Guardare il Mondo con gli occhi di donna 2000
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Guardare il Mondo con gli occhi di donna 2000
1 Guardare il mondo con occhi di donna "Da chimico un giorno avevo il potere di sposare gli elementi e farli reagire, ma gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinassero attraverso l'amore. Affidando ad un gioco la gioia e il dolore … Ma guardate l'idrogeno tacere nel mare, guardate l'ossigeno al suo fianco dormire: soltanto una legge che io riesco a capire ha potuto sposarli senza farli scoppiare. Soltanto la legge che io riesco a capire." (F. De André) Introduzione Questo lavoro è il risultato di una serie di colloqui intervista effettuati con 27 donne immigrate in Italia da diversi anni. La ricerca e la metodologia utilizzate sono state pensate allo scopo di inserire elementi di realtà soggettiva nell'ambito del progetto europeo Codelfi, di cui l'Italia è partner attivo. Nell'affrontare la ricerca volevamo capire non soltanto cosa è e come agisce la discriminazione, ma anche e soprattutto mettere in luce altri due aspetti correlati all'essere donna e all'essere donna immigrata e cioè le diversità e/o le differenze e i punti di forza. Il vissuto, le esperienze, la percezione del sé e degli altri sono resi attraverso il racconto in prima persona. Non è un caso che sia stata scelta questa forma di intervista perché è forse, la sola, che praticando l'ascolto e la voglia di 1 A questo lavoro hanno contribuito Paola Battaggia, Daniela Bua, Adriana Buffardi,Carolina Cardenas, Elena De Filippo, Celina Frondizi, Maria De Lourdes Jesus, Marinella Meschieri, Hawa Mohamed Ali, Paola Pierantoni, Roberta Ricucci, Maria Grazia Ruggerini, Pilar Segovia, Stefania Valentini. La presente sintesi è stata redatta da Daniela Bua. Le interviste sono state raccolte da P. Battaggia, D. Bua, … … 1 capire tramite il confronto ci può far superare la "discriminante" numerica, restituendoci l'essere persone, innanzitutto. La ricerca è stata condotta in cinque diverse città italiane (Roma, Torino, Genova, Napoli, Venezia), luoghi in cui si concentra una alta percentuale di immigrate e immigrati ed in cui l'immigrazione ha dei connotati specifici, differenti da quelli delle località minori. Le donne intervistate hanno una età compresa tra i 25 e i 50 anni e sono residenti in Italia da un minimo di un anno ad un massimo di undici. Il periodo di permanenza in Italia è stato ritenuto fondamentale per due ordini di motivi. Primo ci permetteva di tracciare con più precisione i percorsi di vita, i cambiamenti, le differenze insite nel passaggio dalla fase irregolare a quella regolare e di confrontare le esperienze di chi si trova nel nostro paese da diverso tempo con quelle di chi è arrivata da poco. Inoltre di sondare il grado e la volontà di adattamento e di darci un quadro più esaustivo del contesto della società italiana così come viene vissuta. Secondo, dato che alla permanenza si lega la padronanza della lingua e che quest'ultima si apprende, di solito, sul posto la scelta è ricaduta su donne che la parlassero discretamente. Per quanto riguarda le nazionalità il campione si compone di donne provenienti dall'Est Europeo, dall'America Latina, dall'Africa, dall'Asia andando così a rappresentare i diversi contesti nazionali che abitano l'Italia. Le donne intervistate sono state contattate grazie alla collaborazione di alcune associazioni di donne immigrate, degli uffici locali per l'immigrazione della Cgil e della rete di relazioni personali delle ricercatrici coinvolte nel progetto. Ogni colloquio intervista è durato in media due ore e si è svolto o in casa delle intervistate o nel posto di lavoro oppure nelle sedi delle organizzazioni. Le questioni affrontate durante i colloqui hanno fatto emergere alcune forme di discriminazione che si declinano in maniera differente a seconda dell'ambiente e delle modalità in cui si