‖, che o per la scelta dei
mezzi espressivi o per la scelta dei modi enunciativi e semantici o per una funzione sociale o per
varie combinazioni di questi elementi è ancora abbastanza riconoscibile per mantenere l'idea di un
loro specifico studio‖ [1997a: 23-24].
Per Philippe Hamon, invece, la riconiscibilità ―intuitiva‖ di un ―genere‖ letterario sarebbe da
ricondurre alla memoria (all'esperienza, dunque) del lettore col suo orizzonte d'attesa allenato a
cogliere i segnali incorporati nel testo. Ponendo l'accento sulla necessità dell'identificazione
immediata del ―genere‖ di un'opera – e quindi dei segnali che la caratterizzano – come tappa
indispensabile alla comprensione dell'opera stessa, riprendendo idee e terminologie di Genette [cfr.
Genette, 1992] e Lane [cfr. Lane, 1992] egli circoscrive il ―genere‖ in una ―cornice‖ che assicura
un patto di comunicazione: ―Le genre est donc cette ―aire de jeu‖, balisée de certains signaux, à
l'interieur de laquelle, sur la base de certains règles, va se jouer, entre partenaires disjoints, la
communication littéraire. On peut donc le définir comme le ―cadre‖ nécessaire permettant d'assurer
un pacte de communication. Pas de lisibilité sans cadrage de la mémoire et de l'horizon d'attente du
lecteur par un genre (qu'il soit unique ou pluriel, respecté ou perturbé), et pas de genre qui ne soit
indiqué par des signaux incorporés au texte. [...] Le terme ―cadre‖ peut donc s'entendre au sens
pragmatique large (un pacte de lecture général valant consigne) et au sens sémiotique étroit (le
système démarcativ des points stratégiques du texte, ses marges et ses seuils, son péritexte – titre,
incipit, clausule). L'un et l'autre étant étroitement liés: c'est en général sur ses seuils et incipit qu'un
texte littéraire dispose les signaux indiquant le(s) genre(s) dont il relève‖ [Hamon, 1996: 72-73].
253
2.1.2. L‟aspetto narrativo nella Kurzprosa e nella Kürzestprosa
―Dal lato della produzione un genere o un sottogenere letterario può essere visto come il
risultato di alcune scelte che nella costanza sopra-individuale diventano convenzioni‖ [De Meijer
1997b: 187-188].
Tra queste scelte risultano fondamentali, ad esempio, quelle tra lingua e dialetto, tra oralità e
scrittura, tra prosa e poesia, tra forma breve e forma lunga. A proposito di queste ultime due
tipologie di scelte, si deve tener presente che ―un testo narrativo presenta tutti i problemi di
qualsiasi altro tipo di testo, oltre a qualcuno in più‖ [Eco, 1979: 69] e che, quindi, nell'esame di testi
narrativi rimane fondamentale quel problema ―in più‖, cioè il narrativo propriamente detto, la
narratività e che questa si mostra nel modo in cui è condotta la narrazione e nella storia narrata.
Se da un punto di vista prettamente formale consideriamo la poesia come ―un discorso
caratterizzato al livello più superficiale del discorso da costrizioni più forti di quelle valide per la
prosa‖ [De Meijer, 1997b: 194], quest‘ultima, come ricorda Lausberg [1969: 256], è ―il discorso
diretto in avanti‖ (provorsa), che al contrario del verso (―svolta‖, ―ritorna‖) non conosce alcun
ritorno regolare, a danza, di uguali cadenze ritmiche. Ma, come sappiamo, a partire dal
romanticismo sono venute a destrutturarsi gradualmente le forme metriche tradizionali a favore di
una ricerca ritmica nella prosa, che porterà Baudelaire, Verlaine, Rimbaud ed altri al poema in
prosa, alla prosa musicale, al frammento lirico o al verso libero. In questo contesto significativi, per
un‘indagine stilistica della prosa artistica del Novecento italiano, sono stati i contributi di Beccaria
[1975], che ha individuato in D‘Annunzio il punto di incrocio di numerose esperienze e soluzioni
tecniche che si riflettono dalla prosa alla poesia e viceversa (il periodo cumulativo, l‘enumerazione,
la paratassi, le riprese oratorie ecc.).
Sapendo, dunque, che la prosa può andare benissimo in tante direzioni, compreso verso la
poesia, che cosa caratterizza la prosa nel senso della narrativa?
Senza entrare nel merito delle varie metodiche e prospettive talora molto divergenti della
moderna narratologia, di cui ormai nessuno contesta la legittimità, è utile tenere in considerazione
un punto su cui sembra vigere un accordo di fondo: e cioè di come il testo narrativo venga inteso
come ―un messaggio sotteso e organizzato da uno o più codici, trasmesso mediante un canale, in un
dato contesto, da un emittente a un destinatario. In una siffatta forma di comunicazione letteraria
occorre tenere ben distinte due coppie di ―partecipanti‖ modellate sulle funzioni emittentedestinatario:
a) lo Scrittore-Autore e il Lettore, rapportati dal Testo-Libro (livello della comunicazione
che definiremo extratestuale);
b) il Narratore e il Narratario o Destinatario interno, rapportati dal testo-Narrazione (livello
intratestuale)‖ [Marchese, 1990: 76-77].
Segre riassume il narrare come ―realizzazione linguistica mediata, avente lo scopo di
comunicare a uno o più interlocutori una serie di avvenimenti, così da far partecipare gli
interlocutori a tale conoscenza, estendendo il loro contesto pragmatico. La narrazione può assolvere
un compito di documentazione e/o di testimonianza, anche a valore storico, volta a collocare nel
―presente‖ elementi del ―passato‖ disponendoli nella memoria, che è dispositivo e repertorio
culturale. La narrazione si orienta verso l‘artificialità, e anche verso le arti, quando, ponendosi con
una certa autonomia nei confronti del reale, fa intervenire i meccanismi della simulazione,
dell‘invenzione, della finzione, dell‘immaginazione anche collettiva, che pure non sono estranei alle
relazioni e interpretazioni storiche, non foss‘altro perché intervengono criteri di orientamento
dell‘osservazione, del tempo, e quindi dei valori. L‘attività narrativa implica inoltre nelle sue varie
destinazioni diversi effetti di visualizzazione, diversi assetti del materiale e diversi piani di
manifestazione‖ [Segre, 1980: 701].
Interessante da un punto di vista pragmatico per l'individuazione empirico-deduttiva di punti
nodali di un testo definibile come narrativo è lo schema suddiviso in tre ambiti di analisi proposto
254
da Werner Riedel e Lothar Wiese. In un primo momento vengono analizzati gli elementi che si
riferiscono in particolare al narratore in qualità di mediatore del mondo narrato. Le caratteristiche
del narratore fissano il punto di vista del lettore sul narrato: forme della narrazione; luogo del
narratore; atteggiamento della narrazione; punto di vista del narratore. In un secondo segmento di
analisi vengono evidenziati aspetti come: strutture della narrazione e taglio temporale, forme di
rappresentazione, mezzi linguistico-narrativi. In un terzo ambito di analisi vengono esaminati
aspetti quali: modellamento semantico spazio-temporale; caratteristiche dei personaggi. Infine
l'analisi è completata da un ulteriore segmento relativamente al rapporto col lettore, col contesto e
con la ricezione [Riedel-Wiese, 1995: 14-15].
Una delle scelte più importanti sul piano dei mezzi narrativi è quella tra forma breve e forma
lunga del raccontare. De Meijer vede configurarsi l'opposizione forma breve VS forma lunga
innanzitutto come semplicità VS complessità, tale opposizione esprimerebbe due modi diversi di
cogliere la realtà: da una parte la tendenza verso la concentrazione e la sintesi, dall'altra la tendenza
verso la pluralità e l'analisi [De Meijer, 1997b: 213-216]. Egli vede la forma più elementare di tale
opposizione presente nella narrazione in generale nel contrasto fra l'attenzione per l'accadere
dell'avvenimento e l'attenzione per la spiegazione di esso: ―Ciò si può ancora vedere nella storia di
un individuo che il romanzo può narrare nel suo svolgimento intero o in una crisi e che la
narrazione breve può cogliere soltanto in una crisi, il che sembra precludere la possibilità di
―coprire‖ una vita intera. In realtà le cose non stanno così: la forma breve può benissimo raccontare
una vita intera, solo che la rappresenta allora come un momento, come una crisi, come una
manifestazione del puro accadere‖ [1997b: 217].
In effetti in molti casi sembra che le forme brevi o brevissime, le ―scaglie narrative‖
rispecchianti fulmineamente la crisi di una vita e di un mondo, siano dovute all'esperienza di
frammentazione, di polverizzazione di presunti concetti monolitici quali ―realtà‖, ―mondo‖, ―vita‖:
il frammentario ovvero l'astrazione, l'uscire quasi dalla narrazione di una storia sembrano abilitare
molti autori a cogliere con strumenti minimali in uno spazio ridottissimo tale esperienza di crisi.
Parlando della Kurzgeschichte, la variante tedesca soprattutto postbellica della short story,
prendendo a prestito il titolo di un racconto dello scrittore inglese Edward Morgan Forster, The
Eternal Moment, anche Manfred Durzak associa il termine ―Krise‖ alla narrazione breve
presentandolo però come alternativa all'attimo epifanico della conoscenza: ―Tutto è condensato in
un‘infima porzione di tempo, che però è tutt‘altro dall‘essere casuale o interscambiabile. Si tratta
piuttosto di un momento messo in risalto, un‘esperienza chiave, la cristallizzazione temporale di
una crisi, di un momento di conoscenza, che riunisce e sintetizza un calderone di eventi fino a quel
momento imperscrutabile ovvero la totalità della storia di una vita in un singolo punto focale‖
[Durzak, 1994: 161].
Se, genericamente, le forme brevi (la novella, il racconto breve, la short story ecc.)
costituiscono dunque la rappresentazione di un momento, la manifestazione di un puro
accadimento, la compressione, la condensazione di un avvenimento e in molti casi ―gradi di
evanescenza epica‖ [Durzak], riducendo al minimo la narrazione e tendendo quasi all'astrazione,
che cosa caratterizza allora la cosiddetta Kürzestprosa? Secondo Riedel-Wiese, sebbene sia quasi
impossibile differenziare la ―forma brevissima‖ da altre forme narrative e assegnarle un'identità di
genere, si può tentare di circoscrivere in negativo il concetto evidenziandone le mancanze: ―Alla
Kürzestprosa perlopiù mancano un‘azione narrativa progressiva, uno spazio temporale e
evenenziale omogeneo, e spesso il carattere fittizio non è presente in modo univoco‖ [Riedel-Wiese,
1995: 59]. Ma come tantissimi testi di scrittori tedeschi o sudamericani dimostrano anche tale
definizione è insufficiente a cogliere l'ampio ventaglio delle forme brevi. Ciò nonostante essa può
essere utile per tratteggiare una direzione verso un ―luogo di raccolta della comprensione‖, luogo in
cui possono concentrarsi, quasi sinonimicamente, altre forme brevi come la Kürzestgeschichte o la
Kurzgeschichte.
255
2.1.3. Dalla Kurzgeschichte alla Kürzestgeschichte
Per molto tempo considerata la ―parente povera‖ tra le forme brevi, una sorta di Zwergprosa
[prosa nana] ][Schmidt-Dengler, 1972: 493] o di Kleinvieh der Prosa [bestiame minuto della prosa]
[Höllerer, 1962: 237], nonostante una considerevole tradizione che annovera autori quali Robert
Walser, Franz Kafka e Bertolt Brecht, la Kürzestgeschichte, nella diversità delle sue forme, ottenne
il giusto riconoscimento critico e di pubblico solo verso la metà degli anni Sessanta in seguito alla
pubblicazione di importanti raccolte ad opera di autori quali Helmut Heißenbüttel (Textbücher I-VI,
1960-67), Reinhard Lettau (Auftritt Manigs, 1963), Peter Bichsel (Eigentlich möchte Frau Blum den
Milchmann kennenlernen, 1964, Premio ―Gruppe 47‖), Günter Eich (Kulka, Hilpert, Elefanten,
1968), Ror Wolf (Danke schön, nichts zu danken, 1969). Da allora il ―successo‖ della
―Kürzestgeschichte‖ – mascherato dietro definizioni come Kurzprosa, Kürzestprosa, Miniature,
Bagatelle, kurze Geschichte, o addirittura semplicemente di Geschichte - si può dire sia stato
ininterrotto fino ai nostri giorni, al contrario della ―sorella maggiore‖, la Kurzgeschichte, da cui
pure ha ereditato più di un elemento, non ultimo il suo ―aspetto camaleontico‖ [Bender], la quale
dopo essere stata per alcuni decenni la forma narrativa breve per eccellenza (si pensi ad autori come
il Premio Nobel Heinrich Böll, Sigfried Lenz o Martin Walser, che a giudizio di molti hanno dato il
meglio di sé nella ―storia breve‖ e non tanto nei romanzi che pure hanno fondato la loro fama) e,
dopo un periodo di appannamento durato una trentina d‘anni, è tornata ad essere produttiva propria
con la sua storica definizione (non a caso uno degli autori di qualità di maggior successo, lo
svizzero Peter Stamm, la riprende nei suoi libri) oppure nascosta nella variante inglese short story
con tutte le implicazioni del caso, sembra da tempo aver trovato una forte concorrente anche come
campo sperimentale di narrazione compressa in altre forme ancora più ridotte [Schweike, 1984:
243].
Ma se la Kurzgeschichte ha in qualche modo determinato il formarsi e l'affermarsi della
forma più breve, avendo per prima da una parte cercato una propria strada autonoma tra le varie
forme brevi della tradizione letteraria tedesca (Novelle, Erzählung, Anekdote, Kalendergeschichte
ecc.) e, dall'altra, creato il giusto clima per un'ampia ricezione di narrazioni brevi, sarà innanzitutto
necessario evidenziare alcuni aspetti di tale ―camaleonte‖ narrativo, benché questi – al pari di quelli
della Kürzestgeschichte – siano di difficile e incerta determinazione, toccando di passata altre
forme brevi per soffermarsi infine sulle principali caratteristiche della Kürzestgeschichte,
nell'impossibiltà di circoscriverne le forme in un ―genere‖ definito.
