il iv libro delle elegie fra l`eneide virgiliana e l`ultima produzione

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il iv libro delle elegie fra l`eneide virgiliana e l`ultima produzione
IL IV LIBRO DELLE ELEGIE
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PAOLO FEDELI
IL IV LIBRO DELLE ELEGIE FRA L’ENEIDE VIRGILIANA E
L’ULTIMA PRODUZIONE LIRICA ORAZIANA
1. La cronologia di Properzio, si sa bene, è ampiamente congetturale e approssimativa, considerati i non molti dati certi che la sua produzione ci offre. Per l’argomento che qui s’intende trattare, sarebbe in
primo luogo necessario stabilire un terminus post quem relativo al IV
libro: ma la cronologia generalmente accettata per il III poggia su basi
tutt’altro che certe, perché, se si prescinde dagli accenni a una vagheggiata spedizione contro i Parti nella IV e nella V elegia, l’unico elemento cronologico sicuro è costituito dalla morte di Marcello, nel 23
a.C., che costituisce l’argomento di canto della XVIII elegia. Poiché le
elegie databili del II libro – che si tratti di un libro unitario o della
confluenza di ciò che resta di due libri qui non importa – non vanno
al di là del 25 a.C., è opinione comune che il III sia stato composto
fra il 25 e il 23 a.C. Se le cose stanno così, bisogna ammettere che
prima di diffondere il IV libro di elegie Properzio si sia concesso una
lunga pausa di riflessione, perché gli accenni cronologici in esso contenuti giungono sino al 15 a.C. Già nel III libro Properzio aveva mostrato
la tendenza a ricercare vie nuove: il poeta d’amore del I e del II libro,
nel III aveva preso a privilegiare contenuti diversi da quelli della poesia erotica: più che dell’amore si era interessato del suo status di poeta
e si era preoccupato di caratterizzare il proprio stile di vita, accordando un ampio spazio alle riflessioni esistenziali e ai motivi diatribici. Al
lettore avvezzo a sentirlo narrare le vicende del suo rapporto con Cinzia, nel III libro Properzio aveva continuamente proposto tematiche di
tutt’altro tipo, dal rifiuto delle ricchezze alla critica dell’avidità di denaro quale causa prima delle guerre, dalla morte livellatrice alla consolazione offerta in vecchiaia dalla filosofia, dalla polemica moralistica contro il lusso alla condanna dei facili costumi delle donne. Per di più al
progressivo scemare dell’interesse per l’amore quale materia di canto
faceva riscontro lo spazio sempre maggiore accordato alla riflessione sul
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ruolo del poeta nella società e sulla sua missione. Anche nelle scelte di
poetica si assisteva a una chiara progressione: mentre all’inizio del III
libro, pur non sottraendosi al fascino dell’epica e pur mostrandosi consapevole della sua importanza nel clima culturale del tempo, Properzio
aveva rivendicato la sua professione di poeta d’amore, nella chiusa del
libro la violenta separazione da Cinzia e il simbolico smarrimento delle
tavolette facevano capire al lettore che quello della poesia d’amore era
un discorso ormai chiuso.
Tutto era maturo, quindi, per la riflessione che avrebbe condotto
Properzio, nel corso degli anni successivi, alla individuazione di una
poesia di tipo nuovo: essa programmaticamente vorrà celebrare Roma
attraverso il canto delle origini, ma al tempo stesso privilegerà le diverse caratterizzazioni del personaggio femminile: non si tratterà più, tuttavia, della sola Cinzia, ma di Aretusa (la moglie che la guerra divide
dal marito), di Tarpea (la Vestale che per amore consegna Roma al
nemico), di Acantide (la ruffiana che alla sua protetta illustra la propria
ars amandi), di Cornelia (la matrona romana che di fronte al tribunale
infernale esalta i principi della morale aristocratica).
Negli anni fra il 22 e il 15 a.C. il panorama letterario muta profondamente e s’intuisce che deve essersi verificato un cambiamento importante nell’organizzazione dell’attività culturale. Nel 19 a.C. muore Virgilio e, forse nello stesso anno, anche Tibullo. Che il ruolo di Mecenate
sia entrato in crisi nello stesso periodo lo si può dedurre dal IV libro
delle Odi oraziane: in precedenza nel nome di Mecenate si erano aperti
sia gli Epodi sia le Satire sia il I libro delle Odi e, per non parlare del
ruolo rilevante di Mecenate tanto nel I quanto nel II libro, nel III delle
Odi a lui erano stati dedicati addirittura tre carmi (8. 16. 29). Terminata, poi, la prima raccolta di poesia lirica, Orazio aveva dedicato a Mecenate anche il I libro delle Epistole. Invece nel IV libro delle Odi Mecenate compare solo in occasione del suo genetliaco (nel carme 11), mentre
è onnipresente la figura di Augusto, a cui viene dedicato il II libro delle
Epistole. Parallelamente, Properzio dedica a Mecenate il II libro e a lui
rivolge la IX elegia del III: ma di Mecenate non c’è più traccia nel IV.
Morto Virgilio, è Orazio a dominare il panorama letterario: se ne rese
ben conto Augusto, che nella solenne celebrazione dei giochi secolari
nel 17 a.C. a lui affidò ufficialmente la composizione del Carmen Saeculare. È Orazio, dunque, il punto di riferimento per i poeti che anni
prima si erano stretti attorno a Mecenate ed è inevitabile che con Orazio e con la sua poesia lirica (i primi tre libri delle Odi erano stati
pubblicati nel 23 a.C.), oltre che con l’onnipresente Virgilio, il Properzio
del IV libro abbia dovuto fare i conti.
