dieci domande a Virginio Briatore

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dieci domande a Virginio Briatore
Riflettendo: dieci domande a
Virginio Briatore
Il mio incontro con Virginio Briatore avviene in via Tortona 32, in occasione del Fuori Salone 2010, durante il Lavazza Design Machines.
Si tratta di un’esposizione, da lui curata, che propone, in un percorso
ludico e sensoriale, oltre venti anni di evoluzione della tecnologia e
del design delle macchine per il caffè espresso con cialde, testimonianza del percorso innovativo di Lavazza dal 1989 a oggi. C’è tanta
gente, molti sono giovani e degustano sorridenti una tazza di caffè,
scegliendosi la cialda con l’intensità e l’aroma preferito. Al centro c’è
una pedana rotante con delle sedute, sembra una giostra, il pubblico là
sopra sorseggia e chiacchiera divertito e interessato. Anch’io sono abbastanza affascinata da tutto ciò che mi circonda e totalmente inebriata
dal profumo della bevanda.
Briatore è un uomo asciutto dallo sguardo curioso, più alto di come lo
immaginavo. É seduto in una postazione di quest’ affascinante “tragitto al caffè” e quando lo chiamo, per farmi riconoscere, apre un sorriso:
<<Ecco la Riggi!>>. Guardiamo le macchine esposte poi si avvicina
all’ingresso e mi regala il volume che racconta le scelte estetiche e
tecnologiche di quanto proposto in questa sede. Sono contenta perché
vi annota una dedica: “Per Ivana che scrive le storie”. Si riferisce ad
altro ma, in realtà, la storia che oggi sto cercando di tracciare è la sua.
C’è musica ci spostiamo, sul retro, in una piccola saletta con dei comodi divani.
Iniziamo a conversare e mi sembra di conoscerlo da tempo…
Grazie per avere accolto il mio invito. Lei è un personaggio affascinante con una vita personale e professionale “piena”. Mi piacerebbe che si presentasse: chi era Virginio Briatore, mi spiego meglio, cosa voleva fare “da grande” e chi è diventato?
Conoscere se stessi è una delle cose più difficili… Non so bene chi
sono però, rispondendo a questa domanda, mi viene in mente quando
nel 1959 ci trasferimmo ad abitare in una casa sulla spiaggia di Vari-
181
gotti, oggi un posto per super ricchi e lì, era settembre, si trovava un
relitto ossia una vecchia barca di pescatori. Trascorrevo tante ore seduto là a sognare; ricordo che c’era una canzone di allora: “Mamma
mia, dammi cento lire che in America voglio andar” e mia madre, che
mi osservava realmente dalla finestra, mi rispondeva: <<Ci andrai! Ci
andrai!>>. In effetti quando poi, dopo venticinque anni, sono salito
sull’aereo che mi portava a Manhattan mi sono reso conto che quel
componimento si era verificato…
Da ragazzo, concluse le scuole superiori, ho abitato per un periodo a
Genova in una casa di Tullio Solenghi, era un posto che i fratelli Solenghi prestavano agli artisti, ai teatranti; ci fu un momento in cui
l’abitazione fu vuota e la consegnarono a me che ero uno studente
squattrinato. Studiavo filosofia, avrei voluto frequentare psicologia a
Ginevra ma non avevo i soldi, non possedevo le risorse, non era come
oggi che puoi andare a studiare a Boston o Helsinki o alla Design Accademy di Eindhoven. Il vicolo, in cui si trovava quella dimora, si
chiamava e si chiama “Vico della Stampa”: è stato, anche quello, un
passaggio premonitore… Oggi scrivo e, attraverso le parole, mi guadagno da vivere cercando di capire i fenomeni che ruotano attorno alla
grande famiglia del design. Ho iniziato a occuparmi di design casualmente, ma è uno strumento bello perché, attraverso esso, cerco di leggere la vita, l’esistenza degli esseri umani. Quando vado a casa di una
persona, gli oggetti che ha scelto mi raccontano di lui. Ad esempio
Denis Santachiara, un caro amico che stimo in assoluto e su cui ho
scritto un libro, ogni tanto fa una cosa molto intelligente: presta per
una settimana la sua casa a un altro che fa la stessa cosa con lui. Il patto è che, prima di uscire, si lasci tutto come se si dovesse ritornare tra
un’ora, in modo che chi vi subentrerà trovi ogni cosa nella sua esistenza reale. In questo modo si vive veramente la vita dell’altro… Il
design, così come il cinema e la fotografia, è uno strumento molto ricco: tutti hanno una grattugia, una macchina del caffè, una sedia, una
lampada, in base al tipo di scelte tu capisci tante cose anche la memoria, le epoche, la classe sociale. Per mia fortuna, quindi, ho trovato
uno mezzo molto interessante che spiega la vita dell’uomo, ne accompagna da sempre l’esistenza e oggi spesso travalica nell’eccesso.