La Kurzgeschichte, sorta in Germania verso il 1920 come forma letteraria ―rapida‖ per il
crescente mercato delle pubblicazioni quotidiane e periodiche adatta ad un pubblico di massa
frettoloso alla ricerca di tematiche realistiche, vicine alla propria esperienza, in un linguaggio
comprensibile, deve però la sua ―fortuna‖ essenzialmente alla nuova generazione di scrittori messisi
all'opera nel Secondo Dopoguerra con l'intenzione di rompere con una tradizione letteraria sentita
come troppo ―compromessa‖ col tragico, recente passato. È a partire dalla nota antologia Tausend
Gramm. Sammlung neuer deutscher Geschichten, pubblicata nel 1949 da Wolfgang Weyrauch con
la relativa postfazione – contenente le parole d'ordine, poi degenerate, per una nuova letteratura
(Kahlschlag, Nullpunkt [punto zero], ecc.), l'appello agli autori a favore di una responsabilità
morale della scrittura nonché‚ di un'esatta descrizione delle condizioni sociali della situazione
dell'immediato Dopoguerra –, che la Kurzgeschichte si afferma come la forma più congeniale a far
fronte alle sfide di una precisa stagione storico-letteraria. ―Die Methode der Bestandaufnahme. Die
Intention der Wahrheit. Beides um den Preis der Poesie [...] Sie [die Autoren] fixieren die
Wirklichkeit. Da sie es wegen der Wahrheit tun, photographieren sie nicht. Sie röntgen. Ihre
Genauigkeit ist chirurgisch‖ [Weyrauch, 1949: 217-218]. Molti autori si allontanarono ben presto
da queste radicali osservazioni/richieste programmatiche di Weyrauch, abbandonandosi con estrema
libertà all'ampio spettro di potenzialità estetiche offerte dalla nuova forma breve.
Nonostante i numerosi e ampi studi e le innumerevoli, spesso serrate, dichiarazioni di
poetica avutisi sulla Kurzgeschichte nel corso di circa quattro decenni, non è stato possibile
256
determinarne le precise coordinate di ―genere‖. Esemplare in questo senso è risultato il lavoro di
Ludwig Rohner, che dopo aver esaminato acribicamente 150 testi di dieci autori e aver dato un
ampio quadro dei fenotipi della Kurzgeschichte non arriva a formulare una precisa teoria del genere
[Rohner, 1973]. Ciò non toglie che alcuni lavori, come quelli di Klaus Doderer, Die Kurzgeschichte
in Deutschland, e di Walter Höllerer, Die kurze Form der Prosa, sulla produzione dei primi anni
della rinascenza della ―storia breve‖, nonché quello di Manfred Durzak, Die Kunst der
Kurzgeschichte, siano riusciti, se non a fondare una vera e propria teoria del ―genere‖, perlomeno a
circoscrivere alcune caratteristiche generali.
Doderer nella sua dissertazione del 1953 suddivide le forme della Kurzgeschichte in due
―tipi ideali sovratemporali‖ e in tre ―gruppi tecnici legati al tempo‖. I due tipi ideali si intendono
riferiti al contenuto e si basano sulla reazione del protagonista a un situazione di crisi: se il
protagonista va contro il proprio destino (comportamento attivo), Doderer parla di ―tipo-azione‖; se
invece il protagonista si sottomette al proprio destino (comportamento passivo), egli parla di ―tipocondotta‖. I tre rimanenti gruppi vengono distinti da Doderer in base a punti di vista strutturali:
1) la Kurzgeschichte abbozzata con descrizioni di dettagli d'ambiente;
2) la Kurzgeschichte strettamente epica con argomento elevato narrato in forma scorciata;
3) la Kurzgeschichte oggettiva, redatta in stile quasi giornalistico con mascheramneto degli
effetti.
A parere di Doderer, la Kurzgeschichte presentandosi essenzialmente come la riproduzione
artistica di un significativo momento di rottura nella vita (nel destino) di una persona si
distinguerebbe chiaramente dalle altre forme brevi. Dall'Anekdote [aneddoto] in quanto questo, ad
esempio, ha un'acme mentre la Kurzgeschichte una rottura, e a differenza di questa vuole essere
storico e avere un protagonista, mentre nella Kurzgeschichte il motivo trainante può essere anche
solo il destino. Per Doderer la Kurzgeschichte si distinguerebbe anche dalla short story angloamericana, in quanto, a differenza di questa considerata una sorta di nome cumulativo per qualsiasi
forma breve, sarebbe un genere dai contorni ben chiari. A differenza della Novelle [novella], che
chiude una problematica, la Kurzgeschichte la schizzerebbe solamente. Infine secondo Doderer
―anche nei confronti dello schizzo e del racconto per non parlare del romanzo, la Kurzgeschichte
preserva la sua autonomia. Mentre il primo riproduce soltanto un‘atmosfera, nella Kurzgeschichte si
svela un colpo del destino; e mentre il racconto addiziona degli eventi senza regolarità, la
Kurzgeschichte si limita a un unico evento elaborandolo in una forma precisa‖ [citato da Graf von
Nayhauss, 1977: 45-46]. Successivamente Doderer si è allontanato dalla sua prima classificazione
tenendo in considerazione solo quattro caratteristiche formali vincolanti per la Kurzgeschichte: essa
sarebbe più breve della Novelle, inizierebbe solitamente senza preambolo, si svilupperebbe in modo
lineare e di regola avrebbe una chiusa aperta, spesso sorprendente. [cfr. Doderer, 1972].
Anche Höllerer, nel noto saggio Die kurze Form der Prosa pubblicato nel 1962 sulla rivista
―Akzente‖, dopo aver escluso in partenza una concezione normativa di genere della Kurzgeschichte
e aver evidenziato sette condizioni basilari perché essa possa darsi nonché tre ―possibilità‖ di suoi
tipi, cerca, per esclusione, di isolarla dalle altre forme prosastiche brevi ricorrenti nella letteratura
tedesca. Per Höllerer le condizioni fondamentali (nello stesso tempo caratteristiche principali)
perché possa darsi la Kurzgeschichte sono:
1) la fissazione dell'attimo;
2) i passi decisivi scattano nelle situazioni in apparenza prive di importanza;
3) gli avvenimenti vengono solo accennati;
4) i personaggi e gli oggetti nelle situazioni focali si avvicinano gli uni agli altri;
5) l'azione si basa su singoli blocchi narrativi che si sostengono a vicenda;
6) il narratore non cerca di occultare l'operazione del narrare;
7) l'incipit e la chiusa sono aperte.
257
Le tre possibilità di una tipologia della Kurzgeschichte sono:
1) la Kurzgeschichte dell'attimo;
2) la Kurzgeschichte arabescata;
3) la Kurzgeschichte sforzata ovvero a dissolvimento.
Secondo Höllerer la forma in questione non sarebbe un aneddotto, poiché i sette punti
appena citati per essa non vi si adattano, inoltre questo è localizzato spazio-temporalmente e
provvisto di un'acme. Il Witz [motto di spirito] è, a differenza della ―storia breve‖ o ―brevissima‖
molto arguto; mentre la Fabel [fiaba] intende mostrare una similitudine didascalica, estranea alla
Kurzgeschichte. Essa non è uno Skizze [abbozzo], poiché‚ questo non ha storia né azione,
comunicando solo sensazioni unitamente a riflessioni; e neppure uno Sketsch, essendo questo
innanzitutto solo un quadretto d'atmosfera. Benché molte Kurzgeschichten a carattere monologico si
avvicinino all'Einakter [atto unico] di ispirazione cocteauniana, questo presuppone quasi sempre un
antagonista anche se invisibile, assente nelle ―storie brevi‖ monologanti. Höllerer, a differenza di
altri, sottolinea come la Kurzgeschichte sia stata influenzata, angesteckt [contagiata] da due forme
di prosa breve: da un lato dalla Feuilletongeschichte (che potremmo osare di tradurre con
―elzeviro‖) col suo gradevole tono parlato; e, dall'altro, dalla lyrische Prosa [prosa poetica] a
impronta metaforica e ritmica. [Höllerer, 1962: 226-245].
Durzak tenta di sfruttare le ―possibilità di una teoria induttiva della Kurzgeschichte‖
[Durzak, 1994: 10] esaminando, nel succedersi cronologico e nell'intrecciarsi delle riflessioni, le
posizioni espresse da tutta una serie di autori di ―storie brevi‖ (Wolfgang Weyrauch, Alfred
Andersch, Elisabeth Langgässer, Wolfdietrich Schnurre, Herbert Heisenreich, Heinz Piontek, Kurt
Kusenberg, Hans Bender, Sigfried Lenz, Martin Walser, Günter Kunert, Josef Reding, Heinrich
Böll) allo scopo, se non di arrivare a una ben definita teoria del genere, di mostrare quali ―elementi
costitutivi rendano questa forma un genere letterario‖ [1994: 62]. Durzak perviene alla conclusione
che la Kurzgeschichte nel suo sviluppo storico è strettamente legata alla letteratura postbellica ed è
improntata da un fattivo scambio con la short story di stampo anglosassone, pur mostrando forti
legami con la tradizione narrativa tedesca. La Kurzgeschichte, per le sue condizioni di diffusione e
ricezione, non sfrutta il codice poetico della tradizione bensì il linguaggio della comunicazione
parlata. Essa, inoltre, pur essendo sulla carta realistica prelevando la materia narrativa dalle
esperienze di realtà dei lettori, modella le esperienze di realtà anche con il fantastico, l'ideale. La
Kurzgeschichte è una forma letteraria tutt'altro che impretenziosa, anzi dal momento che si basa
sulla riduzione, sull'eliminazione, sullo scorciamento, sulla concentrazione estrema, sull'attenzione
alla singola parola o frase e sugli spazi, i ―silenzi‖ significativi di questi – elementi che in alcuni
casi possono avvicinarla alla poesia –, richiede agli autori la massima abilità nella gestione dello
strumento ―scrittura‖. La dimensione rappresentativa portante della Kurzgeschichte è il tempo:
come continuum temporale di una determinata situazione, di un'azione, di un periodo della vita di
un attimo decisivo, come scandaglio di uno stato della memoria o della coscienza la dimensione al
presente della storia funge da punto focale in cui la totalità di una vita o di un'esperienza si
comprime tanto da rendere fulmineamente riconoscibile l'identità della realtà. Tale compressione,
concentrazione in un punto non significa però frammentazione del tempo. In relazione alla struttura
narrativa all'interno della Kurzgeschichte si può dire che essa, nonostante l'inizio spesso
improvviso, si muova verso un'acme, un climax, rispetto all'azione o all'attimo cognitivo, che offre
al lettore un orizzonte di conoscenza aperto spingendolo alla riflessione oltre la fine della singola
storia. La Kurzgeschichte, infine, benché possa servirsi per la propria diffusione di media caduchi
come la stampa quotidiana o periodica, è una forma narrativa ad alto contenuto artistico e di grande
efficienza espressiva [1994: 62-63].
Se i maggiori autori di ―storie brevi‖ si erano concentrati tematicamente dapprima sul
periodo bellico e postbellico, quindi sugli anni del ―miracolo economico‖, e successivamente sul
―sociale‖, sviscerando criticamente il pensiero e il modo di vita ―borghese‖, e passando
258
gradualmente da uno stile fortemente orientato al realismo a un modo di scrivere di impronta
psicologica con puntate nel surreale, a partire dalla fine degli anni Sessanta si nota nelle narrazioni
di scrittori come Jürgen Becker, Peter Bichsel, Reinhard Lettau, Christa Reinig, Peter Handke, Wolf
Wondratschek, Thomas Bernhard, Gabriele Wohmann, Günter Bruno Fuchs, Günter Kunert una
nuova, diversa coscienza formale. ―La soggettività nella prospettiva, nel modo di rappresentazione e
nella tematica si impadronì della Kurzgeschichte vista come propria forma espressiva relegò in
secondo piano quelle forme di letteratura, quali il resoconto e il reportage, che nonostante la pretesa
oggettività si dimostrarono forme azionistiche socio-politicamente impegnate‖ [Graf von Nayhauss,
1982: 7]. In questa nuova temperie culturale, sorta dalla disillusione nei confronti della possibilità di
trasformare la società con gli strumenti dell'arte, maggiormente attenta all'io, alle emozioni, alle
sensazioni, al quotidiano – rilevabile anche nelle tendenze della coeva poesia della cosiddetta Neue
Subjektivität [Nuovo Soggettivismo] o della Alltagslyrik [poesia del quotidiano] – la
Kürzestgeschichte sembra diventare, col risalto dato al dettaglio e con la sperimentazione di singoli
elementi linguistici e con le sue strutture minimali, la forma più congeniale a cogliere le scaglie, i
frammenti di un mondo atomizzato. Nell'osservazione momentanea, nell'atmosfera aleatoria e nel
modo di raffigurazione di queste ―kostbaren Nichtigkeiten‖ [preziose nullità] (Peter Altenberg)
sembra trovarsi l'estratto dell'esistenza. Altro elemento importante da segnalare, della ―storia
brevissima‖ rispetto alla Kurzgeschichte, legato all'ulteriore riduzione e compressione, è senz'altro
l'intenzionalità di parodiare quest'ultima, presente in diversi autori, e quindi il relativo gioco coi
contenuti e certe forme narrative [Riha, 1990: 115].
―Genericamente‖ anche la Kürzestgeschichte è di difficile, se non impossibile catalogazione,
data l'estrema varietà delle forme esistenti. Per essa possono senz'altro valere alcune delle
considerazioni svolte in precedenza per la Kurzgeschichte talvolta portate alle estreme conseguenze,
tenendo in considerazione una maggiore influenza sulla ―storia brevissima‖ di forme quali il Witz,
lo Sketsch e l'Erzählgedicht [poema narrativo]: in sostanza un'ulteriore compressione del narrato,
un'estrema ellitticità, una forte attenzione alla scelta e alla distribuzione linguistica, una più forte
sottolineatura dell'acme.
