Guardare il Mondo con gli occhi di donna 2000

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Guardare il Mondo con gli occhi di donna 2000
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Guardare il mondo con occhi di donna
"Da chimico un giorno avevo il potere
di sposare gli elementi e farli reagire,
ma gli uomini mai mi riuscì di capire
perché si combinassero attraverso l'amore.
Affidando ad un gioco la gioia e il dolore
… Ma guardate l'idrogeno tacere nel mare,
guardate l'ossigeno al suo fianco dormire:
soltanto una legge che io riesco a capire
ha potuto sposarli senza farli scoppiare.
Soltanto la legge che io riesco a capire."
(F. De André)
Introduzione
Questo lavoro è il risultato di una serie di colloqui intervista effettuati con 27 donne
immigrate in Italia da diversi anni. La ricerca e la metodologia utilizzate sono state
pensate allo scopo di inserire elementi di realtà soggettiva nell'ambito del progetto
europeo Codelfi, di cui l'Italia è partner attivo.
Nell'affrontare la ricerca volevamo capire non soltanto cosa è e come agisce la
discriminazione, ma anche e soprattutto mettere in luce altri due aspetti correlati
all'essere donna e all'essere donna immigrata e cioè le diversità e/o le differenze e i
punti di forza. Il vissuto, le esperienze, la percezione del sé e degli altri sono resi
attraverso il racconto in prima persona. Non è un caso che sia stata scelta questa
forma di intervista perché è forse, la sola, che praticando l'ascolto e la voglia di
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A questo lavoro hanno contribuito Paola Battaggia, Daniela Bua, Adriana Buffardi,Carolina Cardenas, Elena De Filippo, Celina Frondizi,
Maria De Lourdes Jesus, Marinella Meschieri, Hawa Mohamed Ali, Paola Pierantoni, Roberta Ricucci, Maria Grazia Ruggerini, Pilar Segovia,
Stefania Valentini.
La presente sintesi è stata redatta da Daniela Bua.
Le interviste sono state raccolte da P. Battaggia, D. Bua, … …
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capire tramite il confronto ci può far superare la "discriminante" numerica,
restituendoci l'essere persone, innanzitutto.
La ricerca è stata condotta in cinque diverse città italiane (Roma, Torino, Genova,
Napoli, Venezia), luoghi in cui si concentra una alta percentuale di immigrate e
immigrati ed in cui l'immigrazione ha dei connotati specifici, differenti da quelli delle
località minori.
Le donne intervistate hanno una età compresa tra i 25 e i 50 anni e sono residenti in
Italia da un minimo di un anno ad un massimo di undici. Il periodo di permanenza in
Italia è stato ritenuto fondamentale per due ordini di motivi. Primo ci permetteva di
tracciare con più precisione i percorsi di vita, i cambiamenti, le differenze insite nel
passaggio dalla fase irregolare a quella regolare e di confrontare le esperienze di chi
si trova nel nostro paese da diverso tempo con quelle di chi è arrivata da poco.
Inoltre di sondare il grado e la volontà di adattamento e di darci un quadro più
esaustivo del contesto della società italiana così come viene vissuta. Secondo, dato
che alla permanenza si lega la padronanza della lingua e che quest'ultima si
apprende, di solito, sul posto la scelta è ricaduta su donne che la parlassero
discretamente.
Per quanto riguarda le nazionalità il campione si compone di donne provenienti
dall'Est
Europeo,
dall'America
Latina,
dall'Africa,
dall'Asia
andando
così
a
rappresentare i diversi contesti nazionali che abitano l'Italia.
Le donne intervistate sono state contattate grazie alla collaborazione di alcune
associazioni di donne immigrate, degli uffici locali per l'immigrazione della Cgil e
della rete di relazioni personali delle ricercatrici coinvolte nel progetto.
Ogni colloquio intervista è durato in media due ore e si è svolto o in casa delle
intervistate o nel posto di lavoro oppure nelle sedi delle organizzazioni.
