SANTINI_Forme, voci e gesti nell`elegia di Properzio

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SANTINI_Forme, voci e gesti nell`elegia di Properzio
CARLO SANTINI
FORME, VOCI E GESTI NELL’ELEGIA DI PROPERZIO:
L’ANREDE ALL’AMICO E/O RIVALE
Nel segnalare l’impostazione dialogica come forma costantemente
presente nelle odi di Orazio, che sono appunto un genere letterario
definibile come Aeolium carmen tendente a far rivivere dopo oltre sei
secoli, nella Roma augustea, le forme, e non solo i metri, di Alceo,
Saffo e Anacreonte, Richard Heinze solleva il dubbio che tale procedere
fosse stato percepito a pieno, ed apprezzato, dal pubblico romano 1. Il
confronto tra i Carmina (la 1,1 convinta che egli sia parte dei lyricis
vatibus e la 3,30 spirante l’eternità di chi ha composto un monumentum
aere perennius) e la meditata chiusa di Ep. 1,20 sta del resto a dimostrare
che il filo del rapporto tra Orazio e i suoi lettori si era, se non interrotto, almeno sfilacciato per varie circostanze, prima tra tutte per questione di età 2, e solo l’onore della richiesta nel 17, con le strofe saffiche del
Carmen saeculare, del testo per il coro della cerimonia, e le insistenze di
Augusto, lo avrebbero indotto a riprendere con il sapore di una « sfida » 3 un’esperienza lirica considerata conclusa 4.
Pure, appena un lustro prima del 23 a.C., aveva suscitato l’eco di un
grande successo e di memorabile novità il monobiblos di Properzio, dove
una parte consistente delle elegie è strutturata secondo la tecnica della
1
R. Heinze 1923: « Si dovrà però anche riconoscere che la finzione consequenziale
della lirica di Orazio, mantenuta, si potrebbe quasi dire, ostinatamente, non sempre le è
stata di giovamento »; la traduzione italiana è di Santini 2001, 72.
2
Si veda in proposito quanto scrive Fedeli nell’introduzione al commento (con I.
Ciccarelli) al IV libro dei Carmina, Firenze 2008, 25-29.
3
Fedeli 2008, 29.
4
Quattro a me paiono i temi di questa ‘nuova’ lirica: l’amore effimero ed oggetto
di rimpianto, l’elogio di Augusto e della famiglia imperiale, il senso della caducità esistenziale che si riflette nell’osservazione della natura e l’esaltazione della funzione eternatrice della poesia.
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CARLO SANTINI
Anrede 5, sia questa rivolta a Cinzia o ai suoi amici, dove « der Dichter
sucht auf eine andere Person in bestimmter Weise einzuwirken oder fingiert dies wenigstens » 6, una tecnica che all’elegia greca arcaica è particolarmente congeniale, come stanno a dimostrare le uJpoqh=kai di Teognide 7 e che gradualmente viene meno nei libri successivi di Properzio 8,
anche in concomitanza con la dedica del secondo a Mecenate.
Impostazione dialogica significa aprire contemporaneamente tanto
un problema di autorevolezza quanto un problema di persuasione. È
implicito nel lettore chiedersi chi abbia conferito all’autore, o meglio
alla persona loquens, la necessaria competenza che lo autorizzi a parlare
in pubblico in nome di un sapere superiore, con il quale intende convincere l’interpellato a fare alcunché oppure a comportarsi in un certo
modo. Non sempre, per altro, autore e persona loquens coincidono, come
nella poesia alessandrina del III secolo dove si percepisce in tutti i generi, come « la lirica, l’elegiaca e la giambica, dove dominava la prima
persona singolare » 9, il meccanismo che produce siffatta alternanza. L’introduzione di un personaggio fittizio nei Giambi di Callimaco potrebbe
aver consigliato Properzio di tener conto di questo scambio di voci nella
sua prima produzione elegiaca.