Lei, quindi, è diventato critico di design “per caso” non è stata
una scelta voluta, non aveva le idee chiare?
No, non avevo le idee chiare. Sono entrato nel design a 32 anni, a
Lecce, dove un gruppo di giovani, figli ideali di Mendini, di Memphis
e di Alchimia, si erano messi assieme per fare delle cose fondando lo
studio Atlantide. Erano fotografi, architetti, interior designer, scultori,
grafici… Io non sapevo fare niente e quindi mi chiesero di fare
l’account, ovvero di “portare la croce” e di andare a vendere ciò che
essi erano in grado di fare!
Lei è un grande viaggiatore, ha conosciuto tanta gente… Cosa
hanno rappresentato per lei Norman Mommens e Patience Gray?
Che traccia hanno lasciato, perché li ha definiti “i miei Maestri”?
Nella vita ci sono tante persone, a partire dai genitori, che ti stupiscono, ti influenzano, ti aiutano, ti insegnano. Nel lavoro ho avuto alcune
importanti “guide” come Evelina Bazzo e Cristina Morozzi, che mi
hanno aiutato a capire i fondamenti della comunicazione e del design.
Nella vita ho incontrato persone, anche “senza nome”, che mi hanno
trasmesso insegnamenti che non ho più dimenticato. Con il tempo ho
imparato a capire la differenza tra coloro che sanno veramente e quelli
che pretendono o credono di sapere. Un giorno, nel sud del Salento,
mentre tentavo di vendere dei bidoni della spazzatura ai campeggi, mi
sono perso e ho visto una casa tutta colorata e due individui in un
campo: erano Norman Mommens e Patience Gray. Pian piano mi hanno onorato della loro amicizia e, conoscendoli, mi sono accorto che
nella mia esistenza sono state, sono, le persone più sapienti, più equilibrate, ma anche più ironiche e divertanti che abbia conosciuto. In loro ho trovato tante cose insieme. Erano dei sapienti: Norman era uno
scultore, un astronomo, un fisico, un matematico… Patience disegnava gioielli, era un’archeologa, una letterata (aveva conosciuto Thomas
Eliot, Virginia Woolf, Vita Sackville-West); dopo la guerra, con due
bambini piccoli, cercando lavoro, volendo scrivere, dal 1956 al 1960,
viaggiò ripetutamente in Italia, con Carlo Scarpa, Ettore Sottsass (che
le scrisse una lettera con disegni che ho avuto modo di vedere), Franco Albini (che le regalò la celebre poltrona di vimini da cui lei non si
separò più!) Belgiojoso, Peressutti, che la portarono a vedere il nuovo
design italiano; teneva una rubrica sul design e scriveva di queste cose
sull’Observer.
