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Premessa
Nuove dipendenze: nuova prevenzione per nuovi
utenti
di Patrizia Meringolo
Negli studi sul tema delle dipendenze compare spesso il termine
“nuovo”. Si è parlato di “nuove” droghe alla fine degli anni Novanta,
intendendo le anfetamine che venivano immesse sul mercato, dopo
i decenni caratterizzati dalla problematica diffusione dell’eroina; si
parla adesso di “nuove” dipendenze, per indicare comportamenti
problematici, talvolta anche con caratteristiche di addiction, nei quali
però non è presente una sostanza psicotropa a fare da catalizzatore
di un comportamento.
Vediamo allora di svolgere alcune considerazioni sia sulla dizione
“nuove” dipendenze che su quella, ugualmente utilizzata, di dipendenze “sociali”.
1.
La teoria: perché nuove dipendenze? Le dipendenze
senza sostanze, dipendenze e comportamenti, dipendenze
e stili di vita
I presupposti teorici alla base dell’indagine presentata nel testo saranno trattati con maggiore compiutezza nelle parti successive. Va
tuttavia preliminarmente sottolineato che la novità delle situazioni che
oggi si presentano, per chi lavora con un target giovanile ma anche
per chi ha rapporti professionali con persone o gruppi di età adulta,
non sta prevalentemente nel carattere di disagio che le cosiddette
nuove dipendenze implicano, quanto piuttosto nella loro diversità rispetto a quelle che hanno caratterizzato i decenni passati, in primo
luogo il consumo di eroina, diventata per molti anni il paradigma di
tutte le dipendenze, con il suo carico di esclusione dal contesto sociale, di comportamenti sanciti con pesanti misure penali, di interventi
caratterizzati spesso dal “ricollocamento” degli individui in luoghi separati che solo in alcuni casi garantivano il reinserimento relazionale
e lavorativo.
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Molti comportamenti problematici attuali invece si rifanno a consumi
(di sostanze e/o di eventi) che non presentano caratteristiche di trasgressione o di illegalità, ma risiedono in stili di vita e aspetti di vissuto quotidiano: il modo di trascorrere il tempo libero, alcune modalità
ludiche – come i giochi “di azzardo” – che hanno origini lontane nel
tempo e spesso non distinguibili da abitudini tradizionali; lo shopping, indotto e auspicato dal contesto sociale, e infine, l’utilizzo di
strumenti utili e spesso indispensabili come la navigazione sul web.
In questo ultimo caso abbiamo assistito, in un lasso di tempo relativamente breve, al dispiegamento di tutte le ambiguità possibili di un
mezzo di comunicazione di massa: l’emarginazione di individui che
non possono accedervi, la maggiore facilità della vita quotidiana prodotta dal suo uso (accessibilità di notizie, documenti, semplificazione
nei rapporti informali e formali-burocratici, possibilità di conoscenza
in tempo reale dei cambiamenti, possibilità di diffondere movimenti
e azioni collettive ...) ma anche la pericolosità di un uso distorto e/o
non consapevole. Ci riferiamo ad esempio a tutte le situazioni in cui
si diffonde una visione distorta della realtà, rendendo plausibile ogni
commento ai fatti. Pensiamo inoltre che la navigazione può assumere
aspetti che non seguono una rotta che va dal richiedente al richiesto, ma possono procedere con modalità ossessive e con perdita del
contatto con la realtà, e al fatto che possono, per esempio, incrementare altri tipi di comportamento – facilitati dal presunto anonimato del
web – come il gioco d’azzardo.
Molti di questi comportamenti possono anche configurarsi come dipendenze sociali, per la loro contiguità con abitudini perfettamente
inserite nelle norme accettate, a fianco di altri consumi problematici
in cui però la sostanza di elezione è legale, come l’alcol.
Diventano di interesse, pertanto, proprio gli aspetti sociali del consumo, e la ricerca si sposta all’analisi di come la situazione in cui si
inserisce – il setting – possa modularne frequenza e intensità.
La sostanza in quanto tale sembra quindi aver perso la centralità, sia
nei suoi aspetti chimici che negli effetti indotti sull’organismo, mentre
aumenta la rilevanza del significato individuale e sociale del consumo, del giudizio che gli viene attribuito e dei contesti di vita in cui si
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situa. E assumono una maggiore importanza gli attori sociali, le fonti
di influenzamento, i pari che condividono le esperienze, gli atteggiamenti e i comportamenti del gruppo di riferimento.
Non si tratta, ovviamente, di negare l’esistenza di antecedenti di problematicità individuale, quanto di sottolineare gli aspetti di scelta negli
stili di vita. Questo approccio diventa basilare in molte ricerche svolte
con un’ottica di psicologia di comunità, con una doppia valenza: la
valutazione del modo di condurre la vita quotidiana e la valorizzazione delle scelte possibili e attuate da ogni individuo sono importanti
sia come variabile in grado di spiegare un fenomeno ma anche come
mezzo per incrementare una possibilitazione, una tappa del processo di empowerment, in definitiva quindi un possibile incentivo alla
sperimentazione di comportamenti nuovi e orientati alla promozione
della salute.
2.
Metodi di ricerca per rilevare gli stili di vita
Le ricerche su stili di vita e tempo libero in età giovanile (Meringolo,
Bertoletti, Chiodini, 2009) offrono elementi per illustrare le attività di
tempo libero di molti giovani. Non emerge una quotidianità particolarmente stimolante: la maggior parte del tempo viene trascorsa da soli
e in casa, ascoltando musica, guardando la televisione, navigando su
internet, sebbene si dichiari che il divertimento potrebbe essere maggiore in altri contesti, caratterizzati da ricchezza di relazioni e attività
condivise. La capacità progettuale nel tempo libero non è elevata: si
parla spesso di uscite senza un’idea precisa e di luoghi-contenitori
come il bar. E’ decisamente minoritaria, infatti, la scelta di luoghi in
cui si svolgono attività maggiormente strutturate o la frequenza ad associazioni e a organizzazioni di volontariato. Anche l’interesse per la
musica, che appare elevato, non si concretizza in attività che vedono
i giovani come promotori e protagonisti.
In questo quadro assume importanza il consumo di sostanze, sia legali come l’alcool (che presenta indici elevati di consumo e anche
di abuso) sia illegali. Non solo, ma più alto è il rischio sperimentato,
meno le motivazioni che i partecipanti attribuiscono all’uso di sostanze si riferiscono a problemi personali, mentre si parla più di frequente
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di comportamenti di tipo esplorativo, in cui è emblematico in questo
senso il rimando fatto da molti intervistati alla “curiosità” di provare.
Contrariamente a quanto avveniva nei decenni passati, su questo terreno le differenze di genere vanno appiattendosi, anche se le ragazze si collocano ancora in modalità d’uso circoscritte al fine settimana
o a momenti particolari dell’anno, con meno presenza nel gruppo dei
consumatori abituali e quotidiani.
Da questa e da altre indagini recenti emergono tipi diversi di comportamenti potenzialmente dannosi, come la guida pericolosa, il gioco
d’azzardo e più in generale una diffusa sottostima delle conseguenze
delle proprie azioni. A fronte di tutto ciò non appare molto elevato
l’interesse e la conoscenza degli interventi di prevenzione, soprattutto da parte di coloro che presentano un maggiore livello di rischio
sperimentato.
I dati quantitativi su questi temi illustrano però solo in parte le sfaccettature del problema: nella ricerca citata è stata l’analisi qualitativa
del materiale emerso nei focus group, condotti con gruppi giovanili di
varia estrazione, che ha offerto la maggior ricchezza di motivi di riflessione, dimostrando ad esempio come molti giovani non siano orientati solo dal mettersi alla prova per confermare una immagine di sé, ma
siano anche potenzialmente disponibili a sperimentarsi nel costruire
qualcosa e nella gestione dei loro momenti di vita. E’ un’aspirazione
che potrebbe diventare centrale non solo come momento di crescita
ma come modo salutogeno di prendersi cura di sé e del gruppo.
3.
L’intervento: ricerca azione e peer education, ovvero
l’intervento sugli stili di vita
I dati che abbiamo illustrato offrono elementi per delineare gli scenari
in cui si svolgono le attività di tempo libero per molti giovani. Appare
importante progettare interventi basati in primo luogo sulla conoscenza delle diverse culture giovanili, sulla diffusione di informazioni preventive in tutti i contesti di vita, e soprattutto sul coinvolgimento diretto
dei giovani in modo da promuovere il loro protagonismo nell’uso del
tempo libero e nella promozione della salute.
Un approccio che si è rivelato di interesse e di efficacia è quello di di-
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minuire i problemi lavorando sulle risorse (Chiodini, Meringolo, 2009),
usando una logica resource oriented che rende centrali le competenze dei giovani, spostando il focus dell’attenzione dal problema (sostanze, comportamenti problematici, condotte a rischio…) ai saperi
e alle possibilità che i singoli e i gruppi possiedono di operare un
cambiamento.
Introducendo una visione sistemica del contesto, in cui la logica sia
circolare e non lineare, non basata cioè su una rigida punteggiatura
di causa e effetto, in cui tutti gli attori sociali abbiano dignità di parola, si può dare inizio a un circolo virtuoso in cui le risorse vengono potenziate agendo in direzione del cambiamento voluto. Pur non
potendo immediatamente eliminare i comportamenti a rischio se ne
diminuisce tuttavia la portata, potenziando i comportamenti positivi e
propositivi.
In quest’ottica qualsiasi ricerca diventa anche una ricerca azione, finalizzata non solo alla conoscenza ma soprattutto, al cambiamento,
in cui i “partecipanti” non sono solo i soggetti indagati ma i promotori
delle azioni positive intraprese con loro.
Il ripensamento delle politiche tradizionali di prevenzione è iniziato
proprio con l’evidenziarsi dell’inefficacia dei messaggi e degli interventi fondati ed espressi secondo codici, linguaggi e tipologie comunicative proprie del mondo adulto (servizi, esperti del settore…),
assolutamente diverse da quelle dei gruppi giovanili a cui i messaggi
e interventi erano diretti (Meringolo, Chiodini, 2005).
In tal senso la peer education ha rappresentato un’importante svolta metodologica e culturale poiché, attingendo forza dal gruppo dei
pari, può consentire ai giovani di divenire protagonisti ed agenti attivi del processo di prevenzione, piuttosto che semplici destinatari di
messaggi ed informazioni.
Facendo leva e ottimizzando i processi naturali che si sviluppano
all’interno del gruppo, la peer education utilizza una sorta di processo a cascata per cui l’informazione e il messaggio può diffondersi in
maniera capillare, per divenire conoscenza condivisa e fatta propria
dall’intero gruppo. L’intervento colloca i “pari” in un ruolo di protagonisti ed agenti attivi del cambiamento piuttosto che semplici destinatari
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di messaggi e informazioni.
4.
Proposte di buone prassi: come predisporre azioni per
addicts “normali”? Reti e territorio per il lavoro di
prevenzione
Si usa dire “la rete ammala, la rete cura” (Croce, Merlo, 1991), per
indicare che il complesso intreccio delle relazioni interpersonali può
essere l’antecedente di condizioni di disagio, ma può essere anche
lo strumento prioritario per la soluzione del problema e l’inclusione
dell’individuo in difficoltà (Amerio, Croce, 2000).
A lungo si è discusso sulle caratteristiche del supporto offerto dalla rete e sulle sue funzioni: se esista cioè un suo effetto diretto sul
benessere e la possibilità di rispondere positivamente a situazioni
stressanti, o se non si debba piuttosto parlare di effetto tampone,
di moderazione cioè degli effetti provocati dagli eventi stressogeni.
Sebbene non siano stati trovati risultati univoci, è indubbia l’importanza che il sostegno assume nella vita degli individui e dei gruppi, sia
da parte della cerchia intima sia da parte di soggetti che nella rete
svolgono uno specifico ruolo relazionale e professionale nei confronti
dei destinatari del sostegno, come insegnanti o operatori dei servizi
(Orford, 2008).
Da un punto di vista psicologico è stato Speck (1973) che ha analizzato in profondità questo tema, dandogli al concetto di rete uno
spessore in ambito psicosociale e clinico. Egli ha svolto, in collaborazione con Atteneave, un lavoro con i nativi americani, che risultavano non utilizzare i servizi di salute mentale presenti sul territorio.
Il loro intervento, caratterizzato dal significato attribuito alle relazioni
di rete, si svolgeva attraverso una sequenza di fasi di questo tipo: il
gruppo come agente del proprio cambiamento; l’attenzione rivolta ai
processi di gruppo piuttosto che ai contenuti; il ruolo dello psicologo
e dell’équipe come tecnici partecipanti. Nel loro lavoro, quindi, erano
il paziente e la comunità di appartenenza a diventare protagonisti, e
l’intervento veniva forgiato a partire dai loro bisogni e dalla loro realtà.
Nelle analisi delle reti, si parla di densità per indicare la dispersione
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nello spazio delle persone che un individuo indica come vicine a sé.
A questo proposito alcuni autori, come Wellman (1979), hanno parlato di legami poco solidaristici e poco localizzati per indicare il fenomeno di scarsa vicinanza spaziale tra l’individuo e il proprio gruppo
di riferimento. Si tratta di una eventualità abbastanza comune anche
oggi, data la virtualità di tante comunicazioni, che può portare alla
rarefazione del supporto e in definitiva ad un maggior rischio di esclusione e di solitudine rispetto ai rapporti fisici, concreti, giocati in uno
spazio reale.
Con range si definisce l’ampiezza numerica dell’insieme dei soggetti
che un individuo può raggiungere con la sua rete, sia direttamente
sia attraverso altri contatti: una persona che frequenta individui di
estrazione e di età diverse disporrà quindi di un range più ampio di
chi frequenta magari lo stesso numero di persone, ma più omogenee
socialmente. Oggi i range tendono ad essere molto vasti, mentre è
poco frequente il caso di una persona che faccia riferimento ad un
insieme di “altri significativi” stabile nelle caratteristiche individuali e
nello spazio.
All’interno di una rete si indica con cluster un gruppo particolarmente
“denso” e ricco di reciproche connessioni. Ogni individuo può frequentare più cluster, che possono anche rimanere separati gli uni
dagli altri, senza reali intersezioni che consentano il diffondersi delle
esperienze. Non ci si riferisce soltanto alle chiusure tra gruppi culturali o etnici diversi: anche le generazioni possono elevare steccati (i
giovani, gli adulti, gli anziani...), e anche i servizi possono presentare
zone scarsamente permeabili per le stesse persone a cui sono diretti.
I diversi cluster però possono avere elementi di contatto, persone
cioè che possono fare da ponte tra mondi diversi. Granovetter (1973)
ha parlato di legami forti e legami deboli nelle relazioni interpersonali.
Dalla sua analisi dei processi di diffusione (di informazione, di conoscenze, ma anche di atteggiamenti e opinioni) nei gruppi e nelle comunità territoriali, emerge chiaramente come la forza dei legami renda integrata e coesa la rete, ma anche come spesso conduca ad una
progressiva frammentazione e chiusura. I legami deboli, al contrario,
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possono garantire, per la loro possibilità di fare da ponte tra gruppi
diversi, l’apertura delle relazioni e possono perciò rivelarsi indispensabili per il cambiamento e per una maggiore integrazione nella comunità locale. Nel caso di interventi di inclusione sociale rappresentano quindi quelle relazioni che rendono possibile l’appartenenza alla
comunità territoriale anche di individui “trasgressivi” senza creare né
assimilazione forzata né ghetti contrapposti. E’ proprio su relazioni di
questo tipo che si basano per esempio gli interventi di strada, volti a
raggiungere anche l’utenza sommersa che non dichiara il problema,
e gli interventi di peer education che possono mediare la comunicazione e il passaggio di conoscenze tra il gruppo di professionisti e il
target di utenti.
Il fattore indubbiamente nuovo con cui hanno a che fare oggi le figure
di aiuto (psicologi, operatori, educatori, volontari) è quello di trovarsi di
fronte ad un apparente ossimoro: giovani (e non solo) che si configurano come addicts “normali”. Addicts, perché comportamenti come
il consumo di alcol, o il gioco d’azzardo o la dipendenza da internet
assumono rilevanza problematica e causano disagi forse non inferiori
alla tradizionale dipendenza da eroina degli anni ‘80-’90. “Normali”
perché non condividono con le dipendenze passate le caratteristiche
di subcultura, separazione dal contesto, illegalità e talvolta neppure
di stigmatizzazione.
Se per le tradizionali dipendenze l’utilizzo di specifici luoghi (le comunità, i servizi a bassa soglia...) o del sistema della salute pubblica
(in primo luogo strutture come i Sert) hanno avuto un importante ruolo
nella prevenzione, nel trattamento e – laddove la comunità locale si
è dimostrata sensibile – nel reinserimento, quali interventi potranno
essere utili oggi per persone e gruppi che non chiedono aiuto, o che
neppure percepiscono il bisogno di aiuto?
Il dibattito in sede teorica e di intervento è aperto. Le buone prassi tuttavia stanno producendo molti contributi interessanti, sebbene
poco conosciuti e diffusi solo attraverso la letteratura grigia, gli inediti
risultati di progetti ed interventi locali.
Lo spostare il tema dalla dipendenza alla promozione della salute per
tutti i cittadini, in particolare i cittadini giovani, il ridefinire il focus sul
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protagonismo e sulla valorizzazione delle competenze di gruppo, e
infine il lavoro di rete come elemento strutturale e non episodico (tra
professionisti diversi, tra istituzioni, tra agenzie di socializzazione territoriali) si stanno dimostrando come punti di forza degli interventi sul
benessere, ricchi di capacità euristiche e trasformative considerevoli, che probabilmente saranno apprezzate maggiormente in futuro. A
condizione che il contesto sociale sappia riconoscerne la portata e
garantirne lo sviluppo.
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Bibliografia
AMERIO PIERO, CROCE MAURO
2000 — Le reti sociali, in P. Amerio, Psicologia di comunità, Bologna,
Il Mulino, pp. 331-364
CHIODINI MOIRA, MERINGOLO PATRIZIA
2009 — Gli eventi di loisir: un approccio sistemico strategico, in Meringolo, P., Bertoletti, S., Chiodini, M. (a cura di) 2009, Giovani, creatività, città, Milano, Unicopli, pp. 121-142
CROCE MAURO, MERLO ROBERTO
1991 — Reti che ammalano reti che curano, in Dei delitti e delle pene,
n. 3. Torino, Ega
GRANOVETTER MARK
1973 — The Strenght of Weak Ties, in “American Journal of Sociology”, n. 78 (trad. it. La forza dei legami deboli, Napoli, Liguori, 1998)
MERINGOLO PATRIZIA, BERTOLETTI STEFANO, CHIODINI MOIRA (a cura di)
2009 — Giovani, creatività, città, Milano, Unicopli
MERINGOLO PATRIZIA, CHIODINI MOIRA
2005 — Giovani protagonisti degli eventi del tempo libero. Esperienze di peer education, in “Il Seme e l’Albero”, n. 1, pp. 21-27
ORFORD JIM
2008 — Community psychology: challenges, controversies and
emerging consensus, Chichester West Sussex, John Wiley and Sons
SPECK ROSS V., ATTNEAVE CAROLYN
1973 — Family Networks, Pantheon Books, New York (trad. it. La terapia di Rete, Roma, Astrolabio, 1976)
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WELLMAN BARRY
(1979 — The Community Question, in “American Journal of Sociology”, n. 84, pp. 1201-1231
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Introduzione
Valentina Albertini, Francesca Gori
Perché scrivere un volume dedicato al tema delle nuove dipendenze?
Che se ne fa il volontariato di un libro su questo tema? Queste sono
due fra le domande che ci siamo poste quando abbiamo cominciato
a lavorare al Quaderno che state sfogliando.
La Regione Toscana aveva finanziato sul bando “Contributi regionali
per la promozione della cultura della legalità democratica (L.R. 11/99”)
Anno 2009” il progetto “Scommetti che t’impegni?” sul tema delle nuove dipendenze svolto da una rete di associazioni e scuole dell’area
fiorentina sud-est. Avendo una di noi partecipato direttamente alla
progettazione e all’esecuzione del progetto ed essendoci interessate
alle nuove dipendenze perché, come psicologhe, ci siamo trovate a
volte di fronte a queste problematiche, avevamo a disposizione dati,
ricerche, esperienze su un tema innovativo e emergente in ambito
sociale e sanitario. Però – ci siamo chieste - perché veicolarlo fra le
associazioni e i volontari? La risposta è stata semplice e immediata:
perché spesso sono proprio le associazioni e i volontari ad occuparsi
di dipendenze e delle persone che ne soffrono, con attività preventive
ed educative nelle scuole e nelle comunità, ma anche nei servizi offrendo un supporto prezioso a medici, infermieri, psicologi, operatori,
familiari. Ed è così che è nata l’idea di un Quaderno composito, che
si preoccupasse di ‘fotografare’ il problema a livello locale, regionale
e nazionale e fornisse anche spunti pratici e operativi per progettare
interventi di prevenzione e presa in carico.
Per prima cosa abbiamo pensato di inserire una riflessione teorica
sulle definizioni e ricerche attuali nell’ambito delle nuove dipendenze,
con la speranza di orientare i volontari e gli operatori e condividere
una prima piattaforma teorica. Successivamente, presentiamo una ricerca su nuove dipendenze e stili di vita, svolta all’interno del progetto “Scommetti che t’impegni?” che ha coinvolto 12 insegnanti e 511
studenti di alcune scuole dell’area fiorentina sud-est.
Ci è sembrato opportuno dedicare uno spazio dove riflettere su di un
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possibile strumento di sostegno sulle vecchie e nuove dipendenze:
l’auto aiuto. Nell’uomo vi è un’intrinseca necessità di supporto nelle
difficoltà della vita quotidiana: proprio in quest’ottica si situa l’auto
aiuto che pone l’accento sull’importanza della responsabilità individuale rispetto al proprio cambiamento.
Oggi in Italia assistiamo ad una crescita esponenziale di questo strumento, soprattutto quando si parla di dipendenze, poiché ci si rende sempre più conto che, accanto ai modelli di cura tradizionali, la
possibilità di confrontarsi e sostenersi nel difficile percorso di presa
di consapevolezza di sé rispetto alla propria dipendenza, risulta di
fondamentale importanza.
L’integrazione dei servizi socio-assistenziali con gli altri servizi operanti nell’area sociale è una condizione essenziale per la realizzazione di una rete di opportunità per chi si trova in situazioni di bisogno e
svantaggio personale. Ciò nonostante queste forme di collaborazione
risultano ancora poco strutturate e formalizzate. Proprio per questo ci
è sembrato interessante stimolare la riflessione partendo dall’associazione Auto mutuo aiuto di Trento che negli anni ha cercato di formalizzare un protocollo d’intesa con i servizi territoriali proprio nell’ambito delle dipendenze. Un modello di intervento ed una prospettiva di
“azione” estremamente interessanti che rappresentano un importante
esempio di buone prassi, perché il mondo dell’aiuto formale e quello
spontaneo si intrecciano in un’ottica di complementarietà tra le diverse modalità di intervento.
La riflessione teorica condotta sull’auto aiuto non ci deve però far
dimenticare che i gruppi sono formati da persone che si prendono
un impegno personale rispetto al proprio stato di salute e quindi nei
confronti del proprio disagio. Partendo da ciò, abbiamo pensato di
concludere questa parte del libro con la testimonianza di un partecipante ai gruppi dei giocatori d’azzardo (Ga-Giocatori Anonimi). La
sua storia, narrata con semplicità, porta inevitabilmente a riflettere su
cosa significhi partecipare ad un gruppo di auto aiuto e su quanto
l’aspetto della condivisione e del sostegno siano un ingrediente importante per l’esperienza di gruppo.
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Nel sesto capitolo abbiamo voluto presentare, attraverso la voce diretta dei tutor e degli educatori, alcuni laboratori di peer education
che sono stati organizzati all’interno del progetto “Scommetti che
t’impegni” con lo scopo di veicolare messaggi di prevenzione fra gli
adolescenti coinvolti.
In generale, la riflessione che percorre tutto il Quaderno riguarda il
tema “vecchio-nuovo”: quanto queste dipendenze sono realmente
diverse da quelle che in passato tutti gli operatori si sono trovati ad
affrontare quando si parlava di “dipendenze da sostanze”? Parlare di
“nuove” può essere fuorviante, può far pensare che non ci siano strumenti capaci di fronteggiare il fenomeno, che dobbiamo iniziare tutto
daccapo. Abbiamo quindi lavorato a questo volume pensando non
soltanto alle differenze tra vecchie e nuove dipendenze ma anche
e soprattutto alle somiglianze, perché gli strumenti d’intervento che
conosciamo possano essere adattati.
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Capitolo 1
Fra vecchie e nuove dipendenze: definizioni
teoriche e ambiti della ricerca
di Elisa Ferrini, Lisa Rontini
1.
Una breve introduzione
Nel nostro quotidiano, siamo abituati a parlare di dipendenze riferendosi alle sostanze illegali. Negli ultimi anni invece si osserva un
ampliamento del campo di utilizzo del termine “dipendenza” in riferimento a comportamenti, abitudini, situazioni legali delle quali non
possiamo fare e meno e che non hanno alcuna connessione con l’assunzione di sostanze. Si tratta di una dipendenza di tipo psicologico,
che si ritiene essere più “sfuggente” rispetto alla dipendenza fisica,
in quanto fa riferimento a meccanismi difficilmente evidenziabili, per
cui il desiderio irrefrenabile di assumere una sostanza, come anche
di trovarsi in una determinata situazione, di consumare qualcosa di
non poter fare a meno di qualcuno, non è in relazione con le caratteristiche della sostanza stessa e con le conseguenze biochimiche
dell’assunzione (Coletti 2004).
Già nel 1969 un comitato di esperti dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) propone la seguente nozione di dipendenza:
stato psichico, e alcune volte anche fisico, che risulti dall’interazione tra un organismo vivente e un farmaco e che si caratterizza con delle modificazioni del comportamento e con altre
reazioni le quali contemplano sempre una pulsione a prendere
una sostanza in modo continuo o periodico, al fine di ritrovare i
suoi effetti psichici e a volte per evitare il malessere della privazione. Questo stato può accompagnare o no una tolleranza. Lo
stesso individuo può essere dipendente da più sostanze (Margaron, 2000).
Secondo questa definizione il processo della dipendenza è un prodotto dell’interazione fra persona, sostanza e contesto: si aprono le
porte ad un tentativo di spiegare la dipendenza come conseguenza di un processo estremamente complesso nel quale intervengono
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più fattori. I primi presupposti sistemici (ai quali facciamo riferimento)
propongono una visione dell’individuo come un essere sociale il cui
comportamento è comprensibile alla luce delle relazioni all’interno
delle quali è inserito; in questa definizione viene sottolineato l’aspetto
comunicazionale di ogni evento e azione, compreso il comportamento sintomatico.
Rigliano formula una definizione della dipendenza molto densa di significato: “la dipendenza è ciò che risulta dall’incrocio tra il potere
che la sostanza ha e il potere che quella persona è disposta ad attribuire alla sostanza” (Rigliano, 1998).
Nonostante questo, esiste ancora un forte dibattito tra i sostenitori
dell’origine organica delle dipendenze, sia psicologiche che non, e
coloro che invece leggono il coinvolgimento organico come conseguenza del consumo e abuso che proviene piuttosto da fattori psicologici e sociali.
Alcuni neuropsichiatri (Inversen, 1999) si concentrano sul ruolo della
dopamina (un neurotrasmettitore prodotto dal cervello) nello scatenare bisogni di assunzione di sostanze; altri ricercatori suggeriscono
come alcuni individui posseggano una specifica condizione cerebrale
che li rende vulnerabili alla dipendenza. In particolare sembra oramai
accertato (Coletti, 2004) che nell’apparato cerebrale si possano identificare strutture neuronali deputate alla ricompensa ed alla punizione
e che le modalità per ricercare la ricompensa ed il piacere possano
essere considerate alla base di quei meccanismi per cui un essere
umano cerca proprio quella sostanza, quegli effetti. Queste strutture
neuronali sono considerate in relazione con l’ambiente sociale, che
ne plasma i limiti e le caratteristiche.
Gli approcci organici però non sono più utilizzabili qualora si prenda
in considerazione il ricorso ripetuto, angoscioso e totalizzante che
alcuni individui hanno verso situazioni, piuttosto che sostanze. Sempre Coletti sostiene che “l’eliminazione dall’orizzonte degli studi delle
sostanze e dei loro effetti ricercati, rende non plausibili (o, almeno
non del tutto utilizzabili) tutti gli apporti delle scienze neurobiologiche” (Coletti, 2004).
L’autore ritiene inoltre che un passo in avanti sia stato fatto col mag-
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gior utilizzo del termine anglosassone addiction piuttosto di “dipendenza”, in quanto il primo fa riferimento ad una condizione generale
in cui una dipendenza essenzialmente psicologica spinge il soggetto
alla ricerca di un consumo, di un abuso, di un’emozione in mancanza dei quali la vita stessa appare deprivata. Il termine dipendenza
invece può non essere del tutto esaustivo, soprattutto perché rischia
di essere confuso con la dipendenza fisica e chimica, cioè la condizione per cui l’organismo necessita di una determinata sostanza per
funzionare. Parlando di addiction ci si sposta su un piano più virtuale,
che prescinde da una vera e propria sostanza, ma si lega invece a
un comportamento, entrando così a pieno titolo nel vasto campo delle
nuove dipendenze.
Secondo Croce (2001) è stato finora eccessivo l’interesse per i modelli medici o biologici di spiegazione del fenomeno del gioco d’azzardo patologico, anche perché questi non hanno offerto alcuna
conclusione condivisa nè alcuna evidenza scientifica delle ipotesi
eziopatogenetiche. Secondo il punto di vista sistemico i comportamenti di addiction sembrano rispondere a meccanismi relazionali: le
abitudini a comportamenti rischiosi si inseriscono perfettamente nei
confronti delle esigenze non solo di un individuo e delle sue spinte
interne, ma anche riguardo al bisogno di introdurre nel funzionamento
di un sistema determinati elementi che sono legati a doppio filo alla
organizzazione del sistema stesso in tutta la sua autoreferenzialità.
In questa veste, ad esempio, la dipendenza da internet, che per sua
natura attrae molto le persone giovani, potrebbe far pensare ad una
risposta legata a problemi inerenti alla fase del giovane adulto che
nello spazio virtuale trova una risposta distorta a problemi tipici di
questo momento del ciclo vitale.
2.
La dipendenza: chi riguarda e perchè
La dipendenza, per essere tale, deve essere capace di soddisfare tre
bisogni fondamentali (Cancrini, 2004): il primo è quello che si gioca
sul piano del piacere o sulla caduta di una tensione; il secondo si basa
sul contrasto al disegno consapevole di una persona e dell’ambiente
che lo circonda che magari lo vorrebbe, a parole, capace di lavorare,
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amare, divertirsi, ed invece nei fatti il soggetto si trova impossibilitato
a causa della dipendenza; il terzo bisogno è quello relativo al piano
della trasgressione, dell’essere e del presentarsi diverso, fuori dalle
regole che scadenzano la quotidianità vissuta come inaccettabile.
Se soddisfa tutte queste esigenze, l’oggetto “delle brame”, che si
tratti di una sostanza, come di un comportamento e/o un’abitudine,
diventa il protagonista assoluto della vita, intorno al quale la persona
si concentra o su cui sente di poter riflettere tutti i suoi desideri e tutti
i suoi bisogni.
Sono però tutte situazioni caratterizzate da uno squilibrio personale
reso stabile e drammatico a seguito dell’incontro con la sostanza o
l’abitudine da cui la persona diventerà dipendente, incontro regolarmente preceduto da un insieme evidente di esperienze di difficoltà e
disagio.
Una ricerca esemplare, in proposito, è quella di Shelder e Block
(1990). La visione da cui i ricercatori muovono è la considerazione di
Newcomb e Bentler secondo la quale un tratto tipico dell’adolescenza è la ricerca o l’asserzione dell’indipendenza, di un’identità, di un
funzionamento autonomi. Ciò comprende la sperimentazione di molti
comportamenti, atteggiamenti e attività, prima di scegliere una direzione ed uno stile proprio: questo processo di sperimentazione comportamentale può includere l’uso di stupefacenti. L’uso occasionale di
stupefacenti leciti o illeciti può essere considerato un comportamento
normale in termini di incidenza, e da un punto di vista evolutivo, tra i
giovani di età inferiore ai 20 anni.
Se si ammette che la sperimentazione possa rappresentare un comportamento normale durante l’adolescenza, poiché gli individui cercano il senso del sé e delle loro possibilità, è sbagliato considerare
patologici questi adolescenti, situandoli tra i tossicomani e i non–tossicomani in un continuum di adattamento psicosociale.
Al fine di valutare quest’eventualità i due ricercatori hanno lavorato
su un campione di 150 bambini di 3 anni seguiti fino al compimento
del diciottesimo anno di vita. Gli autori hanno studiato con strumenti
specifici, e somministrazioni ripetute ogni due anni, l’insieme dei dati
relativi all’integrità famigliare e sociale, considerati come indici signi-
25
ficativi della salute psichica dei bambini. Un secondo gruppo di ricercatori, esperti in problemi di droga, ha esaminato gli stessi ragazzi a
18 anni senza conoscere le osservazioni fatte fino a quel momento.
Considerando il tipo di rapporto che essi avevano avuto o avevano
attualmente con le droghe illegali, questo secondo gruppo di ricercatori ha suddiviso il campione in 3 categorie: i consumatori problematici di droga, che avevano conosciuto le droghe e ne avevano subito
il fascino dimostrando un significativo coinvolgimento emozionale;
gli sperimentatori, che avevano provato episodicamente le sostanze
ma non dimostravano alcun tipo di interesse per l’esperienza fatta; i
non–consumatori o astemi, che avevano rifiutato in toto le sostanza
proibite.
Incrociando questi dati con quelli raccolti dal primo gruppo di ricercatori, emerse quanto segue:
– i ragazzi che avevano problemi con la droga 18 anni erano gli
stessi che avevano presentato evidenti problemi di integrazione, famigliare o scolastica, in anni precedenti al loro incontro
con gli stupefacenti;
– dai protocolli di ricerca il gruppo degli sperimentatori emergeva a 18 anni come il più sano;
– i non consumatori venivano classificati in un livello intermedio,
ossia essere astemi voleva dire, per i ricercatori, essere un po’
meno sani di altri e aver giustamente paura della propria fragilità.
Dato che gli sperimentatori e i consumatori abituali sono molto diversi
fra loro a livello psicologico, molto diverso sarà anche il significato
dell’uso di sostanze fra i due gruppi. Nel caso degli sperimentatori l’uso di droghe sembra riflettere una ricerca adeguata all’età che
hanno e comprensibile dal punto di vista evolutivo. Nel caso invece
dei consumatori abituali sembra essere l’espressione di un disadattamento generale che precede l’adolescenza e l’incontro con la droga.
Certamente l’uso di stupefacenti esaspera questa sindrome già latente, ma naturalmente la logica della ricerca longitudinale (che è quella
di valutare un fenomeno seguendo uno stesso campione di soggetti
lungo un arco temporale di diversi anni) impedisce di considerare il
26
consumo di stupefacenti come la causa della sindrome individuale.