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Orazio e Properzio non parlano mai l’uno dell’altro: in un ambiente
avvezzo agli atti d’omaggio anche fra i cultori di generi letterari diversi
– si pensi solo agli attestati di affettuosa amicizia di Virgilio per Cornelio Gallo, di Orazio per Virgilio e per Tibullo, di Properzio stesso per
Virgilio – ciò ha destato un notevole stupore e ha suggerito ipotesi talora fantasiose. Per darne un’idea, basterà ricordare che nel 1755 il Volpi,
nella sua edizione delle Satire oraziane pubblicata a Padova, prospettò
addirittura l’ipotesi che nel seccatore della Sat. 1,9 fosse da vedere Properzio. Ma molta fortuna ha goduto, e continua a godere, la vetusta
ipotesi di Laevinus Torrentius 1, che identificò in Properzio lo sconosciuto autore di elegie di cui Orazio sembra considerarsi antagonista nell’epistola a Floro (Epist. 2,2,91-103):
carmina compono, hic elegos. Mirabile visu
caelatumque novem Musis opus! Aspice primum
quanto cum fastu, quanto molimine circumspectemus vacuam Romanis vatibus aedem!
Mox etiam, si forte vacas, sequere et procul audi
quid ferat et quare sibi nectat uterque coronam.
Caedimur et totidem plagis consumimus hostem
lento Samnites ad lumina prima duello.
Discedo Alcaeus puncto illius: ille meo quis?
Quis nisi Callimachus? Si plus adposcere visus,
fit Mimnermus et optivo cognomine crescit.
Multa fero, ut placem genus irritabile vatum,
cum scribo et supplex populi suffragia capto.
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Nell’epistola Orazio si propone di citare un esempio del furor da cui
i poeti sono perseguitati e contrappone se stesso, autore di carmina, a
un poeta che coltiva il genere elegiaco (v. 91 carmina compono, hic elegos).
Benché pratichino generi poetici diversi, i due fanno a gara nello scambiarsi complimenti (vv. 91-92 mirabile visu / caelatumque novem Musis opus).
Ma questa è solo l’apparenza, perché in realtà un tale genere di elogi è
simile alla lotta di due gladiatori che dànno e ricevono colpi (vv. 97-98).
A giudizio del poeta elegiaco, Orazio è un Alceo (v. 99 discedo Alcaeus
puncto illius); a giudizio di Orazio, invece, il poeta elegiaco è un secondo Callimaco (v. 100 quis nisi Callimachus?) e, se avrà ambizioni maggiori, diverrà un altro Mimnermo: un cognomen, questo, che lo renderà
tutto tronfio (vv. 100-101 si plus adposcere visus, / fit Mimnermus et optivo
1
Liévin van der Becke, 1525-1595.
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cognomine crescit). In realtà Orazio è costretto a sopportare un simile
stato di cose per vivere in pace con la genia irritabile dei poeti (v. 102).
Sono stati proprio i finti elogi al secondo Callimaco e al nuovo
Mimnermo che hanno indotto a identificare l’autore di elegie in Properzio, considerato che nella sua poesia esistono rinvii espliciti sia a
Callimaco sia a Mimnermo quali modelli da emulare. Più chiara appare
l’identificazione con Callimaco, perché al di là delle numerose professioni di fede callimachea, implicite ed esplicite, disseminate qua e là
nei primi tre libri di elegie, il contesto oraziano sembra rinviare intenzionalmente alle affermazioni programmatiche di Properzio nell’elegia
proemiale del IV libro, in cui la proclamazione di un progetto di poesia
eziologica è seguita dall’orgogliosa affermazione di essere il Callimaco
romano (vv. 62-64):
mi folia ex hedera porrige, Bacche, tua,
ut nostris tumefacta superbiat Vmbria libris,
Vmbria Romani patria Callimachi!
Per quanto riguarda, poi, Mimnermo, nella IX elegia del I libro, nel
constatare che il poeta epico-tragico Pontico non riesce più a trovare
motivi d’ispirazione perché finalmente si è innamorato, Properzio gli fa
presente che (v. 11)
plus in amore valet Mimnermi versus Homero.
In tal modo egli istituisce un parallelo fra se stesso, cantore in versi
elegiaci dell’amore infelice per Cinzia, e la situazione di Mimnermo,
che nello stesso metro aveva cantato il suo amore sfortunato per Nannó,
e sottintende che la poesia elegiaca è la più adatta ad esprimere le
pene d’amore 2.
La cronologia delle opere non fa difficoltà nei confronti di una interpretazione in tal senso del contesto oraziano: tutto lascia pensare,
infatti, che l’epistola a Floro sia stata scritta fra il 20 e il 17 a.C. 3 ed è
verisimile che a questo periodo appartenga gran parte della produzione
del IV libro properziano, mentre il primo era già stato diffuso intorno
al 28 a.C. Sulla base di ciò si è ritenuto, forse un po’ troppo frettolosa-
2
Sull’interpretazione del verso cfr. U. von Wilamowitz-Moellendorff, Sappho und Simonides, Berlin 1913, 301-4 e P. Fedeli, Sesto Properzio. Il primo libro delle elegie, Firenze
1980, 236-7.
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In proposito cfr. C.O. Brink, Horace on Poetry, I, Cambridge 1963, 184 n. 1.