Era una coppia che non faceva pesare il suo sapere, le cose accadevano in via naturale; ad esempio citavo uno scrittore (ricordo Christo-
pher Isherwood e Fred Uhlman) e Patience tirava fuori un libro, poi
magari l’anno dopo si veniva a sapere che lo avevano scritto insieme o
che lei gli aveva riletto le bozze … Vivevano in quella casa, senza elettricità, con un campo che coltivavano; li venivano a trovare da fuori
in tanti. Un giorno arrivò un americano che discusse con Norman di
un problema di matematica, un altro giorno un australiano che si confrontò con Patience sull’archeologia. Ritrovavano, nel giro di pochi
chilometri attorno a casa, degli oggetti dell’era neolitica: punte di
frecce, asce… la sua era un’archeologia di superficie, tutto affiorava,
bastava saperlo distinguere, tra il pietrisco e la macchia mediterranea.
Patience scavava con la punta delle dita e aveva collezionato una buona quantità di reperti.
Quando ho iniziato a scrivere per i giornali mi correggeva: una cosa
scritta, anche se stampata su un ciclostile, doveva essere fatta bene!
Sono stati loro due a incoraggiarmi, il fatto di essere stato indirizzato
da una scrittrice mi ha rassicurato nel farlo. Patience divenne nota
scrivendo di cibo, ricordo Plats Du Jour, poi scrisse un libro adattando la cucina mediterranea per i cuochi sulle navi in viaggio tra l’Asia
e l’America, poi il bellissimo Honey from a weed che è un misto di filosofia, antropologia e cucina del mediterraneo… Stando a contatto
con loro si imparavano molte cose.
Cos’è un insegnamento?
È ciò che ti viene trasferito, ricollegandomi a quanto detto prima, già
dal modo in cui qualcuno mangia, parla, veste, vive, mettendoti nelle
condizioni di crederci e farlo tuo. È quel qualcosa che risulta facile,
perché lo capisci e puoi prenderlo per utilizzarlo. Ciò che mi è stato
insegnato mi ha aiutato ad avere fiducia, a credere, a lottare, a non accettare la banalità, l’ignoranza e a soffrire il giusto. È un po’ come
hanno fatto Normann e Patience che sono riusciti a fronteggiare anche
la sofferenza, causata dalla loro lotta alla mafia dei rifiuti e alle altre
ingiustizie, perché sorretti dalla cultura, dall’arte. Ricordo che ella, alla fine della sua vita, mi chiese di ritrovarle un pezzo, mi pare scritto
da Pirandello, che aveva a che fare con “l’oltre”, un modo per lei di
prepararsi a un nuovo passaggio. Perfino per morire scelse una poesia,
un brano…
Cos’è il design e quando “non invecchia”? Il progettista contemporaneo che relazioni dovrebbe tenere con quelli del passato, ossi-
a, come dovrebbe metabolizzare e mettere a frutto il loro insegnamento?
Il design è il linguaggio con cui le cose ci parlano. Una collana di vetro ritrovata a Creta o un’armatura ferrarese o una sedia di Alvar Aalto
sono oggetti che invecchiano bene perché sono stati pensati e costruiti
con materiali durevoli e con delle estetiche equilibrate. I designer devono dapprima studiare e conoscere bene il passato e poi, se ci riescono, provare a modificarlo per piccoli aggiustamenti come fanno molti
celebri designer contemporanei. Ogni tanto poi il designer può impastare la massa caotica e invincibile del passato e fare lievitare qualcosa
di nuovo!
Nota delle differenze tra il panorama progettuale italiano e quello
estero? In caso affermativo quali sono?