Il fatto di ammettere i precedenti evolutivi del consumo e del non consumo di droga, dando per assodato che per esempio l’influenza del
gruppo dei pari non è sufficiente a generare tale sindrome, ha delle
implicazioni fondamentali a livello di politica sociale ed è una riflessione estendibile a tutti i tipi di dipendenze, vecchie e nuove. C’è una
generale tendenza infatti nel considerare patologica la sperimentazione, terrorizzando gli adulti significativi quali genitori e insegnanti;
insieme ad una pericolosa banalizzazione dei fattori latenti, negando
implicitamente la loro rilevanza e le loro proporzioni. Fino a quando
il problema delle sostanze sarà considerato come una “mancanza di
educazione”, non sarà valutata l’importanza della sindrome psicologica. Quindi l’approccio del tipo “basta dire no” si concentra su un
problema che da un punto di vista evolutivo non è poi così allarmante
(ossia la sperimentazione adolescenziale), trascurando invece il problema principale (ossia la sindrome psicologica latente).
Forse le risorse sociali in ambito di prevenzione alle dipendenze potrebbero essere impegnate in modo efficace, ad esempio incoraggiando la sensibilità e l’empatia dei genitori, rafforzando l’autostima
del bambino, incoraggiando lo sviluppo di rapporti interpersonali.
3.
La dipendenza: meccanismi psicologici
Cancrini (2004) spiega come il significato psicopatologico dei comportamenti legati alla dipendenza sia divenuto più chiaro negli ultimi
anni con il parallelo evolvere degli studi relativi al funzionamento borderline della mente umana.
Funzionare a livello borderline significa essenzialmente dare giudizi
estremi su noi stessi e sulla realtà che ci circonda. La mente che
funziona a questo livello fa difficoltà a cogliere le gradazioni di positività e negatività in una stessa persona o in uno stesso oggetto. Ma
tale funzionamento è anche uno dei modi in cui la mente umana può
operare, e può addirittura fare parte dello sviluppo evolutivo: per il
bambino che vive un’angoscia di separazione, la madre presente è
“la madre buona” che lo rende felice, la madre assente è “la strega
cattiva” che lo rende pieno di rabbia. Solo verso i tre anni quando,
27
secondo la teoria della mente, il bambino riesce a ricordare che la
madre c’era e riesce ad immaginare mentalmente che ci sarà ancora,
questa fase critica viene superata. Il superamento dell’angoscia di
separazione rappresenta l’avvenuta integrazione tra l’immagine della
madre cattiva con quella buona.
La tendenza a regredire verso forme di funzionamento borderline
emerge anche in età adulta, quando si vivono situazioni di particolare
tensione: nei passaggi evolutivi critici, nel lutto o nella perdita, negli
entusiasmi basati sull’identificazione proiettiva con un’idea o con una
persona, nell’innamoramento.
Per alcune persone è però molto più facile scivolare in questo tipo
di funzionamento rispetto ad altre. Se si guarda bene si vede che il
processo di maturazione caratteristico delle persone più “sane” si
realizza solo se il bambino cresce in un ambiente favorevole e non
va incontro ad incidenti gravi. In questi casi la capacità di integrare
le rappresentazioni buone e cattive di sé e dell’altro non si sviluppa
compiutamente. Chi ha sofferto da piccolo ha difficoltà sue proprie
a stabilire rapporti equilibrati e costruttivi anche quando cresce. La
realtà con cui ci si confronta è quella di bambini che hanno avuto
problemi nei loro secondi 18 mesi di vita, che vanno incontro a una
serie di esperienze poco fortunate nell’adolescenza e che diventano
protagonisti, da grandi, di storie caratterizzate da una sostanziale inadeguatezza nelle relazioni interpersonali più importanti. La struttura
di personalità che emerge analizzando le loro storie è caratterizzata
proprio dalla particolare facilità con cui la persona regredisce a livelli
di funzionamento borderline. Nelle persone che rischiano di diventare
dipendenti la soglia di attivazione del funzionamento psichico è bassa e si abbassa ulteriormente con l’acuirsi della condizione di dipendenza. Si innalza invece nel corso di un processo psicoterapeutico
riuscito.
Dato che le situazioni che stanno fra la nevrosi e la psicosi sono molto
numerose e portatrici della propria specificità, secondo Cancrini ciò
che conta, nella diagnosi e nella terapia di una persona dipendente è
soprattutto il suo particolare e specifico disturbo di personalità:
28
chi si occupa di dipendenza, infatti, deve sempre sapere che
la sostanza o l’abitudine da cui una persona dipende costituiscono l’aspetto meno specifico del suo intervento terapeutico;
la parte più specifica e personale inizia dopo, quando ci si confronta, tentando di offrire delle alternative vincenti, con i bisogni
particolari del soggetto: bisogni coperti o compensati, finora,
proprio dalla sua condizione di dipendenza (Cancrini, 2004).
4.
La classificazione delle dipendenze secondo il modello di
Luigi Cancrini
Vogliamo adesso citare una delle classificazioni delle dipendenze a
nostro parere più importanti in ambito clinico. Tale classificazione è
stata creata sulla base delle dipendenze da sostanze, ma rappresenta una mappa concettuale utilizzabile anche nei confronti di situazioni con dipendenze comportamentali o “nuove dipendenze”:questo è
possibile perché, nonostante ogni storia sia un caso unico e abbia
degli aspetti di singolarità dei quali bisogna tener conto in fase di
presa in carico o cura, il meccanismo psicologico generale che porta
una persona ad avere un problema di dipendenza è lo stesso e non
si rilevano sostanziali differenze sia che si tratti di una dipendenza da
sostanza sia che si tratti di una dipendenza senza sostanza.
Secondo Cancrini e La Rosa (2001) le tossicodipendenze sono una
forma di presentazione dei problemi di svincolo e delle difficoltà di
individuazione degli adolescenti.
I criteri che gli autori utilizzano per la creazione della loro classificazione sono diversi: l’organizzazione e il modello comunicativo della
famiglia del tossicodipendente; l’organizzazione psicologica che descrive i tratti del carattere e la personalità del tossicodipendente; le
caratteristiche dei comportamenti di assunzione della sostanza elettiva; le modalità di rapporto che il tossicodipendente e/o i suoi familiari
tendono a stabilire con gli operatori e/o con i servizi che si occupano
di loro; le forme e il decorso di intervento terapeutico.
Principali categorie di tossicomani:
A. Tossicomanie traumatiche
B. Tossicomanie di area nevrotica
C. Tossicomanie di transizione
D. Tossicomanie sociopatiche
29
4.1 Tossicomanie traumatiche o A
La situazione famigliare in cui questa forma di tossicomania si presenta ha caratteristiche piuttosto diversificate: si tratta, in alcuni casi,
di un figlio/a ritenuto esemplare, ma abituato a tenere per sé i propri
problemi, che crolla, diventando tossicodipendente, di fronte all’esperienza di un grave trauma. Nella maggior parte dei casi si tratta di
adolescenti che hanno da poco definito la loro identità, o di giovani
adulti non impegnati sentimentalmente o solo di recente impegnati in
una relazione di coppia, la cui nuova rete di relazioni è inadeguata al
momento del bisogno creato dal dolore e dal lutto. Il lutto è in genere
legato alla perdita di una persona cara, ma può anche riferirsi alla
perdita della fede in un’idea o in una persona.
La sostanza serve per attenuare una sofferenza o uno stato di tensione molto forte e, allo stesso tempo mettere in secondo piano le problematiche irrisolte precedenti all’evento luttuoso, con lo scopo non
dichiarato e talvolta non cosciente di mantenere il quadro relazionale
dominante in quel gruppo familiare.
Lo sviluppo della tossicodipendenza avviene in breve tempo perché
repentino è il cambiamento di stile di vita dove la sostanza diventa
di colpo il centro di tutto proteggendo l’individuo da una situazione
di panico e di sofferenza molto violenta. Il comportamento di questo
tipo di tossici può essere, nei casi più gravi, teatrale e autodistruttivo:
il tentativo non è quello di ricevere piacere, ma di stordirsi.
Dal punto di vista terapeutico, le tossicomanie di tipo A rispondono
alla terapia; il recupero può essere totale se la droga non ha causato
danni fisici persistenti; il lavoro da svolgere è centrato sulla tematizzazione e la verbalizzazione del lutto ed è indicato un lavoro individuale.
4.2 Tossicomanie di area nevrotica o B
Dal punto di vista sistemico la struttura familiare in cui si sviluppa
questo tipo di tossicodipendenza prevede:
a) il coinvolgimento forte di uno dei genitori (solitamente quello di
sesso opposto) nella vita e nella tossicodipendenza;
b) il ruolo periferico dell’altro genitore;
30
c) l’evidenza di quella che viene definita “triangolo perverso”; ossia l’alleanza non dichiarata tra un genitore e un figlio contro
l’altro genitore.
d) la debolezza dei confini tra i sottosistemi che definiscono la
gerarchia familiare. Quello dei genitori è un sottosistema che
dovrebbe essere differenziato da quello del/i figlio/i: in questo
tipo di situazioni la posizione del piano della coppia e quello
dei figli non è sempre ben definita né armonica e si può assistere ad una vera e propria inversione nelle funzioni di genitore
e di figlio.
e) lo sviluppo di una polarità che definisce la figura del figlio/a
tossicomane come “cattivo” in rapporto ad un altro figlio/a
“buono”;
f) un modello comunicativo caratterizzato dalla contraddittorietà
dei messaggi, dalla rapidità e dalla violenza di sviluppo dei
messaggi.
Questo tipo di tossicomania è caratterizzato dalla connotazione depressiva dell’abitudine (assenza di elementi relativi al “piacere”) e
dall’atteggiamento dimostrativo con provocazioni spesso rivolte a coloro che vengono percepiti responsabili, molto spesso i genitori.
Dal punto di vista terapeutico, il lavoro deve essere centrato sin
dall’inizio sul controllo dei comportamenti sintomatici attraverso la costituzione di un fronte unito da parte dei genitori; il tentativo di lavorare
individualmente con queste persone è abitualmente del tutto inutile.
4.3. Tossicomanie di “transizione” o C
Il termine indica quei tossicomani la cui organizzazione difensiva prevede un’ampia utilizzazione di meccanismi nevrotici e psicotici.
Dal punto di vista clinico la situazione presenta:
1) stati di esaltazione gioiosa (ipomaniacale o manifestatamene
maniacale) caratteristici dei primi anni ed espressione di quella
che è stata chiamata “luna di miele” con la sostanza;
2) importanti e ripetuti stati depressivi, frequenti poi in fasi successive della tossicodipendenza;
3) difficoltà del paziente, dei genitori e di chi osserva a collega-
31
re l’evoluzione della tossicodipendenza con fatti specifici della
vita della persona;
4) rischio di suicidio, soprattutto quando il ricorso alla droga viene
bruscamente interrotto;
5) tendenza al mantenimento nel tempo di una dipendenza marcata (affettiva, organizzativa, economica) dalla famiglia d’origine;
6) rischio di ricadute.
Lo stile comunicativo in queste famiglie evidenzia interessanti analogie con le famiglie con problemi di svincolo (con questa espressione
si fa riferimento alla difficoltà, e talvolta impossibilità, di lasciare la
famiglia d’origine per avviare la costruzione di un proprio nucleo familiare); in particolare si ritrova la difficoltà estrema di non definire la
relazione e l’uso di messaggi paradossali e incongrui, col risultato di
una estrema difficoltà comunicativa tale da rendere molto complesso
capire il significato reale di quello che viene detto, in un perenne stato di insoddisfazione circa la relazione; i membri mostrano infatti una
diffusa tendenza a ignorare il significato del messaggio degli altri.
I genitori sono ambedue coinvolti nella tossicodipendenza o nella vita
del figlio/a. In questo tipo di famiglie, come in quelle con un paziente psicotico, esiste quello che Mara Selvini Palazzoli ha chiamato il
“membro prestigioso” (i comportamenti del paziente hanno l’effetto di
inchiodare il fratello alla famiglia piuttosto di permettere lo svincolo).
Per quanto riguarda il trattamento, questo tipo di tossicomania è molto difficile da trattare. Trattandosi di problemi di svincolo l’indicazione
è quella del lavoro con l’intera famiglia.
4.4 Tossicomanie “sociopatiche” o D
Le tossicomanie “sociopatiche” o D sono caratterizzate:
a) dall’evidenza di comportamenti antisociali prima dello sviluppo della tossicodipendenza e della presenza di condizioni di
svantaggio sociale e culturale;
b) dall’atteggiamento di sfida del tossicodipendente che si comporta con la freddezza e la provocazione di una persona incapace di amare e dalla sua percezione di un ambiente ostile
32
intorno a sé;
c) dal distacco con cui parla della sua abitudine, dalla frequenza
di politossicomanie e dalla sottovalutazione degli effetti della
droga.
Le storie di questi pazienti sono quelle delle famiglie multiproblematiche. Il disadattamento di questi giovani si evidenzia nelle difficoltà
scolastiche avute e poi nello scontro con le regole imposte dalla società durante l’adolescenza.
I modelli comunicativi e l’organizzazione familiare di questo tipo di
tossicodipendenti sono simili a quelli riscontrati nelle tossicomanie di
tipo B. Nei casi più seri corrispondono a quelli riscontrati nelle famiglie disimpegnate: i ruoli tra genitori e figli non sono ben definiti come
neppure i confini tra i sottosistemi, col risultato che queste famiglie si
presentano come un gruppo profondamente e drammaticamente disorganizzato i cui membri si muovono come se fossero isolati tra loro,
senza alcuna reciproca e apparente interdipendenza.
Il tossicomane di tipo D conduce una vita da marginale intraprendendo spesso una carriera deviante o, nei casi più gravi, di un’istituzionalizzazione cronica.
A livello terapeutico l’aggancio e gli sviluppi positivi in una terapia
convenzionale sono in questi casi rari e difficili. Tuttavia si è potuto
vedere che la combinazione di più passaggi terapeutici può produrre
degli effetti positivi: si tratta di organizzare una “catena terapeutica”
in cui più imprese posano collaborare. L’intervento in comunità può
essere in questi casi particolarmente utile come punto di arrivo, colmando le gravi carenze a livello di rapporti sociali e familiari.
5.
La famiglia del tossicodipendente
L’orientamento sistemico propone l’immagine di un individuo come
un essere sociale il cui comportamento è comprensibile alla luce del
sistema di relazioni entro le quali è inserito; viene data molta importanza all’aspetto comunicativo di ogni evento o azione, compreso il
manifestarsi di sintomi, i quali vengono interpretati come un segnale
di disagio relazionale dell’intera famiglia che sembra comunicare in
questo modo l’esistenza di un conflitto tra continuità e cambiamento,
33
tra legami di appartenenza e bisogni di individuazione dei suoi singoli
componenti. La patologia, quindi anche la dipendenza, viene considerata come la risposta ad una fase critica nella vita della famiglia, in
quel momento incapace di usare adeguatamente le proprie risorse.
L’importanza che viene data alla famiglia non deve quindi essere letta
come il tentativo di cercare un colpevole, quanto piuttosto come il desiderio di capire, dare un senso e possibilmente lavorare per un’evoluzione felice rispetto a manifestazioni di profondo disagio, quali sono
i problemi di dipendenza.
Partendo da questi presupposti un gruppo di ricercatori–terapeuti ha
svolto tra il 1991 e il 1992 un’importante ricerca qualitativa sulla famiglia del tossicodipendente (Cirillo et. Al., 1996).
L’obiettivo era quello di identificare strutture e modelli organizzativi tipici delle famiglie di quei soggetti che sviluppano tossicodipendenza
da eroina, cercando di stabilire delle connessioni eziopatogenetiche
tra storia affettiva familiare e sintomatologia.
Era infatti condiviso tra i ricercatori il presupposto che il particolare
tipo di organizzazione familiare doveva aver ostacolato, senza consapevolezza o intenzione da parte di alcuno, i tentativi del figlio di
realizzare un autentico sviluppo adolescenziale. L’abuso di droga
appariva dunque rivelatore dell’estrema difficoltà che l’intera famiglia aveva incontrato nell’affrontare i compiti caratteristici della fase
dell’adolescenza. Di fronte all’informazione dell’adolescenza, la reazione di questi adulti risultava essere stata fortemente inadeguata,
rigida e oppositiva. Essi rivelavano in questa fase di essere del tutto
incapaci di assecondare con flessibilità i tentativi di differenziazione
del figlio e di fornirli quella base sicura cui fare ritorno nei momenti di
difficoltà e da cui ripartire per nuove esplorazioni. Di fronte all’informazione poi dell’uso della droga da parte del figlio, la maggior parte
di questi genitori sembrava non aver visto, bloccando i canali comunicativi anziché attivarli, fino a che l’esplosione e l’evidenza del sintomo
non li aveva costretti ad agire; altri avevano reagito “appiccicando”
al figlio un atteggiamento infantilizzante, oppure “abbandonandolo” e
interrompendo il controllo su di lui in modo quasi punitivo. Altri ancora
avevano esasperato i conflitti interni della coppia invece di superarli
34
per riconquistare un maggior equilibrio e controllo rispetto al figlio.
Le prime fasi della ricerca avevano consentito di mettere dei tasselli
rispetto al loro futuro modello eziopatogenetico, ossia:
1) il futuro tossicodipendente non è un “cocco di mamma”: al
contrario il comportamento del tossicodipendente denuncia
una precoce carenza di accudimento materno adeguato alle
esigenze del bambino;
2) i genitori del tossicodipendente trasmettono intergenerazionalmente una cultura affettiva e relazionale acquisita nelle relazioni
con i rispettivi genitori carica di vicissitudini carenzianti e traumatiche, ma impensabili come tali, non elaborate e inespresse,
che è di grave ostacolo ad una adeguata assunzione del ruolo
parentale. Ogni genitore di tossicodipendente presenta infatti
nei legami con la famiglia d’origine vicende traumatiche, spesso occultate, le cui ripercussioni emotive sono puntualmente
minimizzate con l’effetto di trasmettere la carenza alla generazione successiva;
3) i padri dei tossicodipendenti sono stati costretti a precoci
adultizzazioni, in quanto il padre (nonno paterno del tossicodipendente) era assente o manifestatamene inadeguato. Tali
situazioni carenzianti e la loro connessa minimizzazione contribuivano a spiegarci perché questi padri fossero impossibilitati
a riconoscere e a testimoniare le deprivazioni rispetto alle reali
esigenze del figlio.
Dall’esame delle storie familiari emersero tipi differenti di ricorrenze
che hanno permesso di individuare tre diversi sottogruppi di famiglie:
Percorso 1: l’abbandono dissimulato
È il sottogruppo più numeroso dell’intero campione; rivela modalità di
accudimento apparentemente ineccepibili sul piano formale, ma sottilmente inadeguate sul piano sostanziale. In questo gruppo lo sfondo
trigenerazionale è spesso caratterizzato da vicende traumatiche tanto evidenti quanto poco elaborate, soprattutto per quanto riguarda la
linea paterna di discendenza.
35
Percorso 2: l’abbandono misconosciuto
I genitori sembrano perpetuare le esperienze insoddisfacenti vissute all’interno della famiglia d’origine attraverso la strumentalizzazione
dei figli all’interno delle disfunzioni della coppia e attraverso l’occultamento del disagio relazionale.
Percorso 3: l’abbandono agito
In queste famiglie prevale la trasmissione intergenerazionale dell’abbandono oggettivo come cultura affettiva dominante nella struttura
dei legami; si tratta in genere dei nuclei che si avvicinano alla definizione di “famiglia multiproblematica”.
La caratteristica che meglio qualifica la tossicodipendenza è la componente di abbandono affettivo, in vario grado oggettivabile sperimentata dal soggetto all’interno del percorso relazionale familiare.
L’esperienza abbandonica si struttura molto precocemente a partire
dalla relazione di accudimento materno nell’infanzia, si perpetua nelle fasi evolutive successive del ciclo vitale familiare senza venir in
qualche modo riconosciuta o riparata. Le funzioni genitoriali vengono
bloccate dalla relazione disfunzionale con la famiglia allargata o dalla
relazione di stallo all’interno della coppia coniugale. È possibile intravedere uno scenario trigenerazionale che contribuisce a dare senso
alla sintomatologia attuale.
Quello che differenzia i tre percorsi tra loro è la modalità con cui l’abbandono, la carenza, viene taciuta e/o occultata e quindi i meccanismi esistenti all’interno della famiglia che impediscono al figlio di
esserne consapevole e di elaborare la realtà della sua condizione e
delle risorse che i suoi legami possono offrire.
Nel Percorso 1 si parla di abbandono dissimulato: la carenza di accudimento viene in queste famiglie non tanto negata, quanto minimizzata. La differenza tra dissimulazione e misconoscimento si apprezza
nel lavoro terapeutico. Se si prova a ricostruire la vicenda del figlio
secondo una narrazione diversa da quella che si sono costruiti i genitori, allora i genitori del Percorso 1, a differenza di quelli del Percorso
2, appaiono disposti a comprendere.
I meccanismi di deformazione della realtà presenti nelle famiglie che
36
appartengono al Percorso 2 hanno una portata decisamente più incisiva rispetto all’effetto occultante delle esperienze di carenza che
accomunano le vicende di tutti i membri del gruppo familiare. La reazione dei genitori a riflettere sulla carenza vissuta dal figlio in età
infantile è costituita da risposte di negazione cariche di ostilità.
Rispetto al Percorso 3 possiamo dire che la considerazione che il sintomo si sviluppi con maggiore facilità in una condizione di disaccudimento del figlio all’interno di una struttura familiare “fisicamente” disgregata e deteriorata anche sul piano socio–economico, nonostante
sia palese e in parte anche vero, è nello stesso tempo una spiegazione che la stessa famiglia utilizza per darsi una spiegazione di ciò che
gli accade con il rischio però di non accorgersi e quindi deformare
e/o negare le problematiche affettive più profondamente connesse
con lo sviluppo sintomatico dei figli e dell’intero nucleo familiare.
Abbiamo fin qui cercato di definire il concetto di dipendenza e di
addiction, partendo dall’analizzare i meccanismi psicologici che ne
stanno alla base ed evidenziando come le dipendenze siano state
oggetto di innumerevoli studi e ricerche nel corso degli anni.
Gli approcci sono cambiati nelle varie epoche storiche (Ogden, 1996),
passando da visioni di tipo moralistico, tese ad individuare e spesso a
demonizzare la pericolosità di una sostanza e/o le “scelte dei consumatori”, a studi di tipo medico–biologico, il cui intento è quello di rintracciare la “malattia” dell’individuo che ne diventa “preda”, sino alle
teorie dell’apprendimento sociale le quali, pur senza disconfermare
le possibili patologie psicologiche o psicosociali individuali, evidenziano in primo luogo come il comportamento di abuso di sostanze,
come qualsiasi altro comportamento, venga appreso e sia possibile
identificarne un percorso, sia nelle fasi di iniziazione all’uso, che nella
fase di dismissione (Scarscelli, 2003).
L’evoluzione degli studi portano all’inserimento di questo tipo di comportamento nell’insieme delle caratteristiche che sottostanno agli stili
di vita dei soggetti, sia nelle loro esperienze individuali che nella loro
vita aggregata.
Emerge inoltre sempre più come le caratteristiche solitamente associate all’uso problematico, all’abuso ed alla vera e propria addiction si
37
possano ritrovare anche in quei comportamenti che non sono conseguenti all’utilizzo di una sostanza, legale o illegale, ma ad altri aspetti
della vita quotidiana: il gioco, i rapporti interpersonali, i rapporti con
il denaro e con i beni materiali e perfino il lavoro (Lavanco e Croce,
2008).
Entrano in gioco non solo le caratteristiche dell’individuo, delle sostanze e del contesto sociale, ma anche le interazioni, le pressioni
ed i modelli sociali, nella consapevolezza di quanto siano importanti
i giudizi, i valori, gli stili di vita della comunità e del gruppo di appartenenza nel determinare la scelta del comportamento da intraprendere.
Accanto alle dipendenze da sostanze esiste così la vasta e misconosciuta dimensione delle forme di dipendenza senza sostanza, dette
anche “new addictions”.
6.
Le nuove dipendenze o new addictions
Per new addictions si intendono alcune nuove tipologie di dipendenze nelle quali non è implicato il coinvolgimento di sostanze chimiche,
ma l’oggetto della dipendenza è un comportamento o un’attività lecita
o socialmente accettata come lo shopping, il gioco d’azzardo, l’utilizzo di internet, il lavoro, il sesso, le relazioni sentimentali.
Le nuove dipendenze, o dipendenze sociali (senza sostanza), si manifestano nell’urgente necessità di dover praticare un’attività, di dover
mettere in atto un comportamento per trovare immediata soddisfazione ad un bisogno. Per questo, anche se non vi è assunzione di
sostanze chimiche, il quadro fenomenologico è molto simile e, anzi,
sembra essere per certi versi ancora più subdolo di quello delle dipendenze da sostanza. Se da una parte vengono messi in atto comportamenti che producono le stesse conseguenze delle cosiddette
tossico–dipendenze, ossia l’escalation, la tolleranza e l’astinenza
(dimostrando come il meccanismo psicologico delle dipendenze sia
sempre lo stesso), dall’altra le dipendenze senza sostanza hanno a
che fare con comportamenti, abitudini, usi del tutto legittimi e socialmente incentivati, basti pensare al consumo e all’uso di tecnologie
informatiche o al fatto di fare shopping.
38
Si parla infatti di “dipendenze sociali”, come sottolineano Lavanco e
Croce (2008):
perchè non si collocano nella dimensione della trasgressione,
del vietato, del disapprovato, ma nascono e si costruiscono nella quotidianità perdendo quindi sia la dimensione del lecito e
dell’illecito e con essa più facilmente anche quella del limite, tra
“ciò che fa bene e ciò che fa male”.
Un altro aspetto rilevante è che appare difficile trovare elementi visibili di emarginazione e di rischio sociale nelle persone coinvolte
in questo tipo di problemi, quali segnali premonitori o indicatori di
disagio, di sofferenza. La possibilità di dipendenza sembra così una
condizione di rischio sociale aperta ad ognuno di noi. Questo ci porta, quindi, a mettere in discussione anche molti degli elementi cardine
legati alla prevenzione ed alla cura. È infatti ancora possibile perseguire la logica dell’evitamento e dell’astinenza nel caso di questo tipo
di dipendenze? Perchè se è certo che si possa vivere senza droghe,
non è certo pensabile che oggi si possa vivere senza comprare, senza internet e così via. Basti pensare all’uso massiccio della pubblicità
nei mezzi di comunicazione che incentiva all’acquisto, al gioco, al
consumo, e alla grande utilità di internet.
Le forme di dipendenza sociale si rivelano così a–sociali nelle conseguenze e nei costi dovuti alla progressiva chiusura individuale, alla
ripetizione coatta dei comportamenti di addiction, alle conseguenze
sui piani familiare e lavorativo ed alla perdita di capitale sociale e di
senso ed investimento nella comunità.
Come evidenzia bene Steiner (1993) le dipendenze, comprese quelle
sociali, diventano “dei rifugi della mente, ovvero i luoghi mentali in cui
ritirarsi quando si desidera sfuggire ad una realtà insostenibile perchè angosciosa” (Lavanco e Croce, 2008).
Le nuove dipendenze sembrano l’espressione di una stagione culturale nella quale i fenomeni dell’abuso e della dipendenza appaiono
contrassegnati più dal “buon funzionamento performativo” e dal bisogno di normalità che dall’immaginario della protesta, della marginalità
o del disagio, legato all’uso e/o abuso di sostanze. L’uso di sostanze
nella nostra società pare supportare la necessità di mantenere ele-
39
vati livelli di vigilanza e di energia, come in una condizione stabile di
ipomaniacalità, e di attutire così sentimenti di frustrazione, delusione,
depressione, insoddisfazione che non si è più in grado di gestire (La
Barbera, Sideli, 2008).
L’area delle nuove dipendenze rappresenta, quindi, un terreno di studio nel quale vengono a confluire aspetti di ordine sociale e culturale,
insieme ad aspetti di ordine psicopatologico e clinico: un tentativo
disfunzionale di dare risposta a specifici fattori evolutivi (Lavanco e
Croce 2008).
Di seguito ci soffermeremo sulle principali forme di dipendenza sociale: uno spazio rilevante è dedicato al gioco d’azzardo, tipica dipendenza senza sostanze in cui appare evidente il concetto di escalation e di craving; abbiamo poi preso in analisi il comportamento di
acquisto compulsivo che come la dipendenza da internet, alla quale
si può associare anche la dipendenza da sesso virtuale, costituisce
una realtà largamente e quotidianamente presente. Ed infine forme
particolari di dipendenza che hanno stimolato la nostra riflessione e
che sono ancora in via di definizione sia a livello di ricerca, sia di
intervento sono il lavoro compulsivo, la dipendenza da sesso e le
dipendenze relazionali.
7.
Il gambling o gioco d’azzardo
È mai possibile che non ci si possa avvicinare ad
un tavolo da gioco, senza farsi subito contagiare
dal morbo della superstizione?
F. Dostoevskij
Il concetto di gioco si associa al concetto di divertimento, libertà,
spontaneità, fantasia, sperimentazione, e in questo senso lo si lega
spesso al ricordo dell’infanzia e di una dimensione in cui è possibile
sognare, rilassarsi e sospendere il pensiero.
Il gioco ha la caratteristica di appartenere a tutti perchè ciascuno di
noi ha giocato almeno una volta, da solo o in compagnia di qualcuno.
40
Per alcune teorie psicologiche rappresenta una delle esperienze
fondamentali che il bambino compie per conoscere la realtà che lo
circonda: con esso sperimenta e “fa le prove” per lo sviluppo delle
competenze sulle quali fonderà la possibilità di socializzare durante
tutto il corso della vita. Attraverso l’esperienza del gioco, il bambino
diventa consapevole del proprio mondo interiore e del mondo che
lo circonda, ed ha così la possibilità di esprimere le proprie paure, i
propri desideri ed i propri conflitti; il gioco rappresenta un modo per
allenare l’intelligenza, la fantasia e i sensi, imparare il linguaggio e
fare esperienze di incontro e di interazione significative, facilitando
così il crearsi di legami e valorizzando le capacità espressive.
Il gioco, però, riguarda anche la vita adulta dell’individuo, prendendo
le forme di un tempo più strutturato e dedicato, in cui si può fare riferimento al concetto di regola, di strategia, di competizione, di ruolo.
Huizinga (1972) ne individua comunque la caratteristica più significativa nell’essere un atto libero, almeno per l’uomo adulto. Il gioco
comandato, infatti, non è più un gioco.
Il gioco, nell’età adulta non è imposto da una necessità fisica e tanto
meno da un dovere morale; si svolge nell’ozio, nel momento del tempo libero, dopo il lavoro.
Da un certo punto di vista potremmo dire che siamo circondati dal
gioco in tutti gli aspetti della nostra vita: giochi sportivi, giochi politici,
giochi amorosi, giochi di prestigio, giochi di simulazione, giochi di
ruolo e quindi anche giochi d’azzardo.
La parola “azzardo” deriva dal francese hazard, che a sua volta deriva dall’arabo e significa “dado”.
Per giochi d’azzardo si intendono tutti quei giochi che comportano
l’utilizzo di denaro e il cui esito è affidato esclusivamente al caso.
Se un tempo questa tipologia di giochi veniva concentrata in luoghi
specifici dedicati, tipo i Casinò, le bische, in luoghi in qualche modo
lontani dalla gente comune, oggi sono piuttosto vari, disponibili ed
accessibili. Si trovano spesso offerti presso rivenditori autorizzati, ad
esempio i giochi da tavolo (roulette, blackjack, punto banco, ecc.,) le
slot machine, i giochi di lotteria (lotto, bingo, tombola, Gratta e Vinci,
macchine da lotteria Vlt terminali di video–lotteria), le scommesse ip-
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piche e sportive, il poker giocato cash game (secondo alcuni, anche
il poker giocato nei tornei).
Tali giochi sono indubbiamente legali e ammessi (a volte favoriti) nella
maggior parte dei paesi del mondo, costituendo una fiorente industria sia in Europa, sia negli Stati Uniti, ma sono ugualmente ritenuti
d’azzardo.
Alcuni di questi fanno parte del nostro background culturale e della nostra quotidianità: basti pensare alla consuetudine della tombola
giocata in famiglia durante le feste, ai numeri del lotto che almeno una
volta ci sono apparsi in sogno, alla “Dea Bendata” che per anni ci ha
accompagnato tra un programma e l’altro incitandoci a tentare la sorte per realizzare i nostri sogni più ambiti, a tv e radio che ci informano
sui numeri estratti al superenalotto (persino durante il telegiornale!),
alle partite a carte giocate con gli amici o con i parenti o alla schedina
giocata con amici e colleghi.
Anche il nostro linguaggio mutua da tempo espressioni legate al gioco per descrivere situazioni della vita in cui riusciamo ad ottenere
successi (“Bingo!”) e/o traguardi importanti (“hai fatto tredici!”) ricordando la vecchia abitudine di giocare la schedina, a testimonianza
di quanto il fato, la fortuna e la vincita appartengano profondamente
alla nostra cultura.
Il gioco d’azzardo, poi, affonda le sue radici nella storia: tra i primi
giocatori compulsivi possiamo citare gli imperatori romani Caligola e
Nerone, mentre in tempi più recenti possiamo annoverare celebri perdenti come George Washington, il duca di Wellinghton, l’Aga Khan ed
il celebre scrittore Dostoevskij. Quest’ultimo scrisse addirittura uno
dei suoi romanzi più celebri, Il Giocatore (la storia, appunto, di un
giocatore di azzardo), per una scommessa con l’editore!
Il gioco d’azzardo si presenta oggi come una nuova ed incentivata
forma di consumo, la cui soglia si sta vorticosamente abbassando
e che produce ingenti benefici economici per lo Stato sotto forma di
introiti fiscali: non a caso, è un settore economico che sembra non
entrare mai in crisi.
Nel 1994 viene introdotta in Italia la lotteria istantanea, detta “Gratta e
Vinci”, che attraverso il rinforzo della piccola vincita immediatamente
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riscuotibile, convalida i comportamenti di gioco e induce a credere
nel colpo di fortuna; il basso costo riduce i sensi di colpa e la percezione del danno economico ed ha fatto raddoppiare gli introiti da
gioco legale.
Nel 2006 gli italiani hanno investito in questa lotteria istantanea un
totale di 33,4 miliardi di euro: una vera e propria Finanziaria! Di contro, nella Finanziaria del 2007 per la prima volta sono stati previsti
100.000 euro da spendersi per svolgere azioni informative sul gioco
d’azzardo nelle scuole: secondo un calcolo del Sole 24 Ore ad ogni
istituto superiore italiano sarebbero spettati appena 15 euro per fare
prevenzione su questo tema (Il Sole 24 ore, 24/11/2010). Si nota facilmente lo squilibrio rispetto a quanto viene speso per le campagne
promozionali del gioco di azzardo, che nello stesso anno era pari a
21 milioni di euro.
In Italia sono circa 35 milioni gli scommettitori, in varie categorie di
giochi; si tratta quindi di un fenomeno molto diffuso, che riguarda
circa l’80% della popolazione adulta (Eurispes 2009). Per la maggior
parte rappresenta un innocuo passatempo, che non mette a repentaglio nè i bilanci economici, nè la vita sociale, familiare e lavorativa.
Questi giochi però hanno alcuni rischi, sia per chi li pratica sia per le
ricadute globali sulla società. Il gambling, altro nome per definire il
gioco d’azzardo, può comportare perdita di controllo e dipendenza,
per cui risulta particolarmente rischioso esporre la popolazione ad
una promozione massiccia di tali giochi.