Le questioni affrontate durante i colloqui hanno fatto emergere alcune forme di
discriminazione che si declinano in maniera differente a seconda dell'ambiente e delle
modalità in cui si manifestano. Esistono forme di discriminazione implicita ed
esplicita, le prime più strettamente legate all'essere stranieri (ad esempio il non
parlare la lingua che comporta isolamento e impossibilità di esprimere se stessi), le
seconde di origine socio culturale ed economica. Tra i fattori discriminanti che sono
emersi
nella
ricerca
abbiamo
selezionato
quelli
più
rappresentativi
e
cioè
le
2
2
discriminazioni derivanti dalla mancata appropriazione dei codici culturali della
società di approdo, da quelle connaturali alla condizione di irregolarità a quelle sul
lavoro (dal tipo di occupazione, al salario, all'orario), dal mancato riconoscimento
delle qualifiche e da quello che abbiamo definito razzismo latente. Oltre alla
discriminazione abbiamo però riscontrato una forte volontà di riscatto e di voglia di
affermare la propria identità che si esprimono nella consapevolezza della propria
diversità, che vissuta in tal modo si trasforma in una risorsa positiva.
L'inter-azione costituisce così il primo passo verso l'integrazione. Passiamo parola.
1. Le Discriminazioni
Come è stato accennato nell'introduzione la ricerca ha rilevato la presenza di alcune
tipologie di discriminazioni che abbiamo definito implicite ed esplicite.
Nel primo gruppo possiamo fare rientrare il fatto di non parlare la lingua, che è una
discriminante forte in quanto ostacola la comunicazione e pone la persona in una
posizione non paritaria, già in partenza. La temporanea privazione della parola non
consente di essere se stessi e crea un primo ostacolo alla manifestazione del sé,
come sottolineato da tutte le intervistate. Il primo dato che emerge è quindi
connesso all'essere persona che, per un periodo che varia a seconda delle
intervistate, viene esperito come una menomazione ed una delle difficoltà maggiori
che si incontrano nel corso dell'esperienza migratoria. Il carico di ansia e di
impotenza che tale stato di cose
porta con sé può essere espresso efficacemente
facendo ricorso ad un verso di una canzone di Fabrizio de André 2: "Tu prova ad
avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole…".
Cantautore Italiano, "Il Matto", tratto da "Non al Denaro Non all'Amore Né al Cielo", Dischi Ricordi S.p.A., 1971
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Al di là, poi, di implicazioni che si riferiscono alla sfera soggettiva ne esistono altre
che affacciano verso l'esterno. Le prime non escludono le seconde, ma si
compenetrano dando adito ad un intreccio e ad un circolo vizioso. Nel rapporto di
lavoro, ad esempio, la non conoscenza parziale o totale del codice verbale, può fare
sì che la donna si trovi quasi completamente in balìa del proprio datore di lavoro.
Non può replicare, ne rivendicare i suoi diritti:
"Da quando ho cominciato a parlare di più la lingua mi sono sentita più libera…
Quando ho iniziato a frequentare il corso ho dato questa spiegazione all'insegnante…
Io sono venuta a imparare l'italiano per potere litigare, per potere comunicare con il
mio capo perché lui dice delle cose… io non lo capisco, rimango zitta, però mi sento
ferita dal tono di voce anche se non capisco che cosa è…è la prima libertà che ho
avuto. Più capivo, più mi sentivo libera!" (N.al.36) 3.
Tale affermazione sintetizza il basso potere di replica e di azione inscritto nella
mancanza di parola, ma evidenzia anche un elemento di forza che attraversa l'intero
agire e porsi delle donne del campione. Infatti, ognuna di esse è accomunata da
questa esperienza, ma anche dal modo in cui la affronta. Il deficit viene superato, la
lingua strumentale viene acquisita al più presto e non solo per la semplice necessità
della sopravvivenza, ma per andare oltre, per affermarsi come soggetto pensante e
diverso in una società altra. La sensazione è che la lingua vive, si rigenera non è una
riproduzione e più di ogni altra cosa non rimane lettera morta.
Così si traduce in una prima conquista di una terra che non lo è, ma lo deve essere!