1.1.4. Dalla Kürzestgeschichte alla minificción alla Kürzestprosa
Nell‘ultimo decennio, sulla base di una tradizione piuttosto lunga peraltro, in ambito
ispanico e in particolare latinoamericano (Brasile compreso: si pensi al grande Dalton Trevisan, ―O
Vampiro de Curitiba‖) le potenzialità della prosa breve e brevissima di taglio narrativo anche sui
generis sono state sfruttate al massimo da tutta una serie di scrittori, le cui opere sono seguite da una
attentissima e motivata critica [cfr. in particolare Noguerol 2004; Zavala s.d.a; s.d.b; 2000; 2004a;
2004b]. Ovunque si moltiplicano congressi, riviste, concorsi e gli spazi anche sulla stampa
quotidiana e periodica dedicati alla cosiddetta minificción (un iperonimo che viene a comprendere
anche il termine a lungo suo concorrente di microrelato), ovvero a racconti brevi della lunghezza
massima di una pagina. Tra le caratteristiche di questi miniracconti sono da annoverarsi un‘estrema
brevità, un‘economia di linguaggio e la presenza di giochi di parole. Con l‘enfasi tipica di fine
secolo Lauro Zavala ritiene che questo tipo di prosa sarà il genere del terzo millennio, in quanto si
tratta di una forma letteraria che ben si adatta alla frammentarietà paratattica della scrittura
ipertestuale, propria dei mezzi di comunicazione elettronici come internet, che saranno in futuro il
luogo privilegiato per la diffusione della letteratura [Zavala, s.d.b]. Egli identifica sei caratteristiche
fondamentali della minificción sulle quali dovrebbe concentrarsi l‘analisi e la critica letteraria:
―brevedad, diversidad, complicidad, fractalidad, fugacidad y virtualidad‖ [brevità, diversità,
complicità, frammentarietà, fugacità e virtualità]. La brevità è senz‘altro la caratteristica più
evidente di questi testi, che in tal modo contribuiscono a sfatare il mito che solo testi che superano
una certa lunghezza possono essere definiti testi letterari. Brevità non è, come si tenderebbe a
pensare, sinonimo di semplicità; al contrario lo spazio di una pagina può essere sufficiente a dar vita
alla maggior complessità letteraria possibile. E anch‘egli si rifà al Calvino della lezione americana
259
sulla rapidità in cui la brevità è vista come una virtù, che nasce dall‘abilità e dal duro lavoro dello
scrittore che cerca di condensare e concentrare il più possibile la narrazione. Solo con le forme
brevi si riesce a raggiungere appieno e a mantenere lungo tutta l‘opera quella tensione e densità di
narrazione e d‘espressione che avvicina la prosa alla poesia [Calvino, 1988: 56]. Con la brevità e
con la fugacità si può raggiungere un‘efficacia narrativa e simbolica sorprendente. Basti pensare
alle parabole bibliche, la loro virtù pedagogica non sarebbe quella che è, se esse fossero state lunghe
svariate pagine. Trattando della diversità come caratteristica della minificción individuata da Zavala
si torna nuovamente a parlare dell‘eterogeneità e dell‘aspetto camaleontico e proteiforme del genere
della prosa breve. Zavala ritiene che la minificción sia una forma naturalmente ibrida, sia nella sua
struttura interna, sia per il fatto che questa forma letteraria si avvicina ad una pluralità di generi tra
cui la vignetta, la cronaca, il racconto poliziesco e di fantascienza, la prosa a carattere fiabesco,
fantastico o saggistico [Zavala, s.d.a: online]. In questo egli fa proprio determinate coordinate già
stabilite anche in ambito critico tedesco a proposito delle grandi prose restie a una classificazione
organica ad esempio di Robert Walser, Alfred Polgar o Franz Werfel, sbrigativamente etichettate
come feuilletonistisch (attributo traducibile con un termine ormai definitivamente in disuso:
elzeviristiche), distinguendo svariate forme ibride a metà strada tra la prosa narrativa, la cronaca e il
saggio tra le quali: l‘ensayo narrativo [saggio narrativo], la crónicas-ensayo de naturaleza
narrativa [saggio cronica di natura narrativa], la crónicas ficcionalizadas [cronaca a carattere
finzionale] e altre.
Un‘ulteriore caratteristica fondamentale della prosa breve o brevissima è secondo Zavala la
fractalidad, che si potrebbe tradurre come frammentarietà. Le forme brevi o brevissime
rappresentano la frammentazione di concetti percepiti come univoci e unitari quali realtà, mondo e
vita. Tale accresciuta frammentarietà deriva da una diversa visione del mondo e costituisce un
diverso modo di scrivere, che stravolge l‘unitarietà dell‘opera letteraria. Il frammento non è un
dettaglio di poca importanza, ma un elemento dal quale si può partire per ricostruire un‘interezza,
ed esso racchiude in sé una totalità che merita di essere scoperta e esplorata. La frammentarietà è
per Zavala però anche un diverso atteggiamento del lettore che, come afferma Daniel Pennac nel
suo famoso decalogo ha sempre il diritto di ―piluccare‖, ovvero di leggere ―a spizzichi‖. La
frammentarietà, al pari della brevità, sembra essere quindi una delle caratteristiche fondamentali
della scrittura contemporanea e del futuro, poiché essa non solo si adatta alla diffusione attraverso le
tecnologie informatiche, ma anche perché ben si sposa con la vita frenetica della società odierna
[Zavala, s.d.a: online], tutti elementi peraltro individuati in precedenza anche dallo scrivente [cfr.
Nadiani 1995: 91-109; online]. Una letteratura flash destinata ad essere consumata nei tempi morti,
mentre ci si sposta in metropolitana da un lato all‘altro della città o navigando in internet. E il
sostantivo aggettivante ―flash‖ lo troviamo anche nel sintagma del titolo di due fortunate antologie
uscite negli Stati Uniti [cfr. Thomas & al. 1992; Thomas; Shapard 2007], diventato una sorta di
definizione-ombrello per tutte le forme di ―very short stories‖ o di ―short short stories‖.
Un‘ultima caratteristica che Zavala attribuisce alla minificción è il suo essere un luogo privilegiato
per diverse forme di humour e di ironia [Zavala, s.d.a], che senz‘altro si attaglia anche ad altre aree
linguistiche, basti pensare in ambito americano a Dave Eggers, e in quello tedesco a Ror Wolf,
Günter Kunert o Max Goldt.
Ma tra i generi che influenzano e si mescolano alla minificción Zavala non dimentica di
certo la poesia. La tendenza poetica di alcune prose brevi non stupisce, in quanto prosa breve e
poesia sono accomunate da una forte densità di linguaggio e di contenuti. Non è un caso infatti che
nella lingua tedesca gran parte del campo semantico relativo alla poesia, Dichter [poeta], dichten
[scrivere poesia], Gedicht [componimento a carattere poetico], Dichtung [poesia], derivi
dall‘aggettivo dicht, che significa per l‘appunto ―denso‖. Il punto di ibridazione tra la prosa
narrativa breve e la poesia è ovviamente anche per Zavala il poemetto in prosa, che gli studiosi
tedeschi fanno rientrare col termine di Prosagedicht [poesia in prosa] o con quello di Erzählgedicht
[poema narrativo] nella definizione di già citata all‘inizio di Kürzestprosa. Stando ad alcuni il
poemetto in prosa, chiaramente di ascendenze baudelairiane attraversanti tutto il primo Novecento
260
italiano ―frammentista‖ e ―prosartista‖ [cfr. Giusti 1997; 1999a; Giovannetti 1998; Gubert 2004;
Valli 1980; 2004], è ―ciò che resta della poesia quando le si toglie il metro‖ vale a dire la poesia
senza il verso [Giusti, 2005: 14]. Si tratta di testi fortemente strutturati, dove la suddivisione in
paragrafi riprende la suddivisione in strofe, sia dal punto di vista strutturale che iconico e nei quali
l‘autore cerca di riprodurre la poeticità propria della poesia, rinunciando però alla metrica [2005:
18-19]. In questo modo egli entra in un territorio in cui la poeticità è valutabile solo sul piano
estetico e deve essere percepita prima di tutto dal lettore, necessitando di essere di volta in volta
concordata tra quest‘ultimo e l‘autore. Questa necessaria complicità tra autore e lettore è quindi
caratteristica comune sia alla minificción che al poemetto in prosa. Anche nel caso del poemetto in
prosa, la brevità non sarebbe un elemento marginale, ma uno strumento necessario soprattutto a far
sì che il testo abbia l‘effetto sperato sul lettore [Giusti, 2004: 24]. Come già aveva notato Vittorio
Pica, l‘autore di ―poemucci in prosa‖ (secondo la sua definizione) deve possedere grande doti
stilistiche poiché deve essere in grado di condensare in poche righe ciò che avrebbe potuto dire in
molte pagine, utilizzando uno stile musicale e sopperendo al bisogno di ―concisione suggestiva‖ del
lettore [cfr Pica, 1888 cit. in Giusti 2005: 23].
Ma, ovviamente, nella poliedricità della definizione di Kurzprosa (inglobante quelle finora
affrontate di Kürzestprosa, minificción e di flash fiction nelle loro varie declinazioni) e che da ora in
avanti mi permetto di usare nel suo calco italiano di prosa breve, vengono a rientrare dal mio punto
di vista forzatamente anche tutte quelle forme di ―scritture performative‖, ―dialogiche‖, che hanno
la pretesa nella ―storia‖ narrata di essere dialoganti, oltre che con un lettore, anche con uno
spettatore/ascoltatore, talvolta liricamente e/o musicalmente ritmate ma non necessariamente; con
forti connotazioni teatrali insomma, in cui il testo funge anche da spartito da interpretarsi, ogni volta
sempre in modo nuovo in base appunto alla risposta del pubblico, del dialogo co-creativo che si
instaura in quella specifica situazioni tra tutti i partecipanti all‘evento. Ed è in questo spazio vivo
che si insinuano sempre più la mia piccola, prosastica letteratura, i miei prosaici, impoetici versi.
Uno ultimo spazio in cui contribuire al crearsi, seppur momentaneo ma non meno importante, di un
luogo comune, a fronte della dispersività mediatica a cui sembra essere condannata la parola
letteraria, così come ancora la conosciamo.
3. A mo‟ di conclusione: prosa breve come iperonimo personale
Allora, ecco la voce, il suo suono innervarsi attorno a quello degli strumenti di un blue-jazz
funky e fusion suburbano sfregiato da una stridente contemporaneità contiguamente ai ―contenuti‖
dei versi. Ecco la traccia esprimersi appieno nell‘esecuzione dal vivo. È qui nell‘esecuzione ―tra la
gente‖ (e per me negli ultimi vent‘anni ciò ha significato ―esibirsi‖ in piazze, strade, piazzette,
teatri, circoli, pub, discoteche eccetera) che la traccia si fa azione, opera, e consegue la sua
accessibilità, la sua fisica, corporea consumabilità. Perché l‘esecuzione dell‘opera – un insieme
inscindibile di parole, musica e ―paratesto‖ (gesti, sguardi, luci, rumori ecc.), nato e cresciuto
dall‘incontro creativo, che può durare nelle sue varie fasi mesi e anni tra i partecipanti
all‘esecuzione/produzione, e rinnovato, ricreato ad ogni nuova pubblicazione (esibizione) –
costituisce il momento cruciale di una serie di operazioni, che sono per così dire le fasi
dell‘esistenza del testo/spartito da interpretarsi, come si diceva: produzione, trasmissione, ricezione,
conservazione, ripetizione. Per Zumthor, l‘opera diventa ciò che è comunicato qui e adesso: testo,
sonorità, ritmi, elementi visuali: questa la totalità dei fattori; la poesia, la narrazione, la melodia
dell‘opera è il testo, senza che vengano presi in considerazione gli altri elementi; il testo sarà la
sequenza linguistica uditivamente percepita, sequenza il cui senso globale non è riducibile alla
somma degli effetti particolari prodotti dalle sue componenti successivamente percepite. Il
messaggio è pubblicato nel senso più pregnante del termine. L‘esecuzione diventa un evento sociale
creatore, atto pubblico di rifiuto della privatizzazione del linguaggio, in cui l‘ascoltatore con la sua
azione ricettiva – durante la quale egli ricrea a suo proprio uso, e secondo le sue proprie
configurazioni interiori, l‘universo significante che gli è trasmesso – contribuisce in modo
261
determinante, diretto, alla produzione dell‘opera in esecuzione. A mio avviso la ―fusione dialogica‖
di strumenti e voce, l‘insieme veicolato/ascoltato significa qualcosa di più rispetto al
significante/significato delle singole componenti (traccia, note, voci ecc.) e – così mi sembra – la
ferita, il dramma, la gioia, la rabbia o quel che é possono essere esperiti più potentemente. Stando ai
termini leggermente apologetici di Zumthor, l‘esecuzione simboleggia un‘esperienza, ma al tempo
stesso lo è, un‘esperienza sempre ripetibile eppure sempre nuova. Il testo che si propone nello
spettacolo vissuto non sollecita l‘interpretazione perché il suo senso non è di natura tale da poter
esser esplicitato da un‘ermeneutica ―letteraria‖, perché questo senso è, in profondità e
nell‘accezione più ampia del termine, politico. Esso proclama l‘esistenza di un gruppo sociale
(autore-esecutori-ascoltatori), poiché la funzione permanente dell‘esecuzione è quella di unificare e
unire, rivendicandone il diritto di parola, il diritto di vivere [cfr. Zumthor: 32; 95; 184; 287; 293;
294]. In tal modo attraverso il ―suono‖ (tutto quell‘insieme di cui si diceva) viene abolita la
separatezza tra il tracciatore di versi e il suo pubblico: ecco avvenire l‘incontro, la Relazione
(almeno questa è la sensazione che più volte si è provata). È in essa che si crea, in forme e misure
diverse, il barlume di una sorta di luogo di una comune diversità, di socialità, altrimenti solo
immaginarie; il luogo in cui, ―quando una parola funziona, quando una comunicazione accade […]
sentiamo, per un istante almeno, il brivido di un‘esistenza condivisa‖ [Ronchi 2000: 14].
Mi si conceda dunque di impiegare, se proprio si vuole una definizione in questa epoca in cui le
Grandi Narrazioni (a cui certi generi letterari hanno dato il loro determinante contributo) hanno
fatto veramente il loro tempo, e a fronte della prosopopea spesso vuota del romanzo, del ―genere di
consumo‖ per antonomasia ma pure della ―profetica sacerdotalità‖, spirituale o sociale che sia,
ancora di troppa poesia, questo umile termine-ombrella di prosa breve, trascendente – per dirla con
Genette – le testualità, elastico e camaleontico il giusto per nascondere dentro di sé in forme sempre
nuove e incompribili, nella lingua (sempre nel senso dello studioso francese, di poesia o prosa)
meticciata di un codice bastardo (lingue ufficiali e dialetti ecc.) ―le parole per noi necessarie‖.
Giovanni Nadiani
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263
AL DI LÀ DEI GENERI
264
JÉRÔME GAME
ATTUALITÀ DEL MODERNO
Secondo il filosofo Jacques Rancière, la modernità estetica nella sua accezione corrente (vale a dire,
per quanto riguarda la poesia, l‘«epoca» aperta da Baudelaire e dalla triade Rimbaud-LautréamontMallarmé) è un cattivo concetto: sorta di passe-partout superficiale ed incoerente, esso non
riuscirebbe a spiegare, all‘interno di questo preciso momento storico, la singolarità della produzione
poetica in quanto frutto di una estetica trans-storica piuttosto che di un‘estetica semplicemente
cronologica. Così, anziché definire la modernità come aperta rottura tra un prima e un dopo, si è
giustamente preferito concepirla come pensiero del divenire delle forme. In sostanza, la «tradizione
del nuovo» esiste soltanto nella relazione intima ed inestricabile con la «novità della tradizione»: la
modernità non può essere datata a partire da un‘origine o da un fondamento che la inauguri
leziosamente, come se fosse un ramo della metropolitana o una linea ferroviaria. Al contrario, essa
trae origine da una genealogia, da una storicità, da una riflessività – vale a dire da un modo
particolare di creare pieghe in un substrato, di produrre opere sopra, con, a partire e contro altre
opere. Questo gesto caratteristico della modernità in quanto rapporto con il passato – il nuovo inteso
come piega più intensa degli strati costitutivi del reale e del simbolico, di quel famoso sempre-giàlà – balza chiaramente agli occhi nell‘ultimo saggio di Christian Prigent, Salut les anciens/Salut les
modernes (ed. P.O.L., 2001), in cui tre giovani poeti (Philippe Beck, Charles Pennequin, Christophe
Tarkos) sono studiati in diretto confronto con Lucrezio, Marot, Jarry, Verlaine, ecc.