manifestano. Esistono forme di discriminazione implicita ed esplicita, le prime più strettamente legate all'essere stranieri (ad esempio il non parlare la lingua che comporta isolamento e impossibilità di esprimere se stessi), le seconde di origine socio culturale ed economica. Tra i fattori discriminanti che sono emersi nella ricerca abbiamo selezionato quelli più rappresentativi e cioè le 2 2 discriminazioni derivanti dalla mancata appropriazione dei codici culturali della società di approdo, da quelle connaturali alla condizione di irregolarità a quelle sul lavoro (dal tipo di occupazione, al salario, all'orario), dal mancato riconoscimento delle qualifiche e da quello che abbiamo definito razzismo latente. Oltre alla discriminazione abbiamo però riscontrato una forte volontà di riscatto e di voglia di affermare la propria identità che si esprimono nella consapevolezza della propria diversità, che vissuta in tal modo si trasforma in una risorsa positiva. L'inter-azione costituisce così il primo passo verso l'integrazione. Passiamo parola. 1. Le Discriminazioni Come è stato accennato nell'introduzione la ricerca ha rilevato la presenza di alcune tipologie di discriminazioni che abbiamo definito implicite ed esplicite. Nel primo gruppo possiamo fare rientrare il fatto di non parlare la lingua, che è una discriminante forte in quanto ostacola la comunicazione e pone la persona in una posizione non paritaria, già in partenza. La temporanea privazione della parola non consente di essere se stessi e crea un primo ostacolo alla manifestazione del sé, come sottolineato da tutte le intervistate. Il primo dato che emerge è quindi connesso all'essere persona che, per un periodo che varia a seconda delle intervistate, viene esperito come una menomazione ed una delle difficoltà maggiori che si incontrano nel corso dell'esperienza migratoria. Il carico di ansia e di impotenza che tale stato di cose porta con sé può essere espresso efficacemente facendo ricorso ad un verso di una canzone di Fabrizio de André 2: "Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole…". Cantautore Italiano, "Il Matto", tratto da "Non al Denaro Non all'Amore Né al Cielo", Dischi Ricordi S.p.A., 1971 3 Al di là, poi, di implicazioni che si riferiscono alla sfera soggettiva ne esistono altre che affacciano verso l'esterno. Le prime non escludono le seconde, ma si compenetrano dando adito ad un intreccio e ad un circolo vizioso. Nel rapporto di lavoro, ad esempio, la non conoscenza parziale o totale del codice verbale, può fare sì che la donna si trovi quasi completamente in balìa del proprio datore di lavoro. Non può replicare, ne rivendicare i suoi diritti: "Da quando ho cominciato a parlare di più la lingua mi sono sentita più libera… Quando ho iniziato a frequentare il corso ho dato questa spiegazione all'insegnante… Io sono venuta a imparare l'italiano per potere litigare, per potere comunicare con il mio capo perché lui dice delle cose… io non lo capisco, rimango zitta, però mi sento ferita dal tono di voce anche se non capisco che cosa è…è la prima libertà che ho avuto. Più capivo, più mi sentivo libera!" (N.al.36) 3. Tale affermazione sintetizza il basso potere di replica e di azione inscritto nella mancanza di parola, ma evidenzia anche un elemento di forza che attraversa l'intero agire e porsi delle donne del campione. Infatti, ognuna di esse è accomunata da questa esperienza, ma anche dal modo in cui la affronta. Il deficit viene superato, la lingua strumentale viene acquisita al più presto e non solo per la semplice necessità della sopravvivenza, ma per andare oltre, per affermarsi come soggetto pensante e diverso in una società altra. La sensazione è che la lingua vive, si rigenera non è una riproduzione e più di ogni altra cosa non rimane lettera morta. Così si traduce in una prima conquista di una terra che non lo è, ma lo deve essere! Va, in ogni caso, posto in rilievo