Va, in ogni caso, posto in rilievo che l'apprendimento dell'italiano avviene, per la
maggioranza dei casi, attraverso la frequenza di specifici corsi di formazione
organizzati da istituzioni pubbliche, dalla chiesa o da associazioni. Importante, tenere
in considerazione, che la donna che decide di frequentare un corso lo fa in piena
autonomia, mobilitandosi e adattando i propri tempi a quelli della formazione. Si
tratta di un primo investimento che si fa su di sé.
Ritornando ora a quelle che abbiamo definito come discriminazioni esplicite, dove
l'aggettivo non significa accettabili, ma meno nascoste se ne trova traccia
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Legenda: le lettere in stampatello maiuscolo sono puramente classificatorie; le lettere in corsivo minuscolo indicano il paese di provenienza
(ad esempio al- America Latina); le cifre indicano l’età)
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nell'irregolarità, nel lavoro, nel riconoscimento delle qualifiche e in quello che
abbiamo chiamato razzismo latente o strisciante.
1.1 Essere o non essere: l'irregolarità e la regolarità
Può apparire strano l'avere connotato con l'attributo esplicite le discriminazioni
caratterizzanti questo passaggio di vita, dato che l'irregolarità può far pensare
immediatamente alla non visibilità e quindi alla assenza di fenomeni che raggiungono
l'evidenza dei fatti. In questa breve sintesi diamo nota delle differenze tra l'essere
irregolari e il non esserlo così come ci è stato raccontato dalle donne intervistate.
Solo due delle donne intervistate vivono ancora la condizione di irregolarità e a parte
le sei che sono venute in Italia per ricongiungimento familiare, hanno tutte vissuto
questa situazione per periodi di tempo che vanno dai pochi mesi ai due o tre anni.
Il sentimento che si accompagna a questo stato e che tutte esprimono è la paura.
Paura di essere scoperte e di essere "rispedite" indietro prima che il loro progetto
abbia avuto modo di realizzarsi. L'angoscia di ritornare indietro senza avere avuto la
possibilità di affermarsi è vissuto male, perché il rientro a mani vuote significa
fallimento, soprattutto agli occhi della società da cui si proviene. Questa prospettiva
viene allontanata. Il fatto, però, di essere irregolari non impedisce loro di lavorare, di
muoversi comunque nel contesto urbano, ma le rende deboli perché non hanno
nessun potere. Infatti, in questa fase, il lavoro non manca, ma è al nero, è sotto
pagato, gli orari non sono rispettati, i giorni o le ore libere raramente esistono. Il
rispetto delle regole è affidato alla discrezionalità e diciamolo pure, onestà, del
datore di lavoro che però tralascia spesso i diritti della persona che occupa, facendo
al contempo, rispettare i suoi doveri. Ne deriva che le condizioni di lavoro sono
accettate senza diritto di replica almeno fino al momento in cui si ottiene il permesso
di soggiorno. Anche se questo non garantisce sempre il rispetto dei propri diritti e la
denuncia dei soprusi, diventa però un punto fermo, si trasforma nel potere, non
sempre utilizzato, di affermarsi e di liberarsi. È più di un potenziale perché,
comunque, il più delle volte si traduce in un effettivo cambiamento dello stile di vita.
Io so di essere e lo posso rivendicare: esiste uno scarto abbastanza netto tra
irregolarità e regolarità che si misura con la consapevolezza di sé. Raramente le
donne si affidano esclusivamente all'altro, non sembrano delegare, ma si prendono in
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carico perché vanno costantemente alla ricerca dell'altro, del confronto, delle
informazioni. Ancora una volta, la sofferenza non genera sempre inamovibilità o
impaludamento, ma ansia di riscatto.
Concludendo l'essere irregolari è un po’ per tutte un periodo purtroppo naturale nella
condizione di immigrate che lascia, però il passo alla regolarità. L'esperienza vissuta
è condivisa e scambiata sia nel suo svolgersi che in seguito, quando diventa bagaglio
esperienziale, e si trasforma in un essere stati per. Da segnalare che è durante
questo periodo che la donna batte il terreno alla ricerca di informazioni ed è in
questa fase che entra in contatto con le associazioni, i sindacati oppure la chiesa.