Inventare riprendendo ed abbandonando: è così che funziona la fissità in perpetua oscillazione, il
movimento immobile che definisce la modernità come atto più che come periodo o catalogo (di
opere, di autori). In ogni particolare epoca, la questione della modernità consisterà dunque nello
specificare questa fondamentale caratteristica a partire dalla interrogazione delle condizioni e delle
modalità del gesto dell‘invenzione poetica: perché questa piega adesso? chi o che cosa inventa
poeticamente? in che modo? mosso da quale forza o da quale energia? in quale contesto? con quali
finalità?
Le righe che seguono si sforzano di comprendere la poesia contemporanea nell‘accezione che
Dominique Fourcade assegna a questo termine nel suo libro Outrance utterance et autres élégies: è
contemporaneo ciò che non quadra con il moderno, ciò che è, rispetto a quest‘ultimo, «nonidentico». Si tratterà così di osservare schematicamente il modo con cui la modernità dispiega la
propria diversità riguardo alla questione della produzione e della esperienza poetica come
destabilizzazione della soggettività tradizionale (l‘Io/Me sostanziale, colto nella sua dimensione
cronologica) a tutto vantaggio di una identità porosa e in continua elaborazione (la
soggettivizzazione come prova di un puro presente), con tutte le implicazioni sul reale che un tale
dispiegamento nasconde – vale a dire la dimensione propriamente politica, rivendicata o non
rivendicata, cosciente o non cosciente.
In effetti, tanto a partire dall‘Io-è-un-altro di Rimbaud che dall‘impersonale mallarmeano, numerosi
sono i percorsi tracciati ad uso della scrittura; questi percorsi, attraverso tessiture labirintiche,
offrono oggi alla lettura e all‘ascolto due grandi tipi di poesia, che, in mancanza di meglio e in
mancanza di tempo, chiameremo poetica del soggetto e poetica dell‟evento. La poetica del soggetto
è stata teorizzata per prima ad opera di Jean-Michel Maulpoix, e consiste essenzialmente nel dire la
vita: una voce, un‘anima, parlano, si manifestano: «mi succede qualcosa» – così facendo,
manifestano il mondo. Il componimento poetico è un‘espressione dell‘esistenza in quanto cosmo
infinito, e il poeta è un «soggetto lirico» (Maulpoix) che la produce attraverso una deiscenza
costitutiva. È riconoscibile in questa poetica dalla struttura chiasmatica il paradigma
fenomenologico: un orizzonte, un uomo, un tutto. A questa tipo di ispirazione appartengono le
opere di Yves Bonnefoy, Antoine Emaz, Jean-Michel Maulpoix, André Du Bouchet, Jude Stefan e
265
di molti altri ancora – mentre quelle di Bernard Noël, Dominique Grandmont, Fabienne Courtade,
Michel Deguy, Yves Di Manno costituiscono già una sorta di termine mediano tra le due posizioni.
La poetica dell‘evento, invece, anziché dire la vita, tenta di fare in modo che sia la vita stessa a
dire. Con un‘immediata precisazione da aggiungere: tale poesia si trova destinata al lavoro e alla
fatica tanto quanto la precedente – anch‘essa è produzione, composizione, opera e non natura. Si
tratta tuttavia nel suo caso di manifestare attraverso le costruzioni testuali il carattere per l‘appunto
già costruttivista della stessa natura. Non soltanto secondo questa posizione – ma questo vale anche
per la poetica del soggetto – esiste una certa inadeguatezza tra l‘io e il mondo, tra l‘io e il
linguaggio, e persino all‘interno dello stesso io, ma soprattutto – e qui sta la differenza con quanto
affermato dalla poetica del soggetto – tale inadeguattezza non è affatto solubile né risolvibile in un
universo chiasmatico, per quanto questo possa essere effimero come l‘istante di un testo poetico. Al
contrario: lo stesso carattere poetico si fa generalizzazione, disseminazione, proliferazione,
diffrazione della inadeguatezza. Seguendo una logica dell‘aggravamento, esso consiste
nell‘intensificare la natura naturans del mondo attraverso la natura del soggetto, nell‘innalzarla
reciprocamente al quadrato, al cubo, all‘ennesima potenza, piuttosto che nel ridurla o nel
razionalizzarla, nel soppesarla introducendo il concetto di una natura naturata che il poeta e il
mondo rappresenterebbero l‘uno nei confronti dell‘altro, fosse solo per poco tempo o in alternanza.
Detto in altre parole, lungi dall‘essere la descrizione del reale, proprio di questo reale il testo
poetico rappresenta invece l‘«operazione» (Alain Badiou), una operazione che è sempre e
sicuramente finita, ma nella quale comunque lo stesso reale tende a «macchinarsi» (Deleuze e
Guattari) attraverso il linguaggio per formare il solo senso che non sia predeterminato: l‘in-sensato.
Usando i termini di Christian Prigent, non c‘è mai «idillio» o pausa nel non-senso. Usando quelli di
Gilles Deleuze, «il Caos caotizza», e quindi non esiste essenza: ciò significa che è l‘informe del
reale e del linguaggio, mai predeterminato una volta per tutte, a concatenarsi in maniera costante e
senza modalità d‘impiego lungo le espressioni – le opere. Queste ultime non sono più il fatto o il
prodotto di una coscienza – sia pure aperta – quanto piuttosto di una circostanza che si determina
tra un corpo, una cultura e una storia: un evento, concepito come simultaneità di una prova e
insieme della intelligenza impersonale che da essa viene prodotta. Il testo poetico si trova ad essere
traccia attiva di un processo grazie al quale il mondo in quanto caos si propaga e si trasforma. La
poesia come espressione non si concepisce più in termini di comunicazione, presupponendo due o
più soggettività preformate che (si) rappresentano nelle loro opere, quanto ormai in termini di
vibrazioni formanti esse stesse delle entità tanto precarie quanto la corrente che le descrive
unendole.
Da tutto questo consegue che al posto dell‘Io/Me, del tu, del chi, è invece un cosa, un che, un si che
scrive: un flusso-movimento, una progressione al di là di ogni piano o di ogni mappa pre-esistenti.
Così indeterminato, un tale «soggetto» non ha più alcuna materia da «dire» nel suo testo poetico: la
dicotomia sfondo/forma tradizionale non ha più alcun senso. Lungi dal riassumersi nell‘espressione
a mezzo di parole di una percezione, di un‘idea o di un sentimento prodotti nell‘alambicco dell‘Io,
la poetica dell‘evento consiste piuttosto in un appuntare incoerentemente ed arbitrariamente la
fluidità ultima, essa stessa contingente, dell‘essere; in definitiva: una messa in disordine del
disordine – vale a dire, naturalmente, un ordine superiore, una coscienza impersonale superiore: un
ordine che è una conoscenza della propria precarietà e quindi anche ciò per mezzo di cui il senso si
crea – il senso dell‘in-sensato, il senso come in-sensatezza rivelata dalla forma come in-formalità.
Non essendo più pertinente la dicotomia tra sfondo e forma, non lo sono più nemmeno quei temi o
quelle figure di stile che considerati in sé avrebbero naturalmente potuto, in altre occasioni storiche,
apparire come poetici. Nasce da ciò una incertezza generale nell‘opera di questa poetica dell‘evento
tanto riguardo a ciò che si dice quanto riguardo alla maniera di dirlo. Possiamo così segnalare
l‘insistenza di Philippe Beck sul verso accanto al lavoro sulla prosa di Nathalie Quintane, Didier
Garcia, Vincent Tholomé e Christophe Hanna – da qualche altra parte invece Dominique Fourcade
e Jean Pierre Faye si trovano ad operare sulla radicale indeterminatezza tra i due. Quanto agli altri,
Olivier Cadiot, Jacques-Henri Michot, Manuel Joseph e Vannina Maestri aggravano la natura
266
costruttivista del reale attraverso le loro procedure di cut-up e di montaggio – e questa ultima
nozione viene intensificata in vari altri modi anche da Jacques Sivan o, recentemente, da Anne
Portugal. Non dimentichiamo nemmeno i montaggi delle pagine di Michel Crozatier e Joseph
Guglielmi. O i balbettamenti pastosi e inerti di Christophe Tarkos e di Charles Pennequin, la lingua
a scatti di Mathieu Messagier, i ritornelli di Christophe Fiat, le concrezioni di Philippe Beck, i
soggetti fantasma di Anne-James Chaton – che sono tutte procedure dell‘evento. Come lo è pure la
tensione tra senso e non-senso che le parole di Jan Baetens esasperano lavorando sulla letteratura
delle costrizioni, e come lo è pure il motore a scoppio chimico-poetico che Jean-Michel Espitallier
si è inventato.
A livello più generale, è importante osservare come in tutte queste scritture la contingenza si
manifesti mediante una forte propensione all‘assunzione di un corpo, quindi non verso la
recitazione dei propri testi in pubblico o una scrittura sopra il corpo, ma piuttosto verso la
trasformazione della performance fisica in tutta la sua irriducibile imprevedibilità nel luogo preciso
della propria in-sensatezza. Questo punto trova una risonanza particolare con la posta in gioco
rappresentata dal sesso e dal desiderio, intesi come paradigmi della creazione poetica, la quale viene
a sua volta concepita come massima tensione verbale dell‘essere e come propensione alla morte – in
particolare con le opere di Christian Prigent, di Dominique Fourcade, di Marie-Laure Dagoit e di
Jérôme Game.
Al termine di questa rapidissima quanto incompleta rassegna, mi sembra di poter osservare che il
criterio generale in grado di specificare la prodigalità e l‘eterogeneità professate dalla poesia
contemporanea si riveli essere proprio questo attaccamento collettivo alla scrittura in quanto
dimensione di una rivoluzione ontologica, sperimentata in modo particolare attraverso la rottura con
la figurazione e l‘inedita corporalizzazione a cui si è dato luogo: il soggetto, l‘individuo, l‘io, il me,
il tu, il noi, non sono veramente più ciò che erano – sono invece diventati movimento e materia
sottoposti a un divenire diversificato. Ed è allora qui che si decide della dimensione
simultaneamente pan-artistica e politica connessa con questa radicalizzazione del moderno.
Meglio di altri Jean-Marie Gleize ha compreso lo statuto per così dire trascendentale del nesso che,
all‘interno delle coordinate della modernità estetica, si viene a stabilire tra sesso, in-forme,
soggettivizzazione, stile e potere (riconoscendo così tutto il debito della modernità nei confronti
della filosofia di Gilles Deleuze e di Michel Foucault). Gleize chiama questo nesso «principio della
nudità integrale», e afferma, con un certo compiacimento, che «la nudità vince», vale a dire che le
potenze dell‘in-forme, la materia nuda, pura e non idealizzata, esasperata nella sua finitezza e nella
sua malleabilità da ogni genere di affetto, stanno costituendo per mezzo di una poetica letterale più
che metaforica, metamorfica più che figurata, una nuova piega generale in seno al moderno. Da una
parte, infatti, la rivoluzione ontologica interessa, per definizione, ogni intersoggettività umana, e più
violentemente ancora interessa tutte quelle intersoggettività che si specializzano nel pensare e nello
sperimentare se stesse come se non fossero una cosa ovvia: l‘arte quindi come insieme di pratiche
creative che si incrementano a vicenda. Dall‘altra, e per essere più precisi per estensione, una simile
modernità poetica non può che ritrovarsi ad essere parte integrante di ogni tentativo rivoluzionario
quanto alla ideazione dei modi di resistenza al potere, inteso nella sua generica accezione di
stomaco, vale a dire nella sua spaventosa ed anonima attitudine a dominare tutto e a digerire tutto –
vittime consenzienti, vittime inconsapevoli, oppositori. In effetti, tale realtà del potere non
rappresenta più una «minaccia» che viene posta di fronte all‘«umanità» benevola e non sollecita più
quindi una controffensiva da parte della «civiltà». Piuttosto, questa realtà, siamo noi, è già il noi, e
siamo noi ancora domani – ma mai tutto il noi. In altre parole, al posto di invocare un argine
escatologico in versione da gran serata, il potere contemporaneo alimenta la possibilità storica di
una rivoluzione perpetua: la metamorfosi, il divenire-altro come identità. Ed è questo ciò a cui il
poetico contemporaneo – e occorre rallegrarsene – risponde con energia.
Jérôme Game
[in: «Magazine littéraire», n. 396, marzo 2001; traduzione italiana di Michele Zaffarano.]
267
JEAN-MARIE GLEIZE
LA SCELTA DELLE PROSE
Il meno che si possa dire è che è difficile vederci chiaro. La prosa è il romanzo (evidentemente), e
la poesia è la poesia. Quest‘ultima bisognerà pure riconoscerla da qualche cosa. Il caso più semplice
è quando va a capo su una linea (il verso); quando invece si presenta in prosa – come dire? – si
riconosce ugualmente e subito: di norma non assomiglia alla prosa. E poi si capisce bene che
funziona come una poesia: non va a capo-linea, ma va a capo-pagina, crea un blocco, e c‘è dello
spazio bianco tra i blocchi, un vero e proprio spazio bianco invalicabile: la poesia basta a se stessa,
è un oggetto messo in una forma (d‘oggetto), e lo si percepisce al primo sguardo. Queste sono
comunque cose assolutamente evidenti.
Il vero problema è che oggi, nella massa concreta degli scritti letterari, nulla avviene in realtà come
sui nostri scaffali o in accordo con le nostre reminiscenze scolastiche. Ci si ricorderà forse di un
volume collettivo, non molto ben accolto dalla critica, e destinato a gettare scompiglio sugli scaffali
dei generi: si intitolava L‟Hexameron(1) e recava come sottotitolo: c‟è prosa e prosa. Forse questi
scrittori pensavano che la prosa del romanzo non fosse la «sola» prosa? E che del resto non lo fosse
nemmeno quella della «poesia in prosa.» D‘altro canto, malgrado le apparenze, si può anche
affermare che c‘è sempre poesia e poesia, e che la «querelle», le guerre di religione, gli spostamenti
diversi, le battaglie di trincea, e persino le sortite corpo a corpo continuano, anche se tutto questo
avviene (provvisoriamente) in un angolo morto: la questione della prosa non è regolata.
Se si volessero tracciare con poche parole i contorni di questo paesaggio, si dovrebbe dire questo:
che resta un forte baluardo perennemente preoccupato di definire la poesia per mezzo della metrica,
e costituito a sua volta da un versante che non si può evitare di definire conservatore (esso esalta
una certa «restaurazione» metrica, fino ad arrivare all‘elogio del verso alessandrino – e abbiamo
assistito poco tempo fa a dichiarazioni del genere sotto la penna di Jacques Réda), e da un versante
modernista: quello della ricerca neometrica, tanto attraverso il reinvestimento di metriche lontane
(nello spazio: le tradizioni altre: cinese, giapponese…, o nel tempo: riattivazione della memoria
metrica: trovatori, «grands rhétoriqueurs»(2)…), tanto attraverso l‘investigazione e la
sperimentazione di nuove costrizioni (è tutto un aspetto del lavoro formalista dell‘Oulipo). Il poeta
Jacques Roubaud è assai rappresentativo di questo versante moderno, perfettamente illustrato a suo
tempo anche dall‘attività di autori e teorici raggruppati intorno alla rivista Change. All‘interno di
questa tendenza, se si cerca un titolo recente e brillante, spicca la raccolta di Pierre Lartigue La
forge subtile (Le temps qu‘il fait, 2000), che si pone sotto il segno di Arnaut Daniel e dei migliori
«fabbri» di sonetti, canzoni e altre sestine. Questo da una parte.