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mente, che un’antipatia profonda abbia caratterizzato i rapporti fra i due
poeti augustei e c’è chi ha pensato addirittura di rintracciarne l’origine
nel comune amore per una Cinara, il cui nome compare più volte in
Orazio e una volta in Properzio (4,1,99), ma per motivi che con l’amore
non hanno niente a che vedere 4. Ma queste sono fantasie di filologi
stravaganti.
Un sano scetticismo appare più che legittimo e c’è anche chi, come
Brink nel suo monumentale commento al II libro delle Epistole oraziane,
ha messo in forte dubbio l’identificazione dell’antagonista di Orazio con
Properzio, sostenendo che citare per un cultore del genere elegiaco
l’aspirazione a divenire un secondo Callimaco non rinvia necessariamente a Properzio, perché Callimaco era universalmente considerato il migliore esponente del genere elegiaco 5. Questo è vero: va detto, però,
che appare quanto meno sospetta e fortemente indicativa la combinazione di Callimaco con Mimnermo a proposito di uno stesso autore di
elegie, che solo a Properzio sembra rinviare. In ogni caso, anche se si
propende per l’identificazione dell’anonimo bersaglio di Orazio con Properzio, si deve convenire che nel contesto dell’epistola Orazio non vuole
mettere in caricatura alcun poeta elegiaco desideroso di raggiungere la
gloria di Mimnermo e di Callimaco, più di quanto non intenda ironizzare su se stesso, dichiarandosi emulo di Alceo 6. Orazio e il poeta elegiaco sono collocati sullo stesso piano e, piuttosto che parlare di polemica, sarà opportuno parlare di amabile ironia.
Di contro la critica si è spesso impegnata in una ricerca di paralleli
fra i due poeti, nell’intento di provare l’ammirazione di Properzio nei
confronti di Orazio, a dispetto di un presunto atteggiamento d’indifferenza o addirittura di antipatia di Orazio nei confronti di Properzio. In
questa operazione si è senz’altro andati al di là dei limiti del lecito,
prendendo per paralleli validi quelli che in gran parte sono palesi pseudoparalleli. Rimangono, com’è ovvio, non pochi contesti in cui le reminiscenze oraziane appaiono probabili: ma anch’esse non provano nulla,
perché è ben noto che già i poeti alessandrini potevano polemizzare in
modo aperto, ma non rinunciavano a raffinati rapporti allusivi nei confronti del bersaglio stesso delle loro polemiche. Più che ad isolati paral-
4
Così L. Herrmann, Horace adversaire de Properce, « Rev.Et.Anc. » 35, 1933, 287-8.
Cfr. Quintil. Inst. 10,1,58 cuius (sc. elegiae) princeps habetur Callimachus, secundas
confessione plurimorum Philetas occupavit.
6
Cfr. G.C. Giardina, Orazio e Properzio. A proposito di Hor. Epist. 2,2,91 sgg., « RFIC »
93, 1965, 26.
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leli bisognerà guardare, quindi, alla struttura stessa dei libri di poesia e
ai loro contenuti.
Se, dunque, da questa diversa prospettiva consideriamo il III libro
delle elegie di Properzio e, parallelamente, il III delle Odi oraziane,
sembra chiaro il tentativo di aemulatio del suo impianto strutturale nel
primo blocco di 5 carmi da parte di Properzio. Si è visto in precedenza
come l’epoca di pubblicazione coincida; tuttavia, anche se così non fosse, bisognerebbe tener presente la consuetudine delle letture e delle recitazioni pubbliche, che permettevano la conoscenza di un’opera ancor
prima della sua diffusione in campo librario. La prima elegia del III
libro esprime la consapevolezza della missione del poeta d’amore, che è
autore di una poesia di pace; la seconda, oltre a riproporre l’importanza della donna amata nell’esperienza di vita e di poesia, si ricollega alla
precedente grazie al motivo della fama eterna che il poeta conquista col
suo ingenium. Nella terza il sogno di Properzio sull’Elicona e la sua consacrazione poetica presentano punti di contatto con entrambe le elegie
di apertura del libro. La quarta è aperta da un fiero preannuncio di
guerra contro i Parti, mentre nella seconda parte Properzio compone il
dissidio fra l’ispirazione pacifica della poesia d’amore e l’elogio di un’impresa bellica nella raffigurazione del trionfo di Augusto, che vedrà il
poeta assistere ed applaudire, ma dal letto in cui giace con la donna
amata. Mentre la quarta elegia si apriva con la parola arma, la quinta
presenta al suo inizio il sostantivo pax: Amore, d’altronde, è un dio di
pace e il poeta d’amore deve vivere in un mondo in cui regna la pace;
Properzio, dunque, riprende al termine del ciclo di elegie un motivo
trattato nell’elegia d’apertura e lo approfondisce con la denuncia delle
guerre, che sono originate dalla cupidigia di denaro.
L’idea di aprire un libro di poesia d’amore con un blocco di cinque
elegie destinate a illustrare la propria concezione di vita e di poesia
non può non derivare dalla struttura analoga del III libro delle Odi di
Orazio, che esibisce una serie di sei carmi a tal punto strettamente collegati e ricchi di richiami da presentare una logica successione di concetti. La loro unità è assicurata non solo dalla comune adozione della
strofa alcaica e dallo stile solenne, ma anche dall’esaltazione di alcuni
principi fondamentali dell’etica civile e militare dei Romani e dal ruolo
centrale occupato da Augusto e dall’ideologia del principato. Ma forte
dev’essere stata anche la suggestione del carme conclusivo (3,30) della
raccolta oraziana, con l’orgogliosa consapevolezza d’aver creato una poesia destinata a sfidare i secoli, con la proclamazione dell’immortalità
del poeta (entrambi gli argomenti sono sviluppati da Properzio nella
chiusa di 3,1 e di 3,2), con la chiara coscienza di aver raggiunto per
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primo un giusto equilibrio fra l’Aeolium carmen e gli Itali modi. Al di là
di questo, l’influsso oraziano è manifesto in tutto ciò che contribuisce a
definire il tono complessivo del libro: nel più rigoroso impegno civile,
negli accenti moralistici, nella presenza di temi diatribici, nella coscienza dell’alta missione del poeta e della sua funzione di vates della comunità, nell’alternanza stessa di poesie dal tono solenne e di carmi leggeri.