Se da un lato, infatti, il gioco d’azzardo si profila come socialmente innocuo, dall’altro può trasformarsi in una vera e propria forma di
schiavitù, al pari di alcool e fumo, fino all’insorgenza di sintomi tipici
della dipendenza, quali la tolleranza, l’astinenza e la perdita di controllo (http://www.cestep.it).
Quasi mezzo milione di italiani è affetto da dipendenza da gioco. È
quanto emerge dalla ricerca commissionata da Monopoli di Stato e
Lottomatica, realizzata in collaborazione con l’università La Sapienza
(Sole 24 Ore, 24/11/2010).
Dal 1980 il Gioco d’Azzardo Patologico (Gap) è riconosciuto dall’Oms
(Organizzazione Mondiale della Sanità) come specifica patologia, ed
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è incluso nei disordini mentali diagnosticati dall’Dsm IV (Manuale Diagnostico Statistico dei disturbi mentali, IV versione) come disturbo del
controllo degli impulsi.
Secondo questo manuale, non tutto l’azzardo è patologico, lo è solo
quando vengono soddisfatti almeno cinque dei criteri clinici per la
diagnosi di dipendenza da gioco d’azzardo patologico, che riportiamo di seguito:
1. coinvolgimento abituale nel gioco o nella ricerca di denaro per
giocare;
2. spesso il soggetto gioca per somme maggiori o più a lungo
rispetto a quanto preventivato;
3. bisogno di aumentare la considerazione o la frequenza delle
scommesse per raggiungere lo stato di eccitazione desiderato;
4. irrequietezza o irritabilità se non si può giocare;
5. ripetute perdite di denaro al gioco e continui ritorni a giocare
per rifarsi delle perdite;
6. reiterati sforzi per giocare meno o smettere di giocare;
7. il soggetto spesso gioca anche quando dovrebbe adempiere a
obblighi sociali o lavorativi;
8. il soggetto abbandona importanti attività sociali, lavorative o
ricreative per giocare;
9. il soggetto continua a giocare anche se non è in grado di pagare debiti sempre più ingenti.
Questi individui possono essere definiti come compulsivi se non riescono progressivamente a resistere all’impulso di giocare.
La persona può essere così assorbita dal gioco da impiegare molto
del proprio tempo pensando alle scommesse fatte in passato, pianificando nuove scommesse e strategie per trovare il denaro. L’incremento delle scommesse può portarlo a non sopportare le perdite
e ad essere sempre meno coinvolto nella vita familiare e lavorativa,
arrivando a mentire e a ricorrere a comportamenti antisociali, come il
furto, per ottenere il denaro.
Rispetto al gioco d’azzardo si può parlare di diversi livelli di gioco, in
base anche alla presenza o meno di problemi correlati come i danni
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economici, morali, sociali, familiari, lavorativi o la difficile gestione del
denaro per via di spese impulsive e finanche l’isolamento sociale, che
spesso si accompagnano alla condizione di giocatore patologico.
Lavanco e Varveri (2006) individuano tre categorie di giocatori;
– i “giocatori non problematici”, categoria che comprende i “non
giocatori” e i “giocatori sociali”. Sono coloro che giocano solo
per divertirsi e per rilassarsi, usano il gioco come passatempo, sono in grado di smettere di giocare in qualsiasi momento,
mantengono chiara la percezione del potenziale rischio a livello economico. Questo tipo di gioco è incentivato e approvato
dalla società.
– i “giocatori problematici”, cioè coloro che non hanno il pieno
controllo sul gioco e perciò mettono a rischio il proprio benessere personale, familiare, lavorativo e sociale, pur mantenendo
un minimo di controllo sul gioco. Questo tipo di gioco è ignorato dalla società, seppur in preoccupante crescita;
– i “giocatori patologici”, coloro che dipendono dal gioco al punto da subire preoccupanti costi individuali e sociali. Questo tipo
di gioco è “demonizzato” dalla società.
Gli individui coinvolti in attività legate all’azzardo non prendono in
considerazione il fatto che ogni nuova scommessa è indipendente da
quella precedente e dalla successiva. Ciò li porta ad agire in modo irrazionale, quando si tratta di prevedere gli esiti legati al caso, perché
si comportano come se si stessero movendo nell’ambito dell’esercizio delle proprie abilità, ovvero si comportano come se potessero
dirigere tali esiti grazie alle proprie abilità. Il fenomeno dell’illusione
del controllo deriva dal principio dell’indipendenza degli eventi. In
particolare, l’illusione del controllo descrive ciò che accade quando
le persone sono convinte di poter influenzare il risultato di un’attività
d’azzardo. In questi casi i giocatori sono convinti di poter fare qualcosa per accrescere le loro possibilità di vincere. Tale meccanismo è
molto pericoloso perché sembra favorire il passaggio ad investire e a
giocare più di quanto si voglia.
C’è poi il fenomeno della rincorsa della perdita: la persona gioca
somme sempre maggiori, chiede prestiti nel tentativo di recuperare il
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denaro perso, pensando che, una volta recuperata la somma con la
prossima vincita che certamente verrà, potrà finalmente smettere di
giocare. Spesso il risultato di questi tentativi è solo quello di aumentare a dismisura il debito (Capitanucci 2008).
Si gioca spesso per sfuggire da emozioni sgradevoli o per procurarsene di gradevoli:
il piacere che si ricava da una qualsiasi forma di dipendenza
patologica deve intendersi come la ricerca di uno stato di trance
auto indotto, un rifugio mentale il cui scopo è di costruirsi una realtà parallela psicosensoriale differente da quella sperimentata
nella realtà ordinaria, di ritirarsi da ogni contatto e di dissociare
le sensazioni, le emozioni, le immagini conflittuali non rappresentabili sul piano cosciente. (Caretti, La Barbera 2005).
Si può anche distinguere tra “giocatori d’azione”, coloro che ricercano forti emozioni e competizione nel gioco d’azzardo, e “giocatori per
fuga” che giocano per fuggire dai problemi della vita quotidiana.
Coletti (2004) afferma che in moltissime situazioni segnate dal gioco patologico si può rilevare un forte significato relazionale nel comportamento indicato: iniziando come un’attività eccitante (ma segreta
e non confessabile, soprattutto in famiglia), questa prosegue come
qualcosa che ha la pragmatica conseguenza di far esplodere una
crisi drammatica che, se basata sulle conseguenze di un disastro
economico per il nucleo familiare di riferimento, comporta anche una
riformulazione molto complessa delle relazioni familiari e di coppia.
È noto come il giocatore compulsivo tenda ad occultare i comportamenti relativi al gioco e che questa tendenza diventa maggiore quando inizia la “china discendente”, quando cioè le perdite iniziano ad
essere imponenti. Dall’altro lato, anche il sistema familiare sottovaluta
e in un certo senso tende a non vedere quello che sta accadendo,
per una sorta di “vantaggio secondario del sintomo” che assume un
significato preciso all’interno di quel determinato sistema relazionale,
andando cioè a coprire altri tipi di disagio familiare presenti, accentrando su di sè tutte le attenzioni e le energie del nucleo familiare.
I sentimenti spesso associati alla scoperta da parte della famiglia
sono di rabbia, vendetta, vergogna, disperazione e impotenza, ed il
giocatore viene trattato come un bambino bisognoso di protezione
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ferma e severa. Questa infantilizzazione è accettata dal giocatore che
la considera, quasi, uno dei prezzi da pagare per il suo riscatto.
8.
Shopping problematico
Già il termine inglese shopping racchiude in sè il senso e l’essenza
dell’acquisto nella nostra società: non solo un’azione dettata dal bisogno, ma una vera e propria esperienza, mossa dal piacere.
Non acquistiamo solo ciò che è necessario e l’acquisto di un prodotto
rappresenta solo una delle possibili motivazioni allo shopping. Nell’ultimo trentennio si è osservato un cambiamento del comportamento del
consumo: da un modello del consumatore “razionale” (che compra in
accordo a considerazioni costi–benefici) a uno di uomo–consumatore
(che guarda al significato simbolico degli oggetti e che attraverso la
stessa attività di shopping soddisfa diverse finalità psicosociali).
Lo shopping oggi viene considerata un’attività ludica e ricreativa, incentivata dai mass media e dalle relazioni sociali. Chiunque ricorda
la scena di shopping di Julia Roberts in Rodeo Drive nel film Pretty
Woman di Garry Marshall (1990) e negli ultimi anni sono stati girati
diversi film dedicati alla moda e agli acquisti.
Ma cosa rende lo shopping un’attività che può portare a problematiche tipiche della dipendenza?
Lo shopping come attività compulsiva sta andando incontro a crescenti livelli di diffusione e di gravità. È una dipendenza che si innesca a partire da un comportamento quotidiano, socialmente accettato e che, per tale ragione, rimane silente, alimentato e nascosto dalla
dirompente cultura consumistica che complica la distinzione tra un
normale e sano consumare ed uno più patologico (Varveri, Alioto,
2008).
La prima definizione di questo disturbo risale al 1915, per opera dello psichiatra tedesco Emil Kraepelin che ha introdotto il concetto di
“oniomania” (dal greco onios = “in vendita,” mania = follia) e lo ha
descritto come un impulso patologico. Nel 1924 Eugen Bleuler, rifacendosi all’opera di Kraepelin, ha collocato la mania per l’acquisto tra
gli impulsi reattivi e ne ha sottolineato l’elemento della compulsività.
Una delle definizioni più note (McElroy, Phillips e Keck, 1994), parla
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dello shopping compulsivo come una disfunzionale preoccupazione,
impulso o comportamento di acquisto che:
1) è vissuto come intrusivo, irresistibile o privo di senso;
2) risulta in acquisti frequenti, al di sopra delle proprie possibilità
economiche;
3) le preoccupazioni, gli impulsi o i comportamenti causano stress,
perdita di tempo e compromettono la vita sociale, lavorativa o
economica.
Da alcune ricerche riportate da Varveri e Alioto (2008) si evince che
il 90% del totale degli shoppers compulsivi sono donne; l’età, inoltre, sembra avere una relazione inversamente proporzionale con la
problematicità dello shopping, ossia gli shoppers compulsivi sono
più giovani dei normali consumatori. Inoltre le classi sociali più svantaggiate manifestano maggiore vulnerabilità alla dipendenza dagli
acquisti.
Tra i fattori di rischio si trovano:
− stati emotivi negativi quali ansia e depressione;
− altre forme di dipendenza;
– variabili di personalità che includono bassa autostima e autoefficacia scarsa;
– alti livelli di materialismo (gli oggetti sono considerati la principale causa di soddisfazione o di insoddisfazione della vita);
– in famiglia si rileva la presenza di comportamenti problematici, l’abitudine di fare regali come meccanismo compensatorio,
uno stile educativo autoritario e chiuso, ultraprotettivo.
Tra i fattori protettivi ossia tra i fattori che favoriscono in non svilupparsi di una dipendenza da shopping si trovano:
– alti livelli di autoefficacia, di autostima, strategie di coping centrate sulla soluzione dei problemi;
– competenze relazionali e sociali che permettono il passaggio
dalla dimensione dell’”essere” insieme al “fare” insieme, dalla
dinamica dell’adesione e del possesso a quella dell’appartenenza.
L’ampia disponibilità di canali d’acquisto (negozi, posta, televisione,
aste, internet...) e l’introduzione delle carte di credito che ci sottrae
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dal contatto col denaro rappresentano delle dinamiche sociali che
spingono al consumo. Pensiamo infatti a quanto risulti facile “strisciare” la carta di credito per acquistare un oggetto che desideriamo o
ottenere del denaro allo sportello del bancomat con una facile operazione, per non parlare degli acquisti online per i quali è sufficiente introdurre una serie di numeri e a quanto questo sia psicologicamente
distante dall’abitudine di pagare con denaro contante, garanzia di un
controllo costante delle spese.
Più in generale sembra che i valori insiti nel fenomeno della globalizzazione, quali individualismo, legami deboli (poche amicizie o superficiali, relazioni familiari distaccate, ecc.), culto della bellezza e
dell’immagine (al quale siamo costantemente esposti grazie a riviste,
telegiornali, cartelloni pubblicitari, ecc.) contribuiscano a sviluppare
un’abitudine di acquisto problematico.
Una ricerca, condotta dalla Cattedra di Psicologia di Comunità
dell’Università di Palermo su un campione di 100 adolescenti (2008),
di età media di 17 anni, conferma come oggi non si acquisti più solo
per bisogno e per necessità: i prodotti maggiormente acquistati, infatti, risultano essere quelli legati all’immagine esteriore come scarpe,
vestiti e cosmetici. La stessa ricerca sembra evidenziare come gli
adolescenti che sentono di avere dei forti legami con la comunità di
appartenenza tendano ad avere minori problemi con il comportamento di acquisto. Quindi l’azione preventiva che tende a promuovere un
forte senso di appartenenza sembrerebbe essere protettiva rispetto
all’emergere di questo tipo di problematicità.
Molteplici studi riportano che ad essere più a rischio sono gli adolescenti, soprattutto di sesso femminile, nonché coloro che manifestano problematiche legate al controllo degli impulsi, in particolare
altre forme di dipendenza. Appare importante ripensare certi valori a
livello culturale, creando spazi e occasioni per ripensare e rendere un
nuovo significato al senso dell’acquisto e del consumo: cosa significa
oggi acquistare, perchè si acquista, cosa si acquista, quali emozioni sono associate al consumo, ma anche e soprattutto stimolare un
pensiero sul senso dello stare insieme, sui significati e i valori che
attribuiamo al rapporto con l’altro.
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9.
Internet addiction
L’introduzione nella vita dell’uomo dell’utilizzo di internet è relativamente recente, ma ha portato a radicali trasformazioni nelle modalità
di comunicazione e a modificazioni degli stili di vita. Oggigiorno possiamo affermare che siamo un po’ tutti “internet dipendenti”, poichè
questo strumento è diventato indispensabile non solo nell’ambito lavorativo, ma anche in quello affettivo e relazionale.
Se per la maggior parte delle persone queste attività rappresentano
parte integrante del normale svolgimento della vita quotidiana, per
alcuni individui possono assumere caratteristiche patologiche, fino
a provocare gravissime conseguenze (Cantelmi, Lambiase, Sessa,
2004).
Le modificazioni psicologiche che caratterizzano gli internet addicts,
ovvero le persone dipendenti da internet, sono la riduzione della qualità delle relazioni tra il soggetto e la famiglia e/o il contesto sociale a
cui appartiene fino alla perdita delle relazioni interpersonali, le modificazioni dell’umore, l’alterazione del vissuto temporale e la struttura
cognitiva completamente orientata all’utilizzo compulsivo del mezzo
(Davis, 1999 in Lavanco e Croce, 2008) con riduzione brutale delle
performance sia scolastiche, sia lavorative, problemi alla vista, all’apparato scheletrico e muscolare e al ciclo sonno veglia. Una sorta di
Hikikomori (ritiro), un fenomeno che in Giappone è molto diffuso negli
ultimi 10 anni e che indica la maniera con cui diverse centinaia di
migliaia di giovani hanno “deciso” di esprimere il proprio male di vivere chiudendosi nella propria stanza, senza contatti sociali, nell’isolamento totale, trascorrendo molte ore del giorno e della notte davanti
al computer o alla televisione.
Si possono associare anche problemi sul piano finanziario, quando
l’eccesso di uso di internet è concentrato su aste o giochi online e
Cybersexual addiction, laddove soggetti visitano in maniera smodata
e continuativa siti internet contenenti materiale pornografico e sesso
virtuale (Coletti, 2004).
La tendenza del soggetto è quella di sostituire il mondo reale con un
mondo artificioso, nel quale riesce a vivere un mondo personale “virtuale” con atteggiamenti e comportamenti diversi e differenti rispetto
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a quelli a cui è abituato nel mondo reale.
Numerose sono state le ricerche sulla motivazione all’uso eccessivo della rete e uno degli elementi principali che sembra fungere da
facilitatore è l’anonimato; in rete, infatti, gli utenti si sentono liberi di
cambiare la propria identità, immaginandosi e descrivendosi con un
Sè ideale che non corrisponde alla realtà.
Non stupisce, quindi, quanto siano diffusi i cosiddetti giochi di ruolo o Mud (Multi Users Dimensions) in cui i giocatori si costruiscono
un’identità prima di iniziare a giocare, con la quale contribuire insieme agli altri a costruire una realtà parallela in cui vivere una specie di
seconda vita. È il caso del social network “Second Life”, nel quale gli
utenti iscritti possono costruirsi un’identità diversa da quella reale e
incontrarsi con altri utenti in luoghi virtuali; o il caso dei giochi di ruolo
che simulano imprese il cui scopo è combattere nemici o uccidere
draghi e mostri insieme ad altri utenti mai conosciuti nella realtà; o
ancora, la realtà di Facebook e Twitter in cui gli utenti passano il loro
tempo intrattenendosi con altri utenti e ricercando notizie personali
anche di persone non conosciute nella vita reale.
La dipendenza da Internet è un disturbo relativamente recente, come
recente è la diffusione di massa di connessioni flat a banda larga,
che ha abbattuto i costi degli abbonamenti, facilitando l’accesso e
l’utilizzo della rete.
Il primo ad utilizzare il termine Internet addiction è stato lo psichiatra
americano Ivan Golberg nel 1995 per descrivere un uso problematico, eccessivo o maladattivo della rete, spesso legato a particolari
stati psicologici come la solitudine, la depressione e la compulsività,
che porta ad una menomazione o disagio clinicamente significativi
(cit. in Catania, 2008).
Un soggetto, per riconoscersi affetto dall’uso problematico di internet, deve rispondere ad almeno cinque dei seguenti otto criteri:
– preoccupazione circa internet (pensieri frequenti su ciò che
hanno fatto e su ciò che faranno in rete);
– bisogno di trascorrere un tempo sempre maggiore in rete per
ottenere soddisfazione;
– marcata riduzione di interesse per altre attività che non siano
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internet;
– sviluppo, dopo la sospensione o diminuzione dell’uso della
rete, di agitazione psicomotoria, ansia, depressione, pensieri
ossessivi su cosa accade on–line, classici sintomi esistenziali;
– necessità di accedere alla rete sempre più frequentemente o
per periodi più prolungati rispetto all’intenzione iniziale;
– impossibilità di interrompere o tenere sotto controllo l’uso di
internet;
– dispendio di grande quantità di tempo in attività correlate alla
rete;
– continuare ad utilizzare Internet nonostante vi sia la consapevolezza di problemi fisici, sociali, lavorativi o psicologici provocati dall’uso della rete (Young, 1998).
Quando un soggetto si riconosce in almeno cinque di questi criteri ciò
comporta problematiche di vario genere che influiscono sulla propria
sfera sociale, privata e lavorativa. Gli interessi esterni del soggetto si
riducono e di concentrano in un’attività esclusivamente centrata sulla
navigazione in rete. Questa situazione può crescere gradualmente in
un certo periodo di tempo, oppure risultare immediatamente grave
ed imponente (Coletti, 2004).
La percezione più diffusa tra gli Internet addicted è che internet sia
l’ambiente più sicuro in cui rifugiarsi, l’unico in cui ricevere supporto
e sperimentare sensazioni piacevoli, anche se il perdurare del collegamento genera sensi di colpa, oltre a scarso controllo dell’impulso
e all’impossibilità di smettere, arrivando a trascorrere davanti al computer anche l’intera notte, con conseguenze negative sia sulla sfera
relazionale, sia scolastica e/o lavorativa.
Spesso è anche un luogo in cui conoscere, comunicare, mostrare
aspetti di sè e formare relazioni interpersonali significative, tanto che
il costituirsi di coppie sulla rete è un fenomeno sempre più frequente.
Oltre all’anonimità assume un valore anche la possibilità di comportarsi in maniera disinibita e senza regole, potendo così dare sfogo a
caratteristiche positive che per timidezza non avrebbero la possibilità
o necessiterebbero di maggior tempo per rivelarsi in un rapporto vis
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a vis, ma anche negative come rabbia o volgarità che non incontrano
un limite.
Alcuni autori affermano che i dipendenti da internet passano davanti
al computer molte più ore di quelle che prevedevano nelle loro intenzioni iniziali; ben presto, infatti, la rete diventa una seconda casa, in
cui sentirsi accettati per quello che si è e nel quale incontrare persone
diverse da quelle della vita reale, a qualsiasi ora e/o avere accesso
ad esperienze in grado di “catturare” la mente (Cantelmi, Lambiase
e Sessa, 2004).
La facilità di avere accesso a un computer porta tutte le categorie
(uomini, donne, bambini, giovani, anziani, ecc.) ad essere esposte al
rischio di dipendenza da internet, anche se per sua propria natura,
Internet attrae molto di più le persone giovani e gli adolescenti; questo dato potrebbe far pensare ad una risposta a problemi legati alla
fase del “giovane adulto”, che trovano in questo spazio virtuale, una
risposta “distorta” a problemi tipici di questo periodo del ciclo vitale
(Coletti, 2004). Alcune ricerche, però, sembrano dimostrare come il
dialogo tra genitori e figli possano costituire un fattore predittivo capace di far diminuire tale rischio (Liau, Khoo e Ang, 2005).
10. La dipendenza relazionale
Per iniziare potremmo dire che ciascuno di noi ha sperimentato almeno una volta la dipendenza nelle relazioni che considera significative.
Probabilmente il cercare la giusta distanza relazionale tra noi e gli altri
dura per tutta la vita, soprattutto per quanto riguarda le persone a noi
legate da rapporti viscerali, come i genitori, i fratelli, il partner, gli amici..., assumendo anche il compito di guidarci attraverso i passaggi
cruciali dello sviluppo e della crescita.
L’entrare in–dipendenza appartiene alla possibilità di vivere in un legame, di essere e di stare, cioè, a più livelli in relazione con qualcuno.
Proprio per queste sue particolari caratteristiche è molto difficile definire che cosa si intenda per dipendenza relazionale patologica senza
sconfinare in quella che riteniamo pertinenza dell’ambito clinico, e
prenderemo così in considerazione solo alcuni aspetti che più si col-
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legano anche ad altre forme di dipendenza.
Ad esempio, quando una persona sta vicino o si avvicina ad una
persona dipendente, con grandi difficoltà a svincolarsi, si parla di
co–dipendenza ed è considerata anch’essa un comportamento di dipendenza.
Può accadere, infatti, che un familiare di un giocatore patologico o di
un alcolista vengano coinvolti nella problematica di dipendenza del
congiunto al punto tale da non riuscire più a distaccarsene, fino a
diventarne complici per quanto riguarda i comportamenti specifici di
abuso. Coletti (2004) riferisce l’esperienza osservata nel trattamento
dei pazienti dipendenti, in cui i clinici hanno riscontrato delle difficoltà proprio a causa dei comportamenti di boicottaggio ad opera
di familiari co–dipendenti, che inconsapevolmente ne ostacolavano i
trattamenti. Si tratta di madri, di partner che nel tentativo disperato di
aiutare, contribuiscono alla costruzione di un fallimento a due.
Una variante della co–dipendenza è quella che alcuni autori nordamericani chiamano love addiction o dipendenza affettiva e si presenta
come una tendenza a dipendere da una determinata persona, oppure come impossibilità a fare a meno dell’”ebbrezza amorosa” e dallo
stato di innamoramento (Coletti, 2004).
L’approccio relazionale mostra con efficacia la funzionalità di una relazione duale basata sull’indispensabilità dell’altro, sottolineando come
i vantaggi dati da questo tipo di relazione siano presenti in entrambi
i partner e ciascuno dei due contribuisca a mantenere la relazione
in equilibrio. La relazione tra partner, infatti, si basa spesso su di un
incastro in cui i componenti da sempre “giocano” inconsapevolmente
e reciprocamente il ruolo che l’altro ha contribuito ad identificare e a
rinforzare; come se paradossalmente l’esistenza dell’altro nella relazione consentisse di specchiarsi e di potersi così anche definire.
Altre due forme di dipendenza che hanno a che fare con la relazione, ma che proprio della difficoltà a stare in una relazione fondano il
proprio nucleo sono la dipendenza da sesso e la cybersexual addiction.
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11. La dipendenza sessuale e la cybersex addiction
Quando si parla di dipendenza sessuale, sembra difficile riconoscere
una condizione patologica a cui dare una definizione (Coletti, 2004),
anche perchè il sesso appartiene ad una sfera intima ed è perciò
difficile stabilirne i limiti ed i confini. Probabilmente è anche per questo che la dipendenza sessuale non rientra nella classificazione delle
disfunzioni sessuali del Dsm IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei
disturbi mentali dell’American Psychiatric Association) riconosciuto
come riferimento per inquadrare le patologie psichiatriche.
Come in casi conosciuti di “dipendenza da shopping”, i mass media
hanno aperto la strada per il riconoscimento del problema: questo
tipo di dipendenza è infatti più conosciuto da quando si è appreso
che il celebre attore Michael Douglas è stato diagnosticato come dipendente da sesso.
Lambiase (2003) prova a definirla come la condizione in cui la relazione con il sesso diventa l’unica maniera che la persona sperimenta per
scaricare lo stress, permettendogli di fuggire dai sentimenti negativi
o dolorosi e dalle relazioni intime che non è in grado di gestire. Questa relazione diviene il bisogno fondamentale rispetto al quale tutto il
resto viene sacrificato, ma si risolve con l’assenza di emozioni e con
un senso di vuoto emotivo e di indifferenza.
Il sesso diviene un rifugio sicuro in cui la persona si illude di controllare il proprio comportamento e di acquisire un valore personale, ma
presto l’altro si riduce ad essere percepito come un oggetto per soddisfare un piacere immediato e con il quale si fa difficile l’esperienza
di poter costruire un rapporto duraturo.
L’individuo percepisce la sessualità come elemento centrale della
propria vita ed agisce quindi in risposta ad un impulso sessuale irrefrenabile, indipendentemente dagli effetti negativi che il suo comportamento può arrecare a sé e agli altri. La soddisfazione del suo bisogno che genera l’impulso sessuale procura piacere, ma allo stesso
tempo genera disagio, ansia, malessere, senso di vergogna.
Come tutte le dipendenze, è capace di generare comportamenti
compulsivi. I soggetti coinvolti non riescono a vivere senza occuparsi
continuamente del sesso: lo pensano, lo cercano, lo praticano in con-
55
tinuazione, spesso mettendo in crisi i loro rapporti di coppia, perché i
partners non riescono a reggere i loro ritmi.
L’autostima è, in questi casi, strettamente legata al numero delle “prede conquistate”, oppure al numero di rapporti avuti in una settimana
o in una notte, più che alla qualità dei rapporti personali e alla rete di
relazioni sociali.
Da una ricerca dell’Associazione Italiana per la Ricerca in Sessuologia sembra che i soggetti dipendenti da sesso in Italia siano circa il
6% della popolazione (Avenia, 2004).
Legato all’utilizzo della rete sta prendendo sempre più campo quello che viene definito sesso virtuale o cybersex, comprendente tutte
quelle attività che si possono sviluppare in rete e che possono pertanto portare ad un’eccitazione sessuale attraverso l’uso di materiale
pornografico, incontri nelle chat erotiche e pratiche di sesso virtuale
(Lavanco e Croce, 2008).
Secondo Young i segnali che aiutano a comprendere quali siano le
persone affette dalla dipendenza sessuale on–line sono dieci:
– spendere quotidianamente un significativo ammontare di tempo nelle chat on line con l’unico scopo di trovare cybersex;
– vivere con la perenne preoccupazione di trovare on line partner sessuali;
– non svelare la propria identità per poter liberamente esprimere
le fantasie sessuali, che nella vita reale non verrebbero mai
esposte;
– anticipare la prossima sessione on line con l’aspettativa di poter trovare momenti di piacere e di soddisfazioni virtuali;
– passare continuamente da cybersex a telefonate erotiche accompagnate talvolta anche ad incontri nella vita reale;
– nascondere le relazioni on line ai propri cari;
– provare vergogna nell’uso della rete;
– provare vergogna del cybersex, ma allo stesso tempo cercarlo
attivamente durante la connessione in internet;
– praticare masturbazione quando si è all’interno delle chat erotiche;
– essere meno coinvolti nella vita sessuale con il partner reale,
56
poichè si preferisce il cybersex come fonte primaria di soddisfazione sessuale.
Anche in questo caso l’anonimità sembra facilitare la dipendenza da
cybersex, insieme alla facile disponibilità del materiale pornografico
e alla sensazione di fuga che riduce il livello di tensione mentale nel
soggetto dipendente, ma rinforza allo stesso tempo il comportamento
compulsivo.
La cybersex addiction comporta numerosi problemi sia nella sfera
privata e familiare, sia nel rapporto di coppia, portando spesso a separazioni e a divorzi.
12.
La dipendenza da lavoro
Il lavoro è il rifugio di coloro che non hanno nulla di
meglio da fare.
Oscar Wilde
Il primo articolo della Costituzione italiana recita “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Un noto proverbio italiano declama che il lavoro nobilita l’uomo; da sempre l’ozio è il padre dei vizi
e persino la Bibbia afferma che l’uomo lavorerà con fatica. Il lavoro è
una parte integrante nel normale svolgimento della vita quotidiana di
una persona.
Data la forte connotazione culturale e sociale di molte delle dipendenze individuate, non stupisce come in una società fortemente basata su internet sia riscontrabile l’Internet addiction, così come probabilmente in una società altrettanto fortemente basata sul lavoro sia
possibile avere a che fare con la dipendenza da lavoro.
Questo per sottolineare quanto sia difficile riconoscere la dipendenza
da lavoro e le sue peculiarità, che assorbono però la personalità del
soggetto, provocando una sofferenza che si estende anche al suo
contesto di appartenenza.
Non è facile individuare una definizione univoca di dipendenza da
lavoro, tanto che al momento non risulta accettata nella nomenclatura
ufficiale psichiatrica e psicologica e, almeno in Italia, non vi sono ri-
57
cerche in merito, forse anche perchè bisogna prima capire che cosa
si intenda per “lavoro”.
Lavanco e Milio (2008) sostengono che le vicende politiche ed economiche che interessano l’organizzazione della società hanno determinato nel corso del tempo un cambiamento nella concezione del
lavoro e, di conseguenza, nella sua collocazione nella vita delle persone. Da un’antica concezione del lavoro come attività indegna, riservata ai prigionieri, agli schiavi e ai contadini, si è passati intorno al XIV
secolo, periodo in cui nascono i mestieri e le botteghe degli artigiani,
a considerare il lavoro come mezzo attraverso cui raggiungere un
risultato. Dopo la rivoluzione industriale, si afferma la dimensione psicosociale del lavoro e progressivamente il lavoro diventa un mezzo
di affermazione sociale: ai nostri giorni è fondamentale il peso che
l’identità lavorativa ha nella costruzione e affermazione dell’identità
personale.
La prima a riferirsi alla dipendenza da lavoro fu Marilyn Machlowitz
(1997), definendo workaholic il soggetto dipendente da lavoro, per
via delle somiglianze tra i comportamenti messi in atto da questi soggetti e quelli degli alcolisti.
Coletti (2004) afferma che tali comportamenti eccessivi portano l’individuo a trascurare tutti gli altri interessi che non siano relazionati con
la sua attività professionale e lavorativa: famiglia, amicizie, hobbies,
ambiente esterno in generale; questo genera un vago senso di colpa
che viene minimizzato e trascurato. Piuttosto che un’attività, il lavoro diventa uno stato d’animo, una via di fuga che libera la persona
dall’esperire emozioni, responsabilità, intimità nei confronti degli altri.
Il workaholic mette in atto un comportamento di tipo compulsivo
nell’eseguire ogni attività e nel raggiungere gli obiettivi; egli è fortemente mosso ad impegnarsi nel lavoro e ad ottenere tramite esso dei
risultati oggettivi, sia in termini progettuali, sia in termini economici. Il
lavoro diventa l’unico modo per dimostrare il proprio valore a se stesso e agli altri (Lavanco e Milio, 2008).
A molte persone capita di essere molto assorbite dal lavoro. Come si
fa a capire quando questo impegno si trasforma in una vera e propria
dipendenza?
58
Si può affermare che la differenza emerge quanto non si è più in grado di mettere dei limiti all’attività lavorativa e non si riesce più a ritagliarsi degli spazi per se stessi; la persona che ha sviluppato una
dipendenza non riesce a regolare il proprio comportamento e sente
sempre il bisogno di “fare di più”.
Coletti (2004) individua tre fasi differenti della dipendenza da lavoro:
– la fase iniziale, in cui si ha il progressivo isolamento della persona, con il distacco dai familiari, dagli amici e dalle altre attività sociali;
– la fase critica, in cui si ha il totale coinvolgimento della persona
nell’attività lavorativa, con l’aumento di conseguenze psicosomatiche a carico dell’apparato digerente e circolatorio (ipertensione, iperacidità gastrica, ulcera), accompagnati da sintomi depressivi;
– la fase cronica, in cui il soggetto, se possibile, aumenta le proprie attività lavorative, senza soluzione di continuità. Aumentano anche i comportamenti aggressivi, l’isolamento generale ed
i sintomi psicosomatici.
Lavanco e Milio (2008) riportano che, sebbene la maggior parte degli
studiosi siano concordi nel rintracciare le origini della dipendenza da
lavoro nella persona, non bisogna dimenticare l’influenza dell’educazione, dei modelli culturali e della società in cui vive.
13. Conclusioni
Come si è osservato esiste una stretta somiglianza fenomenologica
tra le dipendenze da sostanze e le dipendenze sociali, ugualmente
caratterizzate da una sensazione di impossibilità di resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento (compulsività) e dalla sensazione crescente di tensione che precede immediatamente l’inizio
del comportamento (craving). È presente piacere o sollievo durante
la messa in atto del comportamento e si ha la percezione della perdita di controllo oltre al reiterarsi del comportamento nonostante la sua
associazione con conseguenze negative.
Si evidenzia dunque un’evoluzione del concetto di dipendenza patologica, descritta più come sindrome prodotta semplicemente dalla
59
ripetizione di qualsiasi comportamento che assume rilevanza psicologica per l’individuo, che riferita alla presenza di una sostanza esterna demonizzabile e per questo individuabile più difficilmente.
Ciò non toglie che, nonostante diverse, anche queste nuove forme
di dipendenza comportino conseguenze e costi individuali e sociali
molto simili a quelli delle dipendenza da sostanze.
Se nel caso di queste ultime, come sottolinea Croce (in Lavanco e
Varveri, 2006),
la dipendenza è legata a comportamenti e consumi non necessari alla vita della persona come le droghe, l’acol e le sigarette
(...) ci rendiamo, invece, facilmente conto di come sia impossibile vivere senza relazione, senza acquisti, senza lavoro e come
sia difficile vivere senza collegarsi ad internet.
Anche per quanto riguarda i possibili trattamenti dell’uso di sostanze
sono stati spesso finalizzati all’astinenza e a cercare di evitare la ricaduta nell’uso. Se consideriamo, invece, le nuove forme di dipendenza questo tipo di trattamenti sono pensabili solo nel caso del gioco
d’azzardo patologico, mentre risultano inapplicabili per gli altri tipi di
dipendenza.
Consapevoli della difficoltà e lungi dal voler dare facili ricette, peraltro
impossibili da offrire rispetto ad un tema così complesso e variegato
come quello delle dipendenze, riteniamo però che l’intervento debba essere messo in atto prima dell’emergere dei sintomi, anche se
le nuove dipendenze pongono problemi diversi da quelli incontrati
nella storia della prevenzione dalle dipendenze da sostanze proprio
per l’aspetto inquietante che si presentano come una fonte di rischio
trasversale alle generazioni, ai miti e alle credenze e quindi come
potenzialmente rischiosi per ciascuno di noi.