Inizia
a
frequentare
sull'immigrazione
e
corsi
inizia
di lingua
a
e
costruire
a
il
capire
proprio
come
funzionano le
percorso
leggi
nell'immigrazione.
Ovviamente il passaggio non è così scontato, né privo di ostacoli, ne risolutorio di
problematiche ben più complesse, ma segna appunto il passo. Con questo non si
vuole assolutamente suggerire che l'irregolarità sia una sorta di purgatorio in vista di
un ben più piacevole paradiso, né che si possa accettare che si verifichino ed
esistano situazioni del genere, ma sostenere ancora una volta la positività della
discriminante di genere così come prorompe dalle interviste.
1.2
Il riconoscimento delle qualifiche
Il problema del mancato riconoscimento delle qualifiche è sentito come discriminate
dalle donne che hanno partecipato alla ricerca. Infatti, tutte sono diplomate o
laureate, ma non svolgono la professione corrispondente al loro titolo di studio. Ciò è
dovuto a vari fattori. La normativa italiana garantisce sia il riconoscimento del titolo
di studio conseguito all'estero al fine della prosecuzione degli studi 4 sia quello per
altri scopi 5 come ad esempio il lavoro. Inoltre, consente 6 a chi è in possesso di titoli
legalmente riconosciuti in Italia di iscriversi negli albi professionali o negli elenchi
speciali istituiti presso i ministeri competenti. L'iscrizione è condizione necessaria per
l'esercizio della professione 7. Questa la legislazione, ma la realtà è differente perché i
tempi relativi al riconoscimento delle proprie qualifiche sono molto lunghi, sono
4
Art. 39, comma 3, lett. f del T. u.
ex Art. 387 del T. u.
6
Art. 37 del T. u.
7
Cfr. Frondizi Celina, "Immigrati. Nuovi Diritti di Cittadinanza", Ediesse, Roma, 2000, pp. 84-85
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tempi burocratici che, nel nostro paese, colpiscono tutti i cittadini e non solo quelli
provenienti da altri paesi, in possesso della cittadinanza o no. 8 Se inseriamo questa
"discriminazione" nel contesto in cui opera vediamo quindi che essa appare, in un
gioco di parole, una discriminante del contesto stesso. In tal senso non vi sono
sostanziali differenze di trattamento tra i soggetti che provengono dai paesi aderenti
alla Comunità Europea e quelli che vengono da altri stati. Notiamo, invece che, se da
un lato questo è uno stato di fatto, dall'altro nessuna delle donne intervistate ha
fatto
richiesta
formale
di
riconoscimento
del
proprio
titolo
e
che
l'essere
impossibilitate a svolgere un certo tipo di professione filtra dalla percezione e dalla
esperienza del mercato del lavoro italiano, così come si coniuga per loro. Infatti, la
donna immigrata è occupata prevalentemente nel settore della cura della casa e
delle persone, andando a riempire nicchie occupazionali lasciate vuote dall'assenza
dello stato sociale. Le donne incontrano e si scontrano con questo muro
occupazionale e intraprendono l'unica via ad esse consentita nell'immediato o nel
medio periodo. Loro sentono che non esiste un'alternativa:
"Il diploma di hostess di terra, acquisito nel mio paese, qui non lo considerano per
cui accetto lavori anche molto inferiori alla mia qualifica… L'importante, ora, è
lavorare" (F. Af. 33);
"Conosco otto lingue. Sono laureata, ma nonostante questo non ho facilità a
migliorare la condizione lavorativa e professionale" (G. Af. 32); "Nel mio paese
facevo la disegnatrice di moda. Qui non ho trovato la possibilità di continuare a fare
questo lavoro per cui sono abbastanza dispiaciuta e anche in crisi perché il lavoro
che faccio non mi piace, ma sono costretta a farlo per vivere," (H. Al. 28).
Nei casi citati il lavoro c'è, ma viene percepito come l'unico possibile e, alle condizioni
date, non ci si riconosce in esso. Una cosa è il lavoro per mantenersi e per vivere,
un'altra è la realizzazione personale e professionale. Si ha quindi a che fare con una
forma di discriminazione che pare non consentire la mobilità occupazionale, né la
crescita.