A me sembra che la stessa operazione di imitazione strutturale sia
stata compiuta da Properzio nel IV libro di elegie nei confronti del IV
libro delle Odi di Orazio. Lasciando da parte i numerosi tentativi velleitari e infruttuosi di creare artificiosi collegamenti fra i 15 carmi del IV
libro delle Odi oraziane e di fondare su di essi una presunta ricerca di
perfezione strutturale da parte del poeta 7, appare evidente che l’ultimo
libro di poesia lirica privilegia alcuni nuclei tematici: l’effimera ripresa
dell’amore e la nostalgia per gli anni della giovinezza, l’elogio di Augusto e della famiglia imperiale, la difesa della poesia lirica e l’esaltazione
della sua funzione eternatrice, la consapevolezza di essere un poeta vate,
il rapporto con gli amici influenti e vicini al principe, il senso del rapido trascorrere del tempo concesso all’uomo, la contrapposizione dell’eterno ritorno delle stagioni alla caducità della vita umana: tuttavia la
loro desultoria collocazione non permette di scorgere un programma
coerente e ben organizzato. Sarà più saggio, quindi, attestarsi sugli elementi sicuri, piuttosto che abbandonarsi a troppo sottili e improduttive
disquisizioni. Un primo punto fermo è costituito dalla funzione programmatica del carme d’apertura, che va in due opposte direzioni: nella prima parte vorrebbe far credere che Orazio ha ormai abbandonato
l’amore e il suo canto, ma nella seconda ci presenta il poeta innamorato
senza speranza del giovane Ligurino. Orazio, quindi, nel riproporsi a
distanza di anni come poeta lirico, vuole mettere in chiaro che da un
tale tipo di poesia non è possibile escludere il canto d’amore: tuttavia,
un cultore del modus qual è Orazio deve fare i conti col passare degli
anni; di conseguenza non si tratterà soltanto di una maniera diversa di
cantare l’amore, ma la tematica amorosa non dovrà entrare in conflitto
con l’elogio di personaggi potenti e influenti.
Un secondo punto fermo nella struttura del libro è costituito dalla
collocazione centrale del carme 8: è significativo che tale collocazione
spetti a un carme che esalta la funzione eternatrice della poesia e la
considera più efficace dei monumenti nel tramandare il ricordo degli
7
Una loro confutazione è in Q. Horatii Flacci Carmina. Liber IV, introd. di P. Fedeli.
Commento di P. Fedeli e I. Ciccarelli, Firenze 2008, 17-24.
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uomini e delle loro imprese e non sarà privo d’importanza il fatto che
lo schema metrico adottato nel carme 8 compaia solo in 1,1 e in 3,30,
cioè nel primo e nell’ultimo carme della precedente raccolta lirica. Altrettanto sicura appare la funzione conclusiva del carme 15, perché la
chiusa del libro è parsa ad Orazio la sede più degna per tessere l’elogio
dell’aetas di Augusto e dei successi militari e civili del principe; per di
più il futuro canemus, con cui si chiudono il carme e il libro, lascia
intravedere una possibile apertura nei confronti di un programma poetico di celebrazione della gens Iulia. Prima e dopo il carme centrale,
dunque, uguale è la serie dei carmi: 7 lo precedono e 7 lo seguono.
C’è da pensare che proprio per seguire lo schema strutturale oraziano Properzio abbia rinunciato ad altre e più impegnative corrispondenze fra le 11 elegie del suo IV libro, come quelle che, dopo l’elegia
proemiale, avrebbero potuto dare origine a una perfetta alternanza di
carmi eziologici e non eziologici. Sarebbe stato facile che ciò avvenisse
se il poeta lo avesse realmente voluto: accordata, infatti, una funzione
programmatica a 4,1, riconosciuto un importante ruolo centrale a 4,6 e
il valore di chiusa solenne a 4,11, sarebbe bastato che Properzio invertisse la collocazione di 4,8 e 4,9 per ottenere una perfetta suddivisione
del libro in due parti (2. 3. 4. 5 – 7. 9. 8. 10), caratterizzate entrambe
da una regolare alternanza di elegie eziologiche (2 e 4 nella prima
parte, 9 e 10 nella seconda) e di elegie non eziologiche (3 e 5 nella
prima parte, 7 e 8 nella seconda). Eppure Properzio non ha voluto
privilegiare il sistema dell’alternanza e ad un’architettura d’insieme caratterizzata da una perfetta simmetria ha preferito il ricorso alla variatio,
anche perché essa gli offriva il vantaggio di collocare in successione i
due carmi (7. 8) che vedono Cinzia quale protagonista e, per di più, di
presentarla come ombra dell’aldilà nel primo e di nuovo piena di vita e
di energia nel secondo.