che l'apprendimento dell'italiano avviene, per la maggioranza dei casi, attraverso la frequenza di specifici corsi di formazione organizzati da istituzioni pubbliche, dalla chiesa o da associazioni. Importante, tenere in considerazione, che la donna che decide di frequentare un corso lo fa in piena autonomia, mobilitandosi e adattando i propri tempi a quelli della formazione. Si tratta di un primo investimento che si fa su di sé. Ritornando ora a quelle che abbiamo definito come discriminazioni esplicite, dove l'aggettivo non significa accettabili, ma meno nascoste se ne trova traccia 3 Legenda: le lettere in stampatello maiuscolo sono puramente classificatorie; le lettere in corsivo minuscolo indicano il paese di provenienza (ad esempio al- America Latina); le cifre indicano l’età) 4 nell'irregolarità, nel lavoro, nel riconoscimento delle qualifiche e in quello che abbiamo chiamato razzismo latente o strisciante. 1.1 Essere o non essere: l'irregolarità e la regolarità Può apparire strano l'avere connotato con l'attributo esplicite le discriminazioni caratterizzanti questo passaggio di vita, dato che l'irregolarità può far pensare immediatamente alla non visibilità e quindi alla assenza di fenomeni che raggiungono l'evidenza dei fatti. In questa breve sintesi diamo nota delle differenze tra l'essere irregolari e il non esserlo così come ci è stato raccontato dalle donne intervistate. Solo due delle donne intervistate vivono ancora la condizione di irregolarità e a parte le sei che sono venute in Italia per ricongiungimento familiare, hanno tutte vissuto questa situazione per periodi di tempo che vanno dai pochi mesi ai due o tre anni. Il sentimento che si accompagna a questo stato e che tutte esprimono è la paura. Paura di essere scoperte e di essere "rispedite" indietro prima che il loro progetto abbia avuto modo di realizzarsi. L'angoscia di ritornare indietro senza avere avuto la possibilità di affermarsi è vissuto male, perché il rientro a mani vuote significa fallimento, soprattutto agli occhi della società da cui si proviene. Questa prospettiva viene allontanata. Il fatto, però, di essere irregolari non impedisce loro di lavorare, di muoversi comunque nel contesto urbano, ma le rende deboli perché non hanno nessun potere. Infatti, in questa fase, il lavoro non manca, ma è al nero, è sotto pagato, gli orari non sono rispettati, i giorni o le ore libere raramente esistono. Il rispetto delle regole è affidato alla discrezionalità e diciamolo pure, onestà, del datore di lavoro che però tralascia spesso i diritti della persona che occupa, facendo al contempo, rispettare i suoi doveri. Ne deriva che le condizioni di lavoro sono accettate senza diritto di replica almeno fino al momento in cui si ottiene il permesso di soggiorno. Anche se questo non garantisce sempre il rispetto dei propri diritti e la denuncia dei soprusi, diventa però un punto fermo, si trasforma nel potere, non sempre utilizzato, di affermarsi e di liberarsi. È più di un potenziale perché, comunque, il più delle volte si traduce in un effettivo cambiamento dello stile di vita. Io so di essere e lo posso rivendicare: esiste uno scarto abbastanza netto tra irregolarità e regolarità che si misura con la consapevolezza di sé. Raramente le donne si affidano esclusivamente all'altro, non sembrano delegare, ma si prendono in 5 carico perché vanno costantemente alla ricerca dell'altro, del confronto, delle informazioni. Ancora una volta, la sofferenza non genera sempre inamovibilità o impaludamento, ma ansia di riscatto. Concludendo l'essere irregolari è un po’ per tutte un periodo purtroppo naturale nella condizione di immigrate che lascia, però il passo alla regolarità. L'esperienza vissuta è condivisa e scambiata sia nel suo svolgersi che in seguito, quando diventa bagaglio esperienziale, e si trasforma in un essere stati per. Da segnalare che è durante questo periodo che la donna batte