Pensiamo che sia perciò importante cercare di comprendere i bisogni, i ruoli e gli spazi vuoti che questi comportamenti vanno a colmare, in un’ottica di promozione della salute, attraverso interventi che
non demonizzino ma che si muovano nell’ambito della prevenzione
dei comportamenti a rischio e della promozione di una cultura della
responsabilizzazione centrata su una forma di consumo sano, gioco
sano... così come suggeriscono anche Lavanco e Croce (2008); con
60
la creazione di ambienti che favoriscono la salute e che risultino sicuri, stimolanti, soddisfacenti e piacevoli; con il rafforzamento dell’auto–
aiuto, del supporto sociale e della partecipazione nella comunità e la
promozione di valori culturali come il senso di appartenenza, piuttosto che il materialismo e l’individualismo; con il sostegno e lo sviluppo
delle agenzie educative come la famiglia, la scuola e le associazioni
per un sano sviluppo delle abilità personali; con la promozione, infine, di una cultura psicologica che significa ascolto di sè e degli altri,
maggiore consapevolezza di sè e maggiori competenze relazionali e
sociali, ma anche porre attenzione e dignità ad una sfera di sintomi
non solo organici, imparando anche a prendersi cura del sentire proprio e degli altri.
61
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67
Capitolo 2
Le nuove dipendenze e gli adolescenti: una
indagine esplorativa
di Alessandro Morandi, Valentina Albertini
1.
Breve storia del progetto “Scommetti che t’impegni?”
L’indagine pubblicata in queste pagine si è svolta all’interno del progetto “Scommetti che t’impegni?”, finanziato dalla Regione Toscana
sul bando “Contributi regionali per la promozione della cultura della
legalità democratica (L.R. 11/99”), Anno 2009” e gestito da un partenariato di scuole e associazioni. Le scuole coinvolte nel partenariato erano l’Istituto Comprensivo “Don Milani”, la Scuola Media “F.
Redi”, l’Istituto Superiore “E. Balducci”, l’Istituto Superiore “A. Volta”,
con capofila l’Istituto Superiore “P. Gobetti”. L’obiettivo generale del
progetto, svoltosi nell’anno scolastico 2009–2010, è stato quello di
sensibilizzare giovani e adulti rispetto al tema delle vecchie e nuove
dipendenze, stimolando l’impegno personale e sociale come promozione di una cultura responsabilizzante.
L’idea progettuale è nata da un’indagine esplorativa effettuata nell’anno scolastico 2007–2008 tra gli studenti delle scuole superiori della
zona del sud–est fiorentino (Istituto Superiore “E. Balducci”, Istituto Isis
“G. Vasari”, Istituto Superiore “A. Volta”, Istituto Superiore “P. Gobetti”) svolta dall’associazione 89 Rosso in collaborazione con Coop 21.
Il progetto finanziato dalla Regione Toscana si è posto come obiettivi
specifici:
– stimolare la partecipazione, l’impegno personale e la condivisone fra pari nei giovani delle scuole coinvolte;
– creare attività di prevenzione rispetto al tema delle vecchie e
nuove dipendenze all’interno delle scuole della rete;
– diffondere e facilitare la conoscenza rispetto al tema delle vecchie nuove dipendenze fra giovani e adulti.
Questi obiettivi sono stati raggiungi, nel corso dei 12 mesi di progetto,
attraverso lo sviluppo di una ricerca–azione e grazie a interventi educativi mirati all’interno delle scuole sulle tematiche dell’educazione
68
alla responsabilità civile in contrasto alla cultura “dello sballo”, favorendo un uso consapevole del denaro, del gioco e di internet e attivando interventi di prevenzione rispetto all’abuso di sostanze.
La ricerca–azione è stata svolta dall’Associazione 89 rosso e viene
presentata in questo capitolo. L’altra attività prevista ha riguardato l’attivazione di laboratori di peer education fra i ragazzi sul tema
dell’uso del denaro, uso dei giochi, gestione del tempo libero, abuso
di sostanze, nonché alcune attività di informazione e diffusione fra
i ragazzi sul tema delle vecchie e nuove dipendenze. I risultati dei
laboratori di peer education verranno presentati nel capitolo 6 di questa pubblicazione.
Vogliamo ringraziare i dirigenti, gli insegnanti e gli studenti coinvolti
nel progetto che con la loro preziosa collaborazione hanno reso possibile questo studio.
2.
Perché un’indagine su stili di vita e comportamenti a
rischio fra gli adolescenti
Gli studi sul rapporto tra stili di vita, comportamenti a rischio, modalità
d’uso del tempo libero e azioni di promozione della salute, in particolare per quanto riguarda adolescenti, sono ampiamente presenti
in letteratura (Baumrind, 1987; Meringolo e Chiodini, 2005; Parker,
Williams e Aldridge, 2002). È in questa fascia d’età che è possibile
sperimentare nuove situazioni e sensazioni attraverso comportamenti
socialmente non stigmatizzanti, ma che possono configurarsi come
problematici (Jessor e Jessor, 1977; Griffiths & Wood, 2000), in particolare l’utilizzo di internet, il gioco d’azzardo (gambling) e lo shopping (Associazione 89Rosso, 2009; Lavanco e Croce, 2008).
L’oggetto della dipendenza è dunque un comportamento o un’attività
socialmente accettata che talvolta può caratterizzarsi come patologica, determinando gravi conseguenze. Infatti, come già sottolineato
nel capitolo 1, diversi studi (Griffiths, 2002; Potenza et al., 2002) evidenziano come sia le dipendenze comportamentali che quelle determinate dall’uso di sostanze, siano ugualmente caratterizzate da:
a) sensazione di impossibilità di resistere all’impulso di mettere in
atto il comportamento (compulsività);
69
b) sensazione crescente di tensione che precede immediatamente l’inizio del comportamento (craving);
c) piacere o sollievo durante la messa in atto del comportamento;
d) percezione di perdita di controllo;
e persistenza del comportamento nonostante la sua associazione con conseguenze negative.
Una ricerca realizzata in Gran Bretagna (Fischer 1993) su un campione di 10.000 studenti adolescenti ha evidenziato che il 5,6% dei
ragazzi è dedito al gioco in modo problematico, mentre Derevenski
e Gupta (2000) hanno stimato che i giovani a rischio di gioco problematico rappresentino una percentuale tra il 9% e il 14%. Tale fenomeno risulta comunque in aumento: da una recente ricerca condotta
nel 2009 in Italia (Cnr, 2009), tra i ragazzi che hanno giocato denaro
nell’ultimo anno sono in aumento quelli con un rischio basso (dal 19,6
al 22%), mentre rimangono invariati quelli con rischio patologico.
In riferimento a internet, negli studi condotti con adolescenti sono riportati incapacità nel controllo dell’uso, crescita del tempo dedicato alla navigazione in rete nonostante la consapevole comparsa di
problemi psicologici, relazionali e di rendimento scolastico (Cantelmi, Giardina Grifo, 2002). Recenti dati epidemiologici indicherebbero
che una percentuale di adolescenti tra i 12 e i 18 anni (circa 2,5% dei
ragazzi e 1,5% delle ragazze) potrebbe essere affetta da Iad (Internet Addiction Disorder) e una percentuale più elevata (circa il 20%)
potrebbe presentare un uso “problematico” pur non arrivando a forme di vera dipendenza (Johansson et al., 2004). Nel nostro paese è
stato segnalato che circa il 12% degli adolescenti in età tra 14 e 21
anni sembra avere difficoltà a limitare il tempo che trascorre on–line
(Favaretto et al., 2004).
Come per internet e per il gioco, anche lo shopping è un’attività comune a cui si dedica parte del proprio tempo. Secondo alcune ricerche svolte negli Stati Uniti, mediamente le persone passano circa 6
ore a settimana a fare acquisti di vario tipo (Tufts Climate Initiative,
2009). Sebbene si tratti in larga misura di adulti, alcuni di coloro che
hanno un comportamento di acquisto problematico dichiarano che
è nell’adolescenza che tale comportamento ha iniziato a manifestar-
70
si (Roberts, 1998), in parte grazie anche alle prime disponibilità di
denaro gestito in modo autonomo o quasi. Secondo Elliott (1994) il
comportamento d’acquisto di tipo compulsivo è una forma di compensazione per la costruzione della propria identità e un meccanismo
di auto–regolazione dell’umore, attraverso l’appropriazione di beni
materiali. Si tratta di una modalità di comportamento caratterizzata
da una cronica tendenza ad acquistare prodotti spesso oltre i propri
bisogni e le proprie risorse economiche, in grado di determinare un
sollievo immediato da ansia e stress emotivo e come fonte di gratificazione personale (Dittmar, 2005; Marlatt et al., 1988). Alcuni studi
suggeriscono che la prevalenza di tale comportamento problematico
nella popolazione generale sia dell’1,1% (Lejoyeux et al., 1997), anche se recentemente si stima che la percentuale vari dal 2 all’8% tra
la popolazione adulta degli Stati Uniti, con un rapporto donne–uomini
di nove a uno (Black, 2001).
Un aspetto rilevante di cui occorre tener presente in riferimento ai
giovani adolescenti è rappresentato dal desiderio di esplorare, sperimentare nuove situazioni e nuove sensazioni, caratteristica biologicamente innata e inevitabile nella dinamica psicologica di questa
fase della vita (Lyng, 1990; Winstock, 2004; Zuckerman, 1979), in cui
si verificano rapide modificazioni alle quali il soggetto deve adattarsi,
e che costituisce una fase di transizione e di passaggio dall’infanzia
all’età adulta, nella quale il punto di riferimento si sposta dall’ambito
familiare all’esterno, dove acquisiscono sempre maggiore importanza le relazioni con i pari (Brown, 2000).
La dimensione sociale e relazionale è dunque determinante quando
si intende approfondire il tema delle “nuove dipendenze”, new addiction o “dipendenze sociali” (Del Miglio, 2003).
Recentemente si è assistito a una maggiore attenzione nel campo
scientifico verso le “nuove dipendenze”. D’altra parte, a differenza
delle dipendenze da sostanze, vi è la difficoltà da parte degli esperti
di identificare gli adolescenti con un comportamento problematico
rispetto a gioco d’azzardo, internet e shopping, e non a caso Griffiths
(2002) parla di “dipendenze sommerse”.
Non sempre sono presenti segni o sintomi evidenti, e spesso gli ado-
71
lescenti tendono a minimizzare il loro coinvolgimento in questo tipo di
attività, chiedendo aiuto generalmente quando ormai le conseguenze
più gravi (per la persona e/o per la propria famiglia) si sono già verificate. Lo studio di questa tipologia di comportamenti negli adolescenti
appare quindi di rilevante importanza anche in funzione degli interventi di prevenzione da mettere in atto, poiché rimettono in discussione molti degli elementi cardine su cui si basano gli interventi che
perseguono la logica dell’evitamento e dell’astinenza.
3.
L’indagine nel progetto “Scommetti che t’impegni?”
La presente indagine, di tipo esplorativo, si è posta come obiettivo
principale quello di approfondire in un gruppo di giovani studenti il
rapporto tra stili di vita giovanili e comportamenti legati al gioco d’azzardo, l’utilizzo di internet e l’attività di shopping.
Come indicato in letteratura, al fine di indagare fenomeni relativamente “nuovi”, come appare quello delle dipendenze senza sostanze e
dei comportamenti problematici in relazione a gioco, internet e shopping, risulta particolarmente funzionale utilizzare un approccio multi–
metodo, che comprende la raccolta e l’analisi di dati sia qualitativi
che quantitativi. Un vantaggio di questo approccio è quello di poter
indagare diversi aspetti del fenomeno, di poter confrontare i risultati
ottenuti con metodi differenti e di utilizzare questa complessità per
una comprensione più articolata.
A tal fine, sono stati coinvolti alcuni insegnanti sia per fornire al gruppo di coordinamento di progetto delle basi sulle quali poter progettare un corso di formazione adeguato ai bisogni, che per indagare il
punto di vista, le opinioni e le percezioni dei testimoni privilegiati in
merito ai comportamenti e stili di vita degli studenti.
All’indagine hanno partecipato 12 insegnanti e dirigenti delle scuole
coinvolte nel progetto e 511 giovani studenti (di cui il 63% maschi) di
età media 15 anni (DS = 1.9), appartenenti a 5 Istituti scolastici nella
zona sud–est di Firenze.
Rispetto agli insegnanti, sono stati condotti dei focus group per la
raccolta di dati qualitativi con lo scopo di far emergere il punto di vista
degli intervistati, l’insieme dei significati ed interpretazioni rispetto alle
72
proprie esperienze e conoscenze (Cicognani, 2002; Corbetta, 1999).
I focus group sono stati condotti secondo una traccia di domande appositamente predisposta. In tutti i focus sono stati indagati i seguenti
temi:
• percezioni circa gli adolescenti ed eventuali cambiamenti nel
tempo;
• valutazioni percezioni sul fenomeno delle dipendenze negli
adolescenti;
• il ruolo e la natura della rete sociale nel fenomeno delle “nuove
dipendenze”.
Per l’indagine con gli studenti si è utilizzato un approccio quantitativo attraverso l’utilizzo di un questionario appositamente predisposto
per la raccolta dei dati socio–anagrafici, le attività nel tempo libero, i
rapporti con la famiglia e con i pari, le modalità di gioco, l’utilizzo di
internet, i comportamenti di shopping. Infine, sono stati inseriti alcuni
item volti ad acquisire informazioni circa le proprie percezioni verso i
messaggi pubblicitari.
Sono state inoltre utilizzate le seguenti scale psicometriche:
• South Oaks Gambling Screen–Revised for Adolescents (Sogs–
Ra) per il gambling (Winters, Stinchfiled & Fulkerson, 1993).
È uno strumento di autovalutazione largamente conosciuto e
diffuso nella ricerca per la rilevazione dei comportamenti problematici verso il gioco d’azzardo nell’adolescenza.
• Internet Addiction Test (Iat) (Young, 1998) per l’autovalutazione
dei comportamenti problematici nell’utilizzo di internet. La scala
si compone di 6 fattori: salienza (quanto è percepito importante
l’utilizzo di internet da parte del soggetto), uso eccessivo, trascuratezza del lavoro/studio, anticipazione (le aspettative per
il momento in cui si sarà on–line), perdita di controllo, trascuratezza della vita sociale.
• Scala sullo Shopping Problematico (Ssp) (Varveri e Lavanco,
2005). La scala misura il grado di problematicità del comportamento di shopping.
Per i focus group con gli insegnanti, i dati raccolti sono stati audioregistrati, trascritti e sottoposti ad analisi di contenuto computer as-
73
sisted attraverso il software Atlas.ti. In accordo con Strauss e Corbin
(1990), il materiale testuale è stato inizialmente sottoposto ad un processo di “codifica aperta” con lo scopo di ricondurre i dati a concetti
generali che ne riassumessero il contenuto e significato, e sviluppare
da questi i codici.
Successivamente si è proceduto ad una “codifica assiale” a partire
dai codici ottenuti dalla fase precedente e sono state scelte le dimensioni più rilevanti e le relazioni fra loro. Infine, una “codifica selettiva”
è stata effettuata con l’obiettivo di strutturare un quadro teorico più
definito attraverso l’identificazione della dimensione principale (core
category).
Il processo di definizione dei codici, le relazioni tra di essi e il significato dei temi emersi sono stati costantemente discussi tra i membri
del gruppo di ricerca secondo il principio della triangolazione (Robson, 1993). Nei risultati che qui presentiamo, sono citate alcune frasi
esplicative (quotations) espresse dagli intervistati.
I dati quantitativi sono stati elaborati con software statistico (Spss).
Oltre alle analisi descrittive, sulla base della tipologia di variabili prese in esame sono stati utilizzati il test T di Student e l’analisi della varianza (Anova) per il confronto tra gruppi e correlazioni per indagare
la natura delle relazioni tra variabili di tipo metrico.
4.
4.1
Alcuni risultati: i focus group con insegnanti e dirigenti
scolastici
Percezioni circa gli adolescenti ed eventuali cambiamenti
nel tempo
Il primo tema emerso dall’analisi dei contenuti dei focus group riguarda la descrizione che gli intervistati danno dei ragazzi.
Viene riportato un grande cambiamento degli studenti soprattutto negli ultimi 10–15 anni.
Secondo alcuni partecipanti ai focus, oggi gli studenti sembrano caratterizzati da una notevole mancanza di interesse per i temi di attualità proposti dalla scuola:
74
neppure della Shoah si può parlare, dicono “s’è già fatta
proffe!”1
Inoltre, viene sottolineata la presenza di differenti livelli nelle competenze: i ragazzi hanno minore attenzione, e spesso arrivano alle
superiori con un bagaglio lessicale scarso, situazione che raramente
migliora nel corso dei cinque anni di scuola.
Gli insegnanti notano lo scarso investimento che i ragazzi fanno su
di sé: mentre negli anni passati, infatti, la scuola veniva chiaramente
percepita come un primo passo verso la crescita, adesso gli studenti
sembrano poco interessati al proprio futuro e quindi, di conseguenza,
meno portati a programmare e progettare:
secondo me il tipo di fragilità che emerge è proprio nella difficoltà di crearsi un’identità propria al di fuori della famiglia, insomma un problema di crescita, un problema di individuazione del
proprio sé.
Una conseguenza diretta di questo scarso investimento è l’impegno
che gli studenti dedicano alle proprie attività: secondo gli insegnanti
intervistati i ragazzi tendono a minimizzare gli sforzi in qualsiasi situazione, talvolta supportati dalle famiglie:
se c’è da fare un po’ di fatica in più si delega alle ripetizioni
private
L’esito relazionale negativo di questa scarsa predisposizione all’impegno è la bassa tolleranza del fallimento, che secondo gli insegnanti
emerge con forza già dai primi anni di scuola. Nota infatti un insegnante:
ad esempio, anche un ragazzo che non riesce, che incontra
delle difficoltà in una determinata materia si abbatte più facilmente, oppure anche nel rapporto con i compagni una delusione si può vivere in tanti modi; il fatto di non essere accettati per
i ragazzi diventa subito un dramma. Io noto che magari dieci
anni fa questa cosa non era vissuta così. Probabilmente perché
appunto anche la società forse dava meno importanza a questo
1 Tutte le citazioni che seguono sono tratte dalle registrazioni audio dei focus
group.
75
aspetto, uno doveva sbrigarsela un po’ di più. Oggi invece si è
più attenti a certi particolari e questo da un certo punto di vista
è positivo ma rende qualche volta più fragili le persone.
Talvolta, quindi, l’apparente riduzione delle aspettative negli adolescenti sembra piuttosto una forma di difesa dalla necessità di dover
“rischiare”, di mettersi in gioco e quindi di considerare anche un possibile “fallimento” e la consegnate frustrazione:
gli ultimi anni le ragazze in particolare anche uscite con buoni
voti, dicono che alla peggio andranno a fare le commesse, cosa
che dieci anni fa non avrebbero mai detto.
Oppure:
i ragazzi hanno aspettative un po’ diverse, ma non investono su
stessi, non si investe sulle proprie capacità. Dieci anni fa investivano più sul futuro. Provavano di più ad andare all’Università,
questa è la realtà del tecnico, non del liceo, lo dico con preoccupazione.
4.2 I comportamenti problematici e le dipendenze
Rispetto alla percezione delle vecchie e nuove dipendenze, gli insegnanti intervistati segnalano che i ragazzi hanno una maggiore accessibilità alle sostanze (in particolare cannabis e alcol) e parallelamente anche una maggiore disponibilità di denaro per le attività nel
tempo libero.
Secondo gli intervistati, negli ultimi dieci anni si è verificato un cambiamento sociale rispetto alle sostanze il cui uso ha perso il valore
trasgressivo che le contraddistingueva, avvicinandosi in tal senso ai
comportamenti che caratterizzano le nuove dipendenze, il cui oggetto è più accessibile ed il comportamento socialmente più tollerato:
il sabato si esce per sballarsi già a 14 anni, e lo raccontano
tranquillamente. Che poi si vomiti per due ore di fila non è un
problema.
Tuttavia, nello specifico, il fenomeno delle nuove dipendenze sembra
essere percepito come meno presente e “pericoloso” rispetto all’utilizzo di sostanze legali o illegali. Questa considerazione potrebbe co-
76
munque essere in parte spiegata dal fatto che raramente è possibile
notare comportamenti problematici in tal senso a scuola.
Appare anche difficoltoso intercettare il limite tra l’aspetto problematico e l’utilizzo consapevole e controllato del denaro o di internet,
essendo questi comportamenti quotidiani, talvolta persino incentivati
dai mezzi di comunicazione:
sulla dipendenza da internet c’è un grande aumento […] quando tornano da scuola si messaggiano, è proprio una regola.
Quando tornano, prima di fare qualsiasi cosa, si messaggiano
col computer.
Dall’analisi delle interviste, in merito alle nuove dipendenze emerge
come da un lato sia difficoltoso valutare un comportamento come
problematico, dall’altro vengono spesso utilizzati gli stessi criteri di
valutazione adottati rispetto alle dipendenze con sostante. Pertanto,
è percepita la facile disponibilità e l’assenza di stigmatizzazioni verso alcuni comportamenti e si sottolinea come alla base delle dipendenze possano esserci carenze relazionali o viceversa, in particolare
relazioni “superficiali” che non sono in grado di svolgere un ruolo protettivo:
Tante volte è un modo per chiedere aiuto, non lo so se si può già
parlare di queste nuove dipendenze.
Alcuni comportamenti degli adolescenti, come ad esempio la mancanza di rispetto, sono citati come esplicativi di un sistema di valori
negativo e dovuti in parte anche all’assenza di “empatia” verso gli
altri. Questi aspetti sembrano poter avere una qualche influenza anche per quanto riguarda una gestione ritenuta dagli intervistati “non
responsabile” del denaro:
un episodio che mi ha molto colpito di alcuni ragazzi, apparentemente “a modo”. In una discoteca viene rubato il giubbotto
di marca a uno di questi, allora fanno il giro e non lo trovano.
Quindi ne prendono altri due, buttano via il cellulare che c’era
dentro, poi al genitore danno anche l’altro, che lo accoglie con
piena tranquillità.
77
Il ruolo e la natura della rete sociale. Rispetto alla rete sociale, viene
evidenziato il ruolo talvolta “ambiguo” della famiglia.
Per alcuni intervistati, alla scuola vengono spesso delegate competenze che invece non sono presenti o non dovrebbero essere soltanto
a carico dell’istituto:
non era mai successo, come in questi anni, che i genitori mi
chiedessero che cosa fare.
La rete dei pari risulta essere un’importante fonte di informazioni circa la possibile presenza di comportamenti problematici rispetto alle
dipendenze, tuttavia questo canale di comunicazione difficilmente
raggiunge l’insegnante, e spesso ciò dipende dal singolo docente.
Risulta quindi difficile una relazione più strutturata e continua tra il
gruppo degli insegnanti e quello degli studenti e le occasioni di affrontare insieme questo fenomeno sono molto poche:
Emerge quindi la necessità di coinvolgere prima di tutto le famiglie.
Anche se, come viene riportato, sono gli stessi genitori a chiedere
consigli ai docenti che in alcuni casi percepiscono questo comportamento come una delega del ruolo genitoriale:
come genitore mi sento meno efficace, mio figlio ha sempre fatto quello che dicevano i professori che quello che gli dicevo
io. Le mamme infatti mi chiedono di dire certe cose ai ragazzi.
Quando gli dico di fermarsi un attimo, vanno in agitazione.
Si sottolinea perciò l’importanza della presenza di una figura terza,
che abbia non soltanto le competenze specifiche per quanto riguarda il fenomeno oggetto di intervento, ma anche che ricopra un ruolo
di mediazione e di “interfaccia” tra la famiglia e l’istituzione scolastica, al fine di favorire una interpretazione corretta ed il più possibile
condivisa dell’eventuale situazione problematica:
se un ragazzo poi è così fragile, così facile esser catturato in
questa forma di passatempo che poi passatempo non è, ma
diventa una dipendenza, probabilmente la cosa migliore è un
intervento psicologico.
78
5.
Alcuni risultati: il questionario somministrato agli
adolescenti
Rispetto ai 511 giovani studenti (Figura 1) che hanno partecipato
all’indagine, l’89% vive con i propri genitori e nel 50% dei casi almeno uno di questi occupa una professione nel profilo di “impiegato/a”,
per il 35% uno dei genitori è “operaio” e per il 21% la madre è “casalinga”. In misura minore coloro che sono “in cerca di occupazione”
(2%), “pensionato/a” (4%) e “insegnante” (8%).
Figura 1 – Professione dei genitori
In cerca di occupazione 2%
Pensionato/a 4%
Insegnante 8%
Libero professionista 13%
Artigiano 13%
Commercianti 16%
Altro 16%
Casalinga 21%
Operaio/a 35%
Impiegato/a 50%
4%
2%
8% 13%
13%
50%
16%
16%
35%
21%
Per il 66% (n = 337) la condizione economica della propria famiglia
è ad un livello “medio”, anche se per un rilevante 25% è percepita
come “alto”. È possibile pertanto affermare che per un’ampia maggioranza (91%) si rileva la percezione di un buon livello di benessere
economico della propria famiglia. Il 3% dichiara di appartenere ad
una famiglia la cui condizione economica è “molto alta” e per il 6% è
invece “bassa” o “molto bassa”.
I partecipanti all’indagine dichiarano di avere a disposizione mediamente 20 euro a settimana per le proprie spese (21%), in misura minore 10 euro (13%) e 15 euro (8.7%). Tra le disponibilità più elevate
si rileva per il 9% circa 50 euro a settimana e 30 euro per l’8%. In
percentuali molto minori si trovano cifre decisamente più elevate (fino
a 200 euro) o più basse (5 euro o niente). La media sul totale dei partecipanti è di circa 30 euro a disposizione a settimana per le proprie
spese (Ds = 40.0).
79
Una domanda riguardava l’atteggiamento percepito dei propri genitori rispetto al denaro. Su una scala da 1 a 6, punteggi medi più
elevati si sono osservati per quanto riguarda un atteggiamento di responsabilità all’uso del denaro (5.39) (“I miei genitori pensano che si
dovrebbe fare un uso responsabile del denaro”) e per valori non fondati esclusivamente sul benessere economico (4.18) (“Non importa
quanti soldi guadagni, l’importante è che tu sia felice”).
In misura minore si trovano la percezione di riservatezza dei genitori
sul denaro, discussioni tra genitori a causa del denaro e il confronto
del proprio status sociale con quello di altre famiglie come ad esempio vicini e parenti.
Se per il 46% dei partecipanti è possibile “parlare di tutto” con i genitori (Figura 2), tra gli argomenti di cui si parla più facilmente sono
presenti la scuola (58%), il lavoro (12%) e la politica (11%). Con più
difficoltà o in misura minore si parla di argomenti legati ai sentimenti (7.6%), problemi economici (6%), droghe (5%) e sessualità (4%).
Sono presenti alcune differenze rispetto al genere: le femmine risultano parlare con i genitori con più facilità per quanto riguarda i problemi sentimentali (11% femmine; 6% maschi), ma meno circa il lavoro
(8% femmine; 14% maschi) e la politica (6% femmine; 14% maschi).
Probabilmente a spiegare queste diverse distribuzioni contribuiscono
anche stereotipi e aspettative circa il genere di appartenenza.
Figura 2 – Argomenti di cui si parla più facilmente con i propri genitori (massimo tre risposte)
4% 5% 6%
Sesso 4%
Droghe 5%
Problemi economici 6%
Problemi sentimentali 7,6%
Politica 11%
Lavoro 12%
Parliamo di tutto 46%
Scuola 58%
58%
7,6%
11%
12%
46%
80
5.1. Il tempo libero
Come indicato in letteratura, sapere come si caratterizzano i rapporti di amicizia è utile in quanto risulta maggiormente protettivo per i
giovani avere un range ampio di relazioni e di gruppi di riferimento.
Riguardo ai partecipanti all’indagine questi sembrano suddividersi
piuttosto equamente tra coloro che hanno un gruppo fisso di amici (34.8%), coloro che frequentano più gruppi di amici (ad esempio
gli amici di scuola e quelli dove viene praticata un’attività sportiva)
(32.3%), che hanno diversi amici ma le cui relazioni non sono strutturate come gruppo unico (28.4%). Avere più gruppi di amici permette
di mantenere solide relazioni sociali, anche in prospettiva di eventi
che possono ridurre o modificare uno dei gruppi a cui il soggetto fa
riferimento; si pensi ad esempio alla conclusione stessa dell’esperienza scolastica. Su una scala da 1 (Mai) a 6 (Tutti i giorni), è stato
chiesto di indicare il tempo dedicato per alcune attività nel tempo
libero. Le attività più frequenti risultano “guardare la tv”, “navigare
su internet” e “ascoltare musica da solo/a”. In termini percentuali, il
Figura 3 – Interesse per argomenti in televisione: differenze sulla variabile genere
5,0
4,5
4,0
3,5
3,0
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
0,0
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M /Inc
Po
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lità
Doc
a
u
t
At
Maschi
Femmine
81
77.5% dichiara di stare davanti alla tv ogni giorno. Circa la metà dei
partecipanti passa davanti alla televisione 1 o 2 ore al giorno e appare rilevante la percentuale di coloro che guardano la televisione quotidianamente almeno 3 ore (24%). Guardare la televisione è un’attività
svolta prevalentemente da soli (43%) o in famiglia (44%), molto meno
con gli amici (6%).
Su una scala da 1 a 5 è stato chiesto il grado di interesse verso le tipologie di programmi televisivi. Punteggi più elevati si sono osservati
circa i film (4.19), lo sport (3.51) e la musica (3.36). In misura minore
programmi inerenti la moda (2.14) e le trasmissioni di politica (2.15).
Sono emerse differenze statisticamente significative sulla base del
genere di appartenenza (Figura 3): le femmine risultano maggiormente interessante ai telegiornali, telefilm, moda, reality show e canali musicali rispetto ai maschi. Questi ultimi invece indicano una preferenza
maggiore rispetto alle femmine per argomenti sportivi e documentari.
Non si sono invece osservate differenze statisticamente significative
per film, varietà e quiz, attualità e inchieste.
Figura 4 – Interesse per argomenti sui giornali/riviste: differenze sulla variabile genere
5,0
4,5
4,0
3,5
3,0
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
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Tec
Maschi
Femmine
82
Al fine di approfondire le diverse tipologie di interesse rispetto a differenti canali di comunicazione, sono stati indagati anche gli argomenti
presenti su giornali e riviste (Figura 4). Rispetto al totale dei partecipanti, quelli di maggior interesse risultano lo sport (3.73), la tecnologia (3.51) e attualità (3.30). Tuttavia, confrontano maschi e femmine
risultano differenze statisticamente significative: le femmine mostrano
di preferire argomenti specifici come ad esempio cultura e spettacolo, estetica, moda e gossip. I maschi prevalentemente politica, natura
e scienza, sport e tecnologia.
Circa le altre attività, il 68% dichiara di navigare su internet quotidianamente e il 63,6% di ascoltare musica da solo/a tutti i giorni. Lo sport
è invece praticato prevalentemente 2–3 volte la settimana (44%). Osservando le altre attività, emerge come il 30% dichiari di non leggere
alcun libro (escludendo quelli scolastici), a fronte di un 13,5% che
invece dichiara di leggere ogni giorno. Lo shopping è un’attività a cui
ci si dedica in maggioranza 1 o 2 volte al mese (50.3%). Il 70.6% va
al cinema 1–2 volte al mese mentre risulta molto bassa la percentuale
Figura 5 – Attività nel tempo libero/Divertimento (medie)
6
5
4
3
2
1
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e
dar
uar
Maschi
Femmine
83
di fruizione di discoteche e concerti: il 47.7% non si vi si reca mai (il
37.2% 1–2 volte al mese).
Tra le attività nel tempo libero che vengono indicate come più divertenti ottengono punteggi elevati la navigazione su internet, ascoltare
musica da solo/a e fare sport. Rispetto al tempo dedicato emerge una
notevole differenza con il divertimento che l’attività offre, ad esempio
poter andare al cinema, in discoteca o ai concerti e fare shopping.
Il tempo dedicato a guardare la televisione non sembra coincidere
con il divertimento che questa attività può offrire, quindi inferiore non
soltanto a internet, ascoltare musica da solo/a e sport, ma anche al
divertimento offerto dal cinema, anche se i ragazzi vi si recano in misura molto minore (Figura 5).
Nel complesso, su una scala da 1 a 5, la soddisfazione generale percepita per il proprio tempo libero risulta piuttosto alta.
5.2. Il gioco d’azzardo
Ai partecipanti è stato chiesto a quali giochi avessero giocato e di
indicare la frequenza di gioco e la spesa media giocata. In questo
modo è stato possibile rilevare la possibile “vicinanza” con alcuni giochi piuttosto che altri (Figura 6).
Gratta e vinci (60%) e Carte (con denaro) (54%) risultano essere i
giochi ai quali la maggioranza dei partecipanti ha giocato almeno
una volta. Il 40% ha giocato almeno una volta al Superenalotto ed il
32% a biliardo mentre percentuali inferiori si sono osservate circa le
scommesse sportive in generale (22%), il Win for Life (19%) e Totocalcio (18%). Occorre rilevare come sia necessario un approfondimento
circa le scommesse sportive in quanto queste sono vietate ai minori,
ad esempio, nelle sale gioco Snai. In tal senso è possibile che tra
coloro che hanno risposto affermativamente a questa domanda siano presenti anche soggetti che scommettono informalmente con gli
amici e nel gruppo dei pari. I giochi considerati “classici” come il Tris
e Totip (4%), Bingo (11%) e Lotto (14%) risultano essere meno utilizzati. Sebbene le percentuali siano di poco superiori, occorre evidenziare la presenza di un rilevante 10.5% e 11% per quanto riguarda
rispettivamente i giochi online e le slot machine. Sono emerse alcune
84
differenze di genere circa il gioco: i maschi sembrano maggiormente orientati a giochi in cui è presente lo sport, come le scommesse
sportive o il totocalcio–totogol ma anche i giochi on–line e il biliardo.
Figura 6 – Giochi ai quali ha giocato almeno una volta (percentuali per genere)
Win For Life
19%
Slot Machine
11%
Giochi on-line
10,5%
32%
Biliardo
Carte
54%
11%
Bingo
60%
Gratta e Vinci
Lotto
14%
22%
Scommesse sportive
18%
Totocalcio-Totogol
Tris-Totip
4%
40%
Superenalotto
Maschi
Femmine
Le femmine risultano essere coloro che invece hanno più “affinità” coi
giochi classici (Bingo e Lotto).
Sebbene il “gratta e vinci” sia il gioco col quale si è avuto almeno
un’esperienza, esso non risulta quello più frequentemente utilizzato.
Rispetto a chi gioca al gratta e vinci, il 52% lo fa in media una volta al
mese o meno ed il 5% almeno otto volte al mese.
Il gioco col quale è probabilmente più facile giocare con maggior
frequenza risulta essere quello on–line: circa il 30% di chi gioca on
line lo ha fatto almeno 8 volte al mese. Alle slot machine, il 58% gioca
una volta al mese o meno anche se il 28% di questi dichiara di giocarci circa 2–4 volte al mese. La frequenza di gioco più bassa si è
osservata per il superenalotto, al quale il 72% gioca una volta al mese
o meno. Le scommesse sportive risultano effettuate prevalentemente
85
2–4 volte al mese (41%) o una volta al mese (38%).