Nel primo dei Giambi fa la sua apparizione come garante il redivivo
Ipponatte, del quale non può esserci figura più autorevole se non il
fondatore del genere, cfr. Ia. 1,1 ajkouvsa+ j & Ippwvnaktoò: ouj gaVr ajll j h@kw,
ma il lettore resta nel dubbio se qui abbiano parlato due o una sola
persona, come incerto risulta il v. 31 swphV genevs+w kaiV gravfes+e thVn
rh=sin, che precede (e qui non può esserci dubbio) l’allusione del morto
al suo destino di vorticare, ahimè, nel mezzo di Acheronte. Le voci di
chi parla e dell’autore interferiscono in un procedimento di raffinata
messa in maschera mediante una favola nel quarto Giambo; qui il discorso espone il contrasto tra l’ulivo e l’alloro, che cade tre volte, come
nella lotta, ma su questo discorso si inserisce quello della sperequazione
tra i ranghi, cui dà luogo l’intervento del rovo, contro il quale si rivolge
5
Si preferisce impiegare il termine tedesco ‘Anrede’ per il valore tecnico che questo
termine ha assunto rispetto alla voce ‘apostrofe’, o ‘allocuzione’ così come lo traduce
Lebsanft 1992, c. 637.
6
Abel 1930, 8.
7
Sulla funzione del corpus elegiaco di Teognide come stimolo della elegia soggettiva
ed erotica dell’età ellenistica, cfr. Cairns 2006, 75.
8
Abel 1930, 8 parla di un complessivo venir meno del tono di esortazione che
suggerisce di tirare tra il primo e il secondo libro « eine scharfe Trennungslinie ».
9
Fantuzzi - Hunter 2002, 12.
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l’alloro squadrandolo biecamente (uJpodravx) e chiamandolo ¯ kakhV lþbh:
« il Callimaco-autore ha capito molto bene, e vuol rammentare ai suoi
lettori, che l’autore e la persona loquens nella poesia giambica raramente
coincidono alla perfezione » 10. Anche nel quinto Giambo la persona loquens interviene per dare un altruistico consiglio che almeno formalmente appare un invito benevolo, ma non sappiamo se disinteressato
(a[koue tajpoV kardivhò) 11, sulle scelte di vita sessuale. Infine in tema di
rivendicazione di scelte letterarie, nel Giambo 13 compaiono in questo
caso gli amici filologi determinati a legare come un pazzo l’autore dei
nuovi sperimentalismi (vv. 19-21 teu= mevcri tolma`ò~ ; oiJ fivloi se dhvsousi, /
kh]n nou=n e[cousin, ejgcevousi thVn kra=sin, / wJò uJgieivhò oujdeV tw[nuci yauveiò: “Fin
dove osi? Gli amici ti legheranno e, se hanno senno, verseranno la
mistura perché tu non sei sano neanche un’unghia”.
Callimaco usa vari dialetti e non soltanto lo ionico di Ipponatte,
ribadendo la liceità di comporre giambi « senza essersi mescolato con gli
Ioni né essere andato ad Efeso ». Se tale dichiarazione ha come bersaglio, come sembra, l’asserzione che solo la permanenza nella patria dell’autore preso a modello legittimerebbe la carriera poetica del successore nel genere letterario prescelto, questa pretesa risulta ancor più incongrua nel mondo dei nostri augustei. Cosa significa infatti esser detto
l’Alceo, il Callimaco o il Mimnermo della poesia latina? Orazio nell’ep.
2,2 ci fa sentire le battute che si intrecciavano nella vacua aedes del
collegium degli scrittori di Roma: Discedo Alcaeus puncto illius; ille meo
quis? / quis nisi Callimachus? si plus adposcere visus, / fit Mimnermus et optivo cognomine crescit (vv. 99-101). Gli esegeti concordano in genere nell’ammettere che il poeta abbastanza ridicolizzato in questi versi, sia stato
proprio Properzio, che da parte sua aveva promosso uno slogan, concepito a metà strada tra l’orgoglio nazionale e l’ironia 12:
ut nostra tumefacta superbiat Vmbria libri,
Vmbria Romani patria Callimachi! (4,1.63-64).
L’Umbria patria del Callimaco romano viene tuttavia sulla scena solo
nel libro quarto, mentre nel primo sta sulla ribalta Mimnermo 13, in
10
Fantuzzi - Hunter 2002, 16.
Fantuzzi - Hunter 2002, 16.
12
La prova della presenza di una tonalità « un-Callimachean » sta in tumefacta, che
rischia di contraddire la poetica di Callimaco: Hutchinson 2006, 72.
13
Sulla venerazione di Mimnermo nella Ionia romana, dove esisteva un Mimnermeion a Smirne cfr. Szádeczky-Kardoss 1959, 17 n. 31.