Ma se da un lato questa realtà esiste, il salto professionale si verifica non attraverso
il riconoscimento del proprio titolo, che deve essere ricordiamolo rivendicato e
Ricordiamo che per esercitare il diritto affermato nella normativa di cui sopra è sufficiente il possesso di regolare permesso di soggiorno.
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richiesto, ma tramite l'acquisizione di un titolo in Italia. Ci sono esempi di donne che
dopo avere frequentato dei corsi di formazione professionale hanno avuto accesso ad
altre forme di lavoro, come quello di mediatrice culturale che apre le loro
prospettive. Seguendo la strada della formazione, queste donne, hanno potuto
svincolarsi da un percorso segnato e sfruttare in pieno la loro condizione di
immigrate, divenendo un trait d'union tra due o più culture. In questo percorso sfocia
la voglia di tirare fuori la propria esperienza, di renderla significativa e di farsi
promotrici di progetti interculturali. Emerge ancora una volta il forte grado di
adattamento ai contesti e alle situazioni, peraltro mai camaleontico!
1.3
Voci in sordina
L'atteggiamento razzista degli italiani nei riguardi delle donne immigrate si esprime
sottovoce, è latente, ma c'è. Non è questa la sede per l'analisi approfondita di questo
fenomeno, né l'obiettivo della ricerca, ma le persone intervistate si sentono colpite
da questa diffidenza che si esprime con lo sguardo, la parola e i gesti. Sono delle
modalità comportamentali che filtrano attraverso l'apparenza, non sfociano in
un'opposizione frontale, ma proprio perché la forma non è ancora definita o definibile
sfuggono all'azione contrastante. Insomma, il razzismo o paura del diverso, più
probabile, è nell'aria e chi ne è oggetto lo respira. Dove? Nello spazio e nel tempo del
quotidiano. Le donne non lo motivano, ma lo registrano, qualcuna ci fa pensare ad
un razzismo generazionale (in quanto sono gli anziani i più intolleranti). Ma ecco le
loro parole:
"Mi sono abbastanza inserita nell'ambiente cittadino in cui vivo, ma non mi piacciono
i commenti della gente che, spesso, quando entri nel bar, ti chiama neretta. Non
sono tutti così, ma questo mi fa stare male." (F. Af. 33);
"Ci sono anche persone simpatiche, ma ci sono anche atteggiamenti razzisti che si
notano anche in dettagli del comportamento: la persona che si allontana da te
sull'autobus o che ti spinge…" (B. Af. 44);
"Qui mi sento straniera, quando le persone sentono il mio accento straniero il loro
atteggiamento cambia, in modo magari impercettibile, ma cambia. Qui essere
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straniero non è ancora naturale" (D. Af. 27);
"Una mia amica telefonava alle agenzie immobiliari o ai proprietari per essere più
convincente in modo da non capire che si trattasse di una straniera e che tagliando
corto dicessero "L'alloggio è stato affittato" come era successo in precedenza con le
telefonate fatte da me". (J. E)
"Quello si, ma si può capire perché non sai mai se ti stanno mettendo la mano in
tasca… Quindi la diffidenza c’è… nel guardare una persona di colore… c’è. Mi ricordo
quando ancora non avevo il motorino e prendevo solo i mezzi per andare e una
persona, e una coppia di signori anziani, in metro… c’erano delle persone di colore
seduti e hanno cominciato a dire delle cose come sporcaccioni perché non andate
via, noi saliamo e non abbiamo neanche il posto per sederci, però non si mettono a
pensare che queste persone pagano il biglietto, hanno il diritto di prendere questo
mezzo. Per loro basta vedere che non siano italiani, per non avere diritto a queste
cose. Quindi è perché all’inizio mi avevano detto che questa cosa si vede di più nelle
persone anziane che forse non hanno la mentalità, non si abituano a questa cosa dei
troppi stranieri che stanno arrivando anche con l’Unione Europea". (N. Al. 36);
"Quando per esempio vai in un posto, a comprare qualunque cosa… sempre hai lo
sguardo della gente… Stamattina mi è capitato per esempio, sono andata alla Posta.