La percentuale più elevata in riferimento alle giocate più alte (Figura
7) (20 euro o più) si rileva per i giochi on–line: in questo gruppo, l’11%
ha dichiarato di spendere almeno 20 euro a volta, comprese le eventuali quote di inscrizione ove presenti.
Figura 7 – Spesa media a giocata (percentuali)
Win For Life
Slot Machine
Giochi on-line
Biliardo
Carte
Bingo
Gratta e Vinci
Lotto
Scommesse sportive
Totocalcio-Totogol
Tris-Totip
Superenalotto
0
20
Maschi
40
60
80
100
Femmine
Una percentuale relativamente alta per le giocate maggiori si osserva
con le slot machine, pari al 6% di coloro che hanno dichiarato di averci giocato (il 36% da 5 a 10 euro).
Le giocate più basse si trovano per il gratta e vinci per il quale l’87%
spende meno di 5 euro. Considerando il numero totale dei partecipanti, la frequenza di gioco più elevata, pari ad almeno 8 volte al
mese, si è osservata per le carte (8%), il biliardo (3%), i giochi on line
(3%) e il “gratta e vinci” (2.7%). Le percentuali più elevate relative alla
spesa più alta a giocata (20 euro o più) risulta essere per i giochi on
line (1%) e slot machine (0.6%).
86
L’utilizzo della scala Sogs–Ra per il gambling ha permesso di individuare tre gruppi, suddivisi in base al livello di problematicità circa i
comportamenti legati al gioco d’azzardo (Figura 8).
Figura 8 – Risultati scala per il comportamento di gioco
3%
9%
Nessun problema 68% (350)
A rischio 20% (101)
Gioco Problematico 9% (47)
Missing 3% (13)
20%
68%
Dai risultati emerge come il 68% dei partecipanti non abbia alcun
problema rispetto al gioco, il 20% risulta a rischio ed il 9% ha dichiarato comportamenti che possono indicare una tendenza ad un rapporto con il gioco d’azzardo di tipo problematico. Rispetto al genere
si nota come il 73% del gruppo a rischio sia composto da maschi, in
misura simile anche nel gruppo dei partecipanti con comportamenti
problematici la maggioranza risulta composta da maschi (72%).
Rispetto ad alcuni comportamenti emergono aspetti di particolare interesse: il 17% del totale dichiara di aver speso più di quanto aveva
pianificato (il 66% nel gruppo problematico e il 2.6% nel gruppo con
nessun problema); il 24% si è preoccupato almeno una volta della spesa effettuata per il gioco (il 77% nel gruppo problematico e il
10% nel gruppo con nessun problema); il 13.6% ha dichiarato di aver
avuto almeno una volta discussioni in famiglia per il denaro speso
per giocare (il 65% nel gruppo problematico, il 3.4% nel gruppo con
nessun problema); il 6% talvolta è tornato a giocare nel tentativo di recuperare i soldi persi in precedenza (il 26% nel gruppo problematico
e lo 0.6% nel gruppo con nessun problema).
Pur non essendo significative da un punto di vista statistico, appare
comunque rilevante come coloro che si collocano nel gruppo con
87
comportamenti di tipo problematico percepiscano livelli più alti del
proprio benessere economico familiare, sia rispetto al gruppo “a rischio” che di quello non a rischio.
5.3. L’uso di internet
La presente sezione è dedicata alle modalità di utilizzo di internet,
con particolare rigua rdo ai risultati rilevati dalla scala Internet Addiction Test –Iat (Young, 1998). Sono state inoltre indagate le diverse
modalità di utilizzo per comunicare con gli amici: su una scala di
preferenza da 1 (per nulla) a 5 (moltissimo), l’utilizzo di messaggeria istantanea (es. chat, Facebook, Twitter, ecc.) ottiene il punteggio
medio più elevato. In misura minore risulta l’utilizzo del telefono e/o
del cellulare e sms. Molto al di sotto della media si trovano invece le
videochiamate e gli mms.
Il 53% dei partecipanti dichiara di utilizzare internet in media per sessioni da 1 a 3 ore, il 21% da 3 ore fino ad oltre 6 ore mentre il 25%
meno di una ora. Sul totale dei partecipanti, il 42% dichiara di utilizzare internet da 1 a 3 ore ogni giorno, il 14% tutti i giorni da 3 a 5 ore
(Figura 9).
Figura 9 – Tempo medio al giorno dedicato a internet
7%
25%
Da 3a 5 ore 15%
6 ore o più 7%
Meno di 1 ora 25%
Da 1 a 3 ore 53%
53%
15%
Ai partecipanti è stato chiesto di indicare, su una scala da 1 (mai) a
5 (molto spesso), il tempo dedicato ad alcune attività su internet (Figura 10). Quella prevalente risulta essere l’utilizzo dei social network
come Facebook o Twitter (3.98), le chat (3.94) e il download di musica
88
e video (3.58). Meno utilizzati risultano essere la gestione di un blog
(2.04) e l’attività di acquisti on–line (1.42).
Attraverso la statistica T di Student sono state rilevate differenze statisticamente significative rispetto al genere sulle diverse attività (Figura
3). Le femmine risultano passare più tempo rispetto ai maschi per
l’utilizzo della posta elettronica, social network, chat e blog, navigare
per motivi di studio. I maschi invece sembrano dedicare più tempo
agli acquisti on line e ai videogiochi. Non risultano differenze statisticamente significative nelle modalità di utilizzo per quanto riguarda il
download, vedere film e cercare informazioni.
Figura 10 – Attività su internet: differenze di genere (da 1 = mai a 5 = molto spesso)
5,0
Maschi
Femmine
4,5
4,0
3,5
3,0
2,5
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V
Dow
L’analisi dei dati ottenuti dalla somministrazione della scala Internet
Addiction Test (Iat), ha permesso di rilevare una percentuale piuttosto
rilevante di coloro che possono essere considerati a rischio circa l’utilizzo di internet: il 39% dei partecipanti risulta infatti collocarsi in questo gruppo. Una percentuale minore sono coloro che risultano utiliz-
89
zare internet in modo problematico (4%). Il 50% risulta non a rischio.
Poiché il gruppo a rischio risulta essere numericamente consistente, è su questo che occorre porre attenzione al fine di comprendere
meglio gli aspetti che caratterizzano un utilizzo di internet che può,
talvolta, diventare problematico. Nonostante il gruppo a rischio sia
composto in prevalenza da maschi (59%), all’interno dei due generi
si osservano percentuali diverse: vi fanno parte il 47% delle femmine
e il 39% nei maschi.
Al fine di svolgere confronti di tipo statistico tra i gruppi, e considerando la bassa rappresentatività del gruppo problematico, in sede di
analisi è stato deciso di considerare soltanto i gruppi “non a rischio”
e “a rischio”.
Come è possibile osservare dalla Figura 11, in quasi tutte le attività
su internet il gruppo a rischio e quello non a rischio si differenziano
rispetto al tempo di utilizzo, che è maggiore in quello a rischio.
Soltanto per attività come lavoro/studio e informazione non risultano
Figura 11 – Attività su internet: differenze tra gruppi "a rischio" e "non a rischio"
(da 1 = mai a 5= molto spesso)
5,0
4,5
4,0
3,5
3,0
2,5
2,0
1,5
1,0
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Blo on-lin
i
h
c
Gio
Nessun rischio
A rischio
90
differenziare i due gruppi, probabilmente anche perché sono quelle a
cui in generale viene dedicato meno tempo da tutti i partecipanti.
Le analisi correlazionali hanno permesso di individuare relazioni abbastanza forti da un punto di vista statistico tra il livello di problematicità dell’utilizzo di internet ed alcune attività specifiche.
Un utilizzo maggiore di chat, social network e blog corrispondono
infatti a punteggi più elevati nella scala Internet Addiction Test – Iat.
Questo risultato sembra far emergere come le funzioni relazionali di
internet, oltre ad essere tra le modalità di utilizzo della rete considerate più attrattive dai giovani, sono anche quelle che potrebbero
in alcuni casi essere correlate ad un comportamento orientato alla
dipendenza. Occorre rilevare anche la presenza di una relazione statisticamente significativa tra punteggi elevati sulla scala Iat e minore
soddisfazione circa le modalità d’uso del proprio tempo, mentre è
positiva la relazione con l’uso di internet come attività ricreazionale.
5.4. Lo shopping
Rispetto ai comportamenti di acquisto, il 53% dei partecipanti all’indagine dichiara di seguire una moda.
Alla domanda sui criteri di scelta del prodotto, tuttavia, il 65% dichiara
di acquistare un oggetto sulla base delle proprie necessità (“perché
mi serve”) e soltanto il 16% perché va di moda. Molti meno (2%) perché hanno seguito le indicazioni della pubblicità o perché un determinato bene è posseduto da un amico (3%).
Anche se le differenze non sono elevate, coloro che hanno dichiarato
di fare acquisti sulla base di una moda tendono comunque a passare più tempo a fare shopping degli altri (una volta a settimana o due
volte al mese) ed attribuiscono a questa attività livelli di divertimento
più elevati.
Nonostante siano pochi coloro che dichiarano di fare acquisti in base
alla pubblicità, il 56% qualche volta si aspetta che il prodotto, una
volta acquistato, sia effettivamente quello descritto nel messaggio
pubblicitario; sempre uguale per il 15% mentre non crede invece che
la pubblicità rispecchi realmente il prodotto il 27% (Figura 12).
Prevalentemente, la quantità di soldi spesi settimanalmente per i pro-
91
pri acquisti è di circa 10 euro (10%) o 20 euro (11.5%), in misura minore 50 euro o più (8%). Occorre sottolineare come la relativamente
bassa età dei partecipanti comporti una gestione del denaro mediata spesso dai genitori. Pertanto, nella valutazione dei risultati emersi
circa i comportamenti di shopping è opportuno considerare anche
questo aspetto.
Figura 12 – Si aspetta che il prodotto sia come appare nella pubblicità
2%
15%
27%
Si 15%
A volte 56%
Non risponde 2%
No 27%
56%
I risultati emersi dalla Scala sullo Shopping Problematico (Ssp) sembrano indicare come non vi sia una particolare presenza di problemi
riguardanti lo shopping tra i partecipanti all’indagine: soltanto il 3%
ottiene punteggi che si collocano nella sfera dei comportamenti a
rischio ma non problematici.
Al fine di approfondire questo risultato rispetto alle variabili considerate è necessario osservare l’andamento dei punteggi sulla scala rispetto ad alcune variabili come il genere e gli stili di vita legati ai
comportamenti di acquisto. Emerge una differenza statisticamente
significativa tra maschi e femmine: quest’ultime ottengono punteggi
significativamente più alti rispetto ai maschi, in particolare sulle dimensioni Aspetti reattivo–impulsivi e Regolazione dell’umore, ovvero
modalità di acquisto percepite come improvvise e spontanee a cui
è difficile resistere, o motivate dalla convinzione di poter far fronte a
situazioni stressanti e spiacevoli attraverso lo shopping.
Coerentemente con quanto presente il letteratura, emergono relazioni
statisticamente significative tra la propensione allo shopping e il tem-
92
po dedicato a seguire trasmissioni in tv che trattano di moda, tempo
dedicato allo shopping e interesse verso articolo di giornali e/o riviste
di moda.
Rispetto alla pubblicità, anche in questo caso i risultati confermano
come questa sia legata alla propensione al comportamento di acquisto, che risulta correlato alla piacevolezza verso i messaggi pubblicitari sia sui giornali che su internet, alla credibilità del messaggio
(la pubblicità rispecchia fedelmente il prodotto) e all’influenza che
esercitano alcune fonti come ad esempio i personaggi famosi (ad
esempio dello sport, della musica e dello spettacolo).
Come per i comportamenti circa l’uso di internet, la propensione allo
shopping risulta essere correlata negativamente con la soddisfazione
generale verso il proprio tempo libero, ma positivamente con la percezione di divertimento che tale attività riveste per alcuni partecipanti. Occorre anche evidenziare come sussista una relazione positiva
tra alti punteggi circa la propensione allo shopping e elevati punteggi
sulla scala che misura i livelli di problematicità di internet.
6.
Riflessioni e conclusioni
Gioco d’azzardo, internet e shopping occupano un ruolo di primo piano tra i comportamenti problematici in riferimento alle “nuove dipendenze”, sia per la crescente diffusione che per l’impatto che hanno,
soprattutto tra i giovani, nelle dimensioni socio–relazionale, scolastica
e familiare (Goldberg, 1996; Young, 1996). Tali dipendenze si manifestano nell’urgente bisogno di praticare l’attività fino ad arrivare a
compromettere l’esistenza della persona, ivi compreso il suo sistema
relazionale, fino a costituirsi in vere e proprie patologie. La presente
indagine si è posta l’obiettivo di esplorare, da un punto di vista psicosociale, le modalità attraverso le quali si esprimono i suddetti comportamenti nel quadro più generale degli stili di vita giovanili.
Una riflessione generale che preme fare rispetto a quest’area di analisi riguarda la difficoltà a trovare canali comunicativi che mettano in
contatto differenti generazioni, come emerge dalle riflessioni degli insegnanti. Mentre esistono percorsi formativi e modelli di intervento
consolidati in merito ai comportamenti relativi al bullismo, all’utilizzo
93
di sostanze legali o illegali, e più in generale verso la promozione
della salute negli adolescenti, meno presenti risultano essere quelli
legati alle cosiddette “nuove dipendenze”. In parte perché si tratta
di fenomeni relativamente nuovi e gli strumenti di osservazione e di
studio sono tutto sommato recenti; inoltre si tratta di comportamenti
che rientrano tra quelli socialmente accettati, perciò di difficile individuazione anche quando si parla di uso problematico.
Un aspetto che emerge dall’indagine è in primo luogo l’importanza di
individuare un “perimetro di comportamenti” in un quadro più generale che tenga conto degli stili di vita complessivi degli adolescenti,
comprese le relazioni tra pari e il sistema familiare. La famiglia e gli
insegnanti risultano e si confermano come i due attori principali nel
contesto di vita dell’adolescente, anche in funzione della rilevazione
di comportamenti problematici circa le dipendenze senza sostanze.
È pertanto evidenziabile l’importanza di un agire comune tra professionisti, sistema scolastico e familiare.
I dati emersi dai questionari sono comunque in linea con quelli presentati dalle indagini nazionali e internazionali, considerando comunque
che la quota di persone che rientrano nelle percentuali con comportamenti problematici ha una tendenza ad aumentare. Rispetto al gioco con il denaro appare rilevante la familiarità dei giovani partecipanti
ad alcune tipologie di gioco, il primo luogo il “gratta e vinci”, ma anche quelli disponibili su internet. Si tratta dunque di modalità di gioco
facilmente comprensibili e immediate, non sono richieste particolari
abilità e la cui accessibilità appare sempre maggiore (basti pensare
ai distributori automatici di “gratta e vinci” o alla possibilità di giocare
on–line direttamente da casa). Giocare è sempre stata un’attività piacevole per l’uomo, e se estendiamo questo concetto alla collettività è
evidente come alcuni giochi esprimano anche la cultura a cui appartengono (Pani & Biolcati, 2006). D’altra parte il rischio, come concetto
mediato dai mezzi di comunicazione, è prevalentemente presentato
come appartenente alla dimensione giovanile e sinonimo di coraggio
e intraprendenza, oltre che di efficienza. Esso è anche parte integrante del gioco d’azzardo (Breen & Zuckerman, 1999) e si coniuga
con l’idea che il successo non dipenda dalla costruzione di percorsi
94
di impegno ma da “salti” economici e sociali determinati dalla vittoria
(Le Breton, 1991).
Come si è visto, infatti, un gioco che ottiene un discreto interesse
è il Superenalotto, per il quale sono in palio vincite molto elevate.
Un aspetto integrante del gioco d’azzardo è l’illusione di controllo,
fenomeno psicologico che è presente nella vita di ogni individuo e
come costrutto particolarmente rilevante nella fase adolescenziale,
soprattutto in riferimento ai comportamenti a rischio: i risultati della
nostra indagine hanno evidenziato come una percentuale importante
dei partecipanti (il 17%) almeno una volta ha speso più di quanto aveva previsto e il 24% si è preoccupato della spesa effettuata. Il fascino
del rischio e l’illusione del controllo sono pertanto fattori che, nello
sviluppo di strategie di intervento orientate a promuovere una cultura
“sana” del gioco, dovrebbero essere presi in considerazione.
Occorre fare una riflessione sul rapporto tra gioco d’azzardo e internet: l’accesso on–line permette in linea generale una disponibilità di
gioco costante, e soprattutto svincolata da eventuali freni inibitori e
pratici perché si tratta di un’attività svolta come rituale solitario, slegata da quella che è la dimensione relazionale del gioco d’azzardo
e non. Relazioni che però, in riferimento alla presente indagine, sono
l’elemento che maggiormente attrae i giovani verso internet. Il rapporto tra giovani e internet sembra definirsi quindi nell’uso relazionale che questo strumento permette (gli utilizzi prevalenti sono quelli
di messaggeria istantanea ed i social network), continuo nel tempo
e nello spazio. Si è osservato come un maggior utilizzo di internet
non corrisponda ad una percezione migliore del proprio tempo libero
bensì al divertimento specifico che tale attività comporta, in una sorta
di avvitamento su di sé alla ricerca di un piacere che si focalizza su
un’unica attività. Il cyberspazio è infatti una dimensione immateriale
in cui comunicare senza limiti ma anche un possibile contenitore di
emozioni a cui attingere nei momenti di noia e di monotonia (Cantelmi, Del Miglio, Talli, D’Andrea, 2000). Rispetto al tempo, il 14% dei
partecipanti ha dichiarato di stare su internet tutti i giorni da 3 a 5 ore,
dunque un’attività ludica rischiosa nella misura in cui sottrae nell’immediato una quantità di tempo crescente alla formazione e allo svi-
95
luppo sociale degli adolescenti e nella misura in cui può evolvere nel
tempo in una dipendenza comportamentale.
Come per il gioco d’azzardo e internet, anche lo shopping va considerato un comportamento che poggia le proprie basi su cambiamenti
economici, sociali e culturali degli ultimi anni.
Le modalità problematiche di tale comportamento hanno assunto recentemente un’attenzione sempre maggiore da parte dei mass media,
soprattutto nei confronti dei consumatori più giovani (Dittmar, 2001).
Dai risultati osservati, in media si dedica allo shopping un giorno a
settimana, molto probabilmente nel weekend e la spesa effettuata
è in relazione all’età, ovvero alla disponibilità di denaro mediata dai
genitori. Generalmente si assiste all’emersione di un comportamento
problematico in merito allo shopping in torno ai 17 anni e soprattutto
con un’elevata incidenza nella popolazione femminile (Christenson,
Faber, deZwaan, 1994). Sono le femmine che in prevalenza risultano
essere più attratte dallo shopping anche per quanto riguarda la presente ricerca, anche se non vi sono differenze rispetto alle modalità
di acquisto determinate dalla moda.
La pubblicità sembra svolgere un ruolo di primo piano, in quanto oltre la metà (56%) ha dichiarato di aspettarsi che essa rispecchi il
prodotto comprato per quello che realmente è. Occorrerebbe approfondire come questo aspetto si coniughi però con un comportamento
d’acquisto auto percepito come responsabile, infatti il 65% afferma di
comprare un bene soltanto perché gli serve, e solo il 2% perché l’ha
visto in una pubblicità.
Emerge anche la funzione dello shopping come attività a cui si attribuisce un certo ruolo nel ridurre la tensione emotiva o lo stress derivanti da situazioni considerate spiacevoli.
A conferma di quanto presente in letteratura, la propensione allo shopping risulta essere correlata al tempo dedicato a seguire argomenti di
moda riportati dai mezzi di comunicazione di massa come giornali e
tv, frequenza dei comportamenti d’acquisto e attrazione/piacevolezza
verso i messaggi pubblicitari. Questi aspetti, al di là della presenza
di un comportamento patologico, possono essere fattori su cui porre
attenzione nella formulazione di interventi di tipo preventivo.
96
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105
Capitolo 3
L’auto aiuto: un possibile intervento per le nuove
dipendenze
Giovanni Delacqua, Elisa Parentini
1.
L’auto aiuto: definizione e storia
Un gruppo di auto mutuo aiuto nasce quando due o più individui decidono di unire le loro risorse per far fronte ad un problema specifico.
Le persone si incontrano, raccontano le esperienze personali, cercano di trovare eventuali soluzioni. Vengono rafforzati i rapporti interpersonali, si cerca di ristabilire un nuovo equilibrio nella vita quotidiana
al fine di modificare, adattarsi o migliorare la propria condizione di
sofferenza. Le persone che hanno un problema mettono a disposizione dei propri simili l’esperienza e le competenze acquisite nel vissuto
di sofferenza. Tutti i gruppi sono fortemente orientati al miglioramento
della qualità di vita, cercano di trovare strategie per modificare situazioni disadattive, o assumono un ruolo di pressione sociale e politica
nella comunità in cui operano.
Quello di auto aiuto è un gruppo formato da persone che condividono
un medesimo disagio, situazione di vita o condizione particolare il cui
obiettivo è quello di fornire aiuto reciproco per fronteggiare problematiche comuni.
Differenti dai gruppi terapeutici, dove si mira a raggiungere obiettivi
di cura, nei gruppi afferenti alla filosofia del self help l’unico valore
terapeutico è rappresentato dalla ‘relazione’ che risulta un elemento
chiave per favorire risorse in favore dell’individuo e del gruppo stesso. I gruppi di auto aiuto supportano e danno senso agli individui
restituendo loro una competenza, un ruolo individuale e collettivo.
Sembra chiaro che la potenzialità dell’auto aiuto risiede nel fatto che
fornisce la maggior parte delle funzioni di sostegno sociale alle persone che hanno particolari motivi per averne bisogno e, probabilmente, è proprio grazie alla specifica conoscenza dei problemi comuni
che vengono forniti diversi tipi di sostegno sociale, in modi e secondo
tempi appropriati.
106
Elenchiamo di seguito cinque delle modalità di aiuto che i gruppi di
auto e mutuo aiuto possono dare e ricevere e che sono distintive rispetto ad altre organizzazioni:
• supporto emotivo: lo scopo è quello di superare l’isolamento, la
confusione, il disorientamento che la gente percepisce intorno
a sé, attraverso il dialogo e lo scambio esperenziale su base
individuale e/o collettiva.
• Sostegno informativo: ovvero la comprensione dei problemi in
atto attraverso una loro definizione e chiarificazione anche negli aspetti più tecnici oltre che in quelli emotivi (ad esempio
notizie sui metodi di cura, sui servizi statali e non, sulle risorse
disponibili interne e/o esterne al gruppo); ciò può essere di
aiuto a rendere meno confusa la visione che il membro ha della
sua situazione.
• Servizi diretti: il gruppo di self–help può fornire alcune forme di
aiuto pratico, sia su basi formali (ad esempio servizi quali gruppi gioco per bambini, in particolare per gli handicappati, campi
scuola) che informali (servizio di baby–sitter, trasporto ecc.).
All’interno dei gruppi quasi sempre sorgono spontaneamente
amicizie solide e durature, che vanno a rafforzare il sostegno
emotivo e l’efficacia della mutualità.
• Attività sociali: sono considerate da molti gruppi come parte
integrante della finalità dell’organizzazione stessa, soprattutto
per i gruppi di lunga durata e con caratteristiche di multifunzionalità; comprendono gite, feste, le riunioni formali o informali tra
i membri, ovvero tutte quelle attività che rimandano all’occupazione del tempo al di fuori degli incontri. Il coinvolgimento personale in tali attività di riferisce alla sperimentazione di nuove
modalità di azione e di nuovi modi di sentire e trasmettere i propri vissuti, cosicché l’esperienza diventi forma di conoscenza,
strumento di elaborazione cognitiva e affettiva.
• Attività di advocacy: molti gruppi nascono dalla convinzione
che i servizi, sia del sistema pubblico, sia delle organizzazioni
di volontariato o di terzo settore, non siano adeguati alla complessità delle loro situazioni problematiche. La loro esistenza e
107
le loro iniziative sono volte a intraprendere misure che apportino cambiamenti all’interno dei servizi. Altri gruppi tendono però
a sviluppare relazioni collaborative con il sistema dei servizi,
anche in virtù dei vantaggi che si guadagnano (facilitazioni,
sussidi, spazi di ritrovo ecc.).
Gli scopi dei gruppi di auto aiuto si possono riassumere in tre elementi, ciascuno di essi prevede una netta interazione e una profonda
interdipendenza tra dimensione individuale e dimensione sociale. I
gruppi favoriscono e creano adattamento in quanto permettono di
comprendere, riconoscere e, quindi superare condizioni stressanti o
crisi esistenziali dipendenti dallo stato patologico della persona.
Il fine è quello di aiutare l’individuo ad adattarsi alla sua condizione
disabilitante, pensandola una normale esperienza di vita, o apportarvi
dei cambiamenti per renderla più positiva e soddisfacente. Nell’ottica
del benessere individuale il gruppo viene vissuto come un’esperienza
emozionale positiva e come esso partecipa al rafforzamento del benessere psicologico. L’appartenenza al gruppo, poi, regola la qualità
delle relazioni sociali dell’individuo nell’ambito della propria comunità
e società e lo stesso funzionamento del singolo al loro interno.
I gruppi di auto e mutuo aiuto assolvono anche la funzione di advocacy in quanto, oltre a contribuire alla riappropriazione delle abilità
professionali, migliorano il destino sociale dei membri, creano difesa
sociale e promuovono i diritti di cittadinanza. Come già detto, la loro
azione è principalmente preventiva, nella diffusione e miglioramento
dei fattori protettivi primari.
In sintesi, ciò che si svolge all’interno dei gruppi di auto e mutuo aiuto
è un processo di empowerment, ovvero un processo di incremento
delle abilità individuali nel controllare attivamente la propria vita, fino
a raggiungere un livello di autoefficacia che permetta l’autogestione
e la autorealizzazione.
Il punto di partenza dei partecipanti è definibile come una condizione
di passività, un sentimento di impotenza acquisita, un tipo di risposta
che il soggetto mette in atto quando si rende conto di non potere padroneggiare avvenimenti centrali della propria esistenza, valutandoli
esterni alla propria capacità di controllo.
108
L’obiettivo è l’acquisizione della fiducia in sé, derivante dal controllo
sugli eventi tramite la partecipazione e l’impegno nella propria comunità.
Tramite dinamiche di personalità, cognitive e motivazionali, il processo di empowerment tende a valorizzare un protagonismo interno positivo e la fiducia negli altri; si riscopre il significato di potere, quello
insito nella persona, legato alla possibilità di essere e di fare, di scegliere e di interagire al meglio con il mondo circostante.
In sintesi, le realizzazioni concrete dell’auto aiuto risultano spesso
un rimedio all’inefficacia dei servizi, funzionando come una variabile
complementare nonché totalmente gratuita; sotto questa veste si può
affermare che l’auto aiuto diventa particolarmente utile in quanto va
ad occupare gli spazi vuoti dell’insufficienza terapeutica.
L’auto mutuo aiuto può essere un potente agente di cambiamento sia
a livello personale che sociale; la sua particolare modalità di funzionamento dà, a chi la utilizza e la impiega, la possibilità di diventare
attore principale della propria vita. Una tale visione, nel tempo può
assumere una valenza più ampia arrivando a modificare il contesto
sociale in cui l’individuo vive.
L’auto mutuo aiuto ha in sé tutti i requisiti per promuovere una nuova
cultura, fornisce gli strumenti per far sì che i cambiamenti non siano
bloccati nello spazio e nel tempo, ma si dilatino verso ambiti sempre
più vasti dell’esistenza di una persona, così come accade quando si
getta un sasso in uno stagno: le onde si allargano sempre più.
Il disagio e l’emarginazione sono dovunque; in questa situazione l’auto mutuo aiuto trova la forza di smuovere gli aspetti validi di ciascuno,
di risvegliare le potenzialità positive dei singoli, di dare fiducia e speranza a chi l’ha persa e convincere tutti dell’urgenza e dell’importanza di divulgare queste scoperte per il raggiungimento di una migliore
qualità della vita.
Naturalmente si tratta di una modalità di intervento differente da quella tradizionale (medico–paziente), ma non per questo le due tipologie
devono essere per forza incompatibili. Questo concetto è molto importante, in quanto è auspicabile l’integrazione tra i due tipi di interventi.
È insostenibile infatti che l’auto aiuto sia l’unica strada percorribile
109
anche se l’effetto benefico che produce è notevole; allo stesso modo
l’intervento classico può essere maggiormente efficace se affiancato
dal sostegno di un gruppo. Un intervento basato su un sostegno legato al rapporto operatore–utente coniugato a un confronto fra pari
può essere davvero fondamentale ai fini della buona riuscita della
relazione di aiuto.
A livello storico, è in seguito alla rivoluzione industriale e a tutti í problemi sociosanitari ad essa collegati, che si svilupparono, in forma
ancora primitiva, i primi esperimenti di mutualità: per esempiole Friendly Society (gruppi di lavoratori nati in Inghilterra uniti per fronteggiare le necessità quotidiane). Ma rimaniamo nel mondo anglosassone,
più precisamente negli Usa e mandiamo avanti la linea del tempo al
1935: è in questa dimensione storica che nasce, per la prima volta,
un vero gruppo di auto aiuto, gli Alcoholist Anonymous (AA) che poi
diventeranno anche il gruppo più famoso nell’immaginario collettivo e
pionieri di un grande movimento internazionale.
La società statunitense, in quel periodo, era attraversata da profondi
tumulti in seguito alla crisi economica del ‘29, causata dal crollo della
borsa di Wall Street, dalla quale scaturì la Grande Depressione; ed
è in questo quadro allarmante che bisogna far risalire la nascita dei
gruppi di auto aiuto: in risposta cioè a una richiesta di sostegno sempre più marcata nella popolazione. In parallelo alla nascita di questo
primo gruppo, si sviluppa il concetto stesso del self–help che comprende il principio secondo cui possiamo aiutare meglio noi stessi
mentre aiutiamo gli altri, condividendo così le stesse esperienze e
il medesimo problema. Il fenomeno si estese con rapidità negli Stati
Uniti, nello stesso anno nacque un gruppo per genitori con figli portatori di handicap e uno per familiari di persone psichiatriche. L’auto
aiuto ha il massimo picco d’incidenza, nel mondo anglosassone, sul
finire degli anni ‘60, mentre negli anni ‘70 si assiste a un forte sviluppo di questi gruppi in Europa sotto la spinta del fermento culturale
dì quegli anni, attraversati dai movimenti per i diritti umani e delle
donne. Il proliferare della mutualità è collegata anche alla cosiddetta
“crisi del welfare state” di quegli anni, in risposta cioè ad una sempre
maggior richiesta di servizi personalizzati e di più attenzione ai pro-
110
blemi delle persone. Il fenomeno, dopo un forte sviluppo nei paesi
anglosassoni, si è esteso prima ai paesi nordici e, successivamente,
al resto dell’Europa.
In Italia i gruppi di auto mutuo aiuto (Ama) si sviluppano a partire dagli anni ‘70 e le prime esperienze in questo senso sono: gli “alcolisti
anonimi”, “i club degli alcolisti in trattamento” e ancora gruppi per
diabetici, neuropatici, obesi e familiari di tossicodipendenti.
Riportiamo infine una definizione, ormai ampiamente accettata e diffusa in tutta Europa, che riesce a dare un’idea del fenomeno vasto e
in continua evoluzione dell’auto mutuo aiuto o self–help:
i gruppi di auto aiuto sono associazioni di persone, perlopiù a
carattere volontario, più o meno strutturate, le cui attività mirano
a controllare e superare disordini e problemi psicologici o sociali
di cui soffrono loro stessi o i propri parenti. Il loro scopo è quello
di apportare un miglioramento nelle condizioni di vita personali
e, spesso, anche cambiamenti nell’ambiente politico e sociale. Il gruppo costituisce un mezzo per porre fine all’isolamento
esterno (diciamo sociale) e interno (personale, mentale). La conoscenza e l’esperienza costituiscono le fondamenta dei loro
atti. Pertanto, essi si distinguono da altre forme di volontariato o
azioni di cittadini. I gruppi di auto aiuto non vengono gestiti da
professionisti, anche se molti di essi si avvalgono dell’aiuto di
professionisti per aree di lavoro specifiche.
2.
I gruppi di auto aiuto
Abbiamo detto che i gruppi di auto aiuto sono unità solitamente di medie dimensioni (massimo 15 persone), costituite su base volontaria,
composte da membri alla pari che condividono lo stesso problema e
che per questo cercano di promuovere autonomamente azioni dì cura
e cambiamento. La condivisione è un concetto caro all’auto aiuto coniato da Robinson nel 1980, con il quale appunto si sottolinea come
l’effetto benefico della mutualità sia dovuto all’incontro degli individui
e dei loro percorsi di vita. I partecipanti, trovandosi a contatto con
persone che condividono con loro il medesimo disagio, cercano di
raccontare le proprie storie e di trovare nell’altro il sostegno e l’ascolto
reciproco. La forza delle esperienze di auto aiuto è racchiusa nell’effetto positivo dell’azione partecipata dei singoli su altri singoli che
si confrontano, mettono a disposizione il proprio vissuto, la propria
111
esperienza e che, insieme, crescono. Il concetto fondante dell’auto
aiuto è l’helper, racchiuso nel principio secondo cui aiutando gli altri
si aiuta anche un po’ noi stessi e da qui la volontà di portare alla luce
la capacità di tirare fuori le proprie risorse e nel contempo attivare
quelle degli altri. L’espressione auto aiuto viene completata dalla parola “mutuo” che esprime con più chiarezza proprio la caratteristica
pregnante di questi gruppi, la mutualità appunto, che contiene l’idea
dì uno scambio assolutamente reciproco.
Le tre parole chiave dell’auto aiuto sono:
• attivazione;
• condivisione;
• reciprocità.
Il buon funzionamento di un gruppo di auto aiuto è legato alle seguenti peculiarità:
• fornisce supporto emotivo e informazioni riguardo allo specifico problema di cui si occupa;
• il gruppo funziona per i suoi membri e grazie ad essi;
• il gruppo è aperto (per la maggior parte delle volte) all'entrata
di nuovi membri;
• il gruppo si incontra regolarmente durante l'anno;
• la partecipazione è gratuita;
• il gruppo deve essere di facile accesso per le persone e le famiglie.
Questi gruppi propongono la teoria dell'helper therapy che individua
come la reciproca condivisione del problema (tra un collettivo di persone accomunate dal medesimo bisogno) sia utile per permette agli
individui di dare aiuto mentre se ne riceve; chi cerca di modificare
un’altra persona modifica anche se stesso (aiuto riflesso). L’helper
therapy opera su tre livelli:
• soddisfazione interiore: che deriva dal fatto che contribuendo a
migliorare la vita degli altri ci sentiamo arricchiti;
• controllo: chi ha la possibilità di osservare il proprio problema
da un altro punto di vista dovrebbe riuscire a gestirlo meglio;
• senso di utilità: partendo dal presupposto che aiutando gli altri
le persone si percepiscono efficaci socialmente.
112
Il sostegno dato ad un'altra persona si ripresenterà come una risorsa
per se stessi. E' possibile affermare inoltre che la mutualità propone
una specifica metodologia d'intervento diversa da quella tradizionale delle istituzioni pubbliche e private; quest'ultima infatti prevede la
presa in carico da parte di un professionista del settore il quale mantiene generalmente un distacco e una differenziazione di ruoli.