Dall‘altra, dalla parte invece di coloro che ricercano al di fuori delle regolamentazioni metriche, non
è impossibile distinguere due posture: ci sono quelli che pensano di non poter fare a meno di
conservare una specificità formale della poesia, e scrivono poesie in prosa (o prose di poesia), e si
chiamano Gilles Jouanard o Jean-Michel Maulpoix – il filone, che trova la sua fonte (una delle sue
fonti) in Gaspard de la nuit(3), e che si perpetua magnificamente, al di là dell‘esemplare Cornet à
dés di Max Jacob, fino ai giorni nostri, non sembra assolutamente esaurito. Ce ne sono anche altri
che, senza abbandonare il campo, e senza soprattutto abbandonare il canto della poesia
«propriamente detta» – per quanto diverso esso si possa presentare: dall‘eufonia alla dissonanza –,
continuano a praticare il verso libero, o il versetto ad alta tensione (Pierre Oster) o a bassa tensione,
prosaizzante, volutamente privo di grazia (James Sacré). Altri, infine, e non sono certo i meno
avventurosi o i meno giustificati, da André du Bouchet fino a Claude Royet Journoud, hanno
esplorato, sulle orme di Mallarmé, quella che potrebbe essere una lingua poetica che non fosse né
prosa né verso, con disposizioni diversamente spaziate sulla pagina, movimenti, e ponendo (mi
sembra) una transizione verso altre ricerche, sfruttando una tipologia di prosa che, polimorfa e
spesso innestata su altri modi di espressione (video, fotografia, performances…) pare proliferare al
268
giorno d‘oggi, talvolta ancora dichiaratamente «all‘interno» della poesia, talvolta altrettanto
dichiaratamente «al di fuori» di essa.
A questo punto del discorso occorre fare un passo indietro e riascoltare la voce di Baudelaire che
nella celeberrima lettera ad Arsène Houssaye (la si colloca normalmente a prefazione dei Petits
poèmes en prose) pone la prosa in avanti, non come strumento o come forma messi a disposizione,
ma come esigenza, e non come semplice esigenza interiore, personale, ma come esigenza oggettiva:
«Chi di noi non ha sognato, nei giorni dell‘ambizione, il miracolo di una prosa poetica [in un‘altra
versione Baudelaire diceva: di una «prosa particolare»] musicale senza rima né ritmo…» e
aggiungeva che «questo ideale ossessionante» era legato alla «frequentazione delle città immense»,
e nasceva «dal groviglio dei loro rapporti innumerevoli». Proposizione sicuramente paradossale, dal
momento che si trattava di reinventare una scansione lirica che da un lato si adattasse alle nuove
condizioni della vita urbana (ed è vero che la necessità di un «nuovo» lirismo moderno in
accompagnamento alle modificazioni tecniche di produzione e circolazione dei messaggi ritmerà la
storia delle nostre avanguardie poetiche, dagli «ideogrammi lirici» di Apollinaire fino all‘uso del
registratore nei cosiddetti poeti sonori), ma che dall‘altro avrebbe dovuto essere musicale senza
musica (senza rima né ritmo, vale a dire senza le iterazioni che costituiscono il carattere lirico della
lingua in poesia). Insomma, una prosa più prosa, una prosa a tutti gli effetti «particolare», difficile
da concepire (e tuttavia sentita come necessaria e inevitabile). Quel che è certo è che Baudelaire si è
impegnato a dare corpo a questa prosa del passante che vaga nei «greti serpeggianti delle sconfinate
città» (come scrive in «Les bons chiens», l‘ultimo dei poemetti in prosa), a questa prosa da cani, da
greto, da strada, che comporta la sostituzione della «musa familiare» (pedestre) alla «musa
accademica» (o nobile, o alta, o «lirica», o convenzionalmente versificata). Unendo dunque
andatura prosastica e accettazione del «prosaico» ai rifiuti della vita moderna. Lo stesso in un
frammento (Del vino e dell‟haschich) in cui descrive il poeta come uno straccivendolo: «Ecco un
uomo incaricato di raccogliere i rifiuti di una giornata della capitale. Tutto ciò che la grande città ha
gettato, ha perduto, ha disdegnato, ha frantumato, egli lo cataloga, lo colleziona. Esamina gli archivi
della dissolutezza, il cafarnao dei rifiuti.» Non siamo lontani dal prosaico-prosastico di Ponge,
dall‘orcio e dalla cassetta, dall‘attenzione alle cose insignificanti (se non, addirittura, vuote), dal
richiamo all‘attenzione per quelle cose che, in una maniera o in un‘altra, sono «gettate sulla strada
senza ritorno.» E neppure siamo lontani da quei dispositivi che comportano prelievo,
inquadramento e montaggio di materiali «ready-made», gesti emblematici di tutta una modernità
postpoetica, dal Denis Roche dei Dépôts de savoir et de technique (Seuil, 1980) al Jacques-Henri
Michot dell‘ABC de la Barbarie (Al Dante, 1998). Dunque, la «prosa particolare» della raccolta e
del riciclaggio, tra una nuova scansione da inventare (duttile o rozza, melodica o non armonica), e
la neutralità-piattezza prosastica atonale…
In tutto questo affare, il punto fondamentale resta senza dubbio quello della scelta, della decisione
strategica. Di sicuro, la scelta della prosa non è comprensibile se non sullo sfondo di questa storia
per cui, progressivamente, nella poesia francese, malgrado le continuità e le riapparizioni che ho
indicato prima, la prosa ha lavorato ai fianchi la poesia, e l‘ha in qualche modo «attaccata»,
arrugginita… : in un primo tempo attraverso la prosaicizzazione del verso – ed è una lunga storia,
da Hugo («Ho gettato il verso nobile ai cani neri della prosa») fino al Rimbaud di «Mémoire.»
Questa progressione è stata tradotta in un bel racconto da Jacques Roubaud nel suo La vieillesse
d‟Alexandre. E poi sorge la poesia in prosa, con le sue due varianti principali, quella che tenta di
ripoetizzare la prosa (attraverso l‘immagine e il ritmo) e di reincantarla, e quella che al contrario
cerca una prosa più prosa o «molto prosa» (secondo una definizione di Flaubert): e fino ai giorni
nostri, da «poème» a «proème», da «proème» a «prosème», «poesia di prosa» (l‘espressione è di
Jude Stefan) o prosa in poesia. Vi è poi la scelta della prosa al di fuori della poesia, e forse contro di
essa, forse anche contro la poesia in prosa. Qui il percorso di Ponge è esemplare: in un primo
tempo, scelta della prosa contro il verso (il Partito preso delle cose è un partito preso della prosa, e
questo è legato a quello), e poi abbandono della poesia in prosa (piccoli scritti, «sapates», pezzi) a
profitto di una pratica della prosa, di una esibizione della esperienza dello scrivere che implica la
269
pubblicazione senza vergogna degli abbozzi, delle prove, delle minute, dei fallimenti e delle
cancellature. Difficile chiamare questi incartamenti «poesie in prosa». È un‘altra cosa.
Ed è esattamente di questa altra cosa che si tratta oggi. In uno spazio formale in cui nulla è
stabilizzato. Ma secondo procedimenti più o meno radicali. Si vede quanto il vecchio Baudelaire sia
tutt‘altro che inattuale. Si prenda ad esempio Pierre Alferi: nel 1993 ricordava, con un certo
compiacimento, che la poesia aveva definitivamente perso ogni specificità metrica, e che il gesto
per eccellenza della modernità consisteva nel trattamento tramite taglio e montaggio di sequenze
prelevate dalla prosa del mondo, come per esempio nel gesto «oggettivista» di Reznikov (per
Testimony e Holocaust), e che, se poesia restava, essa non si sarebbe più trovata nei versi o nelle
poesie, quanto nel taglio, nella puntuazione, nella «messa in ritmo» di un materiale. Resta dunque,
in realtà, una specificità della poesia (al di là della metrica), ma poesia e prosa ormai si toccano,
sconfinano una sull‘altra e una nell‘altra, ragion per cui, in ultima istanza, non avrebbe più
importanza la poesia in se stessa quanto piuttosto «la potenzialità poetica della lingua comune.»
Una volta sacrificata (come nel caso di Baudelaire) la formalizzazione metrico-musicale, si fa strada
una musica altra (senza musica), chiamata qui (ancora una volta ) «ritmo»… Molto vicina la
posizione espressa da Dominique Fourcade nel 1998 a proposito del suo libro Le sujet monotype:
egli oltrepassa la separazione tra prosa e poesia e dichiara la contaminazione, la mescolanza,
l‘inghiottimento del verso da parte della prosa, e l‘abbandono dell‘unità-poesia a vantaggio
dell‘unità-pagina, dello spazio-libro, all over, come nella pittura americana, non paginato («c‘è
qualcosa di non paginato che si sente», dice da qualche parte). Ma qui ritorna ancora il fatto del
ritmo, per modulazione delle velocità, maneggiamento di un motore: «all‘interno della linea, il cui
regime varia, con elementi che salgono e scendono su loro stessi, o in rotazione su loro stessi, in
modo completamente distinto dalla velocità lineare della scrittura.» Un motore nel corpo della linea
lingua, che tiene il «tempo» del libro. E ancora il carattere prosaico, tramite l‘opposizione tra alta
tensione (che è ancora il regime dei poeti sovversivi del XIX secolo e delle avanguardie del XX, fino
a Christian Prigent e a TXT) e bassa tensione, trivialità e prosa, osservabile nei poeti americani ma
anche in certa pittura francese, in Degas per esempio. In cui si incontrano scrupolo poetico e
scrupolo politico, «il quale consiste nel mantenersi a stretto contatto con le cose-parole-mondo, e a
esporle, tali cose, amorevolmente.» In generale, se si vuole: la pratica della poesia come
esposizione, prosa posta, e senza posa, esponente, una «prosa-(dispositivo-di-)scatto»: «dispongo le
cose in bella mostra, metto a nudo la vita senza commenti.»
E al di là, che cosa? La prosa in prose è un cantiere. Per conto mio, riguardo a questo cantiere,
considero il lavoro di Emmanuel Hocquard come assolutamente esemplare: la poesia, qualunque sia
il modo in cui si travesta e si presenti, finisce sempre per presentarsi come una sovra-lingua, come
una pratica sovradeterminata dalla sublimazione estetizzante, dalla preziosità formale (talvolta
truccata da minimalista). Occorre dunque spostare, spostarsi. Per esempio (soluzione Hocquard):
condurre un‘indagine sugli usi contemporanei e ordinari della lingua (ordinario, è anche
l‘espressione utilizzata da Flaubert in una lettera a Louise Collet sulla prosa molto prosa; è anche
l‘espressione utilizzata da Perec, in forma estremizzata: l‘«infraordinario», in un manifestoprogramma del 1973), investigare, diventare detective, grammatico…
Vigilare… Ce ne sono i motivi. Tutto il resto dello spazio è da una parte occupato dalla prosa
legittima, quella del grande romanzo onnivoro (con le sue varianti alla moda, e vendute come
«avanguardia»), e dall‘altra dalla «poesia», alla maniera delle raccolte NRF, carine, seducenti –
poesia rispettata e rispettabile. Accanto, i dispositivi, non identificabili o malamente identificabili,
le installazioni verbali (o parzialmente tali) alle quali si potrebbe dare il nome di «prosa» a
condizione di comprendere che «prosa», in questo senso, si allontana dalle sue definizioni accettate,
stilistiche, retoriche. Che prosa non esiste (ancora). Che è il nome extragenerico di tali pratiche
sperimentali. E che quelli che vi si applicano sono ormai, per la maggior parte, indifferenti a questo
tipo di terminologia. Più che mai essi sono coscienti della loro «responsabilità formale.» Tutti
occupati sulle loro accanite minute.
Jean-Marie Gleize
270
[in: «Magazine littéraire», n. 396, marzo 2001; traduzione italiana di Michele Zaffarano.]
Note.
(1) L‟Hexameron, Paris, Éditions du Seuil, coll. «Fiction & Cie», 1990.
(2) Con questo termine vengono designati alcuni poeti francesi fioriti verso la fine del Medio Evo, grosso
modo tra il XV e il XVI secolo, e più precisamente tra la pubblicazione del Testament di François Villon
(intorno al 1460) e gli esordi di Clément Marot (secondo decennio del ‗500). I nomi più rilevanti sono: Jean
Meschinot, Jean Molinet, Jean Lemaire, Pierre Gringore, Jean Marot, ecc. Tradizionalmente considerati, a
causa dello spiccato formalismo tecnico e del carattere talora eccessivamente cortigiano dei loro testi, come
autori di importanza minore, è solo a partire dalla seconda metà del XX secolo che vengono finalmente riletti
e in grande misura riabilitati, tanto da parte della critica più avvertita (per esempio: Paul Zumthor), che da
quella di molti autori (soprattutto d‘avanguardia – per esempio: Denis Roche).
(3) Quest‘opera di Aloysius Bertrand è stata pubblicata postuma nel 1842.
271
CHRISTOPHE HANNA
L’EMERGERE DI NUOVE SCRITTURE
Esistono in Francia da almeno trent‘anni forme di poesia il cui statuto letterario e sociale resta
quello dell‘anomalia; a priori esse non sembrano essere collocabili, sprovviste come sono di quei
tratti che abitualmente ci permettono di riconoscere il carattere poetico. Come si è giunti a questo
punto? Attraverso quali rotture o quali progressive trasformazioni? Attraverso quali ridefinizioni di
principi considerati come inerenti al genere stesso? Come può essere che queste poesie siano ancora
chiamate poesie? Premesso che ogni spiegazione comporta un‘inevitabile semplificazione, nelle
righe che seguono tenterò di abbozzare una schematizzazione di tipo diacronico.
RETORICA. La reintroduzione da parte di Francis Ponge, verso la fine degli anni Quaranta (in
Proêmes), della nozione di retorica all‘interno dello spazio poetico può essere considerata come un
avvenimento decisivo per la nostra modernità letteraria. A partire da quel momento tale nozione
sarà senza sosta ripensata: dallo stesso Francis Ponge, nel quadro specifico del suo lavoro; poi, sotto
un profilo più generale e storico, da Roland Barthes; e infine, da un punto di vista linguistico e
psicoanalitico, da alcuni scrittori-teorici appartenenti al gruppo di Tel Quel, come ad esempio
Marcelin Pleynet.
Sappiamo che l‘ideologia romantica aveva rafforzato l‘idea, sorta durante il Rinascimento, di una
incompatibilità tra la retorica da una parte e dall‘altra quello che era diventato l‘essenza stessa
dell‘espressione poetica, il lirismo. Il lirismo esigeva la sincerità, la spontaneità del canto schietto, e
la poesia diventava allora il sangue stesso del poeta, sgorgato fresco dal suo cuore ferito. La retorica
significava, al contrario, un calcolo freddo e calibrato degli argomenti, una meccanica della
persuasione, una tecnica sospetta per la manipolazione degli animi.