Farei una distinzione tra il design dei paesi cosiddetti “ricchi”, quello
dei paesi “di mezzo” e quello dei paesi “poveri” più che tra quello italiano o francese o tedesco… Certamente ci sono delle peculiarità:
quello italiano, che è caratterizzato da una grande industria manifatturiera, ha certi modi di esprimersi, quello di Singapore, che utilizza le
tecnologie, ne ha altri, quello tedesco, dove ci sono tante scuole, ne ha
degli altri ancora. Ciò nonostante tutti questi paesi, che hanno la possibilità di studiare e di “giocare” con il design, alla fine producono cose che, secondo me, si rassomigliano molto. Pur avendo gli Olandesi, i
Belgi, gli Scandinavi, gli Inglesi una loro identità, provengono tutti da
scuole che sono matrici molto simili. C’è un po’ il rischio che tutti
facciano un iphone, con l’ipod, con i led… Per fortuna, poi, c’è sempre qualcuno che, magari, riesce a innovare creando un colino di vimini, o un cappello differente, o interpretando diversamente un oggetto che sembrerebbe scontato come un bicchiere. Quello che ho imparato con questo lavoro è che, per fortuna, le idee sono veramente inesauribili.
Per il magazine Interni redige la rubrica Giovani designer. Chi sono e che spazio meritano o meriterebbero?
Scrivo per Interni da tanti anni e questa rubrica me la sono inventata.
In realtà avevo iniziato a scrivere di questo su Modo, nel 1993-94-95,
poi Gilda Boiardi mi ha dato l’opportunità di renderla istituzionale e
periodica su Interni. Come per molte altre cose l’importante e cercare
di creare una continuità, un contadino non coltiva la vigna per tre anni
ma per venti almeno! Sto portando avanti Giovani designer oramai da
quindici anni e credo che sarà una delle ultime cose che smetterò di fare. Ho iniziato a occuparmi di giovani perché era un segmento che non
dava fastidio, che non faceva gola a nessuno in quanto non originava
alcuna fonte di denaro, ma aveva una certa freschezza e innovazione.
Per capire cosa intendessi per “giovani” mi sono dato un limite che è
quello dei 40 anni. Ciò significa che quella del designer non è una professione veloce, ma che richiede una lunga attesa, un lungo apprendistato; sono pochissimi i designer under 35 affermati o che abbiano realmente una consistenza; certuni vengono precocemente mediatizzati e
poi si sgonfiano, altri poi si perdono e cambiano proprio vita. Penso
che la gioventù sia un’età molto difficile perché “non sei più e non sei
ancora” e questo guado, in cui il designer sta per dieci anni, mi ha incuriosito. Un’altra regola che mi sono dato e che i designer avessero
dei prodotti veri, che qualcun altro potesse chiedere e comprare perché, se parliamo di prototipo, parliamo di studenti. Un designer è colui
sul quale qualcuno ha investito per mettere in circolo dei prodotti, altrimenti sei un’artista o un’altra cosa. Il design è costituito da tre realtà: qualcuno che lo pensa, qualcuno che lo fa, qualcuno che lo vende.
Spostiamoci su Dossier Compomobili, trimestrale del gruppo Maggioli, su cui scrive dal 2005. Le cito i nomi dei personaggi che ha
intervistato a oggi per questa rivista: Rodolfo Dordoni, Piero Lissoni, Setsu e Shinobu Ito, Denis Santachiara, Enzo Berti, Paolo
Rossi, Aldo Cibic, Tobia Scarpa, Frida Doveil, Claudio Caramel,
Giulio Iacchetti, Matteo Ragni, Lorenzo Damiani, Marco Serralunga, Marc Sadler, Giulio Ceppi, Paolo Grasselli, Miriam Mirri. Brevemente, ognuno di loro cosa le ha trasmesso e cosa crede abbia
trasferito al lettore?