In Properzio i punti fermi sono identici a quelli individuati nel IV
libro delle Odi oraziane: 4,1 ha una funzione proemiale, col preannuncio di una poesia di tipo nuovo, che sembra voler escludere il convenzionale canto dei propri amori; sarà, tuttavia, l’astrologo Horos a far
capire a Properzio nella seconda parte dell’elegia che, nonostante gli
sforzi e i buoni propositi, alla poesia d’amore egli dovrà fare fatalmente
ritorno. Analoga è la conclusione a cui giunge Orazio nel carme proemiale del IV libro delle Odi: egli vorrebbe bandire dalla propria vita e
dal proprio orizzonte poetico sia i convivia sia i proelia virginum, ma
nella chiusa del carme si vede costretto a riconoscere che ciò non è
possibile, perché si è di nuovo innamorato. Anche in Properzio, poi,
come in Orazio, la collocazione centrale è affidata a un carme straordi-
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nariamente significativo: non a caso nella VI elegia, che celebra il quindicesimo anniversario della vittoria aziaca e pone il principe e le sue
azioni belliche sotto la tutela di Apollo, il poeta si considera alla stessa
stregua di un sacerdote che celebra un sacro rito e al canto della gloria
e dei successi militari del principe riserva anche lo spazio del convito.
L’XI elegia, infine, grazie alla celebrazione post mortem delle doti della
matrona Cornelia, legata alla famiglia imperiale, chiude il libro con un
nobile programma di esaltazione del mos maiorum e dei valori etici su
cui si fondano la concezione dello Stato e della famiglia presso i Romani.
2. Diverso e molto più complesso è l’atteggiamento di Properzio
nei confronti di Virgilio, al quale lo legavano rapporti di ammirazione
sincera. A Properzio, d’altronde, risale la testimonianza più antica sull’opera virgiliana, nella XXXIV e conclusiva elegia del II libro, in cui
egli tesse l’elogio delle Bucoliche (vv. 67-76), delle Georgiche (vv. 77-78) e
dell’Eneide (vv. 61-66). Di particolare rilievo sono i tre distici dedicati al
poema epico, a cui Virgilio stava allora attendendo:
Actia Vergilium custodis litora Phoebi,
Caesaris et fortes dicere posse rates,
qui nunc Aeneae Troiani suscitat arma
iactaque Lavinis moenia litoribus.
Cedite Romani scriptores, cedite Grai!
nescioquid maius nascitur Iliade.
Si è sostenuto, da parte di autorevoli studiosi properziani 8, che nei
vv. 61-64 mancano allusioni a passi o a versi del poema epico virgiliano.
Sembra chiara, però, la ripresa nei vv. 63-64 di vari elementi dell’incipit
dell’Eneide: arma ne riprende addirittura la prima parola, mentre Aeneae
Troiani aggiunge il nome dell’eroe al virgiliano virum, ma ne ricorda
l’origine come nel verso iniziale dell’Eneide. Nel v. 64, poi, Lavinis ...litoribus ripropone i Lavinia ...litora di Aen. 1,2-3 (e l’uso properziano del
raro aggettivo Lavinus nella sua allusione all’incipit dell’Eneide ha molto
peso in favore di Lavinaque di una parte della tradizione virgiliana). Ma,
soprattutto, l’allusione alla guerra aziaca nei vv. 61-62 attesta che Properzio conosceva già la materia dell’VIII dell’Eneide, nel cui finale la
battaglia di Azio è raffigurata e descritta con dovizia di particolari sullo
scudo di Enea (vv. 675-681).
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Cfr. ad es. A. La Penna, Properzio, Firenze 1950, 216.
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È, appunto, dell’VIII libro dell’Eneide che si trovano le tracce più
evidenti nel IV delle elegie di Properzio; anzi, si può essere ancor più
categorici: in almeno tre elegie (la I, la VI e la IX) compaiono evidenti
punti di contatto con l’Eneide, ma essi rinviano sempre ed esclusivamente all’VIII libro: sembra proprio che il poeta elegiaco abbia diviso il
libro VIII dell’Eneide in sezioni, dalle quali ha tratto spunti per le sue
elegie: si è servito dei vv. 97-184 per 4,1, dei vv. 185-305 per 4,9, dei
vv. 673-728 per 4,6. Per quanto riguarda 4,9, che deve illustrare l’aition
della fondazione dell’Ara Massima e l’esclusione delle donne dal suo
culto, Properzio ha privilegiato il secondo aspetto e accordato solo un
minimo spazio (i vv. 7-16) alla lotta fra Ercole e Caco, su cui si accentra
l’interesse di Virgilio. Più consistenti si rivelano, invece, le analogie fra
Properzio 4,6 e Virgilio nella raffigurazione della battaglia di Azio, che
occupa un posto di assoluto rilievo nell’VIII dell’Eneide. Sia in Virgilio
sia in Properzio l’episodio conclusivo della guerra fra Ottaviano e Antonio è visto come uno scontro frontale fra due mondi opposti e di Ottaviano si esaltano l’origine troiana e la provenienza da Alba Longa; in
entrambi egli è il salvatore del mondo e a lui è strettamente associato
Apollo, quale divinità protettrice.
Ma le coincidenze più significative sono quelle fra l’VIII dell’Eneide
e l’elegia proemiale del IV libro: ciò è evidente sin dall’incipit (vv. 1-2):
Hoc quodcumque vides, hospes, qua maxima Roma est.
ante Phrygem Aenean collis et herba fuit.