La retorica, per come è stata reinventata da Francis Ponge e ripresa poi da certe avanguardie negli
anni Sessanta e Settanta, è una conseguenza del suo proprio «partito preso delle cose»: è
l‘invenzione di tecniche di scrittura destinate ad elaborare forme verbali capaci di trasmettere al
lettore un certo tipo di sapere, potenziale e non formulato dalle scienze, un complesso di sensazioniemozioni scaturito dall‘oggetto di natura. La nuova nozione di retorica è dunque profondamente
diversa dalla concezione classica di questa disciplina. Resta sempre una tecnica, ma non viene più
concepita come sistematica, unica o universale.
In quel particolare momento, l‘approccio retorico diventava un mezzo per estromettere tutti quei
concetti trascendentali sottesi all‘ideologia dominante, sulla base della quale veniva considerato
l‘insieme dei linguaggi e dei discorsi, e in particolare la forma dei discorsi poetici: l‘idea di sincerità
lirica, l‘emozione vera del soggetto che trapassa «naturalmente» nello scritto come idea di
chiarezza, di «verità evidente» percepibile per mezzo della ragione. Sparisce allora il mito di una
differenza di natura tra i discorsi. Il dominio della poesia moderna non sembra più essere il dominio
del soggettivo, dell‘intuitivo, ma diventa piuttosto quello del «sapere insignificante», vale a dire di
ciò che per le nostre società risulta contemporaneamente non significativo, non redditizio, non serio,
non formulato in discorsi, non considerabile come oggettivo ma da oggettivare invece attraverso la
messa a punto di tecniche in grado di produrre forme espressive a partire da esso. Un triangolo
relazionale si è così costituito tra le nozioni di tecnica di scrittura volutamente plurale, forma
testuale e sapere trasmissibile unicamente attraverso nuove forme.
SAPERI & TECNICHE. Gli anni Sessanta e Settanta vedono moltiplicarsi le strategie di scrittura
tendenti a produrre forme significanti dell‘«insignificante.» Fin dalla seconda metà degli anni
Cinquanta Henri Michaux aveva messo a punto alcuni procedimenti di «inscrizione» sismograficoannotativo-analitica al fine di captare le «percezioni disorientanti» provocate in occasione di
esperienze allucinatorie o di incidenti ordinari (come in «Bras cassé»). Questa seconda opzione
272
caratterizza molto meglio le poetiche degli anni Settanta e Ottanta. Penso al lavoro di Claude RoyetJournoud, il quale sviluppa una scrittura per cancellazioni, condotta come investigazione intorno
alla piatta sostanza verbale delle righe che giornalmente, e in maniera continuativa, egli abbozza.
Penso anche ai Dépôts de savoir & de technique di Denis Roche, vera e propria macchina da
frammentazione / accumulazione, concepita per estrarre un sapere da una materia prima costituita
da briciole di giornali, corrispondenze, fatture, da materiali insomma fino a quel momento ritenuti
trascurabili dal punto di vista letterario.
Gli anni Ottanta e Novanta vedono la poesia appropriarsi poco alla volta di tutte le tecniche
possibili di rappresentazione, anche di quelle considerate «non letterarie.» Questo furto di tecniche
condotto a tutto campo ha potuto effettuarsi, e si effettua tuttora, in due maniere. O per
trasposizione sul piano verbale di processi originariamente a-verbali: i prelievi testuali dei Dépôts di
Denis Roche riproducono sulla materia-lingua l‘effetto di una inquadratura fotografica e, allo stesso
modo, il Grio di Jacques Sivan trasforma il testo nel pendant formale di uno scatto, o
dell‘impressione di una pellicola. Oppure integrando tali e quali queste tecniche, con la forma
poetica che di conseguenza diviene una combinazione di processi eterogenei di rappresentazione; è
questo, per esempio, il caso della «poesia-azione» sviluppata a partire dal 1962 da Bernard
Heidsieck, che mescola sequenze registrate e performances orali. Negli anni Novanta, l‘evoluzione
dei mezzi tecnologici destinati alle telecomunicazioni e all‘edizione (di testi, immagini, suoni) è
stata all‘origine di una sensibile complicazione delle poetiche, che accusano in questo modo il loro
carattere eterogeneo.
Alcuni poeti riprendono oggi i procedimenti di impaginazione sviluppati dalla stampa a grande
tiratura, per ripensarne però i codici (come fa Olivier Quintyn), oppure manipolano dei programmi
di trasformazione sonora (come fanno gli Événements di Anne-James Chaton) o di animazione dello
schermo e di inserimento sul web (Éric Sadin).
Questa proliferazione tecnica e formale è probabilmente il fenomeno che più profondamente ha
contribuito a scompigliare l‘aspetto pubblico della poesia contemporanea. Parrebbe tuttavia che
dopo gli anni Settanta tale paesaggio, che si presena a priori come confuso, si stia organizzando
attorno a due posizioni distinte in maniera abbastanza netta: le poesie che chiamerei «réelistes»(1) e
le poesie «metadiscorsive.» Le prime ricercano le forme verbali di un‘esperienza diretta del reale; le
seconde, al contrario, intrattengono con il mondo una relazione indiretta: esse assumono come loro
oggetto i nostri sistemi di linguaggio, i nostri codici di figurazione e di significazione.
POESIE «RÉELISTES.» Furono quelle di certe avanguardie degli anni Settanta e Ottanta, intorno alle
riviste Siècle à main e TXT. Restano in gran parte confrontabili con la posizione pongiana e con
quella del Michaux di «Bras cassé.» In queste poesie, il lavoro di scrittura è legato ad un compito di
elucidazione del reale. L‘origine del sapere resta l‘esperienza sensoriale e corporale della realtà.
Tale esperienza è enigmatica proprio perché irriducibile ai termini della lingua corrente, e perché
incomunicabile attraverso le forme di discorso disponibili. Le poesie «réelistes» sono dunque poesie
di una sensazione indicibile all‘interno della norma linguistica, sensazione bisognosa di un «lavoro
pratico» di espressione. È in questo modo che Anne-Marie Albiach gioca sulla dispersione vocale e
sulla spazializzazione teatrale della voce, o che Christian Prigent distorce e sfigura le formulazioni
usuali carnevalizzandole. Le poesie «réelistes» sono poesie di resistenza, refrattarie, insolubili nel
flusso delle lingue mediatiche; le caratterizza una certa illeggibilità, una certa impronunciabilità.
A partire dagli anni Ottanta si è poi sviluppato un altro tipo di poesia «réeliste»: la poesia letteralista
di Jean-Marie Gleize e, più tardi, quella di Siegfried Plümper-Hütenbrink e di Michel Crozatier.
Queste ultime lavorano su una poetica assolutamente opposta a quella della figurazione, fosse pure
di quella sfigurante proposta da Christian Prigent. Il processo di scrittura punta ad annullare le
immagini concepite in quanto oggetti seducenti, ostacoli all‘assunzione del reale. Si tratta di
corrodere la lingua, di parlarla contro se stessa e contro l‘uso metaforico che, automaticamente o
per riflesso condizionato, ne facciamo. Tale scrittura scruta la lingua, e talvolta lo fa esplicitamente:
273
è per questo che essa va situata nelle immediate vicinanze di quelle poetiche che chiamo
metadiscorsive.
LE POESIE METADISCORSIVE. Le poesie «metadiscorsive» e «metarappresentative» sono il prototipo
stesso della poesia degli anni Novanta. Sono poesie che toccano il reale indirettamente, di sponda:
non si confrontano con la sensazione ma pongono piuttosto in questione i modi con cui
normalmente rappresentiamo la realtà per arrivare a produrre delle «teorie» o delle forme di
osservazione critica. Queste poesie sono lingue dell‘ostentazione: rendono cioè visibili le modalità
con cui vediamo, parliamo e immaginiamo il reale. Sembrano potersi distinguere due tendenze, non
esclusive, e anzi talvolta mescolate tra loro: le poesie «grammaticali» e le poesie «dispositivo».
Le prime scrivono una lingua che parla di linguaggi (la lingua in senso stretto, ma anche il cinema,
la fotografia, le usuali tipologie mediatiche per assemblare foto e lingua): esse producono delle
forme analitico-critiche. Tra i rappresentanti più significativi possiamo citare l‘Emmanuel
Hocquard di Commanditaire o di Voyage à Reykjavik, il Pierre Alferi di Chercher une phrase, il
Christophe Tarkos di Ma langue, la Nathalie Quintane di Mortinsteinck.
Per quanto riguarda le poesie «dispositivo», esse applicano dei procedimenti di scrittura ereditati
dall‘Isidore Ducasse di Poésies II, dai cut-up americani degli anni Cinquanta e Sessanta o dal
collage Dada. Sono macchine ideate per ricomporre del materiale linguistico preesistente o, più in
generale, degli elementi di rappresentazione (disegni, logotipi, foto, sequenze sonore o video). In
confronto alle poesie «réelistes», le poetiche del dispositivo ribaltano il senso della relazione tra
tecnica e sapere: la tecnica non è più preceduta da un sapere muto o enigmatico, ma ne è piuttosto la
condizione stessa. Tali strategie di scrittura sono allo stesso tempo dei mezzi di osservazione e dei
mezzi di spiegazione: esse producono l‘effetto di una rivelazione, portando alla luce il modo stesso
con cui le nostre rappresentazioni piegano o condizionano la percezione del mondo. Le poesie
«dispositivo» propongono forme di lingua non lineari, e sono veri e propri strumenti concepiti per
sfuggire all‘influenza di discorsi che pretendono di porsi come la forma verbale del vero. Mi
vengono in mente tre testi esemplificativi di queste pratiche: Heroes are heroes di Manuel Joseph,
Un ABC de la barbarie di Jacques-Henri Michot, Le sacrifice transformateur di Thibaud Baldacci.
Sono, queste, le opere di una generazione che comprende quanto il proprio rapporto con il mondo
sia mediaticamente mediatizzato, e che si è vista spettatrice delle manipolazioni del carnaio di
Timisoara o della disinformazione orchestrata dalla CNN durante la guerra del Golfo.
Christophe Hanna
[in: «Magazine littéraire», n. 396, marzo 2001; traduzione italiana di Michele Zaffarano.]
Note.
(1) Questo neologismo coniato da Hanna è in verità assai difficilmente trasponibile nella lingua italiana.
Mentre infatti in francese esistono un «réEl» e una «réAlité», in italiano la radice dei sostantivi corrispondenti
è identica, e abbiamo infatti: «reAle» e «reAltà». Il gioco semantico, dunque, a voler tradurre letteralmente,
andrebbe completamente perso: in entrambi i casi avremmo infatti l‘esito: «reAlista» (contro la dicotomia del
francese «réAliste»/«réEliste»). Questa è la ragione che ci ha convinti a mantenere anche nel testo italiano il
termine originale.
274
GAMMM
Nel segmento della poesia e delle scritture ―di ricerca‖, un lavoro piuttosto significativo – nelle
quattro direzioni di un primo screening del paesaggio americano, francese e italiano più recente,
della ripresa di testi/autori esemplari del secolo scorso, del dibattito teorico e del confronto con le
altre arti (soprattutto, in ambito visivo) – lo sta svolgendo da alcuni anni il sito collettivo GAMMM
(http://gammm.org), massimo comune multiplo degli interessi, della curiosità critica e degli
approfondimenti dei sei curatori.
Il lavoro fatto offre anche – ed è quanto più interessa ai fini di questo numero dell‘Ulisse – una
ricca casistica di vie percorribili: rispetto ai fuochi della ―prosa non poetica, non narrativa, non
saggistica‖, o, detto con Gleize, ―prosa in prosa‖, e di testi versificati (e/o non versificati) che si
facciano più o meno radicalmente carico, con accenti, strategie e soluzioni diverse per autore, di
strumenti tipici della scrittura, lettereraria e non, in prosa (e/o, più in generale, delle prerogative di
modalità linguistiche, discorsive e comunicative altre rispetto alla poesia ed alla lirica).
Una rapida lista di link agli autori ospitati sul sito (a opinione di chi scrive i più rappresentativi
rispetto al tema ―problematizzazione e allargamento delle maglie dei due generi‖) appare utile per
esemplificare quanto si viene dicendo [per percorsi di lettura più esaustivi, rimando senz‘altro
all‘Indice generale di GAMMM]:
Inquadramento/sfondo teorico:
Pierre Alferi, Gherardo Bortolotti/Marco Giovenale, Nicolas Bourriaud, Georges Didi-Huberman,
Michel Foucault, Kenneth Goldsmith, Nelly Kaprièlian, Christoph Hanna, Sol LeWitt, JeanFrançois Meyer, K. Silem Mohammad, George Perec, Denis Roche.
Autori francesi, o francofoni:
Stéphane Bouquet, Patrick Bouvet, Olivier Cadiot (II), Nicolas Chazel, Claude Closky, Jean-Michel
Espitallier (II), Christophe Fiat (II-III-IV), Jean-Marie Gleize (II-III), Éric Houser, Christoph
Marchand-Kiss, Jacques-Henri Michot, Valère Novarina, George Perec (II), Francis Ponge, Claude
Royet-Journoud, Eric Suchère (II-III)), Christophe Tarkos (II-III), Vincent Tholomé, Fabienne
Vallin, Jean-Jacques Viton (II).
Autori americani, o anglofoni:
Eric Baus, Charles Bernstein, Jules Boycoff, Bruce Covey, Jeff Derksen, Linh Dinh (II), Denise
Duhamel (II), Ray Gonzalez, Kate Greenstreet, Nellie Haack, Lyn Hejinian, Jenny Holzer, Piers
Hugill, Morton Hurley (II), Kent Johnson, Jukka-Pekka Kervinen (II-III), Richard Kostelanetz,
Drew Kunz, David Lehman, Jon Leon (II), Tao Lin (II-III), David Markson, Bernadette Mayer,
Charles North, Frank O‘Hara, Charles Reznikoff, Gregory Victor St. Thomasino, Zachary
Schomburg (II-III), Ron Silliman, Gary Sullivan, Rodrigo Toscano, Cecil Touchon, Paul Vangelisti,
Lewis Warsh, Barrett Watten.
Autori italiani:
Vincenzo Agnetti, Nanni Balestrini, Giacomo Bottà, Roberto Cavallera (II), Gianluca Codeghini
(II-III), Ugo Coppari (II), Corrado Costa, Alessandra MR D‘Agostino, Alessandro De Francesco,
Francesca Genti, Gianluca Gigliozzi, Emilio Isgrò (II), Antonio Loreto, Giancarlo Majorino,
Michele Marinelli, Giulio Marzaioli, Bruno Munari, Giampiero Neri (II), Massimo Orgiazzi (II-III),
Adriano Padua, Amelia Rosselli, Greta Rosso, Vanni Santoni (II), Sergio Soda Star (II), Ruggero
Solmi, Luca Zanini.
275
Autori tedeschi e nordeuropei:
Ida Börjel, Helmut Heissenbuttel (II-III), Angela Sanmann, Arno Schmidt (II).