Compomobili è una rivista di settore, di nicchia, che comunica il lavoro di coloro che fabbricano i componenti dei mobili e ha un pubblico
di lettori addetto ai lavori. Il gruppo Habitat prima e Maggioli adesso
mi hanno chiesto di portare un po’ di vivacità, di know–how, di pensiero a una rivista che tratta molto di aspetti pratici. Così ho deciso di
dare spazio a delle interviste. Per cui se desidero capire l’arredo per
esterni, vado a conversare con Rodolfo Dordoni perché so che ha lavorato bene in quel settore e naturalmente poi allargo il dialogo agli altri
suoi campi di intervento. Volendo trattare di alberghi ho dialogato con
Piero Lissoni perché ne ha realizzati alcuni in situazioni molto interessanti, così come molti mobili e arredi; optando per la scienza e il design ho ragionato con Denis Santachiara perché sperimenta materiali
e tecnologie in continuazione. Esponendo superfici, colori, finiture e
materiali (CFM) ho discusso con Frida Doveil perché quello è il suo
mestiere… Così contribuisco a fare in modo che anche coloro che si
occupano di dettagli, come i componenti del mobile, abbiano informazioni su sistemi più grandi come quello del colore, ad esempio, che è
molto importante. Con Lorenzo Damiani che è giovane, è stato bambino sino a poco tempo fa e ha progettato molti oggetti piacevoli e
giocosi, abbiamo parlato, invece, di una grande complessità come la
stanza dei bambini, che raramente è risolta bene. L’argomento genera
chi vado a intervistare; devo dire che sono persone che già conosco, di
cui so quello che fanno, con cui ho anche un rapporto di stima, a volte
di amicizia come con Santachiara e con Caramel. Così parlando di
barche ho discusso con Paolo Rossi, designer della nautica: le barche
sono un esercizio straordinario perché ti obbligano a fare benissimo
delle cose in un piccolo spazio dove tutto deve resistere al mare, al
tempo, agli uomini…
Quale è il giornale più divertente, vivace, innovativo con cui ha
collaborato?
Virus, diretto da Francesca Alfano Miglietti (FAM) è stato tra il 1994
e il 1998 un giornale d’arte, moda, e mutazioni che ha fatto epoca,
raccontando ed esibendo il corpo quale strumento di arte, sperimentazione e conoscenza. In questo periodo invece la testata che più mi da
soddisfazione è DAMn°, edita in Belgio, in lingua inglese, da quattro o
cinque persone che vivono ad Anversa, Bruxelles e Berlino. È un
giornale libero, non servo del marketing, fatto con poche risorse eppure distribuito in tutte le metropoli design oriented del mondo; ed è
l’unica rivista che quando la apri ti porta a conoscenza di architetture,
fenomeni, luoghi, prodotti di cui altrove non si parla.
Lei ha scritto e scrive anche per altre importanti testate: D la Repubblica delle Donne, Io Donna, il Sistema editoriale di INTERNI,
Casamica, Surface, Designweek, Florense, Graphis, Impackt, Modo,
at.casacorriere.it… Che responsabilità ha l’informazione di questo
tipo?
Grazie ai buoni Maestri, a cominciare da mio padre e da mia madre,
che mi hanno insegnato quando sia prezioso essere libero (pensiamo
alla storia dell’Italia dove non siamo stati sempre liberi anche se ce ne
siamo dimenticati in fretta), ho speso tutta la mia vita per esserlo. Innanzi tutto non scrivo mai quello che non voglio, per fortuna non mi
occupo di politica o di mafia, dove sarebbe molto più difficile essere
svincolato. Ho molto rispetto, quindi, per tutti quei giornalisti che per
lavorare bene rischiano anche la vita… mi vengono in mente le donne
che nel Salento scrivono contro i rifiuti tossici, contro le mafie… Nel
Sud, oggi, in pochi osano contrastare il potere: alcune donne, qualche
prete, gli emigranti e qualche artista… la maggior parte degli uomini
sono complici, o perché coinvolti nella speculazione o per quieto vivere…
Io scrivo di design e cerco di essere corretto, di non dire fesserie, di
non umiliare nessuno, di non elaborare cose in cui non credo, che non
mi interessano e di mantenere una certa onestà. Quelle volte in cui ho
capito che non sarei riuscito a fare tutto questo, ho desistito. Un’altra
cosa che mi piace fare è andare dalle persone che intervisto perché si
capiscono tantissime cose che rendono la scrittura più vera; è sempre
la persona che va quella che impara…
Com’è la società di oggi? Secondo lei come influenza la progettazione?