Alla posta sono tutti italiani, tu ci vai, perché io vado perché ci devo fare delle cose e
già ti stanno guardando strano… Già il turno che ti tocca non è il tuo, il modo in cui
te lo chiedono… in (Islam ?) non è così… Ogni straniero si deve aspettare tanto…
fossero tutti i paesi così… che bello "fosse"…
Invece qua sei uno straniero. Ti vedono un po’ strano. Stanno attenti a te. Io
veramente anche in auto cerco di non stare vicino a nessuno, mettermi dietro dove
non c'è nessuno… anche le persone anziane… sì hanno ragione perché c'è tanta
gente cattiva, questo sì, però non possono avere sempre quello sguardo…". (P. Al.
27);
" Si… perché nessuno ti chiama per nome e cognome. Io sono riconosciuta solo per
nome. Io mi chiamo E., ma non mi chiamano per il mio cognome vero. Non esistono
i nostri cognomi. Guarda io lavoro da una famiglia, adesso da due anni e mezzo. Loro
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non sanno come mi chiamo: il mio cognome. Sempre mi chiedono come scrivere il
mio cognome, poi il mio cognome è abbastanza facile... me lo chiedono! Questo mi
dà un po’ di fastidio, direi. Tante volte mi dispiace. Sono un oggetto: questo!". (R. E.
50).
Il commento scaturisce dalle parole stesse. Il razzismo passa attraverso i sensi e
"Guardare il mondo con occhi di donna" significa anche questo. Ma se spacciassimo
altri tipi di lenti?
Sono gli occhiali che prendiamo in prestito da loro a farci vedere un modo differente
di addomesticare le differenze e di procedere verso l'integrazione.
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2. "Guarda questa terra dove noi sono"
Una denuncia e allo stesso tempo una lezione ci viene da queste donne che riescono
a vivere la differenza in maniera positiva accogliendo, per così dire, la società di
accoglienza. Le testimonianze riflettono una rielaborazione puntuale e affinata ad hoc
della propria esperienza migratoria, un raffronto propositivo con il proprio paese e
con le opportunità che il vivere in Italia apre loro. L'atteggiamento nei confronti della
dimensione temporale, cioè l'orientamento, è prevalentemente verso il futuro ed è
caratterizzato dalla pianificazione, dalla progettazione e dall'anticipazione. Il richiamo
del tempo passato è letto e agito come fonte, ma non coincide assolutamente con la
interpretazione di ciò che accade secondo l'esperienza passata o la riformulazione di
regole e riti. Solo in una brevissima fase della vita migratoria la condotta è
determinata dal qui e dall'ora e si orienta, di conseguenza sulla dimensione del
presente. Si tratta di ciò che altrove abbiamo chiamato punti di forza che sono
espressi dalla volontà di essere, da quella di integrarsi e dalla progettazione.
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2.1 La volontà di integrarsi
Andare oltre gli aspetti negativi dell'immigrazione per esaltare e sfruttare quelli
positivi, quelli che consentono di costruirsi una propria identità ed una propria
strada:
"Il mio grande desiderio è quello di poter diventare biologa e lavorare nel campo e
insegnare ai bambini". (U. Af. 27);
"Io ritengo di essermi integrata e di conoscere bene il contesto in cui vivo". (G. Af.
32);
"Penso e spero di restare in Italia per lungo tempo. Voglio fare tutto ciò che serve
per potere stare stabilmente in Italia a partire dall'apprendere la lingua." (I. Al. 32).
Osservare da spettatrici lontane i tratti estranei alla propria persona, ma che
appartengono alla cultura di provenienza e che possono essere lasciati a se stessi,
criticati, superati:
"Sono convinta che resterò in Italia. Le amicizie che ho le ho solo con gli italiani. Con
i miei connazionali ho più problemi. Con loro puoi trovare solo casini, hanno un altro
modo di vivere, un'altra mentalità… C'è una mentalità verso le donne…". (A. E. 25);
"Al di là di un epidermico sentimento di razzismo degli italiani nei confronti degli
albanesi (dovuto purtroppo a fenomeni delinquenziali disapprovabili da chiunque da
parte di concittadini poco motivati e ignoranti) mi sono resa conto che in Italia
l'istituzione Stato esiste… Una difficoltà per la piena emancipazione femminile
albanese in Italia è costituita dalla mentalità dei nostri uomini, i quali temono la
troppa autonomia e libertà delle loro consorti". (Y. E.);
"Qui in Italia una cosa che mi piace è la maggiore libertà: in Marocco gli uomini si
sentono in dovere di abbordare le donne per strada". (D. Af. 27).