Una primaria necessità per l'aiuto è favorire e incrementare l'empowerment, processo mediante il quale i partecipanti possono ampliare
il senso di controllo e di padronanza verso i problemi in favore dei
proprio cambiamento. Si mira così all’ottenimento di maggior emancipazione di queste persone rispetto alla loro condizione di powerless
(il contrario di empowerment) perché raggiungano maggior sicurezza di sé.
3.
Caratteristiche dei gruppi
Ogni gruppo si compone di una quindicina di persone e non é gestito da professionisti. Solitamente, per la sua natura spontanea, il
gruppo definisce al suo interno le proprie regole di funzionamento, le
sue norme più o meno esplicite; tuttavia esistono gruppi che possono
nascere su richiesta di un servizio o di uno specialista all’interno di
un contesto formalizzato: può essere il caso ad esempio di gruppi
nati per volere di figure di riferimento quali psichiatri o psicologi per
pazienti afferenti ad un servizio. Tuttavia, di qualsiasi origine sia la loro
formazione, esistono delle caratteristiche universalmente condivise
quando si parla di gruppo di auto aiuto.
Innanzitutto il rapporto di parità tra i suoi membri: tutti i suoi componenti si trovano a condividere una medesima condizione di vita e,
all’interno del gruppo, non esistono ruoli o posizioni asimmetriche.
Questa caratteristica è molto importante quando si parla di disagio
perchè in tale spirito qualsiasi persona si trovi a entrare a far parte di
un gruppo di auto aiuto deve poter partecipare e sentirsi tra pari, in
una prospettiva non giudicante e di totale accoglienza.
Il principio della parità si realizza anche nella gestione comune di
eventuali attività del gruppo di solito animato da uno spirito di condivisione.
113
Questa caratteristica si rileva anche nella gestione del gruppo che
dovrebbe quanto più essere partecipata tra i membri e le decisioni
prese in autonomia e condivise.
Altra caratteristica fondamentale, strettamente collegata alla precedente, è la fonte di aiuto perchè ogni partecipante è al tempo stesso
fornitore e fruitore di un aiuto. Nel parlare della propria esperienza la
persona non dà consigli ma fornisce la propria testimonianza rispetto
al come può aver affrontato o superato un problema e questo può
diventare supporto per altri che vivono una condizione simile. Sapere
infatti che qualcuno come noi ha superato una difficoltà può infondere la speranza spesso perduta in altri membri del gruppo e fornire un
aiuto che sia non solo pratico ma soprattutto emotivo.
Altro aspetto cruciale che non può essere tralasciato all’interno della
filosofia del self help è la riservatezza. I membri trovano un contesto
privilegiato di ascolto che deve rimanere tale con la regola che ciò
che viene detto nel gruppo rimane patrimonio del gruppo stesso e
nessuna comunicazione dovrebbe uscire da tale contesto. Inoltre i
gruppi sono solitamente caratterizzati dalla gratuità ovvero nessuno
tipo di contributo viene versato per parteciparvi, in alcuni casi la sola
quota che può essere considerata è quella relativa all’affitto di un locale in cui si tengono gli incontri, ma questo non inficia in alcun modo
la partecipazione al gruppo.
La partecipazione e l’auto gestione concorrono ad incrementare nei
membri del gruppo un sentimento di fiducia nelle proprie capacità e
nel supporto che queste potranno trovare in caso di difficoltà, positività, controllo sul senso e significato delle proprie azioni, autoefficacia
ovvero il sentimento di poter raggiungere i propri obiettivi, non solo
accettando il rischio ma anche misurando realisticamente le proprie
possibilità, responsabilità e auto disciplina.
Esistono almeno quattro tipi di obiettivi che il gruppo può raggiungere:
• gruppo il cui fine è il raggiungimento di una auto–realizzazione
personale;
• gruppo il cui scopo è quello della difesa dei diritti sociali;
• gruppo impegnato politicamente e socialmente che propone
114
un diverso stile di vita e un cambiamento nell'opinione pubblica e nelle istituzioni;
• gruppo composto da persone che vivono in una situazione di
isolamento e di sofferenza.
Collegandosi a quanto detto sulla classificazione dei gruppi in base
al fine ultimo, gli autori Ketz e Bender (1978) differenziano i gruppi in
auto–centrati ed etero–centrati; i primi si occupano in prima istanza
dei problemi dei partecipanti, mentre i secondi sono più dediti, in primo luogo, a svolgere una funzione di advocacy.
Le attività di self–help possono distinguersi anche in base all’organizzazione stessa che il gruppo decide di darsi ed è per questo che si
parla di (Focardi, Gori e Raspini, 2006):
• gruppo "tradizionale" per cui si prediligono attività di socializzazione e di condivisione fra i membri;
• gruppo nel quale viene affiancata all'esperienza tradizionale
del self–help una consulenza di specialisti dell’area socio–
sanitaria che forniscono informazioni, materiale ed assistenza
con tutta una serie di servizi di supporto;
• gruppo il cui scopo è quello di ottenere riconoscimenti da parte delle istituzioni e della società rispetto ad argomenti cari al
gruppo stesso.
Abbiamo già detto come il self–help nasce in risposta ai bisogni della
collettività e ai limiti e carenze del sistema socio–sanitario; esaminiamone ora, più da vicino, gli elementi distintivi.
Sono gruppi ristretti, il numero varia da tre a quindici componenti,
questo per evitare una dispersione e una non partecipazione di tutti.
Il coinvolgimento personale è una proprietà fondamentale di questo
tipo di gruppi: il mutuo–aiuto esclude la presenza di utenti passivi, in
quanto tutti devono essere promotori del proprio benessere.
Tendono a essere autonomi economicamente, autogestendosi secondo un sistema proprio di regole e comportamenti; anche se in
parecchie circostanze possono essere aiutati e finanziati da strutture
pubbliche e/o private. La nascita di un gruppo di questo tipo è, solitamente, spontanea e data dalla volontà dei primi partecipanti di condividere un problema e un obbiettivo comune; i gruppi inoltre diventano
115
con il tempo un punto di riferimento e fonte di autoidentíficazione. E
ancora, la burocrazia è limitata al minimo indispensabile e i membri,
non solo raccontano dei loro vissuti, ma si impegnano anche in particolari azioni.
4.
Come attivare un gruppo di auto aiuto
I passi da seguire per attivare un gruppo sono molteplici e di facile
applicazione nel concreto. Innanzitutto, come già si è esplicitato, il
gruppo dovrebbe nascere da un bisogno molto spesso di natura pratica o relazionale e sociale dunque la prima fase da tenere presente
nel voler attivare un gruppo è avere idea di quella che si definisce
analisi del bisogno. Solitamente un gruppo nasce quando due o più
persone decidono di volersi riunire per condividere la loro esperienza
e molto spesso questo piccolo nucleo potrebbe già essere il punto di
partenza a cui altri afferiranno in seconda battuta.
In altri casi è un’associazione, un ente o semplici cittadini che vengono a conoscenza della presenza sul territorio di persone nella medesima condizione e decidono di muoversi per l’attivazione di un gruppo di auto aiuto.
In Toscana il Coordinamento Regionale dei Gruppi di Auto Aiuto opera da 14 anni in questo settore. È un’associazione di volontariato costituita nel 1996 a cui aderiscono associazioni, agenzie del privato
sociale, singoli cittadini, che operano promuovendo l’auto aiuto. Il
Coordinamento ha l’obiettivo principale di promuovere momenti di
scambio e di confronto tra le istituzioni, il privato sociale e il Terzo
settore, a livello regionale e nazionale. Inoltre organizza differenti iniziative inerenti le realtà del self help, in particolare:
– sensibilizzazione: organizza giornate, seminari e corsi;
– formazione: promuove percorsi che partono dalle risorse, conoscenze ed esperienze nei vari settori del disagio sociale;
– documentazione: raccolta di materiale per incrementare il Centro di Documentazione, con l’obiettivo di creare una sezione
specifica sull’auto aiuto;
– banca dati: indirizzario delle esperienze di auto aiuto attive a
livello regionale, nazionale ed europeo;
116
– rete: offre supporto nel collegamento con le varie realtà territoriali o di settore;
– sostegno: offre consulenza, supervisione e monitoraggio alle
diverse esperienze di auto aiuto, spesso non strutturate.
L’associazione si propone inoltre di contribuire al contenimento del
disagio sociale tramite l’incremento dei gruppi di auto aiuto nelle diverse aree del disagio e per fare ciò è sorto un punto di ascolto attraverso il quale le persone alla ricerca di un gruppo sul territorio possono trovare una risposta, un supporto ed un’informazione relativa al
gruppo che stanno cercando. Questo è stato possibile grazie ad una
ricerca condotta qualche anno fa che ha censito i gruppi sul territorio
ragionale e nazionale.
Tra le attività preliminari all’attivazione di un gruppo ne ricordiamo due
categorie: quelle legate alle persone e quelle relative al tempo e allo
spazio. Tra le prime ci si pone l’obiettivo di contattare le persone che
faranno parte del gruppo. Ciò può essere possibile ad esempio attraverso un lavoro di ricognizione effettuata contattando dei testimoni
privilegiati ad es. insegnanti, sacerdoti, oppure servizi sanitari, enti od
associazioni che, avendo una conoscenza diretta delle persone sul
territorio, possono segnalarci situazioni che potrebbero beneficiare
del sostegno di un gruppo. Un’altra alternativa per capire chi potrebbe avere bisogno di un gruppo è quella di organizzare degli incontri
pubblici di sensibilizzazione o di studio su determinati problemi di
natura sociale o sanitaria promossi da enti o associazioni in cui si
può richiedere lo spazio per rendere note le modalità per partecipare
ad un gruppo di auto aiuto.
Tra le decisioni da prendere relative al tempo, si pone il problema di
ipotizzare quale tipo di gruppo attivare, ad esempio un gruppo aperto
piuttosto che chiuso intendendo con il primo caso un gruppo aperto a
nuovi ingressi nel suo percorso di vita oppure, nel secondo caso, un
gruppo nel quale i membri si mantengono sempre gli stessi per tutta
la durata di vita del gruppo stesso. Inoltre tra le decisioni a cui pensare vi sono quelle relative alla durata del gruppo cioè è necessario
riflettere se si voglia dar un termine oppure non porre una fine a priori.
La scelta non può prescindere ed è influenzata necessariamente dal
117
tipo di disagio di cui si parla; ad esempio un gruppo per malattie ad
alto rischio di morte potrebbe essere pensato con durata a termine
delimitato per evitare situazioni nelle quali le persone si trovino a perdere partecipanti nel tempo (ciò potrebbe influire chiaramente sulla
situazione emotiva dei partecipanti in primo luogo e poi sulla buona
riuscita del gruppo).
Inoltre tra le decisioni di natura logistica è fondamentale la ricerca della sede degli incontri. Trovare una sede adatta non significa solamente cercare un luogo disponibile per incontrarsi la sera ma la scelta,
quando possibile, dovrebbe tenere conto delle esigenze dei partecipanti, di modo da agevolare chi decide di far parte del gruppo, dato
che spesso la stessa decisione di parteciparvi può rappresentare un
grosso sforzo in termini emotivi e fisici (pensiamo ad alcune malattie).
Pensando al principio dell’anonimato e della riservatezza che caratterizza la filosofia dell’auto aiuto, la scelta della sede dovrebbe essere
attuata in modo da favorire la possibilità per le persone di sentirsi in
un luogo accogliente e riservato: pensiamo a quanto questa scelta
sia ancor più delicata per determinati gruppi quali ad esempio quelli
per disturbi dell’identità di genere o per persone sieropositive. In altri
casi invece la scelta del luogo può avvenire in modo più naturale se
pensiamo a quei gruppi che nascono all’interno di un’associazione
che ha già a disposizione propri spazi.
Per tale ragione potrebbe essere utile reperire informazioni da luoghi
pubblici di aggregazione territoriale quali circoli, parrocchie oppure
contattare le associazioni di volontariato presenti sul territorio per sapere dove possibile incontrarsi se non lo si conosce di già. Questo
contatto può essere utile sia in termini di feedback sui bisogni del
territorio (come si diceva precedentemente) sia in termini di visibilità
del gruppo e informazione sulla sua esistenza che l’associazione potrebbe divulgare, con le dovute cautele od eccezioni, una volta reso
operativo il gruppo per eventuali nuovi ingressi.
Considerando aspettative, paure ma anche motivazioni e speranze le
persone interessate possono essere raggiunte attraverso un semplice
passaparola rispetto all’intenzione di aprire un gruppo e parteciparvi. Tuttavia per conferire al progetto visibilità sarebbero utili svariate
118
forme di pubblicizzazione perché molto spesso il gruppo si configura come un’entità sotterranea, difficile da raggiungere in termini
di conoscibilità dalla popolazione. A tal proposito potrebbero essere
creati depliant, volantini e ove possibile, organizzate tavole rotonde o
comunicati stampa con il supporto delle associazioni che si rendono
disponibili.
Una volta dunque trovato il numero minimo di partecipanti che intendano intraprendere questa esperienza chiaramente può nascere
l’esigenza di avere una figura che funga da riferimento per il gruppo
detta facilitatore. Non necessariamente coincidente con la figura del
promotore stesso del gruppo, il facilitatore è una figura che può o
meno condividere un disagio o la particolare situazione che accomuna i membri del gruppo ma si rende utile nel facilitare la comunicazione e la buona fruibilità di un gruppo.
Tale figura dovrebbe:
• essere a conoscenza degli obiettivi e del problema;
• essere capace di facilitare il gruppo (favorire la comunicazione
circolare);
• essere capace di trasferire competenza al gruppo;
• non vestire i panni dell’esperto;
• essere capace di orientare la comunicazione verso temi e punti
condivisi;
• essere capace di creare un clima accogliente e di fiducia.
Il facilitatore non ha bisogno di competenze specifiche in qualche
settore se non quelle che possono facilitare la comunicazione, l’interazione e la coesione tra i partecipanti. Sebbene possa essere uno
specialista non esercita il proprio ruolo di specialista nel gruppo. Dato
che non esistono ruoli tecnici decisi a tavolino, i componenti sono
tutti alla pari e tutti hanno ugual potere. Analizzando più approfonditamente la posizione del facilitatore è possibile scoprire come egli
debba essere il più neutrale possibile senza usar nessun metro di
giudizio, debba studiare i ruoli assunti dai membri, notare e allontanare le possibili difese che il gruppo mette in atto, rispettare i tempi
di ciascun partecipante evitando la prevaricazione di uno sull'altro,
garantire la segretezza e l’anonimato, rafforzare la coesione, evitare
119
un eccessivo coinvolgimento, gestire in maniera positiva i conflitti e
sostenere il gruppo nei momenti di difficoltà.
Spesso anche il facilitatore si mette in gioco, ponendosi alla pari del
resto del gruppo anche se non è portatore della medesima sofferenza, raccontando anch'egli i suoi vissuti e le sue esperienze. A tal proposito si riscontra in letteratura una contrapposizione dì convinzioni
tra chi ritiene che sia indispensabile, per il facilitatore, aver vissuto
il medesimo disagio del resto del gruppo e chi invece ritiene che
questo aspetto non sia fondamentale ma che, se presente, agevoli la
conduzione. Questo ruolo è prevalentemente al femminile; le donne
che conducono gruppi di questo tipo sono il 97%. Tutti però sono
concordi sul fatto che il facilitatore debba saper farsi partecipe a livello personale attivando quei meccanismi di empatia e di coinvolgimento indispensabili per entrare in contatto con il gruppo.
5.
L’auto aiuto tra vecchie e nuove dipendenze
Nella maggior parte dei Paesi europei i gruppi di auto aiuto hanno
un’immagine molto diversa fra loro. Ci sono infatti strutture nazionali
grandi e professionalizzate focalizzate sulla fornitura di servizi, sulla prevenzione e sulle attività lobbistiche, e esistono anche piccoli
gruppi locali nell’ambito dei quali il contatto personale, lo scambio di
esperienze e la capacità di risolvere i problemi sono gli scopi più importanti. Ci sono gruppi che si occupano di problemi comuni, come i
reumatismi o la depressione, ma anche gruppi che si focalizzano su
problemi di natura più rara, come malattie o sindromi poco diffuse,
o particolari situazioni sociali, come ad esempio le associazioni di
madri i cui figli sono stati rapiti dai padri. Esistono gruppi per persone portatrici di ogni tipo di handicap (mentale o fisico); gruppi per
persone affette da ogni sorta di malattia, dalle forme acute e spesso
letali, al dolore cronico e ad altri fastidi; gruppi che supportano le
persone con problemi di dipendenza o problemi comportamentali e
gruppi separati per i loro famigliari, dove trovare modalità alternative
per gestire queste situazioni. Esistono anche gruppi per persone che
si trovano ad affrontare circostanze particolari, come la vedovanza, la
morte inaspettata di un feto a termine, l’infertilità o il dover crescere
120
una famiglia da soli. Ciò che si dice in alcuni Paesi e cioè che esiste
un gruppo di aiuto per ogni problema, è spesso vero.
In Europa i gruppi di auto aiuto per persone affette da malattia o da
problemi fisici vanno per la maggiore: costituiscono spesso più della
metà di tutte le iniziative di auto aiuto. Al secondo posto vengono
i gruppi che affrontano particolari problemi sociali, come situazioni
di vedovanza, divorzio, genitore singolo, solitudine, abuso, lutto. Ci
sono però delle eccezioni. In Norvegia, ad esempio, la percentuale di
gruppi che affrontano i problemi mentali (depressione, suicidio, problemi psichiatrici) è molto più grande, in quanto esiste uno specifico
programma finanziato dal Governo allo scopo di prevenire e curare,
tramite i gruppi di auto aiuto, i problemi mentali. Anche in Polonia e
nella Repubblica Ceca esistono in proporzione più gruppi che si occupano di problemi legati alla salute mentale, né per i professionisti
(psichiatri e psicologi), pertanto i gruppi di auto aiuto sono l’unica
soluzione alla mancanza di un sistema di servizi che si occupi di problemi di igiene mentale.
Per quanto riguarda la differenza di tipo e di format nei gruppi, essi
differiscono nel metodo di lavoro e nelle attività offerte. Riassumendo,
i gruppi di auto aiuto forniscono sostegno a livello sociale ed emozionale, raccolgono e diffondono informazioni sulla dislocazione nel
territorio e sono fonte di aiuto. Organizzano attività sociali, forniscono
servizi diretti, raccolgono fondi, fanno opera di formazione ed informazione, sia con le persone che con i professionisti, ed organizzano
campagne di sensibilizzazione.
Inoltre in molti Paesi europei i gruppi di auto aiuto vengono sostenuti
economicamente. Esiste un tipo di sostegno informale da parte di
professionisti che credono nell’idea dell’auto aiuto i quali, ad esempio, mettono a disposizione gratuitamente i locali per gli incontri ed
in qualche modo aiutano nella promozione del gruppo, parlando alla
gente e dando una mano con pubblicazioni ed incontri.
In altri Paesi i gruppi di auto aiuto ricevono anche un aiuto formale
da parte dei cosiddetti centri di supporto per i gruppi di auto aiuto
che sono finanziati dal Governo o da agenzie statali. In questi Paesi i
gruppi di auto aiuto sono più numerosi e più visibili, nonché percepiti
121
come affidabili.
Per quanto riguarda invece la diffusione delle dipendenze in Europa,
e illustrare l’entità dell’uso/abuso delle sostanze in maniera sintetica
ma efficace è utile fare riferimento ad alcuni indicatori; secondo ricerche epidemiologiche effettuate dall’Osservatorio Europeo nel 2009,
è emerso che la cocaina è la sostanza illegale che più di tutte viene
consumata nei paesi Europei.
Arrivando nel nostro Paese e per capire la diffusione dei gruppi di
auto aiuto a livello nazionale, possiamo fare riferimento ad una delle
poche, se non le uniche, ricerche effettuate sui gruppi di auto aiuto
su tutto il territorio Italiano. La prima indagine conoscitiva a livello
nazionale sull’auto aiuto risale al 1999 quando il Ministero degli Affari
Sociali chiese alla Fondazione Devoto di metterne a fuoco il fenomeno e di farne una descrizione dettagliata; era la prima volta che
un organo statale manifestava un interesse verso questo aspetto in
continua evoluzione. La ricerca ha visto varie fasi tra cui: raccolta di
informazioni riguardo ad enti, associazioni e coordinamenti su tutto il
territorio nazionale (per poter individuare il campione a cui somministrare il questionario), raccolta ed analisi dei dati.
Successivamente, nel 2006, il Coordinamento Regionale dei gruppi
di auto aiuto in collaborazione con la Fondazione Devoto, in seguito
al bando sulla ricerca 2004 del Cesvot, ha nuovamente effettuato un
aggiornamento della ricerca precedente per cercare di capire come
il fenomeno fosse cambiato (Focardi, Gori e Raspini, 2006).
Di seguito riportiamo la tabella nella quale presentiamo la situazione
dei gruppi mappati nel 1999 confrontandoli con i dati della ricerca
più recente. Ci preme sottolineare che i dati presentati non vogliono
avere valore scientifico ma hanno una funzione di fotografare l’andamento dell’auto aiuto negli anni.
Si osserva come il numero dei gruppi è, in pratica, raddoppiato passando dai 1603 del 1999 ai 3265 dei 2006; come esempi significativi
di questo aumento è possibile citare i gruppi degli alcolisti, che sono
passati da 868 a 1015, oppure i gruppi per l’elaborazione del lutto,
che da 2 sono diventati 64, per passare poi ai gruppi per i giocatori
d’azzardo, che da 3 si sono trasformati in 48, e tanti altri ancora.
122
Ciò
che sembra
evidente
è nel
che1999
il mutuo–aiuto
Situazione
dei gruppi
mappati
e nel 2006 è veramente una realtà
in continua crescita e che in Italia risulta essere anche abbastanza
PROBLEMA
N° GRUPPI 2006
N° GRUPPI 1999
differenziata per tipologie, distribuzione geografica, strutture, attività
Nuove
dipendenze
3
–
ed
obbiettivi.
Trapianto organi
3
11
Particolari esperienze di vita
11
–
Disagi legati al ciclo di vita
17
6
Disagio sociale
22
4
Identità di genere
27
1
Realizzazione e riappropriazione del sè
34
–
Sieropositività
34
33
Violenza donne e minori
39
8
Minori disagio
43
2
Depressione
48
14
Dipendenza affettiva
48
18
Gioco D'azzardo
48
3
Lutto
64
2
Famiglie crisi
78
14
Neoplasie
82
6
Adozione e affidamento
84
17
Tabagismo
102
15
Disturbi d'ansia
120
–
Patologie
146
20
Disabilità
173
7
Disturbi alimentazione
290
271
Disagio mentale
292
105
Dipendenza da sostanze
442
178
Alcolismo
1015
868
Totale
3265
1603
123
Ma oltre al significativo aumento di questa metodologia d’intervento informale, da segnalare è anche il proliferare di nuove realtà di
mutuo–aiuto che rispecchiano temi sociali attuali; il 58% dei gruppi,
infatti, trattano temi fino a sette anni prima mai considerati:
Il self–help, proprio grazie a questa sua caratteristica di dinamicità,
è in grado di rilevare le nuove forme di disagio e dipendenza, che
sempre più stanno prendendo piede nella nostra società.
Nell’indagine 2006 si riscontrano in maggior quantità gruppi per parenti di alcolisti (431) e per quelli di persone dipendenti da sostanze
psicotrope, contro solo due gruppi per famiglie con persone depresse
e con problemi d’identità di genere. Tra i due opposti ci sono tutta una
serie di gruppi emergenti, nati dalle più disparate esigenze, come per
esempio i gruppi per parenti di giocatori d’azzardo (13) o di disabili
(142). Rispetto poi alla distribuzione geografica del fenomeno si può
notare come, nel corso di questo intervallo fra una ricerca e l’altra, i
gruppi di self–help si siano meglio distribuiti sul territorio nazionale
anche se il dislivello rimane forte; al nord della penisola si registra un
decremento in termini percentuali rispetto alle altre zone italiane passando dal 79% al 63%, l’incremento maggiore si è avuto al centro col
7% mentre al sud e nelle isole si è riscontrato un aumento del 3%. Il
calo nel Settentrione non significa che i gruppi sono diminuiti, al contrario, sono aumentati passando da 1215 gruppi a 2081; la questione
è che, considerando la distribuzione in termini percentuali, si assiste
ad un decremento dovuto ai vistoso aumento che hanno avuto le altre
regioni italiane.
Per terminare questo excursus sui dati relativi al self–help italiano
possiamo affermare che le esperienze di self–help non si manifestano
come un fenomeno unitario, differenziandosi per distribuzione geografica, organizzazione, struttura, attività svolte, obiettivi e specificità
del problema trattato.
La rilevazione dei nuovi gruppi dimostra quanto l’auto aiuto possa costituire un osservatorio privilegiato, sensibile alla rilevazione di nuove
forme di disagio e di emarginazione.
Non a caso le esperienze più recenti, riflettono questioni sociali attuali, quali ad esempio: la disgregazione dei nuclei familiari (gruppi per
124
famiglie in crisi), la gestione dell’educazione dei figli, le difficoltà nel
rapportarsi con la morte (gruppi per l’elaborazione del lutto), le già
citate nuove dipendenze (gioco d’azzardo, dipendenza da internet,
dipendenza da pornografia e lo shopping compulsivo), le neoplasie
e le malattie croniche e degenerative.
Dai dati in nostro possesso si evince quindi che in Italia ed in Europa i gruppi per le dipendenze risultano senza dubbio aumentati in
numero e in tipologia, per venire incontro ad esigenze sempre più
diversificate e complesse; siamo passati quindi dai soli gruppi per le
dipendenze “classiche” come quelli di alcolisti e tossicodipendenti,
a gruppi per giocatori d’azzardo, gruppi per dipendenti da internet e
pornografia, o gruppi per le dipendenze affettive e addirittura per lo
shopping compulsivo.
Qui in Italia, una delle più recenti iniziative di sensibilizzazione sul
tema delle dipendenze è stata organizzata dal Coordinamento Regionale dei Gruppi di Auto Aiuto nelle giornate di sabato 22 maggio
e sabato 12 giugno 2010, presso i locali messi a disposizione dall’Asl
di Firenze. Questa iniziativa ha visto il coinvolgimento di numerosi
partecipanti provenienti da diverse province della Toscana, tra i quali
volontari interessati alla tematica delle dipendenze e membri di gruppi di auto aiuto.
Il dott. Massimo Cecchi, che da anni si occupa professionalmente di
dipendenze svolgendo il suo ruolo di psicologo presso il Sert dell’Asl
10 di Firenze, ha trattato il tema dell’auto aiuto e professionisti della
salute.
In particolare la sua attenzione si è rivolta a sottolineare come non sia
scontato che i professionisti riconoscano nell’auto aiuto una valida
risorsa ma tendano a ritenerlo un ostacolo nel lavoro da loro svolto.
L’importanza dell’integrazione si rileva nel nell’alleggerimento e miglioramento della qualità di entrambi i percorsi di aiuto/intervento. Questo
aspetto è emerso in maniera estremamente chiara anche durante le
tavole rotonde in cui molti partecipanti ai gruppi raccontavano il loro
miglioramento nell’esperienza con i servizi solo dopo aver incontrato
il gruppo di auto aiuto. Infatti il gruppo garantisce l’identificazione con
l’altro grazie alla condivisione delle medesima esperienza di disagio,
125
aspetto che invece è assente nel rapporto con il professionista; il più
delle volte l’utente si sente non compreso fino in fondo e per questo
non riesce ad instaurare un’adeguata e funzionale alleanza terapeutica.
Il focus su cui il dott. Cecchi si è concentrato è stato dunque far capire ai professionisti che l’auto aiuto è una grande opportunità da
sfruttare e non una minaccia al loro obiettivo terapeutico.
L’altro intervento ha visto l’esposizione della dott.ssa Sara Mori su i
dati riguardanti la diffusione dei gruppi sul territorio relativi al fenomeno delle dipendenze.
Dall’analisi dei dati è emerso come i gruppi degli alcolisti siano i più
diffusi rispetto agli altri, data la loro più antica formazione; ma l’aspetto più interessante riguarda il cambiamento della tipologia dei gruppi
nel tempo: si assiste al recente aumento di gruppi relativi alle nuove
dipendenze ed, in particolare, dei gruppi sul gioco d’azzardo.
Alle tavole rotonde sono intervenuti gruppi appartenenti a diverse realtà dell’auto aiuto, tra i quali: Alcolisti Anonimi, Giocatori Anonimi,
Narcotici Anonimi, Overeaters Anonimous, Club Alcolisti in Trattamento, Familiari di Alcolisti, Debitori Anonimi, l’Associazione Valdarnese
di Solidarietà.
In particolare le tavole rotonde rappresentano sempre un momento
estremamente importante di condivisione delle esperienze; questo,
oltre a far conoscere le realtà di aiuto presenti sul territorio, rafforza
anche il loro legame con il Coordinamento e favorisce un costante
lavoro di rete; rappresenta quindi per tutti una preziosa occasione di
conoscenza/confronto con altre realtà.
La partecipazione di rappresentati e associazioni, principalmente nella seconda giornata, oltre che rinforzare l’aspetto teorico del corso,
ha permesso ai coloro che hanno preso parte all’iniziativa di “toccare
con mano” l’esperienza di persone che sperimentano sulla propria
pelle i gruppi di auto aiuto e vivono in prima persona i benefici del
gruppo stesso.
Durante l’evento è stata data priorità all’intenzione di potenziare la
rete tra gruppi che si occupano di questa area di disagio e di favorire
la conoscenza di realtà di recentissima formazione quali ad esempio
126
il gruppo dei debitori anonimi.
In conclusione i dati in nostro possesso sulla situazione attuale della realtà di auto aiuto in Italia, evidenziano quanto quella dell’auto
mutuo aiuto sia una realtà solida e in continua espansione ma che
necessiterebbe dell’opportuno supporto, oltre che delle associazioni
territoriali, anche da parte delle istituzioni sanitarie e di un maggiore
sforzo nel renderlo uno strumento più visibile e conosciuto per la cittadinanza tutta.
127
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2005 — CyberPsychology and Behavior, K.Doyle, Buffalo NY
133
Capitolo 4
Nuove dipendenze e istituzioni: l’esperienza di
Trento
di Miriam Vanzetta e Sandra Venturelli
1.
Cenni sull’evoluzione dei servizi di privato sociale in
Trentino
Le scelte di politica sociale promosse e sviluppate dalla Provincia Autonoma di Trento negli anni ‘80 hanno creato e potenziato sul territorio
numerose realtà di privato sociale. Questa politica si è esplicitata anche attraverso l’emanazione di alcune norme provinciali, quali la L.P.
n.14/1991 (Ordinamento dei servizi Socio assistenziali in Provincia di
Trento), tuttora in vigore, la più recente L.P. n. 13/2007 (Politiche sociali nella Provincia di Trento), non ancora applicata integralmente) e
la L.P. n. 35/1983 (Disciplina degli interventi volti a prevenire e rimuovere gli stati di emarginazione).
Questo impianto normativo ha facilitato la nascita e lo sviluppo di enti
di privato sociale, consentendo interessanti sperimentazioni, fornendo, attraverso convenzioni o contributi a progetto, i finanziamenti necessari a realizzarle, e dunque agevolando il proliferare di iniziative in
ambito sociale, in maniera capillare e radicata sul territorio.
È in questo contesto che negli anni ‘80 e ’90 sono nate associazioni,
cooperative e fondazioni, con obiettivi specifici in ambiti anche specialistici; gli operatori trentini hanno cominciato a riflettere sul valore
del lavoro di rete, su quello dello sviluppo di comunità e su quello
dell’empowerment comunitario quale approccio teorico di riferimento1.
1 Per maggiori approfondimenti sull’approccio teorico: Bulmer M., Le basi della
community care, Erickosn, Trento, 1987; Folgheraiter F., Operatori sociali e lavoro
di rete, Erickson, Trento, 1990; Folgheraiter F., Donati P. (a cura di), Community
care– Teoria e pratica del lavoro di rete, Erickson, Trento, 1993.
134
Nel 1985 nascono le prime timide esperienze di auto mutuo aiuto, con
i Club degli Alcolisti in Trattamento2 (Cat): successivamente si aggiungono alcuni gruppi Ama nell’ambito della disabilità e del disagio
mentale. Nel mondo dei servizi e del privato sociale quelli sono anni
particolarmente floridi, da un lato per la disponibilità e per l’impegno
di tanti operatori, e dall’altro per i sostegni di tipo economico che l’ente pubblico è disposto a dare.
Nel giugno 1995 nasce l’associazione Ama di Trento, su iniziativa di
alcuni operatori dell’ambito sanitario e del privato sociale e anche di
alcune persone che frequentavano gruppi già attivi, questi ultimi nati
spontaneamente o all’interno di realtà associative presenti sul territorio.
2.
L’associazione Ama – Auto Mutuo Aiuto di Trento
Dall’esperienza positiva dei Cat nasce l’associazione Ama di Trento
che, intuite le potenzialità di questa metodologia applicata ad ambiti
diversi, adotta la finalità di sostenere i pochi gruppi già attivi nei primi
anni Novanta e di diffondere la metodologia in altri ambiti applicativi.
L’associazione Ama si pone l’obiettivo di collegare, dare voce e sviluppare queste esperienze di auto mutuo aiuto dando vita a un’associazione “ombrello”. L’ombrello è la rappresentazione metaforica
delle funzioni di queste associazioni che costituiscono un “riparo”
funzionale, organizzativo, metodologico, giuridico, contabile, progettuale, collettivo e che assicurano contemporaneamente la garanzia
della massima libertà di espressione delle singole esperienze”3.
L’associazione ha cercato di creare un’organizzazione che, prendendo spunto da esperienze già collaudate, potesse aiutare a far nascere nuovi gruppi su tematiche non ancora affrontate, intrecciando
il mondo dell’aiuto formale a quello spontaneo; da un lato le competenze tecniche degli operatori, dall’altro l’esperienza, la motivazione,
2 Per approfondire la metodologia dei Club degli Alcolisti in trattamento: Hudolin
V., Manuale di alcologia, Erickson, Trento, 1992.
3 Mutti M. (a cura di), Esperienze di auto mutuo aiuto. Famiglie in gruppo, Erickson, Trento, 2008.
135
la spontaneità, il calore umano e il coinvolgimento dei partecipanti ai
gruppi.
La finalità principale dell’associazione Ama è quella di rendere possibile nella comunità l’auto mutuo aiuto, attraverso l’attivazione di gruppi e di altre iniziative di mutualità e di promozione della salute. L’auto
mutuo aiuto è una forma di aiuto naturale che la comunità possiede:
è l’aiuto che si scambiano persone che condividono una stessa situazione; in alcune condizioni di dipendenza e di sofferenza, tuttavia,
questo aiuto non scatta naturalmente. Non di rado è più forte uno
stato di passività che uno di proposta.
È importante sottolineare che la metodologia dei gruppi di auto mutuo
aiuto e, di conseguenza quella dell’associazione Ama, rappresenta
un supporto e un’integrazione alle tradizionali forme di intervento realizzate dalla rete dei servizi sanitari e sociali, presentandosi come
risorsa complementare per il benessere della comunità, in una logica
di partecipazione diretta e attiva delle persone allo sviluppo della salute e dell’auto–protezione fisica e mentale.
L’auto mutuo aiuto è un movimento spontaneo e in continua evoluzione che nasce dai bisogni e dalle esigenze dei singoli e delle comunità e che segue i cambiamenti sociali, culturali e delle condizioni di
vita delle persone.