Alessandro Broggi
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GLI AUTORI
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LETTURE
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FRANCO ARMINIO
GROTTAMINARDA, FRIGENTO, VILLAMAINA
Oggi niente paese, niente casa, niente libri, niente piccoli giri in bicicletta, niente computer. Un giro
nei paesi, ma non quelli lontani, un giro vicino, sempre a mezz‘ora da casa.
Pensavo di fermarmi a Guardia e invece scendo sull‘Ufita e poi mi allungo fino a Grottaminarda.
C‘è traffico, è il paese coi commerci, con l‘autostrada e il suo indotto. Fa anche caldo. Mi viene
l‘idea di andare al cimitero. Ci sono passato tante volte e non ci sono mai entrato. La scritta in latino
è molto bella: ti sia lieve la terra, dice. È una frase esemplare che i vivi possono dire ai morti. E
forse c‘è una frase che i morti possono dire ai vivi. Forse è per ascoltarla che entro nel cimitero, è
una frase che non può avere parole, è un qualcosa che ti entra dentro senza la furia che hanno i vivi.
La faccia di un morto su una lapide è come un albero, come un gatto. È qualcosa di
irrimediabilmente innocente, qualcosa che ha dismesso la fosca battaglia per stare in mezzo agli
altri. Ho voglia di vedere facce. Un cimitero è anche una grande mostra fotografica. Qui a Grotta
non c‘è nessun visitatore. Il parcheggio era affollato, ma sono andati tutti al mercato. Mi segno
nomi e date, guardo specialmente quelli che sono nati dopo il sessanta. Camminando nel cimitero
sento che il cuore si è rimesso a battere con precisione, prima sembrava disordinato, impaurito.
Adesso cammino e faccio attenzione a quello che vedo. Il cimitero di Grottaminarda non ha marmi
scintillanti e lapidi di forme strambe, non somiglia per niente all‘orrenda piazza da poco realizzata.
Insomma, c‘è molto più ordine di quello che c‘è fuori.
Adesso che sono qui a casa, adesso che sono passate molte ore, non so dire di preciso come mi
sentivo stamattina, non so dire come la morte educava i miei passi e i miei pensieri. La nostra testa
è fatta di lampi deboli e lontani oppure di un cielo basso e grigio e inerte. Basta poco e non
sappiamo dove siamo, cosa pensiamo. E allora arrivano le parole da cui sfiliamo altre parole e altre
ancora per non trovarci di fronte all‘esatta insensatezza di appartenere a una specie che ha perso il
filo del suo viaggio nel mondo. Stamattina non pensavo alle cose che sto scrivendo. Pensavo solo di
mettere sul computer i nomi e le date che andavo trascrivendo sul taccuino. Villanova Antonio
(1963-1998), De Paolo Concettina (1965- 2005), Michele Iacoviello (1972-2009)Palumbo
Pasqualantonio (1958-1995), Maurizio Grillo (1970-1994) Romano Generoso (1962-1991),
Romano Massimo (1970-1991), Carla Formato (1947.1997), Del Viscovo Michele (1960-1992),
Dario Bottino (1963-1984), Amalia Minichiello (1984-2001), Blasi Guido (1968-1983), Di Vito
Giulio (1977-1996). Stamattina ognuna di queste persone mi ha consegnato una sua frase, ognuna
delle loro facce mi ha fatto compagnia per qualche attimo. Di più non è possibile.
Non sono mai stato così bene a Grotta come in questa ora passata al cimitero. Quel filo di dolce
mestizia che mi ha accompagnato adesso si è dissolto. Oggi mi sono preso tutto il vento della vita,
me lo sono preso anche io che sto sempre al riparo, incredulo di poter veramente partecipare a
questa vicenda di stare al mondo, questa vicenda appartenuta anche alle persone di cui ho appena
trascritto i nomi.
Uscito dal cimitero sono andato verso l‘alto,verso la sobria bellezza di Frigento. La via panoramica
chiamata Limiti era mossa da un vento senza fiamme. Poca gente in giro e tanta terra davanti a me.
Contento di essere lì, sicuro di avere fatto bene ad andarci, contento di stare seduto senza far niente
su uno scalino all‘ombra.
È nuovamente tempo di scendere, vicino c‘è un altro posto con una sua intensità. Vado alla Mefite.
Un pozza di acqua e fango che ribolle può essere poco. Oggi è molto, il vento muove le canne, si
sente che il luogo ha avuto una sua storia e io sento che è bello stare qui a bocca aperta, farsi entrare
nel petto quest‘aria che può sembrare l‘alito di angeli ubriachi.
Vado verso Villamaina. So che c‘è un boschetto con alberi poco fitti. Scendo a fare una foto e vedo
una mamma di cinghiale con sei cuccioli. Non se ne scappano e non me ne scappo nemmeno io.
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Loro si avvicinano e mi avvicino pure io. Faccio tranquillamente le mie foto. Io sono un cacciatore
di desolazione e non di animali. Li guardo con allegria, mi sento felice del fatto che non faccio
paura, che questi animali smuovono la terra vicina ai miei piedi senza alzare lo sguardo verso di me.
Forse hanno capito che vago nel mondo da disarmato. Li lascio a malincuore, ma questo bosco
ormai è un altro luogo che mi appartiene, un luogo sacro come tutte le cose che ho visto oggi.
La giornata volge al tramonto. Passo per Gesualdo. Anche questa è una bella Irpinia. Mi basta
vedere il castello da lontano e sono felice. Il mio passaggio dura poco più di una stretta di mano.
Sento amicizia per questo luogo, mi basta averlo visto, gli voglio bene, voglio bene alle sue pietre.
Oggi ho visto i morti di Grotta, la luce di Frigento, il fango della Mefite, ho viste tante cose , tutte
bagnate in questa Irpinia d‘agosto che non è né vuota né concitata. Un‘Irpinia che sarebbe bello se
avesse questi abitanti anche d‘inverno.
Sono nuovamente a Grotta. I morti sono al loro posto e le macchine fanno i soliti giri. È ora di
tornare a casa. Ci torno per scrivere, per onorare la bellezza semplice e appartata delle cose
osservate.
Ho voglia di scrivere senza la lingua sporca che uso quando parlo con le persone. A parte qualche
mezza frase che viene ogni tanto, il mio eloquio è vanamente concitato. Parlo e sento che non
dovrei parlare. Dovrei soltanto far suonare il mio corpo. Scendere a picco sulle cose e risalire in
verticale. Basta coi giri obliqui, tutti questi giri che mi hanno fatto impallidire. Voglio tornare a
essere secco e delirante, voglio portare gli altri davanti al mio furore o alla mia calma e non sempre
davanti a questa poltiglia di stati d‘animo che cambiano aspetto appena li smuovi, appena ti ci
muovi dentro. Voglio essere come le cose che ho visto oggi: i morti di Grotta, la luce di Frigento, il
fango della Mefite, i cinghiali del bosco, le pietre di Gesualdo. In alcuni giorni, in alcuni minuti c‘è
un attimo di bene che vaga per il mondo. È il caso di riconoscerlo e nominarlo.
Notizia.
Principali notizie bio-bibliografiche sull‘autore: http://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Arminio.
280
NANNI BALESTRINI
GLI INVISIBILI
I sotterranei sono un dedalo di budelli illuminati ogni venti trenta metri da tubi al neon polverosi
appesi a lunghi fili elettrici sbrindellati che pendono dal soffitto di cemento grezzo del sotterraneo
spaccato da fenditure profonde lunghe che non si vede la fine e in qualche punto si abbassa gonfiato
verso il basso come spinto da un peso enorme che sopra lo schiaccia curvandolo sfondandolo e ogni
quattro cinque metri puntelli di grosse travi lo sostengono il legno è marcio ammuffito il suolo è
coperto da un sottile velo d'acqua marcia l'odore dolciastro e nauseante di carogna d'animale si
mescola all'odore della muffa ogni tanto a una biforcazione o a un incrocio di due budelli ci sono
piccoli mucchi di sabbia di cemento bagnati franati calpestati pale e altri attrezzi arrugginiti
abbandonati l'aria è umida e dalla bocca escono piccole nuvole di vapore quando si respira quel‘aria
nauseante
lo scalpiccio disordinato del piccolo corteo muto si mescola al tintinnare continuo delle catene
rimbomba quando si attraversano le passerelle di legno fradicio le ombre si allungano dietro i passi
quando si avvicinano alle zone illuminate dai neon scompaiono e subito riappaiono davanti e si
allungano i passi avanzano lenti facendo attenzione a dove si mettono i piedi e alle catene per non
tirarle troppo davanti o dietro cercando di lasciare sempre la stessa distanza con chi sta davanti o
con chi sta dietro facendo attenzione a non strisciare la spalla destra sulla parete viscida bagnata e
evitare a sinistra le canne dei mitra puntati orizzontali mentre il piccolo corteo gira più volte a
destra e a sinistra a sinistra e a destra fino a perdere del tutto l'orientamento
poi saliamo su una scala stretta semibuia soffocante con lunghe rampe alti gradini faticosi strappi
alle catene che fanno male ai polsi e alla fine dell'ultima rampa la luce di una piccola porta e
sbuchiamo fuori in alto in cima a una gradinata spalancata su un'enorme sala molto illuminata piena
di gente che si muove giù in basso sotto di noi sento improvvisamente contro la gamba un muso che
ringhia minaccioso le pupille nere dilatate i grandi occhi sporgenti due lunghi denti bianchissimi le
labbra rosse contratte rovesciate un grosso cane gigantesco il pelo lucido nero rizzato sulla schiena
che si incurva tesa le orecchie dritte mosse da un tremito continuo il carabiniere che lo tiene al
guinzaglio è impassibile nella tuta blindata antiterrorismo ultimo modello
dal punto in cui siamo la gradinata scende ripida fino al pavimento della sala e da lì salgono
tutt'intorno fino al soffitto spesse sbarre cilindriche di ferro verniciate di grigio metallizzato
l'enorme gabbia è piena di carabinieri in tuta blindata grigia metallizzata sopra sotto di fianco con
altri grandi cani neri ringhianti e nervosi a uno a uno i carabinieri ci sfilano la catena ci tolgono i
ceppi dai polsi rossi che fanno male ci arrivano in faccia le vampate di luce accecante dei flash dei
fotografi cani anche questi anzi sciacalli e si contorcono si piegano si alzano sulle punte dei piedi un
balletto affannoso alzando le braccia tirandole ancora più su con le maniche delle giacche che si
accorciano sui gomiti ancora più su
ci freghiamo i polsi rossi accendiamo le sigarette camminiamo un po' su e giù per la gradinata
salutiamo qualche parente ci sediamo a due o a tre vicini scambiando qualche frase a bassa voce i
fotografi in basso si piegano sulle ginocchia spostano di scatto il tronco a destra e a sinistra come
contorsionisti del circo si protendono verso le bestie dentro la gabbia tentano di infilare la testa di
traverso tra le sbarre infilando i lunghi obbiettivi tra le gambe le braccia dei carabinieri che formano
una barriera immobile agitano le dita isteriche fanno ballonzolare le macchine e scattano e sparano
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lampi abbagliano contro le facce nella gabbia poi in un angolo lontano si accende una luce ancora
più abbagliante e comincia il ronzio delle telecamere
mi siedo sul gradino più io alto della gradinata e giù in fondo vedo gli avvocati con le mantelline
nere distrattamente buttate sulle spalle che confabulano tra loro calmi a gruppetti dietro i banchi di
legno scrostato sulla destra parallela alla gabbia è schierata la corte con il presidente arcigno e
pensoso seduto in mezzo lo schienale altissimo che gli arriva un bel pezzo sopra fa testa poi il
giudice a latere stravaccato di traverso su un'altra sedia altissima e a destra e a sinistra i giurati
popolari uomini e donne quasi tutti con la faccia nascosta dietro occhiali larghi e scuri le larghe
fascio tricolori che attraversano i golfini pallidi le camicette gonfie con i colletti inamidati le
giacche doppiopetto in diverse tonalità di grigio le cravatte verdastre bluastre o giallastre e in fondo
a destra c'è il palchetto solitario del pubblico ministero
sopra le teste della corte milioni di tessere compongono un enorme mosaico impolverato e sbiadito
che arriva fino al soffitto e rappresenta una scena confusa una battaglia furiosa dalla parte sinistra ci
sono le forze del male rappresentate da strani esseri contorti mostruosi aggrovigliati soprattutto di
colore verde e viola e dalla parte destra le forze del bene angeliche trasparenti armoniose azzurre e
leggere che si scontrano al centro in una battaglia furiosa ma le forze del male sono già chiaramente
sconfitte e battono in ritirata incalzate dalle implacabili forze del bene in basso in un ovale dorato
campeggia la figura imponente della giustizia bendata che regge in una mano lo spadone nell'altra la
bilancia un po' più sotto la scritta in rilievo la legge è uguale per tutti c'è scritto
sulla sinistra dietro lo sbarramento dei carabinieri ci sono le transenne di legno dietro le transenne
c'è lo spazio per il pubblico ma il pubblico non c'è lo spazio per il pubblico è quasi completamente
vuoto salvo qualche parente madre padre sorella fratello cugino zio cognata nessun amico nessun
compagno perché tutti hanno paura perché visto da fuori il tribunale si presenta con una scenografia
da guerra transenne metalliche e fili spinati cordoni di polizia e carabinieri un susseguirsi di
sbarramenti e mezzi blindati disposti nei punti strategici mentre altri mezzi blindati girano
continuamente intorno al palazzo e poi cani e metal detector all'entrata e perquisizioni interrogatori
schedature minacce avvertimenti insinuazioni e tutto il resto
la piccola porta alle nostre spalle si apre un'altra volta e in mezzo a un altro nugolo di carabinieri
appaiono in cima alla gradinata le donne anche loro incatenate e con i ceppi tutti ci alziamo
avvicinandoci la gabbia si riempie di grida di saluti di sorrisi di profumi diversi si sono messe tutte
vestiti coloratissimi gonne lunghe camicie colorate foulard colorati gli anelli alle dita collane
catenine spille braccialetti ciondoli ai polsi grandi orecchini bizzarri fermagli tra i capelli nella
confusione i carabinieri si agitano urlano ordini i cani ringhiano minacciosi riesplodono le vampate
dei flash dei fotografi i giornalisti prendono frenetici appunti sui taccuini i pochi parenti si
sbracciano gridano saluti dietro le transenne e rispondono altre grida e saluti
a una a una i carabinieri sfilano la catena e tolgono i ceppi le ragazze corrono verso di noi corriamo
verso di loro sulla gradinata ci ingarbugliamo ci intrecciamo ci avviluppiamo in un mosaico di
abbracci di strette di baci di voci l'unica cosa che ci interessa adesso è poterci parlare parlare di
tante cose parlare di tutto finalmente parlare parlare il più a lungo possibile e poterci toccare sentire
tra uomini e donne tutto scompare intorno l'aula i carabinieri i fotografi i cani i giudici tutto quello
che c'è al di là delle sbarre ci è estraneo non esiste si intrecciano i regali amuleti piccoli oggetti tutto
quello che è stato possibile portare fin lì dentro la gabbia ci scambiarne anche i vestiti le camicie i
maglioni i foulard le sciarpe
squilli di un campanello che viene dal banco della corte e il presidente comincia a leggere arcigno il
lungo elenco dei capi d'imputazione questo quello imputato di e così e così per avere e qui e là
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questo quello imputato di e qui e là per avere e così e così e in concorso con legge con un tono di
voce uniforme in modo sbrigativo tirato via questo quello imputato di e così e così per avere e qui e
là tira via si mangia le parole dalla fretta questo quello banda armata associazione e qui e là non si
riesce a seguire niente finisce in fretta e poi vengono i preliminari e gli avvocati senza nessuna
convinzione e per pura formalità presentano le solite inutili eccezioni e quindi sospensione della
seduta e ritiro della corte per decidere delle eccezioni della difesa e pochi minuti e sono già di
ritorno e altri squilli per dire che ovviamente tutte le eccezioni della difesa sono respinte e altri
squilli e si dichiara aperto e il presidente dichiara aperto il dibattimento
[Da: Nanni Balestrini, Gli invisibili, ora in La Grande Rivolta, Bompiani, 1999]
Notizia.