La forza di andare avanti e di combattere, di mettere in atto delle strategie:
"Quando uno arriva trova questa situazione inaccettabile, ma sei obbligata a
continuare, ad andare avanti, a combattere per riuscire a rimanere". (W. Af);
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"… Ho preso tutte le informazioni necessarie sui documenti che avrei dovuto avere e
ho annunciato ai datori di lavoro che intendevo acquisire tutti i documenti necessari.
Loro hanno cercato di darmi informazioni sbagliate e ho capito che volevano tenermi
a lavorare al nero e, a fronte della mia decisione hanno tentato di rinviarmi in S. …
Nel
1994
ho
lasciato
il
lavoro
perché
ho
scoperto
che
aprivano
la
mia
corrispondenza" (B. Af. 44);
"A quel punto ho pensato di fare un cambiamento nel mio curriculum: lasciare poco
spazio ai miei studi e alla mia esperienza nel campo agricolo e mettere più in
evidenza la conoscenza dell'albanese, dell'italiano e dell'inglese per poi mandarli alle
agenzie di interpretariato e di mediazione… Non appena mandato il mio curriculum,
una cooperativa aveva bisogno di una mediatrice albanese!". (J. E)
La strana ambivalenza che ricorre nella voglia di creare un'impresa di import export
che costruisca un ponte tra i due paesi. L'autonomia e l'imprenditorialità sono vissute
e perseguite da una discreta percentuale delle donne intervistate, che riversano nel
loro paese le prospettive di benessere, ma non si vogliono legare e stranamente non
vogliono ritornare, ma semplicemente poterlo fare:
"La mia intenzione è di tornare nel mio paese, almeno la vecchiaia, ma prima ho dei
progetti da realizzare qui in Italia e sono: lottare per i diritti degli immigrati, fare dei
progetti che si possano basare su una collaborazione tra l'Italia e il Senegal… Sul
piano personale mi piacerebbe aprire un negozio di parrucchiera o lavorare nel
turismo";
" Ho già l'esperienza di commercio che ho fatto in Perù perché avevo il negozio e
conosco un pochettino diversi tipi di negozi perché ho avuto polli, diverse cose… Un
pochettino di queste cose le conosco… Solo che a me piacerebbe fare qualche piccola
industria nella mia città e creare lavoro là perché io ho parecchi fratelli. Tra quelli ce
ne sono tre che veramente hanno problemi economici e mi piacerebbe non farli
venire, non farli uscire perché è brutto farli uscire dal paese…
…Quindi la mia idea è proprio questa, fare un'industria là… Quindi se Dio vuole…
Vorrei una cosa propria: se devo lavorare tutta la notte, lo faccio. Se devo fare
qualcosa per me lo faccio.
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…Mi piacerebbe questa cosa… e questa attività… potrebbe essere fare anche una
piccola cosa…anche una pizzeria al taglio, che lì non c'è, c'è solo un ristorante
italiano che fa delle cose, però carissimo e la gente del popolo normalmente non va
lì, quindi sono poche le persone che frequentano…E voglio fare anche una piccola
industria di pomodoro in bottiglia perché là non esiste… La pizzeria si potrebbe fare
perché io affitto un posto al centro e compro delle cose… Lei potrebbe lavorare subito
lì, con una percentuale". (N. Al. 36).
Ognuna di queste donne migranti continua a farlo inseguendo l'idea di una stabilità
da costruire e da realizzare da sola. Queste donne sono le prime della catena
migratoria, le prime ad andare, le prime a sperimentare, le prime a restare. Lontane
dall'idea tutta occidentale del farsi da sé per carattere, vicine ad essa per necessità,
ma espressione fattuale del networking che hanno contribuito a far nascere, ad
estendere e ad alimentare.
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