La società è l’insieme che gli umani formano. Oggi, diversamente da
ieri. Ha senso parlare della società? Una società, mille società, dieci
milioni di società? Le reti, i viaggi, l’influenza reciproca, il tempo reale e miliardi di individui che vivono contemporaneamente hanno aumentato in modo esponenziale la complessità dell’esistenza e degli intrecci che formano la vita comune. La progettazione ha chance inedite
perché oggi un buon progetto, penso al paraschiena di Marc Sadler e
Lino Danese, può influenzare milioni di individui. Al tempo stesso un
cattivo progetto, come un’automobile esagerata ed energivora, può
danneggiare il presente e compromettere il futuro.
Nel salutarla, un’ultima domanda: come dovremmo osservare i
linguaggi contemporanei?
È un po’ la storia che andrò a raccontare i primi di maggio a Berlino,
con mio figlio Valentino, ossia il mio viaggio Venezia - Bisanzio, oro,
incenso, mirra, mare e design, sottotitolo, Alle radici dell’estetica oc-
cidentale. Viaggiare per le isole, viaggiare per il mondo e capirne i
linguaggi: oggi dovremmo partire dalla natura e dovremmo renderci
conto che sono diecimila anni che ci dimeniamo su questa terra, cinquemila anni che facciamo degli scarabocchi e cinquanta che abbiamo
delle tastiere su cui scriviamo. La terra è un fenomeno cosmico ed è
esistita per milioni di anni senza di noi. Noi siamo la quarta, quinta estinzione che si sta verificando; siamo una specie fortunata, ma destinata anch’essa ad estinguersi… quindi dovremmo partire sempre dalla
natura. Non siamo i primi esseri viventi che hanno ragionato sulla vita
e sulle cose. Prima di noi, anzi, ci sono stati dei signori che si sedevano all’aperto di sera, al tramonto, in un teatro greco, con quel clima e
quella luce, su una collina oltre la quale si vedevano il mare, sedici isole e dall’altra parte c’era l’Asia Minore. L’attore si recava lì e metteva in scena la tragedia, o la commedia, della vita che andava avanti
per ore… Poi arrivavano la notte, le nuvole, il vento del mare e c’era
veramente il tempo di pensare… il mondo era immenso e gli uomini
piccoli. Noi oggi vediamo tutto attraverso dei piccoli schermi, vediamo le tragedie degli altri in televisione come se fossero finte, seduti al
riparo, teniamo google earth tra le mani, il mondo ci sembra piccolo e
ci pensiamo grandi. Dovremmo tornare alla natura, alla storia, rivedere e ripensare con rispetto ciò che altri hanno pensato prima di noi.