Che Properzio volesse intenzionalmente ricollegarsi a Virgilio doveva
essere immediatamente chiaro al lettore antico, in quanto la finzione
drammatica consistente nel mostrare monumenti a un hospes è un’evidente allusione alla situazione di Evandro, che nell’VIII dell’Eneide mostra all’hospes Enea i luoghi in cui sorgerà Roma (vv. 1-2). Quella di
Properzio appare subito come la funzione tipica di una guida, che però
ha alle sue spalle nobili reminiscenze letterarie. La centralità dell’apostrofe all’hospes inserisce il lettore in una situazione che a prima vista
può sembrare epigrammatica, tali e tante sono le occorrenze di analoghe apostrofi a uno xevnoò che passa accanto a un monumento, a una
statua, a una tomba negli epigrammi dell’Anthologia Palatina e nelle iscrizioni dedicatorie. Accanto ai modelli greci, però, si sente il peso della
mediazione catulliana (4,1 phaselus ille quem videtis, hospites) e soprattutto
di quella virgiliana, perché col vocativo hospes Troiane Evandro si era
rivolto ad Enea nel mostrargli la spelonca di Caco (Aen. 8,188-192):
saevis, hospes Troiane, periclis
servati facimus meritosque novamus honores.
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Iam primum saxis suspensam hanc aspice rupem,
disiectae procul ut moles desertaque montis
stat domus et scopuli ingentem traxere ruinam.
Per di più Evandro aveva accompagnato le sue parole con l’identico
gesto di Properzio (v. 190 hanc aspice rupem); ma, soprattutto, è chiamandolo hospes che Evandro si rivolge ad Enea per mostrargli il luogo
in cui è destinata a sorgere Roma (Aen. 8,364-5):
aude, hospes, contemnere opes et te quoque dignum
finge deo rebusque veni non asper egenis.
È probabile che questo sia un espediente grazie al quale Properzio
vuole far capire al lettore il carattere composito della poesia del IV
libro, che non rinnegherà affatto le sue abituali fonti ellenistiche, ma
rimarrà costantemente in bilico fra il genere poetico finora praticato e
la poesia celebrativa di stampo virgiliano. Determinante, infatti, è il rapporto che s’istituisce con l’VIII libro dell’Eneide e costituisce un omaggio
al poeta da poco scomparso in un carme, come quello programmatico,
che sarà stato scritto con funzione retrospettiva al termine della composizione del IV libro. Si capisce, allora, che qui Properzio si appropria
della stessa funzione di guida che Evandro aveva esercitato nei confronti
di Enea e, se si considera il suo contesto alla luce di quello virgiliano,
ne deriva che anche il deittico iniziale va visto alla luce di tale rapporto
allusivo, perché è con un deittico che Evandro aveva dato inizio alla sua
illustrazione dei luoghi (Aen. 8,314 haec nemora indigenae Fauni Nymphaeque tenebant).
Ma c’è di più: anche nella 4,1 di Properzio ha un ruolo importante
il mito della Troia resurgens, che dell’Eneide costituisce il motivo di fondo; nella 4,1 esso occupa la parte centrale del discorso di Properzio, e
segna il passaggio dalla tematica del contrasto a quella della continuità
(vv. 39-48):
huc melius profugos misisti, Troia, Penates;
heu, quali vecta est Dardana puppis ave!
Iam bene spondebant tunc omina, quod nihil illos
laeserat abiegni venter apertus equi,
cum pater in nati trepidus cervice pependit
et verita est umeros urere flamma pios.
Tunc animi venere Deci Brutique secures,
vexit et ipsa sui Caesaris arma Venus,
arma resurgentis portans victricia Troiae.
Felix terra tuos cepit, Iule, deos.
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PAOLO FEDELI
Scopo del racconto di Properzio, che individua i momenti cruciali
nell’inganno del cavallo (vv. 41-42), nella fuga di Enea con Anchise sulle spalle (v. 43), nella protezione accordata da Venere alle armi di Enea
(vv. 45-48), è quello di proclamare che la distruzione di Troia non è
stata vana, perché sotto migliori auspici (v. 39 melius) i suoi Penati sono
giunti nel Lazio. Sulla scia di una concezione ampiamente diffusa fra gli
augustei, grazie alla fuga di Enea dalle fiamme della sua città distrutta
e all’incolumità assicurata ai Penati, Troia – che solo lontano dalla sede
primitiva può rinascere – ha ricevuto un beneficio dalla sua distruzione.
In tal modo la fuga di Enea diviene il momento cruciale della vicenda
che, paradossalmente, vede rinascere la stessa città dal singolare parto
del cavallo di legno, che della sua distruzione è stato l’artefice.
Significativa è la funzione di Cassandra (vv. 49-54):
si modo Avernalis tremulae cortina Sibyllae
dixit Aventino rura pianda Remo,
aut si Pergameae sero rata carmina vatis
longaevum ad Priami vera fuere caput:
‘Vertite equum, Danai! Male vincitis! Ilia tellus
vivet et huic cineri Iuppiter arma dabit’.
Nella sua profezia (vv. 53-54) Cassandra non si limita a invitare i
Danai a portare via il cavallo perché vana è la loro vittoria, ma ai loro
occhi prospetta la rinascita di Troia dalle proprie ceneri. Ideologicamente importante è anche il pieno recupero di Romolo, che nel v. 50 viene
assolto dall’accusa di fratricidio: l’uccisione di Remo, infatti, è considerata un sacrificio necessario, perché così ha voluto la profezia della Sibilla. In tal modo il poeta non fa altro che ribadire la continuità della
Roma augustea nei confronti sia di Troia sia della Roma delle origini.