Cenni biografici e principali pubblicazioni dell‘autore su:
http://it.wikipedia.org/wiki/Nanni_Balestrini.
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MARIO BENEDETTI
La bellezza delle lacrime. La trasparenza.
Tutto è vicino e lontano.
Io a frammenti di te, di noi.
Progetto di vita in cui non saremo,
non siamo, non fummo.
―Sai‖ non è un ―tu‖, eppure è da lì.
Bocca sul catino. Non ho madre.
Padre di me stesso padre. Sul cielo stellato.
Che cos‘è questa poesia? L‘ho scritta suggestionato da Bataille, rimontando parti: Il supplizio,
secondo capitolo del libro L‟esperienza interiore. Si capisce? Il mio testo, intendo. Riporta frasi di
Bataille. Sofferenza, angoscia, disgusto mantenuti. La ‖trasparenza‖ produce ―frammenti‖.
L‘―eppure è da lì‖ è il dato concreto esperienziale. Padre di me stesso, senza padre. Dio di me
stesso, senza Dio. Con l‘innalzamento ‗dissolvente‘ del tempo e del non-tu, e l‘immagine del
catino-vomito come cielo stellato. Cielo comunque. Espressione. Eppure l‘espressione in sé, qui la
poesia, è in fondo una forma di dépense. Ma se resto muto, è come se non ci fossi. Dunque
comunico, devo. Piccola progettualità discorsiva. Non affronto il ―come se non ci fossi‖. Ora. Per
adesso.
***
Finché Nadine è qui nei suoi occhi ci sono degli alberi, poi ritornano nei boschi e un‘altra vita non
basta a guardarli. Ma non c‘erano cose nella sua contentezza. Io invece sono arrivato al cortile. Le
donne morte ritornano con il catino dell‘acqua. Le guardo ed è la forza di rispondere: muoio adesso
anch‘io. Un ragazzo che grida dai vetri agli amici ma non si sente nulla. Parlano degli anni Trenta
come se contassero gli anni e non per vederci come saremmo potuti essere. Il caffellatte è una cosa
nella tazza ma io non ho niente da scoprire. Vorrei che fosse possibile dire: finché il senso non
viene restiamo qui, tra quello che sappiamo, finché non verrà più. Guardo la finestra, la sua luce. A
volte l‘allontano in tante immagini, a volte resto di fronte. Sento che potrei essere qualcos‘altro.
Posso dire: luce, piangi tu per me. E vedo la luce piangere...
[da: Materiali di un'identità, Transeuropa, Massa, di prossima pubblicazione.]
Notizia.
È consultabile su: http://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Benedetti_(poeta_italiano).
284
PAOLO COLAGRANDE
PORTIOLI
Portioli quando si è accorto di essere povero in canna ha smesso di andare al cinema e al bar, per
risparmiare, poi ha rinunciato al caffè, ha rinunciato al giornale, alle sigarette, all‘acqua minerale,
ha rinunciato anche al telefono, dopo ha rinunciato al gas e ha rinunciato alla luce e di conseguenza
ha rinunciato anche alla televisione alla radio al frigorifero alla lavatrice. Quindi è passato ai capi di
vestiario e ha rinunciato al paltò al cappello ai guanti e alla sciarpa, ha rinunciato perfino alle scarpe
e anche alle calze, poi alla camicia alla canottiera alle mutande e poco alla volta ha rinunciato a tutti
i vestiti. Ma siccome era sempre povero in canna è andata a finire che ha rinunciato anche all‘acqua
del rubinetto e di conseguenza ha rinunciato al sapone e al dentifricio e alla schiuma da barba e
naturalmente ha rinunciato anche a bere, e così per forza di cose ha rinunciato anche a mangiare. E
dopo aver rinunciato anche a camminare e a sedersi e a stare in piedi, si è coricato ignudo sul
pavimento con la faccia che guardava il soffitto, e stando in quella posizione ha rinunciato prima a
parlare poi a ascoltare poi a guardare. Alla fine, che nonostante tutto era sempre povero in canna, ha
rinunciato anche a pensare. Se entravi in casa sua per andarlo a trovare lui era come se non ci fosse,
non ti guardava, che aveva rinunciato a guardare, di conseguenza non ti offriva niente perché
avendo rinunciato al mangiare al bere e al fumare cosa vuoi che ti offriva; e non partecipava al
dialogo perché aveva rinunciato a parlare e a ascoltare; e poi cosa dialogavi con uno coricato ignudo
per terra. Del resto non gli potevi neanche telefonare, che aveva rinunciato al telefono, e poi cosa gli
telefonavi a fare, che non parlava e non ascoltava. Quando ha deciso di rinunciare a respirare però
non ce la faceva, provava riprovava e poi riprovava un‘altra volta ma niente, non ce la faceva a
rinunciare a respirare, del resto non poteva neanche usare la forza del pensiero, avendo rinunciato a
pensare. Ma un giorno è venuto a trovarlo Porcari, il suo amico più caro, che vedendolo coricato
ignudo per terra magro consunto e pallido e anche sporco lo ha tirato in piedi contro il muro e lo ha
strangolato, così ha smesso anche di respirare. Era un brav‘uomo Portioli. Anche Porcari era bravo.
La prossima volta parliam di Porcari.
POETICA DEL RUDO
Una più plausibile difesa dell‘ambiente può ripartire da una frase del popolo: Buttalo nel mio
bidone. Naturalmente la versione in italiano rende meno di quella, originaria, in dialetto (Tràl in
d‘al mé tulòn) ma l‘idea ecologica che racchiude è precisa. Parliamo di bidone o tollone (tulòn) nel
senso di pattumiera, cioè raccoglitore di rudo, ovvero rusco, o rumenta; monnezza, come dicono gli
attori in televisione. L‘atto del buttar nel bidone rappresenta, nelle dinamiche della veterociviltà
artigianale o agricola, l‘extrema ratio di una vocazione conservatrice radicale e quindi la definitiva
investitura del bene come rudo; ma nell‘attimo appena precedente quel fondamentale gesto, che
segna un altrettanto fondamentale passaggio macroeconomico, c‘è ancora una residuo di speranza:
il mio rudo, quello che è il risultato di un meticoloso processo di sfruttamento delle cose fino al loro
estremo limite produttivo oppure ornamentale o anche voluttuario, può riqualificarsi in casa del mio
vicino e ricominciare un suo nuovo cammino. L‘inutile, del resto, non è assoluto e l‘utilità è un
concetto soprattutto soggettivo di sensazioni, come dice grosso modo Alfred Marshall, economista
inglese; di conseguenza se una cosa mi è diventata inservibile, magari dopo progressive e
scrupolose fasi di riciclo trasformazione, riuso, secondo la legge naturale della cosiddetta utilità
decrescente, può servire ancora a qualcun altro e ripartire magari da capo.
Questo è il motivo per cui un po‘ di secoli fa, o forse solo un po‘ di anni fa, soprattutto in campagna,
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l‘unico vero residuo improduttivo era quello organico di origine umana, praticamente e moralmente
irriciclabile: tutto (o quasi) il resto rientrava nel paradigma di Antoine Lavoisier chimico francese
ghigliottinato nel 1794 per cui nulla si crea nulla si distrugge e tutto si trasforma. La massima qui è
rivisitata in termini socioeconomici, non chimici.
È quindi attraverso il rudo, pura sostanza fisica per sua definizione esausta, che si manifesta la
cosiddetta diversità e quindi la cosiddetta identità. Nel momento in cui l‘identità si corrompe o si
deprime, l‘utile e l‘inutile si globalizzano nei rispettivi spazi, il concetto di rudo si amplia oltre la
sua stessa valenza semantica e la quantità di rudo aumenta in progressione. Diventa allora più
appropriato il termine italiano rifiuto, che richiama l‘idea del fallimento, della sconfitta,
dell‘esperimento non riuscito: un bene che non serve più perché non è più all‘altezza dello scopo o
forse non lo è mai stato e chissà se era mai stato inventato per servire a qualcosa o a qualcuno.
È tutta una conseguenza della civiltà industriale, dice Charles Dickens, che questo rapporto tra rudo
e produzione l‘aveva capito bene: la villa dei Boffins, ad esempio, è stata costruita da Mister
Harmon su mucchi di dust e il paesaggio intorno è fatto di colline di dust: grazie al dust Harmon ha
fatto i soldi. Nel romanzo Il nostro comune amico il dust ha un ruolo centrale ma non si sa bene
cosa sia, anche se il dizionario di inglese dice spazzatura (c‘è anche il significato di polvere, ma qui
non interessa). Gli studiosi si sono interrogati a lungo su quale sia l‘essenza del dust che compone le
colline di Mister Harmon, ma senza arrivare ad una conclusione coerente. Invece il significato è
abbastanza semplice: il dust è il post-rudo, quello che segna il passaggio dal rifiuto esausto
tradizionale ad un concetto moderno, di derivazione più consumistica, che prescinde dalla
cosiddetta legge economica di utilità decrescente: dust è il bene che viene buttato acriticamente o
impietosamente nel bidone, prima del suo exitus biologico-produttivo o prima dell‘esaurirsi delle
sue vocazioni, senza neanche interpellare il vicino perché novanta su cento i bisogni del vicino
coincidono con quelli di chi ha compiuto il gesto, o se non coincidono gli assomigliano. Siam tutti
uguali, o analoghi, o omogenei. Siam tutti allegramente generici. L‘unica cosa eterogenea,
individuale, specifica, sofisticata e contraddittoria è quella massa di dust che si accumula insieme e
sotto di noi, o sopra di noi, insieme all‘universo del ventunesimo secolo.
In questa collina di mister Harmon possiamo metterci allora di tutto, anche i vestiti e le scarpe
nuove, i palazzi e i governi, il cane o il gatto che non son più così carini, il pc diventato un po‘ lento
e obsoleto, gli esseri umani viventi che ci sembrano un po‘ incompetenti.
Ma dentro quella massa c‘è tutta una potenza inesplosa, una forza viva per sua natura ingovernabile
che sublima le energie disorganizzate di tutti quei fallimenti precocemente dichiarati e che un
giorno, al prossimo strato di dust cioè nel secolo prossimo facendo un calcolo approssimativo ma
realistico, si rivolterà contro il vecchio mister Harmon, cioè contro tutti. ―Bisogna che ci diate
dentro con tutte le forze e con tutto lo zelo – è la conclusione logica di Dickens – altrimenti la
montagna ci crollerà addosso e ci seppellirà‖.
Io proverei allora a tornare al rudo classico e ai suoi processi selettivi, con devozione, rispetto e un
po‘ di gratitudine, recuperando anche il dialogo scambievole col bidone del vicino, in un simbolico
abbraccio tra consumatori. Buttalo nel mio bidone, se non ti serve. Naturalmente dopo avermelo
chiesto.
Notizia.
I principali riferimenti bio-bibliografici sull‘autore sono rintracciabili su:
http://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Colagrande.
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LUIGI DI RUSCIO
I VERSI
È la coscienza disgregata che nella sua inversione si esprime con il linguaggio scintillante che è
capace di verità e si esprime molto meglio della coscienza cosiddetta onesta che gli si contrappone.
Anche questa l‘ho trovata leggendo Hegel e una scuola di poesia carissimo critico militante è
impossibile, se la poesia è linguaggio scintillante che può essere espresso solo nell‘inversione di
una coscienza disgregata, una scuola di poesia per poeti significa fare una scuola per la formazione
di disgraziati. Mettere i versi in movimento, veloce, strappare e cancellare e il tutto dovrebbe
cessare di, lo cancello, al centro dei versi dovrebbe esserci la vertigine, una parete del ventesimo
piano si apre e tutto precipita fuori di sé, tutta questa gioia non è certo una preparazione alla morte,
la sconfitta dell'utopia ha scatenato i diavoli più luridi dell'inferno nostro, la fine della speranza, la
nostra sconfitta, gli sbranamenti dei nazionalismi degli straccioni, se la resistenza nostra è ancora
possibile, la sconfitta non è definitiva, la speranza è tutta nella nostra capacità a resistere ridendo,
un mondo salvato per il resistere dell‘ultimo giusto. La caduta della speranza, l'utopia era diventata
un incubo, i colpi improvvisi tra capo e collo proprio quando iniziavo ad invecchiare, quando ero
giovane la speranza e il comunismo erano ancora volanti, vivo l'epoca della sconfitta, va tutto male
meno il cazzo che sembra a volte perfino ringiovanito e azzoppato mi dirigo verso la cassetta
postale, imbuco i messaggi estremi, opere prime stupefacenti e le poesie orribili della vecchiaia.
Hanno immaginato che Omero fosse cieco perché ci vedeva troppo, la sconfitta politica può
provocare la creazione di una poesia stupefacente. Però oltre ai capricci del vegliardo esistono
anche quelli giovanissimi di Paganini, la vita vuole che vuole vivere ad ogni costo sino alla morte,
però un romanzo potrebbe finire come le comiche di Chaplin che ad ogni FINE si riparte per
raggiungere nuove storie. Ogni fine è anche un inizio ed è necessaria una forte resistenza delle
nostre gambe e alla nostra bocca è necessaria una grande capacità di ingoiare tutto e sputare tutto il
più lontano possibile
LA MACCHINA DA SCRIVERE
Il sottoscritto finita l'ultima guerra mondiale si iscrisse al partito comunista e decise di scrivere le
poesie e di fare del tutto per mostrasi normale, evitare stranezze, allucinazioni, affrontare
tranquillamente angoscia e solitudine, il nostro lavoro è come quello di chi tenta di scassinare la
cassaforte, la cosa va fatta in silenzio e con calma, ormai questa macchina da scrivere perde pezzi
da tutte le parti, sembra una trappola per sorche, i pensieri devono sputarsi sulla carta
simultaneamente. Lo stato normale è quello angoscioso e tutto ad un tratto la gioia tutta intera mi
salta addosso e faccio un mucchio di cazzate, momenti quindi che potrebbero