Essi si sono seduti, hanno osservato, mangiato, letto, camminato, amato, esprimendosi con vari strumenti: dipingendo, disegnando, suonando. Molte creazioni dell’essere umano sono fenomenali, ma restano, in
fondo, una piccola parte del tutto: ancora oggi non riusciamo, ad esempio, a fare una foglia e nessuno capolavoro del design vale il volo
di una rondine! Siamo parte della natura, una geografia di carne, nativi
di certi luoghi, ci esprimiamo con dei linguaggi meravigliosi: se pensiamo alla pasta alla Norma della Sicilia, al baccalà cotto nel latte della Finlandia, a un antico sarcofago egizio, al gallo in vetro di Murano
di Toni Zuccheri, che ha fatto animali di vetro per tutta la vita, ci
commuoviamo. Nel progettare il presente e il futuro dobbiamo essere
consapevoli che prima c’è la natura, poi la storia e che si deve, continuamente, studiare. Dopo, saranno i linguaggi a venire da noi perché
saremo in grado di conoscerli: se prima eri una scimmia, entrando nella Cappella Sistina avresti pensato che lì di banane non se ne trovava-
no e che quindi non avevi ragione di restarci, però tornandoci dopo
aver studiato avresti visto il Giudizio Universale…
Figura 53. Virginio Briatore, workshop di fotografia con la Onlus Crete for Life, tenuto in collaborazione con il fotografo Marino Ramazzotti ritratto al centro della foto, Creta 2009
Figura 54. Virginio Briatore, mostra Lavazza Design Paradiso, Fuori Salone Milano
2009. Ph. Marino Ramazzotti
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Figura 55. Virginio Briatore, intervento presso l'installazione Comme à la maison, a
cura dell'architetto Laetitia Belala, trattoria La friterie, di rue Georges Dupré, Biennale di Design di Saint-Etienne 2010
Figura 56. Virginio Briatore, conferenza Venezia Bisanzio,
Transfer, Universitat fur Kunst, Berlin 2010
Galleria Design
Note biografiche di Virginio Briatore
Virginio Briatore, 1955, Piemonte, è cresciuto a Varigotti, sulla Riviera di Ponente, e ha studiato filosofia all’Università di Genova.
Per undici anni, tra il 1976 e il 1986 ha lavorato e vagabondato in Italia, Europa, Africa e Nordamerica.
In quegli anni, e fino al 1990, la sua residenza ufficiale era un piccolo
trullo situato in Tratturo Selvaggi, nell’agro di Ceglie Messapica.
Nel 1986 si è fermato a Lecce dove è stato fra i fondatori dello studio
Atlantide e del mensile For You.
Dal 1990 al 1995 ha lavorato come copywriter a Treviso.
Negli inverni del 1993, 1995, 2002, 2004 ha viaggiato attraverso i
sette stati dell’India Centro Meridionale per raggiungere infine Varanasi.
Nel 2005 ha viaggiato per sei mesi sulla rotta Venezia-Bisanzio con
navi e traghetti pubblici, camminando in 24 isole.
Dal 1995 lavora a Milano e risiede a Ravenna, con la moglie Rita e i
figli Luigi, 1996, e Valentino, 1998.
Col suo lavoro di filosofo del design cerca di capire e raccontare
l’influenza che il design esercita nell’esistenza degli esseri umani.
Su questi temi ha tenuto seminari e workshop in Italia e all’estero,
pubblicato 11 libri, 450 articoli, coordinato ricerche ed e-competition
per Lavazza, Epson, Samsung, Citroën, Martini&Rossi, JVC, Dainese,
Guzzini, Safilo, Panasonic.
Scrive per Interni, D.La Repubblica delle Donne, DAMn° (Bruxelles),
www.atcasa.corriere.it.
Tra le sue pubblicazioni:
Lettere agli amici. In viaggio fra Venezia e Bisanzio, ed. Leucasia,
Presicce- Lecce 2010; Setsu e Shinobu Ito, East West designers, Logos
Edizioni, Modena 2009; Gabriele Pezzini, Il guerriero del design,
Logos Edizioni, Modena 2006; Nirvana Inferno, edizioni Leucasia,
Presicce- Lecce 2005; Lighting Design Europe, Lusco editora, Sao
Paulo Brasil 2004; Dainese, il design salva la vita, editrice Abitare
Segesta, Milano 2004; Denis Santachiara, editrice Abitare Segesta,
Milano 2002; Restyling Meraviglie e miserie del progetto
contemporaneo, Castelvecchi, Roma 2000; Luciano Bertoncini
designer, Ricerche Design Editrice, Corsico- Milano 1999; Il
candidato Indiano, Edizioni Leucasia, Presicce- Lecce 1998;
Giacomo, Angelo, Sergio, Claudio Caramel Attraverso il '900,
L'Archivolto, Milano 1995.