Per questo l’attenzione è centrata sui bisogni delle persone e delle comunità, bisogni dinamici, complessi e sempre più in trasformazione.
Di conseguenza, la programmazione delle attività non viene completamente definita a priori, ma è aperta alle richieste che nascono dal
territorio. È quindi necessario che l’organizzazione sia flessibile e che
preveda la possibilità di ideare progetti innovativi, di attivare gruppi
su tematiche attuali non ancora approfondite, di valutare l’esigenza
di sperimentare nuove iniziative, quelle che nascono ed evolvono in
base alle richieste di persone, enti e associazioni interessati.
A questo proposito, la filosofia dell’associazione è quella non solo di
collaborare con realtà e con servizi pubblici e di privato sociale, ma
anche quella di co–progettare assieme iniziative di sostegno alle persone che vivono situazioni di disagio.
In una realtà ricca di servizi, associazioni, attività e progetti come il
136
Trentino è importante contribuire a valorizzare, diffondere e promuovere quanto esiste, lavorando per colmare la distanza tra le persone
e i servizi attraverso la costruzione di reti e sinergie. Rientra nella metodologia dell’associazione Ama la progettazione condivisa sia con
i servizi sociali territoriali, sia con l’Azienda Provinciale per i Servizi
Sanitari, sia, infine, con enti e associazioni di privato sociale per la
promozione e l’attivazione di gruppi di auto mutuo aiuto dedicati a
specifiche problematiche. Il lavoro di rete richiede particolare impegno e fatica: si tratta di un lavoro che rimane spesso sotterraneo e
invisibile, ma esso è indispensabile per sostenere processi innovativi
e di cambiamento e per ottenere azioni più incisive, che rispondano
realmente ai bisogni delle persone.
Dal punto di vista istituzionale, le attività promosse dell’associazione
Ama sono state riconosciute e valorizzate fin dall’inizio dal Servizio
Attività Sociali del Comune di Trento, che ha sostenuto attraverso un
contributo annuale gran parte dei costi riferiti alla gestione dell’attività
(attivazione, promozione, sostegno di gruppi di auto mutuo aiuto).
Parallelamente, dopo qualche anno dalla fondazione, l’associazione
ha iniziato a svolgere un’attività di formazione rivolta all’esterno, sia
per promuovere la metodologia dei gruppi di auto mutuo aiuto, sia
come attività marginale con finalità di autofinanziamento.
Nel dicembre 2008 il rapporto fra associazione e Comune di Trento si è consolidato acquisendo una diversa forma, quella della convenzione. Le due realtà hanno firmato l’accordo “inerente modalità
di concessione ed erogazione all’associazione Ama onlus, da parte
del Comune di Trento, di contributi a pareggio di bilancio in quanto
soggetto proponente attività di promozione del benessere sociale e
di prevenzione del disagio del singolo, della coppia, della famiglia e
dei gruppi sociali”.
Nella convenzione si precisa che l’associazione Ama può rientrare tra
gli enti in convenzione in quanto retta e disciplinata secondo i principi
di cui all’art. 6 dello statuto e precisamente in quanto:
– persegue fini della solidarietà civile, culturale e sociale;
– ritiene che l’auto aiuto sia una metodologia d’intervento nel trattamento di varie dipendenze, di disagi personali e familiari e
137
di supporto psicologico per varie difficoltà e che le persone,
riunendosi in maniera spontanea attraverso il reciproco aiuto,
possano realizzare obiettivi di crescita personale.
L’articolo 1 della convenzione elenca le attività finanziate e precisamente la promozione e la diffusione della metodologia dei gruppi di
auto mutuo aiuto sul territorio provinciale. Nello specifico si intende:
– organizzare, promuovere e sostenere i gruppi di auto mutuo
aiuto in ambiti diversi su tutto il territorio provinciale;
– rappresentare un punto di riferimento per i gruppi che condividono questa metodologia e collaborare con chiunque operi a
livello pubblico o privato per la promozione della salute e per il
miglioramento della qualità della vita della persona, della famiglia e della comunità;
– organizzare specifici corsi per chiunque intenda favorire la nascita di programmi attraverso la metodologia dell’auto mutuo
aiuto;
– sensibilizzare la comunità con interventi pubblici su temi legati
alla promozione alla salute;
– produrre materiale scritto inerente le tematiche dell’auto mutuo
aiuto;
– progettare, coordinare e gestire attività di formazione rivolte
allo sviluppo professionale, alla promozione dell’autonomia e
dell’auto mutuo aiuto.
La convenzione, di durata quinquennale, ha permesso all’associazione di lavorare con maggior serenità e di dare continuità ai propri
interventi.
Oltre a lavorare in stretto rapporto con il Servizio Attività Sociali del
Comune di Trento, l’associazione in questi anni ha instaurato una
buona collaborazione con diversi servizi l’Azienda Provinciale per i
Servizi Sanitari: il Servizio Alcologia, il Centro Antifumo, il Centro per
i disturbi del Comportamento Alimentare, il Servizio per le Tossicodipendenze, il Centro di Salute Mentale.
138
3.
L’auto mutuo aiuto e le nuove dipendenze in Trentino
Alla fine degli anni’ 90, sulla base di numerose richieste che arrivavano da parte di familiari di persone con una dipendenza da gioco
d’azzardo o da parte dei diretti interessati, nasce il gruppo di auto
mutuo aiuto A che gioco giochiamo.
In questi anni l’offerta di giochi d’azzardo è limitata; le persone che
partecipano al gruppo giocano prevalentemente ai video–poker e nei
Casinò (di Seefeld in Austria – vista la vicinanza con il Trentino–Alto
Adige – e al nuovo Casinò di Venezia, inaugurato nel 1999, situato
a Ca’ Noghera, famoso per la peculiarità di essere il primo casinò
all’americana aperto in Italia).
Fino agli anni ’90 la spesa annua degli italiani per il gioco rimane costante (ottomila miliardi di lire, corrispondenti a circa quattro miliardi
di euro) e il fenomeno è piuttosto contenuto. In seguito comincia a diversificarsi e incrementarsi l’offerta dei giochi pubblici; si moltiplicano
anche i luoghi dove si può giocare, sempre più legati alla quotidianità,
e tutti i segmenti della popolazione vengono raggiunti: c’è un’offerta
di gioco per i giovani, per le donne, per gli anziani, per le famiglie.
Da allora va costantemente aumentando la facilità di accesso ai giochi d’azzardo, sia a causa dell’offerta sempre maggiore di possibilità
di gioco4, sia a causa dei giochi online (per esempio poker online)
che raggiungono un numero enorme di italiani, senza limiti di età e
senza limiti di tempo.
La vergogna che molte persone provano nel farsi vedere da amici e
conoscenti nel giocare d’azzardo in luoghi pubblici, viene meno nel
gioco online, in cui è possibile “nascondersi”, evitando quindi uno
stigma sociale.
Nel corso degli ultimi anni, il gioco d’azzardo è diventato in Italia
un’attività di massa di enormi proporzioni dalle pesanti implicazioni
economiche e sociali e, nel 2010 (oggi non abbiamo i dati aggiornati),
4 Il Decreto Legge n.39 del 28 aprile 2009 Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di aprile 2009 e
ulteriori interventi urgenti di protezione civile, al capo V, art. 12 al fine di assicurare
maggiori entrate disciplina la possibilità di indire nuove lotterie e modalità di gioco,
video lotterie, etc. e dispone inoltre l’attivazione di giochi legati al consumo.
139
si prevede che la raccolta complessiva dei giochi in Italia si attesterà
all’astronomica cifra di circa 60 miliardi di euro, con una spesa pro–
capite di 1.263 euro (considerando solo i 47,5 milioni di maggiorenni
che per legge potrebbero giocare).
Si tratta di cifre impressionanti, che dimostrano chiaramente come il
gioco d’azzardo sia uno dei pochi settori a non risentire dell’attuale
crisi economica, avendone tratto anzi, nel corso del 2010, un trend di
incremento del 12,7% rispetto all’anno precedente. “L’industria” del
gioco d’azzardo è la terza in Italia per fatturato, preceduta solo da Eni
e Enel.
In Italia lo studio e la cura del gioco d’azzardo patologico sono abbastanza recenti, ma esistono numerose realtà che se ne occupano, sia
a livello pubblico che a livello privato. La cura dei giocatori patologici
è, anche se in modo ancora non omogeneo, in carico ai Servizi Tossicodipendenze delle Asl, che sono generalmente in grado di fornire
informazioni sui centri terapeutici anche quando non se ne occupano
direttamente. Esistono inoltre alcune realtà private tra le quali Giocatori Anonimi, associazione gratuita e basata sull’auto–aiuto, affiliata a
Gamblers Anonymous americano5, che ha in Italia numerose sedi.
Un approccio innovativo in questo campo è l’auto mutuo aiuto. Le
persone o famiglie che condividono il disagio creato del gioco patologico si uniscono attorno a un obiettivo comune: fermare il comportamento patologico del gioco d’azzardo. Le persone si impegnano
per il loro cambiamento attivandosi in prima persona, attraverso il reciproco sostegno e il confronto delle esperienze vissute. Nel gruppo
Ama la persona sperimenta le proprie risorse: impara a conoscersi
meglio, ad aumentare la propria autostima, a scoprire i propri limiti e
ad aumentare le proprie potenzialità, a creare o a rafforzare una rete
di rapporti per sostenere il cambiamento.
Il gruppo viene introdotto mediante alcuni incontri formativi con esperti del settore che aiutano i partecipanti ad approfondire aspetti relativi
5 Per maggiori dettagli sulla metodologia: Alcoholics Anonymous World Services.
Twelve steps and twelve traditions, General Services Conference, 1987, Usa (vedi
anche: www.gamblersanonymous.org).
140
al gioco d’azzardo, fornendo suggerimenti e strumenti per cercare di
conoscere meglio se stessi, portando alla luce anche il rapporto con
la propria immagine e la visione di sé. Spesso, infatti, quando la persona vive situazioni di sofferenza tende a svalutarsi, colpevolizzarsi,
annullando, in tal modo, la propria autostima.
4.
La testimonianza di un partecipante
La mia esperienza personale sul gioco è devastante in tutti i modi immaginabili. Ho cominciato come tutti con l’illusione di poter migliorare
la mia situazione economica e finanziaria. Invece, pian piano, mi sono
accorto che stavo dando fondo a tutte le mie risorse economiche da
me e da mia moglie guadagnate con onestà e fatica. Personalmente,
i giochi li ho provati tutti ma senza nessun risultato positivo. Comunque sia e per quello che mi riguarda, i più devastanti tra tutti i giochi
d’azzardo, sono i video–pocker che ci sono nei vari locali pubblici.
Con i video–pocker ho proprio toccato il fondo e l’ho fatto toccare
anche alla mia famiglia. Ho cominciato ad umiliarmi andando in giro
a chiedere soldi a colleghi e amici sempre per giocarli e visto che
perdevo anche quelli mi sono messo a rubare i soldi di mio figlio per
perdere anche quelli. Ogni sera e ogni giorno era una bugia peggio
dell’altra pur di giocare. All’ordine del giorno c’erano problemi con la
famiglia, con i soldi, con i colleghi di lavoro, con gli amici. Ad un certo
punto ci si accorge che il mondo in cui si vive è un mondo fatto di umiliazioni, di sotterfugi per nascondere il proprio problema con il gioco.
Alcuni proprietari di bar dove sono attivi i video–pocker approfittano
delle debolezze dei giocatori e, anche se perdi millecinquecento euro
in una sera o diecimila euro in un mese, non cercano di fermarti ma,
a volte, ti incitano a giocare ancora. Quando giocavo, continuavo a
sentirmi male, sudavo, avevo mal di testa, ero sempre arrabbiato con
me stesso e con gli altri e non capivo come mai i baristi pagavano le
vincite dei video–pocker in denaro pur essendo vietato dalla legge.
Attualmente, organizzato dall’associazione Ama, sto frequentando un
gruppo Ama per giocatori d’azzardo e sono due mesi che non gioco più, ho riacquistato fiducia in me stesso, ho riallacciato i rapporti
con la mia famiglia e sto ricostruendo le basi per una vita migliore.
141
Il gruppo sostiene i partecipanti nell’acquisire consapevolezza della
propria dipendenza e quindi della possibilità di modificare la propria
situazione. Un obiettivo vuole essere dare uno spazio dove ritrovare,
attraverso il confronto con altri, fiducia in se stessi per provare a riallacciare i rapporti rovinati (con la famiglia, con gli amici, i colleghi).
5.
Dal gruppo di auto mutuo aiuto al protocollo d’intesa
In questi anni il numero delle persone che si sono rivolte all’associazione Ama e che hanno frequentato il gruppo sono in costante aumento e oggi possiamo dire che almeno due–tre persone alla settimana si rivolgono all’associazione per informazioni sul tema (giocatori,
familiari, operatori sociali, medici). Il fenomeno del gioco d’azzardo
è esploso, sia fra gli adulti, sia fra i minorenni: per questo motivo,
consapevoli della validità e dell’efficacia del gruppo Ama ci si rende
sempre più conto di quanto sia necessario attivare una serie di altre
iniziative, sia nell’ambito della prevenzione, sia nell’ambito della presa in carico, dell’affiancamento, della motivazione al cambiamento.
Il gruppo Ama sul gioco d’azzardo di Trento è facilitato da un volontario, sociologo, con esperienza pluridecennale in questo ambito.
Relativamente all’invio e alla partecipazione al gruppo in questi anni
la collaborazione con i servizi pubblici, sia il servizio sociale territoriale sia l’azienda sanitaria, è stata costante ma piuttosto casuale
e frammentata. Alcuni giocatori sono arrivati al gruppo attraverso la
segnalazione da parte del loro medico di base, alcuni attraverso i servizi. A partire dal 2009 su proposta del Servizio Tossicodipendenze
di Trento, sollecitato dal costante aumento di persone con problemi
di dipendenza da gioco d’azzardo, si è costituito un gruppo di lavoro,
con l’obiettivo di conoscere il fenomeno e di elaborare una modalità
di collaborazione fra i servizi. Il gruppo è formato dalle seguenti figure
professionali: medico psichiatra, psicologa e assistente sociale del
Sert, coordinatrice, operatrice e facilitatore del gruppo associazione
Ama. Il gruppo di lavoro si è incontrato alcune volte per una reciproca
conoscenza e per uno scambio di opinioni sulla metodologia utilizzata. Successivamente è stato proposto ed elaborato un protocollo
di collaborazione fra i due servizi, che stabilisce le modalità di reci-
142
proco invio fra Sert e associazione Ama. Pur essendo il protocollo di
collaborazione ancora nella fase iniziale di applicazione, ci sembra
di poter dire che, come operatori dell’associazione Ama, ci sentiamo
un po’ meno soli nell’affrontare la problematica del gioco d’azzardo
parallelamente crediamo che anche gli stessi giocatori e/o i loro familiari si sentano meno soli. Alcuni aspetti del protocollo non sono stati
ancora definiti con precisione, sicuramente rimangono margini di miglioramento, ma lavorare assieme ad altri professionisti, prendere in
carico le situazioni condividendo riflessioni e strategie di intervento
diventa una modalità di approccio molto più completa. Infatti la complessità delle situazioni che spesso il giocatore d’azzardo vive non
può essere affrontata solamente dal gruppo, ma richiede supporti ed
interventi multi–professionali. Per questo l’invio reciproco e il lavoro di
condivisione e scambio risultano fondamentali.
6.
Aspetti principali della collaborazione tra Ama e Sert sul
gioco d’azzardo6
Nella provincia autonoma di Trento ci sono al momento due realtà che
si occupano di gioco d’azzardo patologico: Ama e Sert.
Si è pensato di dare inizio a una collaborazione tra queste realtà in
quanto riteniamo che siano complementari e che la reciproca conoscenza e scambio consentano un’efficienza e un’efficacia maggiori e
quindi diano la possibilità di offrire una risposta terapeutica adeguata
rispetto a una problematica (a volte una patologia) ancora poco conosciuta, ma con un trend di crescita estremamente significativo e con
pesanti ripercussioni su coloro che ne soffrono e sui loro familiari.
Si è ipotizzato che l’ingresso nella rete di cura possa avvenire presso
entrambe le organizzazioni, come già attualmente avviene. Risulta però
fondamentale la sinergia e l’invio reciproco, in modo da poter dare una
risposta integrata. L’invio può avvenire ai due servizi anche da parte di
terzi (servizi sociali territoriali o altri servizi specialistici…).
6 Tra Ama e Sert è in corso di stesura un protocollo d'intesa. Ci sembra interessante presentare qui alcuni aspetti salienti della collaborazione al fine di stimolare
altri servizi a compiere passi nella stessa direzione.
143
Persone/familiari che si rivolgono direttamente all’Ama
Gli operatori di rete dell’associazione svolgono un primo colloquio informativo, di consulenza e di valutazione con la persona che porta un
problema di gioco d’azzardo patologico. Tale colloquio ha l’obiettivo
di fare una prima analisi della situazione e di valutare l’opportunità o
meno della partecipazione al gruppo di auto mutuo aiuto. In particolare, i criteri di inclusione al gruppo “A che gioco giochiamo” sono:
– assenza di problemi psichiatrici gravi;
– motivazione e disponibilità al lavoro di gruppo;
– priorità, in situazioni multiproblematiche, del sintomo della dipendenza patologica da gioco.
Durante il percorso di gruppo, i referenti dell’Ama possono valutare
l’opportunità di integrare il trattamento con un invio al Sert, tale opportunità è riconosciuta in caso di:
– necessità di formulare una diagnosi e di certificare lo stato di dipendenza da gioco d’azzardo (per es., per questioni legali);
– opportunità di trattamento “individualizzato”;
– manifestazione di sintomi legati all’uso/abuso/dipendenza da sostanze stupefacenti;
– espressione di bisogni individuali di inserimento comunitario
residenziale;
– espressione e maturazione di un bisogno specifico di approfondimento su aspetti di natura soggettiva.
Persone/familiari che si rivolgono direttamente al Sert
L’accoglienza delle persone che hanno un problema di gioco d’azzardo patologico viene data in prima battuta dall’assistente sociale,
che, sulla base di una prima valutazione della situazione deciderà se
proseguire con la presa in carico.
Contestualmente, l’assistente sociale curerà l’invio all’Ama. In particolare l’intervento sociale potrebbe consistere:
– in una prima analisi della situazione economica e nella valutazione della necessità di invio al servizio sociale territoriale per
gli aspetti di competenza;
– in un sostegno delle relazioni all’interno della famiglia;
– in un’esplorazione degli interessi e delle attività trascurati a
144
causa del gioco e nell’individuazione di nuovi interessi e attività
per il tempo libero;
– nell’orientamento/accompagnamento presso le agenzie del
territorio che facilitano esperienze relazionali;
– nella valorizzazione della ripresa dei rapporti con la rete primaria e con quella sociale allargata.
Dopo il primo colloquio con l’assistente sociale e dopo l’invio all’Ama,
verranno fissati, nel giro di una–due settimane, sia il colloquio di accoglienza psicologica, sia la visita medica.
Nel caso in cui la domanda d’aiuto sia inoltrata dai familiari di persone
con problematiche di gioco d’azzardo patologico, il familiare andrà
informato su come funziona il Sert. e sulla realtà dell’Ama e il diretto
interessato dovrà essere invitato a prendere contatto con il servizio.
Il gruppo di lavoro Ama–Sert si incontrerà a cadenza tri–quadrimestrale con obiettivi di confronto, studio e ricerca condivisa.
7.
Funzioni principali di un centro di sostegno per i gruppi
di auto mutuo aiuto
1)
Promuovere e sostenere gruppi di auto mutuo aiuto, cioè:
incoraggiare la creazione di gruppi Ama mettendo in contatto
gli interessati;
offrire consigli e consulenze di varia natura (psicologica, organizzativa, normativa);
organizzare la formazione e l’intervisione per i facilitatori dei
gruppi;
appoggiare i gruppi nella collaborazione con i mass media;
tenere i rapporti con gli organi di governo e le amministrazioni
locali;
dare sostegno ai gruppi nella conduzione di ricerche, studi e
incontri di discussione.
–
–
–
–
–
–
2)
Facilitare l’acquisizione delle risorse materiali necessarie per
il funzionamento dei gruppi Ama mediante:
– servizi di consulenza amministrativa, legale, fiscale;
– ricerca di risorse necessarie quali una sede, segreteria, telefo-
145
no, fotocopie, fax.
3)
–
–
–
–
–
–
Fornire informazione e documentazione per:
la costituzione di un centro di documentazione sull’auto mutuo
aiuto;
la pubblicazione e la diffusione di un proprio bollettino informativo e di collegamento;
la gestione e l’aggiornamento di un indirizzario dei gruppi di
Ama presenti sul territorio in cui Ama opera;
l’organizzazione di seminari e incontri tra gruppi;
la partecipazione ad azioni di sensibilizzazione rivolte alla cittadinanza;
il servizio di informazione a chiunque sia interessato all’auto
mutuo aiuto.
8.
Conclusioni
I principi fondamentali dell’auto mutuo aiuto possono essere riproposti anche riguardo al rapporto gruppi–istituzioni. Ognuno dei soggetti
coinvolti ha una responsabilità, è necessario per arrivare a un risultato
condiviso, che ogni attore del progetto si faccia carico dell’impegno
preso.
È fondamentale riconoscere la competenza che ognuno porta, il
gruppo, esperto del proprio problema in quanto vissuto direttamente,
e l’istituzione, esperta di saperi professionali.
La relazione fiduciaria è un ulteriore elemento imprescindibile per
creare un rapporto di collaborazione efficace.
La società civile può essere tale sono attraverso un dialogo costante
e dinamico tra chi vive un problema e chi può avere strumenti per
affrontarlo.
È solo dalla creazione di sinergie che si può attuare il motto, tanto
caro all’interno dei gruppi di auto mutuo aiuto, la vita va vissuta attraverso i problemi, non malgrado i problemi.
146
Bibliografia
CARCHUFF R.
1988 — L’arte di aiutare, guida per insegnanti, genitori, volontari ed
operatori socio sanitari, Erikson, Trento
DAL PRA PONTICELLI M. (a cura di)
2005 — Dizionario di Servizio Sociale, Carocci Faber, Roma
DAL PRA PONTICELLI M.
1987 — Lineamenti di servizio sociale, Astrolabio, Roma
FIEDLANDER W.A.
1960 — Principi e metodi del servizio sociale, Il Mulino, Bologna
PERINO A.
2010 — Il servizio sociale, strumenti, attori e metodi, FrancoAngeli,
Milano
CNOAS–CONSIGLIO NAZIONALE ORDINE ASSISTENTI SOCIALI
2009 — Codice Deontologico dell’assistente sociale, approvato nella
seduta del 17 luglio, www.ordineastaa.it
149
Capitolo 5
La testimonianza di Stefano, giocatore
compulsivo
Ciao sono Stefano, giocatore compulsivo. Sono un membro dell’associazione giocatori anonimi da circa un anno…
Perché mi trovo in questa associazione?
Ma sono veramente malato come sento dire?
Ma ho veramente toccato il fondo, come gli altri?
Ma soprattutto “DESIDERO VERAMENTE SMETTERE DI GIOCARE”.
Questo è il punto fondamentale: “il desidero di smettere di giocare”.
Forse non è il desiderio di smettere di giocare ma quello di smettere
di farmi del male, di autodistruggermi, di isolarmi, che mi ha portato
qui, sicuramente è così perché è cosi che sono finito, nella più totale
autodistruzione, mia e di coloro che mi stavano vicino. Non volevo
più giocare, anzi mi correggo non dovevo più giocare, dovevo a tutti
costi recuperare per poi inevitabilmente ritrovarmi al punto di partenza, ripiombare nella disperazione e nell’ incapacità di controllare
questo desiderio. Sì, il desiderio di giocare indipendentemente dalle
conseguenze e soprattutto con la consapevolezza di ciò che sarebbe
successo nel bene (poco) e nel male (molto).
Ho sempre giocato nella mia vita, credo sia impossibile non farlo, il
gioco sotto ogni forma fa parte della nostra cultura, te lo insegnano
fin da bambino, il gioco non può essere pericoloso, non può arrecare
danno, può dare piacere e crea unione tra le persone, fa parte della
vita, come mangiare, lavorare... Allora perché sono qui?
Come dicevo ho sempre giocato, ma non sono mai stato attratto dal
gioco d’azzardo, anche perché ero convinto che quando giocavo
scommettendo qualcosa, non ne avrei mai avuto ragione. Ho frequentato anche i casinò, ma solo a scopo di compagnia, con amici, per
passare qualche ora in occasione di viaggi o visite nei luoghi dove
erano presenti.
Ho sempre considerato il gioco d’azzardo come uno spreco di tempo
e di denaro, ed ho sempre avuto un discreto rispetto per quest’ultimo,
lavorando e cercando di investire i guadagni, rendite certe, anche se
150
meno remunerative. Sono sempre stato contrario anche agli investimenti in borsa proprio perché ho sempre creduto, e lo credo tuttora,
che la madre di tutti i giochi d’azzardo sia proprio la Borsa Finanziaria, che per assurdo è legalizzata in tutto il mondo.
Allora perché mi trovo in questa associazione?
Credo che tutto sia cominciato quel fatidico giorno quando, in preda
alla noia e sopraffatto dalla mia curiosità (che riconosco sia la mia
peggior nemica), mi sono ritrovato in ufficio di sabato pomeriggio, a
girovagare in internet, da li è partito tutto in un vortice sempre più intenso e sempre più degenerativo che mi ha portato alla disperazione,
all’ autodistruzione, all’isolamento totale da tutto e da tutti, emozioni,
sensazioni, paure, rabbia, gioia, noia, ecc.
Tutto in un grande frullatore che girava in continuazione senza mai
fermarsi; ho elaborato meccanismi mentali, menzogne, falsi alibi e
pregiudizi sui quali ho poi costruito tutta la mia follia, un giorno alla
volta, proprio così come si dice in GA1 (concetto difficile da comprendere all’inizio della frequentazione), sembra un paradosso ma è
vero, io sono diventato un giocatore compulsivo UN GIORNO ALLA
VOLTA, ora me ne rendo conto perché UN GIORNO ALLA VOLTA sto
cercando di recuperarmi.
Ci sono stati molti momenti nella malattia, che pensavo di non avere
alternative, se non quelle di farla finita, solo pensieri fortunatamente,
ma che comunque non mi hanno mai persuaso dal continuare a giocare.
Cosa volevo allora, perché stavo facendo quelle cose? Forse mi sentivo solo?
All’inizio quando ho cominciato a frequentare l’associazione, ero convinto che una delle ragioni della mia malattia fosse proprio la solitudine, oggi invece ho riscoperto che la solitudine è un bellissimo momento di meditazione nel quale mi ritrovo soltanto con me stesso, in
pace e serenità e che quello che cercavo nel giocare era l’isolamento
più totale da tutti e da tutto ma soprattutto da me stesso.
Allora cosa cercavo? Forse per denaro?
1 Per GA si intende un gruppo di Giocatori Anonimi (nota dei curatori).
151
Non credo di aver avuto bisogno dei soldi in più di quelli che già
guadagnavo, lavorando, anche se all’inizio del mio giocare avevo impostato un metodo di gioco basato proprio sull’investire del denaro a
fronte di vincite, che paradossalmente arrivavano.
Per essere più chiaro, si trattava di giocare stabilendo una spesa di
base, tenendo conto anche dei Bonus che i casinò online elargivano
per richiamare l’attenzione. Opss.. scusate mi sono dimenticato di
dire che la mia dipendenza è iniziata con i giochi online e che a parte
qualche giocata al superenalotto e gratta e vinci, ho sempre e solo
giocato alle slot online: con questo presupposto iniziavo a giocare
con una puntata minima e salivo gradatamente, notando che più la
puntata aumentava, più la slot pagava e nel momento in cui la vincita
superava il denaro puntato mettevo all’incasso e cambiavo casino,
tornado a giocare solo il capitale iniziale e incassando la vincita. Può
sembrare strano ma all’inizio riuscivo a gestire la cosa in questo modo
e anche a trarne dei profitti, ovviamente questo non è durato, anche
perché con tutta probabilità faceva parte di quei meccanismi mentali
che la dipendenza del gioca genera dentro di noi.
Comunque ritornando alla domanda (forse per denaro?) ho scoperto che poi non era neanche questo il motivo, perché a fine 2009 ho
avuto la “botta di culo”, come si suol dire, e nonostante avessi fatto
una vincita ESAGERATA, che mi avrebbe sistemato per tutta la vita,
in un breve lasso di tempo ho rigiocato tutto ed allora ho capito che
ero impotente di fronte al gioco. Successivamente a quell’episodio
mi sono ritrovato veramente davanti alla realtà, forse cominciavo a
capire che non c’era nessun motivo in quello che stavo facendo, ma
che lo facevo e basta, incondizionatamente e incontrollabilmente, e
sentivo il bisogno di dover fare qualcosa per fermarmi. Sapevo anche
di Giocatori Anonimi, perché in alcuni casinò online si trovano dei collegamenti, ma non mi interessava.
Finchè un giorno dopo anni di disagi e sofferenze mia moglie mi disse: “tu sei malato, io non ti posso aiutare devi provare a frequentare
questa associazione, per dimostrarmi che vuoi cambiare altrimenti
sei fuori dalla nostra vita”. Questo ovviamente dopo tante promesse
fatte che sarei riuscito a smettere da solo e che cosi non è mai stato.
152
Onestamente in quel momento non è che mi interessasse più di tanto, però forse più per curiosità (questa volta amica) che per amore,
ho deciso di accettare questa condizione e di andare alla riunione di
Giocatori Anonimi alla Misericordia di Firenze.
Devo dire che quello è stato uno dei giorni che non dimenticherò mai
più, quando sono arrivato ero un po’ impaurito: chissà cosa sarà, ci
saranno dei dottori, troverò qualcuno che conosco, queste erano le
domande e i dubbi che mi assillavano, l’incontro era fissato al bar della Misericordia, dove avrei incontrato la persona che avevo contattato
per telefono. Appena arrivato ho notato che c’erano dei gruppetti di
persone che ridevano e scherzavano e che uno di loro guardandomi
si è avvicinato: era lui che con molto affetto mi ha dato la mano e mi
ha abbracciato, facendomi sentire subito a mio agio, poi mi ha presentato agli altri e ci siamo diretti nella stanza dove si riunivano, che
veniva chiamata la stanza dei morti, non ho capito perché ancora
oggi e non mi interessa, al centro della stessa un tavolo e delle sedie
tutte intorno, prendiamo posto e inizia la riunione, con una persona
che inizia a leggere spiegando cose sull’associazione e sul programma, lettura dei passi e delle tradizioni2, poi per l’occasione dato che
c’era uno nuovo (Io), decidono di leggere il primo passo del recupero
e successivamente presentarsi e parlare del loro recupero.
Mentre ascoltavo la lettura del passo, mano a mano che andava
avanti sentivo la tensione che si trasformava dentro di me in leggerezza, rilassamento, pace, piacere, sensazioni che per molto tempo
erano state soffocate dalla malattia, mi sembra di aver scritto io quel
passo, improvvisamente non mi sentivo più isolato, unico, con l’esclusiva della dipendenza e successivamente dopo le testimonianze, mi
riconoscevo in molte di loro con un vero senso di liberazione. Vedere
e sentire quelle persone una diversa dall’altra, nella forma e nella
mente ma accomunate da un unico desiderio, rinascere, ritrovare la
serenità, smettere di giocare con la propria vita, mi ha veramente fatto
scattare un’attrazione e un desiderio di ritornare alla riunione succes-
2 Per “passi e tradizioni” ci si riferisce ad una metodologia tipica dei gruppi dei
Giocatori Anonimi (nota delle curatrici).
153
siva e a quella dopo ancora e così via a molte altre fino ad oggi.
Credo che la prima riunione sia il momento più importante per un giocatore compulsivo, per me lo è stato, percepire quell’attrazione fondamentale a motivarmi a ritornare e ritornare e frequentare, sempre di
più con passione e curiosità nel percorso di riscoperta interiore che il
programma di giocatori anonimi dà.
Anche se inizialmente non avevo smesso di giocare, anzi paradossalmente la sera quando rientravo a casa, stando da solo, ritornavo nelle vecchie abitudini; nonostante questo però il lunedì ero sempre là,
puntuale e interessato a cercare di capire e scoprire, a parlare finalmente con persone che non mi giudicavano e che mi ascoltavano, ad
ascoltare io gli altri per cercare di carpire, apprendere sulle esperienze di chi, come tanti, ce la stava facendo. Ho iniziato poi a frequentare altri gruppi, incontri di pubblica informazione, seminari e a cercare
anche sul web informazioni che mi dessero lo stimolo a decidere di
smettere, poi una sera durante un incontro, ci fu una testimonianza di
un membro, che purtroppo non ce la stava facendo che inizialmente
mi dette addirittura fastidio, e che invece successivamente, riflettendo con più calma, mi fece decidere che era il momento di provare,
sì provare a smettere di giocare e così è stato. Chissà, forse ho visto
nella sua testimonianza, nella quale si arrendeva al gioco, dicendo
che non poteva farne a meno, aveva deciso di continuare a giocare
ma in modo più moderato, più controllato… forse ho rivisto quando
tutto è iniziato, e ho compreso veramente che non c’era speranza e
che l’unico modo era di fare l’opposto, come poi ho fatto e sto cercando di fare un giorno alla volta.
Da quella sera di aprile, mi sono affidato al potere superiore3 e ho
deciso di cambiare, di provare a mettere in pratica quei principi che
sono parte di un programma che oggi riconosco infallibile, e che se
veramente desidero cambiare l’associazione può aiutarmi.
Certo è che se quella sera non avessi percepito quelle sensazioni e
quell’attrazione forse oggi non sarei neanche più qui, ma questa è
3 Il “potere superiore” nei Giocatori Anonimi è qualcosa di soggettivo e ciascuno
può identificarlo in ciò in cui crede (nota delle curatrici).
154
un’altra storia.
Quello che l’associazione mi sta dando e mi sta insegnando è senza
eguali, non si può spiegare a volte come un messaggio, una telefonata, un caffè con un membro di GA riesca a farmi superare i momenti
di difficoltà del recupero, sono sempre più convinto che senza l’associazione non sarei riuscito a tenere a freno la malattia, con il programma, lavorando sui passi so che potrò effettuare quei cambiamenti
necessari al recupero.
Oggi, dopo qualche “24 ore” di astinenza da ogni forma di gioco,
ringrazio GA, perché ho potuto riassaporare la vera mia esistenza, il
mio IO interiore che avevo soffocato e il piacere di vedere la luce, di
sentire il dolore e l’amore, certo che il percorso è lungo e forse anche
senza fine, però so che insieme al programma e all’Associazione, ce
la posso fare, dipende solo da me.
All’inizio sono arrivato a GA perché DOVEVO FARLO, oggi frequento
GA perché VOGLIO FARLO e finche ci sarà questa volontà dentro di
me, con pazienza, costanza e senza fretta, riuscirò a trovare la serenità mia e di chi mi sta vicino.
Per il mio amore.
157
Capitolo 6
“Scommetti che t’impegni?”: esperienze e
testimonianze dai laboratori di peer education
di Elisa Brigiolini
1.
Una breve introduzione
Il presente articolo presenta una parte del lavoro portata avanti all’interno del progetto “Scommetti che t’impegni?” finanziato dalla Regione Toscana nel 2009 all’interno del bando “Contributi regionali per la
promozione della cultura della legalità democratica (L.R. 11/99)”, già
presentato nel capitolo 2.