il terreno alla ricerca di informazioni ed è in questa fase che entra in contatto con le associazioni, i sindacati oppure la chiesa. Inizia a frequentare sull'immigrazione e corsi inizia di lingua a e costruire a il capire proprio come funzionano le percorso leggi nell'immigrazione. Ovviamente il passaggio non è così scontato, né privo di ostacoli, ne risolutorio di problematiche ben più complesse, ma segna appunto il passo. Con questo non si vuole assolutamente suggerire che l'irregolarità sia una sorta di purgatorio in vista di un ben più piacevole paradiso, né che si possa accettare che si verifichino ed esistano situazioni del genere, ma sostenere ancora una volta la positività della discriminante di genere così come prorompe dalle interviste. 1.2 Il riconoscimento delle qualifiche Il problema del mancato riconoscimento delle qualifiche è sentito come discriminate dalle donne che hanno partecipato alla ricerca. Infatti, tutte sono diplomate o laureate, ma non svolgono la professione corrispondente al loro titolo di studio. Ciò è dovuto a vari fattori. La normativa italiana garantisce sia il riconoscimento del titolo di studio conseguito all'estero al fine della prosecuzione degli studi 4 sia quello per altri scopi 5 come ad esempio il lavoro. Inoltre, consente 6 a chi è in possesso di titoli legalmente riconosciuti in Italia di iscriversi negli albi professionali o negli elenchi speciali istituiti presso i ministeri competenti. L'iscrizione è condizione necessaria per l'esercizio della professione 7. Questa la legislazione, ma la realtà è differente perché i tempi relativi al riconoscimento delle proprie qualifiche sono molto lunghi, sono 4 Art. 39, comma 3, lett. f del T. u. ex Art. 387 del T. u. 6 Art. 37 del T. u. 7 Cfr. Frondizi Celina, "Immigrati. Nuovi Diritti di Cittadinanza", Ediesse, Roma, 2000, pp. 84-85 5 6 8 tempi burocratici che, nel nostro paese, colpiscono tutti i cittadini e non solo quelli provenienti da altri paesi, in possesso della cittadinanza o no. 8 Se inseriamo questa "discriminazione" nel contesto in cui opera vediamo quindi che essa appare, in un gioco di parole, una discriminante del contesto stesso. In tal senso non vi sono sostanziali differenze di trattamento tra i soggetti che provengono dai paesi aderenti alla Comunità Europea e quelli che vengono da altri stati. Notiamo, invece che, se da un lato questo è uno stato di fatto, dall'altro nessuna delle donne intervistate ha fatto richiesta formale di riconoscimento del proprio titolo e che l'essere impossibilitate a svolgere un certo tipo di professione filtra dalla percezione e dalla esperienza del mercato del lavoro italiano, così come si coniuga per loro. Infatti, la donna immigrata è occupata prevalentemente nel settore della cura della casa e delle persone, andando a riempire nicchie occupazionali lasciate vuote dall'assenza dello stato sociale. Le donne incontrano e si scontrano con questo muro occupazionale e intraprendono l'unica via ad esse consentita nell'immediato o nel medio periodo. Loro sentono che non esiste un'alternativa: "Il diploma di hostess di terra, acquisito nel mio paese, qui non lo considerano per cui accetto lavori anche molto inferiori alla mia qualifica… L'importante, ora, è lavorare" (F. Af. 33); "Conosco otto lingue. Sono laureata, ma nonostante questo non ho facilità a migliorare la condizione lavorativa e professionale" (G. Af. 32); "Nel mio paese facevo la disegnatrice di moda. Qui non ho trovato la possibilità di continuare a fare questo lavoro per cui sono abbastanza dispiaciuta e anche in crisi perché il lavoro che faccio non mi piace, ma sono costretta a farlo per vivere," (H. Al. 28). Nei casi citati il lavoro c'è, ma viene percepito come l'unico possibile e, alle condizioni date, non ci si riconosce in esso. Una cosa è il lavoro per mantenersi e per vivere, un'altra è la realizzazione personale e professionale. Si ha quindi a che fare con una forma di discriminazione che pare non consentire la mobilità occupazionale, né la crescita. Ma se da un lato questa realtà esiste, il salto professionale si verifica non attraverso il riconoscimento del proprio titolo, che deve essere ricordiamolo rivendicato e Ricordiamo che per esercitare il diritto affermato nella normativa di cui sopra è sufficiente il possesso di regolare permesso di soggiorno. 