Centrale è il ruolo di Venere, per la sua vigile tutela delle armi di Enea
durante il viaggio per mare dalla Troade al Lazio: ciò consente al poeta
di collocare sullo stesso livello la protezione accordata all’eroe troiano e
quella che la dea garantisce ai suoi discendenti, primo fra tutti il principe. Non a caso nel contesto properziano spetta a Iulo il compito di
segnare la continuità fra passato e presente, perché i suoi dèi sono quegli stessi Penati che Enea ha portato nel Lazio, e di mettere in risalto il
rapporto genealogico che lega Venere al principe stesso, in quanto madre di Enea e progenitrice della gens Iulia.
Trascorsi ormai 15 anni dalla vittoria aziaca, l’adesione di Properzio
al programma di Augusto appare chiara e per lui si tratta solo di saper
scegliere quale lato esaltare della politica del principe, in modo da differenziarsi dai poeti del tempo suo. Dell’attività di Augusto egli ha scel-
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to di mettere in luce nella 4,1 l’aspetto più appariscente: quello del
restauro di edifici sacri ormai fatiscenti e della costruzione di templi e
di teatri. Tuttavia Properzio non si limita a questo aspetto: in particolare, nei vv. 43-44 è funzionale all’elogio del principe nell’ambito della
sua gens la presenza del mito di Enea, di cui non a caso è messa in
risalto la pietas verso il padre e verso gli dèi; a completare il discorso
genealogico si aggiungono, nei vv. 45-48, la saldatura fra passato mitico
e storia recente, che si verifica grazie all’ideale consegna da parte di
Venere ad Augusto delle armi di Enea (v. 46), e l’apostrofe a Iulo (v. 48),
che serve a ricordare e a celebrare le origini e i meriti della gens Iulia
che da lui discende.
In definitiva, quello di Properzio, che mette in risalto come Roma
abbia raggiunto il massimo splendore muovendo da umili origini, è un
tentativo di mediazione fra i valori perduti del tempo antico e il trionfalismo augusteo. Ma nello spirito dei tempi nuovi, inaugurato dai ludi
saeculares del 17 a.C., il progetto stesso di cantare sacra diesque ben s’inserisce nell’interesse del principe nei confronti della religione arcaica,
dei culti e delle abitudini dei tempi antichi, nella sua viva inclinazione a
far rivivere il passato nel tempo suo. Di conseguenza la scelta della
poesia eziologica si carica di un forte significato ideologico, perché allo
stesso modo dell’epos di Virgilio, della lirica civile di Orazio, dell’antiquaria di Varrone e della storiografia di Livio, essa poteva contribuire a
mettere in risalto alcuni aspetti particolarmente cari al principe. Al tempo stesso la scelta della poesia eziologica consentiva a Properzio di stabilire un collegamento fra le origini lontane e il mondo augusteo e di
far capire che il contrasto fra arcaica semplicità e moderno splendore
era solo apparente e indicava, in realtà, una linea di continuità fra passato e presente. È significativo che Properzio abbia sviluppato un tale
elogio dell’attività di Augusto senza citare mai il suo nome o quello dei
suoi principali collaboratori, ma facendo in modo che fossero gli edifici
stessi a parlare.
Non è il solo Augusto, però, a ricevere un chiaro tributo, perché
nella presentazione della Roma delle origini è rilevante – come si è
visto – l’omaggio allusivo al poema epico virgiliano. Con l’elogio dell’opera di Virgilio, in particolare della nascente Eneide, Properzio aveva
chiuso il II libro: ora egli intende percorrere vie diverse e più complesse di quelle di un tempo, ma Virgilio costituisce il suo logico punto di
riferimento. Celebrare Virgilio nel carme incipitario non significa, però,
che lo si debba necessariamente seguire nella pratica della poesia epica:
scrivere un poema epico destinato a rivaleggiare con l’Eneide, competere
con Virgilio nella celebrazione delle origini di Roma per rinvenire in
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esse il legame solido e ininterrotto con la Roma augustea, tutto ciò non
era possibile; la sfida di Properzio, di conseguenza, consiste nel dimostrare che si può celebrare la Roma augustea non solo con l’esametro
epico, ma anche col distico elegiaco, riesumando – come Virgilio stesso
aveva fatto nell’VIII libro dell’Eneide – il passato lontano di Roma e
ricercando in esso le radici del glorioso mondo augusteo. Ecco, allora,
che proprio quel Callimaco, più volte evocato come maestro e guida nel
II e nel III libro, ma in realtà solo parzialmente seguito, offriva al poeta
una comoda soluzione, perché cantare gli aitia dei sacra, dei dies, dei
cognomina prisca locorum significava ricollegarsi programmaticamente al
poeta di Cirene. Ma l’aemulatio non andava molto al di là della ripresa
del genere: perché, diversamente da Callimaco, per Properzio era il lato
celebrativo che andava privilegiato, e lo si poteva ottenere rintracciando
nel mondo romano delle origini le radici della grandezza della Roma
augustea; a tale scopo, già nella presentazione che Evandro aveva fatto
ad Enea dei luoghi della Roma futura, passato e presente erano intimamente legati da una ininterrotta linea di continuità.