Una delle azioni svolte all’interno del progetto è stata l’organizzazione
di alcuni laboratori di peer education nelle scuole partner, che coinvolgessero i ragazzi con la finalità di produrre materiali informativi sui
temi delle “nuove dipendenze”.
La peer education fa riferimento ad un metodo di apprendimento e
approfondimento di contenuti tramite un processo naturale di passaggio di conoscenze ed esperienze da parte di alcuni membri di
un gruppo ad altri di pari status (Napoli, Marallo 2006). Numerosi
studi hanno infatti evidenziato come in certi ambiti, ed in particolare
quelli che riguardano l’educazione alla salute, la pura informazione,
veicolata secondo modalità classiche del rapporto esperto/destinatario dell’intervento, tenda a non produrre cambiamenti sostanziali nei
comportamenti. Prevenzione ed educazione, pertanto, non possono
più essere basate unicamente sulle azioni di informazione e sull’impatto emotivo che può produrre la conoscenza “scolastica” delle
conseguenze possibili di un atteggiamento non responsabile: è invece necessario sviluppare strategie che integrino la formazione e
l’informazione, e che tengano conto della complessità dei processi
di apprendimento e cambiamento. Dagli studi svolti nell’ambito della
comunicazione efficace (Watzlawick, Beavine, Jackson 1971; Petty
e Cacioppo 1998) sappiamo inoltre che la riuscita di un processo
comunicativo è determinata da vari fattori, fra i quali la motivazione
del ricevente verso l’argomento e il rapporto fra emittente e ricevente,
158
spesso supportato da una qualche forma di similarità fra le persone
coinvolte. Nel caso degli interventi di peer education la similarità tra
emittente e ricevente è da rintracciarsi nel fatto che a farsi promotori
e agenti di cambiamento sono appunto alcuni membri del gruppo, leader naturali, che si rivolgono ai pari utilizzando lo stesso linguaggio,
verbale e non verbale, e condividendo un analogo percorso esperienziale.
Altro concetto fondamentale della metodologia di peer education è
quello di empowerment, cioè di costruzione di capacità e di consapevolezza (Rappaport, 1977). L’empowerment dei soggetti target dovrebbe essere il risultato atteso di tutti gli interventi sociali, che mirino
a mettere i destinatari nelle condizioni di gestire e di controllare i capitali a propria disposizione (di salute, di relazioni, di competenze).
Il progetto “Scommetti che t’impegni?” ha fatto della metodologia
della peer education uno dei suoi punti centrali, coinvolgendo nella
costituzione dei laboratori le cinque scuole partner della zona sanitaria Firenze Sud Est. Ciascuna scuola è stata coinvolta attivamente
sia in fase di progettazione che nell’esecuzione delle attività previste, e “Scommetti che t’impegni?” è stato inserito all’interno del Pof
2009–2010 (Piano di offerta formativa) in quanto punto di interesse
delle scuole coinvolte nel partenariato. Questa premessa è stata fondamentale per il buon svolgimento del progetto, che ha visto la partecipazione attiva degli insegnanti, dei presidi e dei ragazzi coinvolti,
permettendo allo staff coinvolto di lavorare in un clima collaborativi e
partecipe.
Date tali premesse, il progetto ha contribuito al raggiungimento degli obiettivi educativi degli istituti, attraverso la messa in campo di
professionalità specializzate e la forte integrazione con il corpo insegnante.
2.
L’esperienza educativa e di peer education all’interno del
progetto
In questo articolo vogliamo restituire alcune riflessioni emerse dai 3
educatori coinvolti circa il percorso di peer education portato avanti
con i ragazzi. Il lavoro dei tutor/educatori è stato svolto in maniera
159
laboratoriale e partecipativa, finalizzato alla costruzione di materiale
informativo sul tema delle “nuove dipendenze” destinato agli studenti
delle scuole coinvolte. Il materiale si è concretizzato in video e alcuni
cortometraggi creati dai gruppi di giovani peer educators (composti
da 5–10 studenti per ciascuna scuola). In questo articolo riportiamo
le impressioni personali degli educatori, con lo sguardo “clinico” di
chi con i peerer ha lavorato: le difficoltà incontrate, i punti di forza,
come questi ragazzi si rappresentano i fenomeni (internet, shopping,
gioco d’azzardo), e quali letture diano di queste “nuove dipendenze”.
Un “dietro le quinte” che spera di essere critico e ragionato, per diffondere fra gli adulti le riflessioni promosse dai ragazzi, perché nelle
nostre funzioni di educatori, psicologi, insegnanti, continuiamo a porci delle domande.
Le scuole coinvolte sono state istituti e licei superiori e scuole inferiori
di primo grado della zona socio–sanitaria fiorentina sud est. Nello
specifico abbiamo lavorato con un liceo scientifico; con due istituti
tecnici e con due scuole medie.
Le attività di peer education svolte tra dicembre e aprile sul tema
dell’uso del denaro, l’uso dei giochi, la gestione del tempo libero,
l’abuso di sostanze sono state così articolate:
– nel bimestre dicembre–gennaio è stata organizzata la promozione
del progetto e la selezione e formazione dei gruppi di peer educators, composti da circa 10 ragazzi per scuola. Nelle scuole primarie si è fatto riferimento ai ragazzi delle seconde medie, attraverso
l’individuazione di un gruppo di ragazzi all’interno della scuola, o
di una classe, in collaborazione con gli insegnanti che hanno distribuito le schede di adesione al progetto. Nelle scuole superiori,
sono state adottate strategie di promozione mirate ai rappresentanti degli studenti o ai capiclasse. Sono state fatte presentazioni
del progetto in assemblee di istituto o assemblee dei rappresentanti di classe, distribuendo schede di adesione e volantini realizzati da alcuni ragazzi dell’indirizzo grafico dell’Istituto Volta.
– Nel periodo febbraio–maggio 2010 si è svolta l’attività degli educatori con i gruppi di peer educators mirata a sviluppare le riflessioni attive dei ragazzi. A tale attività sono state dedicate circa 2
160
ore a settimana. I gruppi dei peer educators hanno lavorato con
tre diversi tutor/educatori individuati: uno per le scuole medie, due
per le superiori. Le azioni sviluppate dai gruppi di lavoro sono state varie, e si sono diversificate principalmente rispetto all’età e alle
competenze messe in campo dai ragazzi coinvolti. Si è rilevata
una differenza nella quantità di studenti coinvolti, molto più esigua
alle scuole superiori, dove gli incontri si sono svolti fuori dall’orario
scolastico; molto maggiore alle scuole medie, dove i gruppi sono
stati individuati dai docenti e gli incontri si sono svolti in orario
scolastico. In ogni caso i tutor, insieme ai gruppi di peerer, hanno progettato dei piccoli percorsi e dei prodotti da realizzare, per
consentire di divulgare la riflessione sul tema delle nuove dipendenze a tutti gli altri studenti delle scuole.
Riportiamo un breve elenco dei lavori prodotti dai gruppi di ragazzi
coinvolti come peerer con il supporto dei tutor:
• Liceo scientifico: è stato organizzato un concorso interno di
murales a tema, il progetto di murales è poi stato realizzato nel
mese di maggio;
• Istituto tecnico 1: è stata progettata, sceneggiata, girata e montata una videoclip, ovvero un cortometraggio, sul tema della
dipendenza intitolata “Le dipendenze dell’uomo moderno”:
• Istituto tecnico 2: è stato realizzato una videoclip sul tema delle
nuove dipendenze;
• Scuola media 1: è stato realizzato un documento video con le
videointerviste sul tema realizzato dai ragazzi;
• Scuola media 2: è stato realizzato uno spot video e, usando Power point, il gruppo ha preparato una presentazione esplicativa
sul tema delle nuove dipendenze per la diffusione all’interno
della scuola.
Alla fine dell’anno scolastico si è tenuto presso la scuola capofila un
incontro per la diffusione dei risultati della ricerca–azione e dei materiali prodotti dai peer educators che ha coinvolto i ragazzi dei cinque
istituti: durante la mattinata sono stati proiettati i risultati della ricerca,
i video realizzati dai diversi gruppi di ragazzi, ed è stato mostrato il
murales dei ragazzi del liceo.
161
I risultati finali del progetto sono stati pubblicati in un video, diffuso
fra le scuole dell’area fiorentina, contenente i risultati del lavoro svolto
nell’anno scolastico 2009–2010.
Crediamo che l’esperienza sia stata costruttiva e fondamentale, sia
per i ragazzi, che hanno avuto l’opportunità di avvicinarsi a tematiche
nuove e importanti come quelle sulle nuove dipendenze, ma anche
per gli adulti che li hanno accompagnati in questo percorso.
Riportiamo qui i “quaderni di bordo” dei tutor che hanno seguito il
lavoro dei ragazzi nel corso dell’anno scolastico, come materiale utile
a tutte le associazioni che vorranno avventurarsi nella progettazione
di interventi educativi sul tema delle nuove dipendenze.
3.
Testimonianze e backstage del cortometraggio “Le
dipendenze dell’uomo moderno”
Testimonianza della tutor Tuia Chierici
Prima di iniziare il percorso con i ragazzi ho tentato di esplorare l’impatto delle nuove dipendenze sul mio quotidiano e su Pontassieve:
ho notato ad un tratto come le Snai e le sale giochi fossero “spuntate
come funghi”; ci mettevo il naso dentro e i signori giocatori mi guardavano storto. Non vedevo molti giovani. Forse i più accaniti giocatori
siamo noialtri adulti...e le più accanite compratrici compulsive siamo
noi, giovani trentenni, quarantenni, cinquantenni...Per farla breve, nel
mio lavoro come educatore all’interno del progetto, mi sono trovata
di fronte quattro ragazze e un ragazzo di 17 anni interessatissimi,
col quadernino aperto e la penna pronta a annotarsi dati. Nessuno
di loro faceva nottata su internet, nessuno di loro comprava beni per
sopperire pene, nessuno aveva mai giocato d’azzardo. Ci guardavamo quindi, soppesando gli enormi rischi di queste dipendenze ed io
sudavo mentre loro trattenevano educatamente gli sbadigli. Sì, perché erano proprio dei bravi ragazzi, oltre che saggi e sani di mente.
Poi, abbiamo iniziato a parlare di quanto alcuni aspetti di quelle che
si chiamano “nuove dipendenze” influiscono nel nostro quotidiano, e
guardandoli insieme siamo inorriditi e ci siamo presi anche un po’ in
giro.
Rispetto alla mia esperienza di educatore, ho insegnato ma ho an-
162
che ottenuto in cambio molte cose. Ad esempio, attraverso il progetto
ho imparato a “scontornare” su Photoshop grazie ad una ragazza
del gruppo, genietta del design; ho capito che tutto quello che ho
imparato di concettuale teorico sul montaggio é già parte integrante della grammatica espressiva dei ragazzi: infatti, pur non avendo
esperienze di montaggio, sanno perfettamente cosa e perché deve
susseguire ad un evento, e in quale ritmo... e purtroppo sanno pretendere da te, operatore, il compimento concreto di tutte le loro fantasie
estetiche. Ecco, fanno fatica a considerare la “fattibilità di certe idee”,
pensavo... e invece poi le abbiamo “fatte” davvero.
Il prodotto finale del nostro lavoro è stato un video montato dal gruppo che aveva come protagonista il personaggio inventato di “Debby”,
fantomatica “ragazza modello”, appassionata di shopping e di moda,
ignorante come una capretta, ingenuamente razzista e opportunista,
una ragazza che se si muove produce un jingle pubblicitario e parla
come Barbie, colla borsetta di Dolce e Gabbana. Le ragazze hanno
improvvisato con una tale sicurezza il personaggio che é stato sufficiente fare una sola ripresa e registrazione del testo.
L’unico maschio presente nel gruppo per fortuna è un ragazzo paziente che ama osservare e contribuire, e ha aiutato le compagne
a controllare l´esuberanza della loro femminilità e rimanere centrate
sul lavoro. Nel video, gli è toccato recitare anche la parte odiosa del
fidanzato legato al guinzaglio. Si può dire che per lui è stato un corso
sul pensiero adolescenziale femminile, oltre che sulle nuove dipendenze... Spero che, attraverso questa esperienza, si sia un po’ smaliziato e liberato dalle timidezze.
Alla fine del nostro lavoro, abbiamo organizzato un dibattito a scuola
su questo tema, che i ragazzi hanno gestito impegnandosi al massimo, anche se ci è dispiaciuto constatare come sia difficile coinvolgere i compagni su temi così difficili.
Il diario di bordo del tutor Tiziano Falcicchio
Le due scuole dove ho svolto il mio lavoro come tutor hanno reagito in
modo completamente diverso alla presentazione del progetto.
I ragazzi che ho trovato all’istituto tecnico appartenevano a diverse
classi, diversi per età e livello culturale, però molto simili per idee e
163
mentalità: tutti infatti facevano parte del collettivo studentesco dell’istituto. Lavorare in un contesto del genere mi ha permesso di saltare “a
piè pari” il problema della costituzione di un gruppo. I ragazzi erano
già molto attivi all’interno della scuola, gestivano le assemblee di istituto e cercavano di fare propaganda sui problemi istituzionali e politici, cercando di creare contesti dove poter sensibilizzare l’opinione
degli altri studenti su certe tematiche.
Tutti erano molto interessati alle problematiche che il progetto trattava: gioco d’azzardo, dipendenza da social network e shopping compulsivo.
Inizialmente il gruppo costituito per il progetto era un sottogruppo del
collettivo. Alcuni di loro, i più carismatici, hanno cercato di pubblicizzare il progetto nella scuola con dei volantini realizzati appositamente per reclutare nuovi interessati. Dopo questa mossa, si è aggiunto
qualche altro studente.
Man mano che gli incontri nella scuola si susseguivano, fra me ed i
ragazzi si è sviluppato un rapporto molto intenso. Spesso cominciavamo le discussioni parlando dei problemi del collettivo: i giovani mi
chiedevano consigli su come gestire le assemblee e su quali fossero
le metodologie giuste per rendere efficace la comunicazione quando
si ha di fronte un grande numero di persone.
Sono stato ben felice che il mio rapporto con loro sia andato anche
oltre alla realizzazione del prodotto per il progetto “Scommetti che
t’impegni?” e anche io mi sento tutt’oggi cresciuto grazie ai loro punti
di vista, opinioni e approccio ai problemi.
I ragazzi hanno scelto di riflettere sul tema della dipendenza da internet e social network. La scelta non era campata in aria, visto che molti
di loro utilizzavano regolarmente certi mezzi di comunicazione, riconoscevano la velocità con cui si può sviluppare dipendenza da certi
siti come Facebook o Netlog, e vedevano chiaramente come certi
strumenti siano l’ideale per potersi mettere una maschera virtuale da
presentare al mondo pur rimanendo alla propria scrivania.
Credevo che avremmo avuto problemi a reclutare persone per girare
il video, invece hanno partecipato tutti. Ognuno ha avuto un ruolo
almeno di comparsa, il video poi è stato rimontato e presentato come
164
prodotto finale.
La cosa che mi ha colpito di più sono state le loro competenze informatiche: due di loro si sono incaricati di rimontare il video, e hanno
cominciato a parlare di programmi per me sconosciuti. Il video finale
è il risultato di 4 software di montaggio audio e video usati in contemporanea, ognuno per le sue caratteristiche specifiche. Incredibile, in
questo mi sono sentito piccolo piccolo in confronto a loro.
Anche se siamo arrivati a presentare il prodotto quasi allo scadere del
tempo consentito, i ragazzi mi hanno chiesto se potevano comunque
ritoccare certe parti del video per rendere il lavoro ancora più bello, segno evidente dell’attaccamento al prodotto realizzato con tanta
cura per il progetto “Scommetti che t’impegni?”.
Per quanto riguarda il lavoro svolto al liceo, devo dire che la ragazza con cui ho interagito maggiormente è stata una rappresentante
di istituto che mi ha seguito anche perchè inizialmente caldeggiata
dalla preside. La ragazza si è data un gran da fare per pubblicizzare
il progetto nella sua scuola, ma in una prima fase non ha ricevuto
molte adesioni. Per fortuna, il progetto si è mosso quando alcuni dei
compagni hanno proposto di fare un murales raffigurando una delle
tematiche del progetto, il gioco d’azzardo.
Durante ultime settimane disponibili prima della chiusura del progetto, la rappresentante ha reperito alcuni amici che avevano voglia di
disegnare ed è stato così che con loro abbiamo realizzato un disegno
molto bello, sottoforma di vignetta, che raffigurava 3 tipologie di giocatori d’azzardo, ognuno “infognato” nella propria dipendenza.
Non saprei cosa consigliare per riproporre un progetto di prevenzione in un contesto come quello della scuola, ma sicuramente si lavora
meglio quando le persone sono naturalmente interessate. È lì che
oltre agli aspetti didattici si possono creare contesti di confronto, partecipazione, entusiasmo.
Il racconto dell’esperienza nelle scuole medie.
Testimonianza del tutor Matteo Ceccherini
Quando ho accettato di fare da tutor a due gruppi di studenti di seconda media, con l’obiettivo di favorire la costituzione di gruppi di
peer educators in grado di realizzare un prodotto finale sui temi delle
165
nuove dipendenze, mi sono posto subito alcune domande, in quanto
tale esperienze era nuova anche per me.
Un dodicenne quale percezione ha di fenomeni relativamente nuovi quali il gioco d’azzardo, la dipendenza da internet o lo shopping
compulsivo?
Quale rilevanza hanno questi argomenti nella sua quotidianità? Sarà
possibile raggiungere l’obiettivo con entrambi i gruppi senza adottare
il modello che la didattica tradizionale impone; ovvero senza il voto,
senza la punizione, senza il richiamo ad alta voce?
Avevo chiaro da dove partire, andando a sondare le percezioni, le
aspettative e le conoscenze dei ragazzi sulle nuove dipendenze, ma
non ero in grado di prevedere se i ragazzi (ed io con loro) sarebbero
stati in grado passare da un’ottica passiva di scambio di informazioni,
ad una costruzione di nuove connessioni che portassero a realizzare
un prodotto informativo rivolto ai loro coetanei.
Per rispondere a molte delle mie domande è stato sufficiente leggere
nelle schede di adesione al progetto le motivazioni con cui i ragazzi
si candidavano a partecipare.
Scrivevano: “dopo aver fatto i compiti se non ho altri impegni sto due
ore e mezza davanti al mio computer.
Sto su Facebook, Flashgame, ecc. Arrivo all’ora di cena e gli occhi mi
bruciano da paura. Io non voglio smettere di usare il pc ma almeno
starci un po’ meno davanti” (ragazzo di II media); oppure “se non sto
al computer almeno un’ora al giorno divento isterico e il gioco su internet mi fa spendere soldi” e “questa cosa delle nuove dipendenze
ci riguarda in prima persona” (ragazzo di II media) e così via.
È stato questo il materiale da cui partire per porsi altre domande sui
meccanismi della dipendenza in generale, sulle differenze e sulle
analogie tra nuove dipendenze, che generano minor allarme, e dipendenze da sostanze.
Il percorso ha portato alla realizzazione di due prodotti audio–video
che sono stati proiettati in tutte le classi seconde dei due istituti. Il
momento forse più alto raggiunto dal progetto è stato il convegno finale, durante il quale sono stati mostrati i lavori realizzati nelle diverse
scuole coinvolte dal progetto.
166
Vedere i ragazzi della scuola media con cui ho lavorato intervenite al
convegno di fronte ad un pubblico composto per la maggior parte da
studenti di scuola superiore è stato davvero gratificante e sorprendente per la spontaneità delle loro parole e la consapevolezza del
ruolo sociale che questi “giovani” hanno rivestito.
Bibliografia
LUCA NAPOLI, EVELINA MARALLO
2006 — Cose da ragazzi. Percorso innovativo di Peer Education,
Cesvot, “I Quaderni”, n. 30, maggio (http://www.cesvot.it/repository/
cont_schedemm/1197_documento.pdf)
PAUL WATZLAWICK, JANET HELMICK BEAVIN, DON D. JACKSON
1971 — Pragmatica della comunicazione umana,
Astrolabio, Roma
PETTY RICHARD E., CACIOPPO JHON T.
1998 — Communication and persuasion, Sprinter, New York
RAPPAPORT, J.
1977 — Community Psychology: Values, Research, & Action, Holt,
Rinehart & Winstonk, New York
169
Gli autori
Valentina Albertini, psicologa, specializzanda in Psicoterapia sistemico-relazionale presso il Centro Studi Applicazione Psicologia Relazionale di Prato. Dal 2005 collabora con il Cesvot nell’area della
formazione del volontariato e della promozione del volontariato giovanile. Dal 2004 al 2008 è stata ricercatrice e progettista presso la Fondazione Giovanni Michelucci. E’ cultrice della materia in Psicologia
sociale delle dipendenze nella Facoltà di Psicologia dell'Università
di Firenze per l'anno accademico 2010-2011. Ha progettato e coordinato la parte di ricerca del progetto “Scommetti che t’impegni?” sul
tema delle nuove dipendenze finanziato dalla Regione Toscana con il
bando Progetti promozione della legalità 2009.
Elisa Brigiolini, psicologa, opera nel Chianti nel settore socio-educativo e della formazione. Lavora presso l'associazione culturale
Aracnos, dalla quale alcuni soci hanno fondato la cooperativa sociale
Coop.21 - agenzia formativa accreditata della Regione Toscana - che
si occupa di adolescenti, partecipazione democratica e formazione
professionale.
Giovanni Delacqua, psicologo, opera a Firenze nel settore socioeducativo e della formazione. Ha collaborato con il Coordinamento
Regionale dei gruppi di auto aiuto dove ha svolto un tirocinio specialistico occupandosi di progettazione sociale e seguendo gruppi di
auto aiuto. Ha preso parte a giornate di sensibilizzazione promosse
dal Cesvot e dal Coordinamento regionale dei gruppi di auto aiuto su
vari temi come ansia e depressione ed ha organizzato, insieme al Cesvot ed al Coordinamento regionale dei gruppi di auto aiuto, giornate
di sensibilizzazione e formazione su vecchie e nuove dipendenze.
Elisa Ferrini, psicologa e specializzata in psicoterapia sistemicorelazionale presso la Scuola di Specializzazione Centro Studi e Applicazione della Psicologia Relazionale di Prato, è stata Cultore della materia presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi
170
di Firenze per la cattedra di Psicologia dell’empowerment sociale.
Ha svolto ricerca sul consumo problematico di sostanze per Forum
Droghe e la Facoltà di Psicologia dell’Università di Firenze. Ha preso
parte al progetto "Scommetti che ti impegni?" sulla prevenzione delle
nuove dipendenze e da alcuni anni si occupa di interventi di prevenzione e promozione della salute rivolti ad adolescenti e adulti.
Francesca Gori, psicologa psicoterapeuta specializzata in terapia sistemico relazionale presso L'I.T.F. di Pisa. Svolge attività privata come
psicoterapeuta dal 2008. È consulente psicologa della Lidap (Lega
italiana disturbi di attacchi di panico) di Firenze e collabora da 7 anni
con il Coordinamento Regionale dei gruppi di auto aiuto dove svolge
attività di progettazione, formazione e ricerca.
Patrizia Meringolo, psicologa, è professore straordinario di Psicologia dei gruppi e di comunità e di Psicologia dell’empowerment sociale nella Facoltà di Psicologia dell’Università di Firenze. La sua ricerca
degli ultimi anni ha riguardato gli stili di vita e la promozione della
salute e gli aspetti psicosociali legati alle migrazioni, alle differenze di
genere, al rischio in età giovanile e all’abuso di sostanze.
Alessandro Morandi, psicologo e dottore di ricerca in psicologia,
svolge attività di studio e di ricerca nel campo della psicologia sociale e di comunità. Negli ultimi anni ha partecipato a ricerche inerenti gli
aspetti psicosociali nelle marginalità sociali estreme e la promozione
della salute legata agli stili di vita giovanili, con particolare riferimento
alle dipendenze con o senza sostanze. Su questi temi ha pubblicato articoli su riviste scientifiche nazionali e partecipato a convegni
scientifici in Italia e all'estero. È socio della Sipco (Società Italiana di
Psicologia di Comunità) e professore a contratto di Psicologia sociale
delle dipendenze nella Facoltà di Psicologia dell'Università di Firenze
per l'anno accademico 2010-2011.
Elisa Parentini, psicologa e specializzanda presso la Scuola di Psicoterapia Comparata di Firenze, collabora da qualche anno con il
171
Coordinamento Regionale dei gruppi di auto aiuto dove ha svolto un
tirocinio post laurea occupandosi di progettazione sociale e seguendo gruppi di auto aiuto. Ha preso parte a giornate di sensibilizzazione promosse dal Cesvot e dal Coordinamento regionale dei gruppi
di auto aiuto sul tema delle nuove dipendenze. Attualmente lavora
come educatrice con minori presso la cooperativa Civitas Educa nel
territorio di La Spezia.
Lisa Rontini, psicologa e psicoterapeuta formatasi presso la Scuola di Specializzazione Centro Studi e Applicazione della Psicologia
Relazionale di Prato, ha una nomina di cultrice della materia presso
la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Firenze nell’insegnamento di Psicologia sociale delle dipendenze. Ha svolto il tirocinio di specializzazione presso il Sert Chianti 1 – Zona socio-sanitaria
Sud-Est, dove è tutt’ora attiva a livello volontaristico. Da anni si occupa di adolescenza: è responsabile del Centro Giovani “50012” del
Comune di Bagno a Ripoli dal 2003 e lavora in una scuola superiore
fiorentina dal 2004. Svolge inoltre consulenza psicologica e psicoterapia rivolta a individui, coppie, famiglie.
Miriam Vanzetta, assistente sociale specialista, lavora per l’associazione Ama di Trento dal 1999, inizialmente come operatrice di rete per
lo sviluppo, la creazione e il sostegno dei gruppi di auto mutuo aiuto
in ambiti vari nel territorio provinciale e successivamente nell’ambito
della formazione all’auto mutuo aiuto.
Sandra Venturelli, assistente sociale, coordinatrice associazione
Ama di Trento, ha promosso e facilitato gruppi di auto mutuo aiuto
in vari ambiti; ha lavorato fin dal 1980 in enti di privato sociale, associazioni e cooperative del terzo settore in Trentino, occupandosi nello
specifico di disabilità, emarginazione, promozione della salute; contemporaneamente collabora con il Corso di Laurea in Servizio Sociale
di Trento nel ruolo di tutor dei tirocini.
175
Indice
Premessa
di Patrizia Meringolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p.
5
Introduzione
di Valentina Albertini, Francesca Gori . . . . . . . . . . . . . . . . .
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68
Capitolo 1
Fra vecchie e nuove dipendenze:
definizioni teoriche e ambiti della ricerca
di Elisa Ferrini, Lisa Rontini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. Una breve introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. La dipendenza: chi riguarda e perchè . . . . . . . . . . . . .
3. La dipendenza: meccanismi psicologici . . . . . . . . . . .
4. La classificazione delle dipendenze
secondo il modello di Luigi Cancrini. . . . . . . . . . . . . . .
5. La famiglia del tossicodipendente . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Le nuove dipendenze o new addictions. . . . . . . . . . . .
7. Il gambling o gioco d’azzardo . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8. Shopping problematico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9. Internet addiction . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
10. La dipendenza relazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
11. La dipendenza sessuale e la cybersex addiction . . . .
12. La dipendenza da lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
13. Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Capitolo 2
Le nuove dipendenze e gli adolescenti:
una indagine esplorativa
di Alessandro Morandi, Valentina Albertini . . . . . . . . . . . . .
1. Breve storia del progetto “Scommetti che t’impegni?” .
2. Perché un’indagine su stili di vita e comportamenti
a rischio fra gli adolescenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
176
3.
4.
L’indagine nel progetto “Scommetti che t’impegni?” . .
Alcuni risultati: i focus group con insegnanti
e dirigenti scolastici. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5. Alcuni risultati: il questionario somministrato
agli adolescenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6. Riflessioni e conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p.
71
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73
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»
78
92
96
Capitolo 3
L’auto aiuto: un possibile intervento per le nuove dipendenze
di Giovanni Delacqua, Elisa Parentini . . . . . . . . . . . . . . . . . » 105
1. L’auto aiuto: definizione e storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 105
2. I gruppi di auto aiuto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 110
3. Caratteristiche dei gruppi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 112
4. Come attivare un gruppo di auto aiuto . . . . . . . . . . . . . » 115
5. L’auto aiuto tra vecchie e nuove dipendenze . . . . . . . . » 119
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 127
Capitolo 4
Nuove dipendenze e istituzioni: l’esperienza di Trento
di Miriam Vanzetta, Sandra Venturelli . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. Cenni sull’evoluzione dei servizi di privato
sociale in Trentino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. L’associazione Ama–Auto Mutuo Aiuto di Trento . . . . .
3. L’auto mutuo aiuto e le nuove dipendenze in Trentino .
4. La testimonianza di un partecipante. . . . . . . . . . . . . . .
5. Dal gruppo di auto mutuo aiuto al protocollo d’intesa .
6. Aspetti principali della collaborazione tra Ama e Sert
sul gioco d’azzardo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7. Funzioni principali di un centro di sostegno
per i gruppi di auto mutuo aiuto . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8. Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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177
Capitolo 5
La testimonianza di Stefano, giocatore compulsivo. . . .
Capitolo 6
“Scommetti che t’impegni?”: esperienze
e testimonianze dai laboratori di peer education
di Elisa Brigiolini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1. Una breve introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2. L’esperienza educativa e di peer education
all’interno del progetto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3. Testimonianze e backstage del cortometraggio
“Le dipendenze dell’uomo moderno” . . . . . . . . . . . . .
p. 149
» 157
» 157
» 158
» 161
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Gli autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 169
181
“I Quaderni” del Cesvot
Q
Lo stato di attuazione del D.M. 21/11/91 e successive modifiche
Relazione assemblea del seminario
W
Volontari e politiche sociali: la Legge regionale 72/97
Atti del Convegno
E
Gli strumenti della programmazione nella raccolta del sangue e
del plasma
Cristiana Guccinelli, Regina Podestà
R
Terzo settore, Europa e nuova legislazione italiana sulle Onlus
Cristiana Guccinelli, Regina Podestà
T
Privacy e volontariato
Regina Podestà
Y
La comunicazione per il volontariato
Andrea Volterrani
U
Identità e bisogni del volontariato in Toscana
Andrea Salvini
I
Le domande e i dubbi delle organizzazioni di volontariato
Gisella Seghettini
O
La popolazione anziana: servizi e bisogni. La realtà aretina
Roberto Barbieri, Marco La Mastra
P
Raccolta normativa commentata. Leggi fiscali e volontariato
Stefano Ragghianti
{
Oltre il disagio. Identità territoriale e condizione giovanile in
Valdera
Giovanni Bechelloni, Felicita Gabellieri
}
Dare credito all’economia sociale. Strumenti del credito per i
soggetti non profit
Atti del convegno
182
q
Volontariato e Beni Culturali
Atti Conferenza Regionale
w
I centri di documentazione in area sociale, sanitaria e
sociosanitaria: storia, identità, caratteristiche, prospettive di
sviluppo
Centro Nazionale del volontariato, Fondazione Istituto Andrea Devoto
e
L’uso responsabile del denaro. Le organizzazioni pubbliche e
private nella promozione dell’economia civile in toscana
Atti del convegno
r
Raccolta normativa commentata. Leggi fiscali e volontariato
Stefano Ragghianti
t
Le domande e i dubbi delle organizzazioni di volontariato
Stefano Ragghianti, Gisella Seghettini
y
Accessibilità dell’informazione. Abbattere le barriere fisiche e
virtuali nelle biblioteche e nei centri di documentazione
Francesca Giovagnoli
u
Servizi alla persona e volontariato nell’Europa sociale in
costruzione
Mauro Pellegrino
i
Le dichiarazioni fiscali degli Enti non Profit
Stefano Ragghianti
o
Le buone prassi di bilancio sociale nel volontariato
Maurizio Catalano
p
Raccolta fondi per le Associazioni di Volontariato. Criteri ed
opportunità
Sabrina Lemmetti
[
Le opportunità “finanziare e reali” per le associazioni di
volontariato toscane
Riccardo Bemi
183
]
Il cittadino e l’Amministrazione di sostegno. Un nuovo diritto per i
malati di mente (e non solo)
Gemma Brandi
A
Viaggio nella sostenibilità locale: concetti, metodi, progetti
realizzati in Toscana
Marina Marengo
S
Raccolta normativa commentata. Leggi fiscali e volontariato
Stefano Ragghianti
D
Le trasformazioni del volontariato in Toscana. 2° rapporto di
indagine
Andrea Salvini, Dania Cordaz
F
La tutela dei minori: esperienza e ricerca
Fondazione Il Forteto onlus - Nicola Casanova, Luigi Goffredi
G
Raccontare il volontariato
Andrea Volterrani
H
Cose da ragazzi. Percorso innovativo di Peer Education
Luca Napoli, Evelina Marallo
J
L’arcobaleno della partecipazione. Immigrati e associazionismo in
Toscana
Ettore Recchi
K
Non ti scordar di te. Catalogo dei fondi documentari del
volontariato toscano
Barbara Anglani
L
Buone prassi di fund raising nel volontariato toscano
Sabrina Lemmetti
:
Il bilancio sociale delle organizzazioni di volontariato
Luca Bagnoli
a
Le responsabilità degli organi amministrativi delle associazioni di
volontariato
Stefano Ragghianti, Rachele Settesoldi
184
s
Storie minori - Percorsi di accoglienza e di esclusione dei minori
stranieri non accompagnati
Monia Giovannetti
d
Ultime notizie! La rappresentazione del volontariato
nella stampa toscana
Carlo Sorrentino
f
Contributi e finanziamenti per le associazioni di volontariato
Guida pratica
Riccardo Bemi
g
Le domande e i dubbi delle associazioni di volontariato
Riccardo Bemi, Stefano Ragghianti
h
Cittadinanze sospese. Per una sociologia del welfare
multiculturale in Toscana
Carlo Colloca
j
Un mondo in classe. Multietnicità e socialità nelle scuole medie
toscane
Ettore Recchi, Emiliana Baldoni, Letizia Mencarini
k
Altre visioni. Le donne non vedenti in Toscana
Andrea Salvini
l
La valutazione di impatto sociale dei progetti del volontariato
toscano
Andrea Bilotti, Lorenzo Nasi, Paola Tola, Andrea Volterrani
;
Le donazioni al volontariato.
Agevolazioni fiscali per i cittadini e le imprese
Sabrina Lemmetti, Riccardo Bemi
Z
Una promessa mantenuta.
Volontariato servizi pubblici, cittadinanza in Toscana
Riccardo Guidi (2 voll.)
X
Atlante del volontariato della protezione civile in Toscana
Riccardo Pensa
185
C
La mediazione linguistico-culturale.
Stato dell'arte e potenzialità
Valentina Albertini, Giulia Capitani
V
Contributi e finanziamenti per le assocciazioni di volontariato.
Aggiornamento 2009
Riccardo Bemi
B
Volontariato e formazione a distanza
Giorgio Sordelli
N
Il volontariato. Immagini, percezioni e stereotipi
Laura Solito, Carlo Sorrentino
M
Le competenze del volontariato.
Un modello di analisi dei fabbisogni formativi
Daniele Baggiani
Finito di stampare nel mese di Maggio 2011
La Grafica Pisana - Bientina (Pisa)