7 richiesto, ma tramite l'acquisizione di un titolo in Italia. Ci sono esempi di donne che dopo avere frequentato dei corsi di formazione professionale hanno avuto accesso ad altre forme di lavoro, come quello di mediatrice culturale che apre le loro prospettive. Seguendo la strada della formazione, queste donne, hanno potuto svincolarsi da un percorso segnato e sfruttare in pieno la loro condizione di immigrate, divenendo un trait d'union tra due o più culture. In questo percorso sfocia la voglia di tirare fuori la propria esperienza, di renderla significativa e di farsi promotrici di progetti interculturali. Emerge ancora una volta il forte grado di adattamento ai contesti e alle situazioni, peraltro mai camaleontico! 1.3 Voci in sordina L'atteggiamento razzista degli italiani nei riguardi delle donne immigrate si esprime sottovoce, è latente, ma c'è. Non è questa la sede per l'analisi approfondita di questo fenomeno, né l'obiettivo della ricerca, ma le persone intervistate si sentono colpite da questa diffidenza che si esprime con lo sguardo, la parola e i gesti. Sono delle modalità comportamentali che filtrano attraverso l'apparenza, non sfociano in un'opposizione frontale, ma proprio perché la forma non è ancora definita o definibile sfuggono all'azione contrastante. Insomma, il razzismo o paura del diverso, più probabile, è nell'aria e chi ne è oggetto lo respira. Dove? Nello spazio e nel tempo del quotidiano. Le donne non lo motivano, ma lo registrano, qualcuna ci fa pensare ad un razzismo generazionale (in quanto sono gli anziani i più intolleranti). Ma ecco le loro parole: "Mi sono abbastanza inserita nell'ambiente cittadino in cui vivo, ma non mi piacciono i commenti della gente che, spesso, quando entri nel bar, ti chiama neretta. Non sono tutti così, ma questo mi fa stare male." (F. Af. 33); "Ci sono anche persone simpatiche, ma ci sono anche atteggiamenti razzisti che si notano anche in dettagli del comportamento: la persona che si allontana da te sull'autobus o che ti spinge…" (B. Af. 44); "Qui mi sento straniera, quando le persone sentono il mio accento straniero il loro atteggiamento cambia, in modo magari impercettibile, ma cambia. Qui essere 8 straniero non è ancora naturale" (D. Af. 27); "Una mia amica telefonava alle agenzie immobiliari o ai proprietari per essere più convincente in modo da non capire che si trattasse di una straniera e che tagliando corto dicessero "L'alloggio è stato affittato" come era successo in precedenza con le telefonate fatte da me". (J. E) "Quello si, ma si può capire perché non sai mai se ti stanno mettendo la mano in tasca… Quindi la diffidenza c’è… nel guardare una persona di colore… c’è. Mi ricordo quando ancora non avevo il motorino e prendevo solo i mezzi per andare e una persona, e una coppia di signori anziani, in metro… c’erano delle persone di colore seduti e hanno cominciato a dire delle cose come sporcaccioni perché non andate via, noi saliamo e non abbiamo neanche il posto per sederci, però non si mettono a pensare che queste persone pagano il biglietto, hanno il diritto di prendere questo mezzo. Per loro basta vedere che non siano italiani, per non avere diritto a queste cose. Quindi è perché all’inizio mi avevano detto che questa cosa si vede di più nelle persone anziane che forse non hanno la mentalità, non si abituano a questa cosa dei troppi stranieri che stanno arrivando anche con l’Unione Europea". (N. Al. 36); "Quando per esempio vai in un posto, a comprare qualunque cosa… sempre