Si capisce, allora, perché nell’esordio dell’elegia Properzio assuma – nei
confronti di chi, come l’hospes, a Roma giunge da terre straniere – la
stessa funzione di guida che Evandro aveva esercitato nei confronti di
Enea; è ugualmente evidente che il ricordo delle giovenche di Evandro e la menzione del frigio Enea in uno scenario di colli erbosi hanno il compito di far capire subito al lettore quel rapporto privilegiato
che con l’VIII libro dell’Eneide Properzio si propone d’instaurare. Il
libro VIII dell’Eneide, d’altronde, era quello che più degli altri con
l’eziologia presentava legami: nell’ambito di una evidente ricerca generale dell’aition, si può individuare una quantità di aitia principali: nei
vv. 42-48 del nome di Alba, nei vv. 51-54 del nome Pallanteum, nei
vv. 102-6 e 127-305 del culto di Ercole sull’Ara Massima, nei vv. 132142 dell’affinità fra Evandro e i Troiani, nei vv. 322-3 del nome Latium; nei vv. 337-341 del nome porta Carmentalis; nei vv. 342-3 del
nome Asylum, nei vv. 343-4 del nome Lupercal, nei vv. 345-6 del nome
Argiletum, nei vv. 347-354 della santità del Campidoglio, nei vv. 355-8
dei nomi Ianiculum e Satur.
A Virgilio il poeta elegiaco guarda costantemente, ma da lui sa prendere le distanze. Lo capiamo dal v. 2 della 4,1: dopo l’enfasi celebrativa
dell’esametro, infatti, è al pentametro che viene affidato il compito di
presentare la realtà di un umile passato (collis et herba fuit). Fin qui nulla
di nuovo, perché nelle entusiastiche celebrazioni della Roma augustea,
siano esse di Virgilio, di Tibullo, di Ovidio, l’opposizione del presente al
passato costituisce un motivo topico: però è significativo che all’interno
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di tale presentazione del passato campeggi la figura del ‘frigio Enea’.
L’identificazione del lontano passato con un tempo anteriore all’arrivo
del ‘frigio Enea’ non ha il semplice valore di un atto d’omaggio nei
confronti dell’eroe da cui tutto ha avuto origine, per probabile influsso
della sua presentazione incipitaria nell’esordio dell’Eneide, ma ha anche
il compito di legare Roma alle sue origini troiane, grazie all’epiteto
(Phryx), che non si limita a contraddistinguere Enea, ma è un modo di
praticare l’eziologia sin dall’inizio del carme. Evidentemente Properzio,
come poi Ovidio, non dà alcun credito alla cattiva fama di cui godevano i Frigi, mentre ad essa furono sensibili sia Virgilio sia Orazio: Virgilio non riferisce mai l’epiteto ad Enea e, di contro, più volte chiama
sprezzantemente Phryges o Phrygici i Troiani e semivir Phryx Turno (Aen.
12,99). Ma non è solo in questo particolare che Properzio prende le
distanze da Virgilio: nel pentametro properziano, infatti, non ha trovato
un’adeguata valutazione la presenza significativa di quell’ante, che accompagna sia il nome dell’eroe sia l’epiteto che di lui definisce l’origine: eppure proprio grazie ad ante Properzio fa capire che, se Virgilio
sarà il suo punto di riferimento costante, tuttavia egli risalirà ancor più
indietro nel tempo, in omaggio alla prospettiva eziologica ereditata da
Callimaco.
Virgilio, però, si prestava anche ad essere riadattato con chiari fini
ideologici: Properzio, infatti, non si limita a recuperare il motivo virgiliano del dono delle armi fatto da Venere ad Enea, ma lo trasferisce
direttamente al principe; in tal modo Venere assume la fisionomia di
una divinità trionfante, che con la sua tutela garantisce la rinascita di
Troia. Virgilio continua ad agire, con analoghi risvolti ideologici, anche
in occasione delle profezie, di Cassandra e della Sibilla (una presenza,
questa, che di per sé rinvia il lettore al VI libro dell’Eneide): poiché,
infatti, entrambe le profezie si sono realizzate, è ovvio che si avvereranno anche quelle che all’Anchise virgiliano ha vaticinato Cassandra in
merito alla futura gloria imperiale dei discendenti di Enea. A sigillo di
tali e tante manifestazioni di adesione al programma di Virgilio sta il
conclusivo sacra diesque canam (v. 69), chiaramente modellato su arma
virumque cano.
Ma c’è di più: nella rievocazione che, nella seconda parte dell’elegia, l’astrologo Horos fa dell’adolescenza di Properzio e della rovina economica della sua famiglia in seguito alle confische, sembra proprio che
il poeta abbia voluto rivivere la sua sfortunata vicenda alla luce dell’esperienza del Virgilio bucolico. Non c’è dubbio, d’altra parte, che sia
tipicamente virgiliano non solo il senso di nostalgia per la Roma dei
tempi antichi, unito a una viva ammirazione per la Roma augustea, che
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caratterizza la prima parte dell’elegia 9, ma anche quello della continuità
fra passato e presente. Properzio, allo stesso modo di Virgilio, nel percorso da una Troia in fiamme a una Roma trionfante si muove fra mito
e storia affidando ad Augusto – a cui Venere stessa consegna le armi
della vittoria aziaca – la stessa funzione da Virgilio assegnata ad Enea, il
quale aveva ricevuto da Venere le armi destinate a trionfare nel Lazio.
Properzio, quindi, potrà pure vantarsi di essere divenuto il Callimaco
romano, ma una tale definizione si adatta principalmente alla scelta,
per di più parziale, del genere della poesia eziologica: è Virgilio, però,
il vero modello, non solo culturale, ma soprattutto ideologico, del nuovo genere poetico da lui praticato.
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Cfr. soprattutto C.W. Macleod, Propertius 4,1, « Pap.Liv.Lat.Sem. » 1, 1976, 141.