hai lo sguardo della gente… Stamattina mi è capitato per esempio, sono andata alla Posta. Alla posta sono tutti italiani, tu ci vai, perché io vado perché ci devo fare delle cose e già ti stanno guardando strano… Già il turno che ti tocca non è il tuo, il modo in cui te lo chiedono… in (Islam ?) non è così… Ogni straniero si deve aspettare tanto… fossero tutti i paesi così… che bello "fosse"… Invece qua sei uno straniero. Ti vedono un po’ strano. Stanno attenti a te. Io veramente anche in auto cerco di non stare vicino a nessuno, mettermi dietro dove non c'è nessuno… anche le persone anziane… sì hanno ragione perché c'è tanta gente cattiva, questo sì, però non possono avere sempre quello sguardo…". (P. Al. 27); " Si… perché nessuno ti chiama per nome e cognome. Io sono riconosciuta solo per nome. Io mi chiamo E., ma non mi chiamano per il mio cognome vero. Non esistono i nostri cognomi. Guarda io lavoro da una famiglia, adesso da due anni e mezzo. Loro 9 non sanno come mi chiamo: il mio cognome. Sempre mi chiedono come scrivere il mio cognome, poi il mio cognome è abbastanza facile... me lo chiedono! Questo mi dà un po’ di fastidio, direi. Tante volte mi dispiace. Sono un oggetto: questo!". (R. E. 50). Il commento scaturisce dalle parole stesse. Il razzismo passa attraverso i sensi e "Guardare il mondo con occhi di donna" significa anche questo. Ma se spacciassimo altri tipi di lenti? Sono gli occhiali che prendiamo in prestito da loro a farci vedere un modo differente di addomesticare le differenze e di procedere verso l'integrazione. 10 2. "Guarda questa terra dove noi sono" Una denuncia e allo stesso tempo una lezione ci viene da queste donne che riescono a vivere la differenza in maniera positiva accogliendo, per così dire, la società di accoglienza. Le testimonianze riflettono una rielaborazione puntuale e affinata ad hoc della propria esperienza migratoria, un raffronto propositivo con il proprio paese e con le opportunità che il vivere in Italia apre loro. L'atteggiamento nei confronti della dimensione temporale, cioè l'orientamento, è prevalentemente verso il futuro ed è caratterizzato dalla pianificazione, dalla progettazione e dall'anticipazione. Il richiamo del tempo passato è letto e agito come fonte, ma non coincide assolutamente con la interpretazione di ciò che accade secondo l'esperienza passata o la riformulazione di regole e riti. Solo in una brevissima fase della vita migratoria la condotta è determinata dal qui e dall'ora e si orienta, di conseguenza sulla dimensione del presente. Si tratta di ciò che altrove abbiamo chiamato punti di forza che sono espressi dalla volontà di essere, da quella di integrarsi e dalla progettazione. 11 2.1 La volontà di integrarsi Andare oltre gli aspetti negativi dell'immigrazione per esaltare e sfruttare quelli positivi, quelli che consentono di costruirsi una propria identità ed una propria strada: "Il mio grande desiderio è quello di poter diventare biologa e lavorare nel campo e insegnare ai bambini". (U. Af. 27); "Io ritengo di essermi integrata e di conoscere bene il contesto in cui vivo". (G. Af. 32); "Penso e spero di restare in Italia per lungo tempo. Voglio fare tutto ciò che serve per potere stare stabilmente in Italia a partire dall'apprendere la lingua." (I. Al. 32). Osservare da spettatrici lontane i tratti estranei alla propria persona, ma che appartengono alla cultura di provenienza e che possono essere lasciati a se stessi, criticati, superati: "Sono convinta che resterò in Italia. Le amicizie che ho le ho solo con gli italiani. Con i miei connazionali ho più problemi. Con loro puoi trovare solo casini, hanno un altro modo di vivere, un'altra mentalità… C'è una mentalità verso le donne…". (A. E. 25); "Al di là di un epidermico sentimento di razzismo degli italiani nei confronti degli albanesi (dovuto purtroppo a fenomeni delinquenziali disapprovabili da chiunque da parte di concittadini poco motivati e ignoranti) mi sono resa conto che in Italia l'istituzione Stato esiste… Una difficoltà per la piena emancipazione femminile albanese in Italia è costituita dalla mentalità dei nostri uomini, i quali temono la troppa autonomia e libertà delle loro consorti". (Y. E.); "Qui in Italia una cosa che mi piace è la maggiore libertà: in Marocco gli uomini si sentono in dovere di abbordare le donne per strada". (D. Af. 27). La forza di andare avanti e di combattere, di mettere in atto delle strategie: "Quando uno arriva trova questa situazione inaccettabile, ma sei obbligata a continuare, ad andare avanti, a combattere per riuscire a rimanere". (W. Af); 12 "… Ho preso tutte le informazioni necessarie sui documenti che avrei dovuto avere e ho annunciato ai datori di lavoro che intendevo acquisire tutti i documenti necessari. Loro hanno cercato di darmi informazioni sbagliate e ho capito che volevano tenermi a lavorare al nero e, a fronte della mia decisione hanno tentato di rinviarmi in S. … Nel 1994 ho lasciato il lavoro perché ho scoperto che aprivano la mia corrispondenza" (B. Af. 44); "A quel punto ho pensato di fare un cambiamento nel mio curriculum: lasciare poco spazio ai miei studi e alla mia esperienza nel campo agricolo e mettere più in evidenza la conoscenza dell'albanese, dell'italiano e dell'inglese per poi mandarli alle agenzie di interpretariato e di mediazione… Non appena mandato il mio curriculum, una cooperativa aveva bisogno di una mediatrice albanese!". (J. E) La strana ambivalenza che ricorre nella voglia di creare un'impresa di import export che costruisca un ponte tra i due paesi. L'autonomia e l'imprenditorialità sono vissute e perseguite da una discreta percentuale delle donne intervistate, che riversano nel loro paese le prospettive di benessere, ma non si vogliono legare e stranamente non vogliono ritornare, ma semplicemente poterlo fare: "La mia intenzione è di tornare nel mio paese, almeno la vecchiaia, ma prima ho dei progetti da realizzare qui in Italia e sono: lottare per i diritti degli immigrati, fare dei progetti che si possano basare su una collaborazione tra l'Italia e il Senegal… Sul piano personale mi piacerebbe aprire un negozio di parrucchiera o lavorare nel turismo"; " Ho già l'esperienza di commercio che ho fatto in Perù perché avevo il negozio e conosco un pochettino diversi tipi di negozi perché ho avuto polli, diverse cose… Un pochettino di queste cose le conosco… Solo che a me piacerebbe fare qualche piccola industria nella mia città e creare lavoro là perché io ho parecchi fratelli. Tra quelli ce ne sono tre che veramente hanno problemi economici e mi piacerebbe non farli venire, non farli uscire perché è brutto farli uscire dal paese… …Quindi la mia idea è proprio questa, fare un'industria là… Quindi se Dio vuole… Vorrei una cosa propria: se devo lavorare tutta la notte, lo faccio. Se devo fare qualcosa per me lo faccio. 13 …Mi piacerebbe questa cosa… e questa attività… potrebbe essere fare anche una piccola cosa…anche una pizzeria al taglio, che lì non c'è, c'è solo un ristorante italiano che fa delle cose, però carissimo e la gente del popolo normalmente non va lì, quindi sono poche le persone che frequentano…E voglio fare anche una piccola industria di pomodoro in bottiglia perché là non esiste… La pizzeria si potrebbe fare perché io affitto un posto al centro e compro delle cose… Lei potrebbe lavorare subito lì, con una percentuale". (N. Al. 36). Ognuna di queste donne migranti continua a farlo inseguendo l'idea di una stabilità da costruire e da realizzare da sola. Queste donne sono le prime della catena migratoria, le prime ad andare, le prime a sperimentare, le prime a restare. Lontane dall'idea tutta occidentale del farsi da sé per carattere, vicine ad essa per necessità, ma espressione fattuale del networking che hanno contribuito a far nascere, ad estendere e ad alimentare. 14