11
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persona, come lascia intendere plus in amore valet Mimnermi versus Homero (1,9,11), o presunto tale secondo quanto riteneva l’elegia ellenistica 14. In realtà infatti i primi richiami all’elegia di Callimaco (e Filita)
compaiono in Properzio solo al libro secondo nell’elegia ultima, quando la sua vicenda d’amore tende ad illanguidirsi e precede la chiusa
dei vv. 85-94, dove chiama a raccolta i poeti latini d’amore, a partire
da Varrone di Atax per giungere sino a lui stesso, la cui donna amata,
Cinzia, hos inter si me ponere fama volet, sarà anche essa celebrata al
pari delle altre (Leucadia, Lesbia, Quintilia e Licoride) in uno stesso
genere di poesia.
Tratto di particolare rilievo è l’articolazione che prende le mosse dal
tamen (v. 81), mettendo in evidenza questa parte finale rispetto all’Anrede di Virgilio in forma di elogium che la precede 15. La gratificazione del
lettore, più o meno competente in materia d’amore (v. 82 sive in amore
rudis sive peritus erit), non è elusiva delle differenze e delle distanze tra i
generi, ma nella sua ambigua formulazione ammette altresì che varie
forme di poesia d’amore 16, ed anche un richiamo alle Georgiche (v. 67 tu
canis ... v. 77 tu canis) 17, costituiscano un che di solidale rispetto all’oggettività dell’epos, tanto più se sia dichiarata quella esperienza individuale, espressa dalla successione dei quattro distici haec ... haec ... haec ... et
modo della quale Properzio, in quanto praeceptor amoris aspira ad essere
paradigma.
Il motivo precettuale potrebbe condurre ad un esito quanto meno
vivace nel caso che all’interlocutore esperto venisse contrapposto un innamorato che cerca di nascondere i sintomi d’amore, e nondimeno viene scoperto, come nel primo esempio censito 18 per la letteratura greca
– e siamo già nel IV secolo – che è quello del Socrate platonico rapido
nel riconoscere chi ama e chi è amato (Lys. 204c tacuV oåw/ t ej i\nai gnw=nai
ejrw=ntav te kaiV ejrwvmenon). Infatti – osserva Fantuzzi – notevole è nel pensiero greco-ellenistico comunque « la cautela intellettualistica » con la quale
si guarda all’amore (e alla poesia d’amore), cautela conseguente ad una
speculazione filosofica che, o lo idealizza come nel Simposio, oppure lo
presenta come un impulso irrazionale (ajlogivstou tinoVò ejpi+umivaò uJperbolhv),
che ha un rapido avvio e una lenta soluzione (tacei=an meVn e[cousa thVn
14
15
16
17
18
Cairns 2006, 73-75.
Fedeli 2005, 1001.
La Penna 1977, 222-223.
La Penna 1977, 222.
Fantuzzi - Hunter 2002, 452.
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provsodon, bradei=an deV thVn ajpovlusin), come in un frammento di Teofrasto 19.
Questo a ben vedere fornisce quelle coordinate dell’osservazione naturale, che corrispondono perfettamente al quadro emozionale con cui Properzio descrive la propria condizione all’esordio del monobiblos. La tecnica epigrammatica assorbe questo tema che risulta in contrasto rispetto
al filosofo, l’intellettuale e anche il poeta la cui dottrina (‘libresca’ come
esplicita Posidippo) dovrebbe fargli considerare dappoco tanto l’invasamento quanto la sofferenza d’amore 20. C’è però a giustificare tale cedimento « l’alibi dell’ebrezza », un motivo che consente all’epigrammista di
esprimere in prima persona quella aberrazione del ragionare che trova
per altro la sua ritualizzazione sociale nel simposio 21.
Anche Properzio è pervaso occasionalmente dall’intento di far baldoria, ubriacandosi, come a 1,3 dove assume l’immagine di kwmasthvò (v. 9
ebria cum multo traherem vestigia Baccho) in antitesi con la limpida e innocente serenità del sonno di Cinzia che l’amante non si arrischia a turbare, nonostante l’impulso di due divinità che definisce durae (v. 14 hac
Amor, hac Liber, durus uterque deus). E tuttavia tale motivo è pur sempre
episodico, proprio perché il poeta, ben ammaestrato da Catullo, che
aveva collocato il baricentro dell’esistenza nell’amore (5,1 vivamus, mea
Lesbia, et amemus), procede senza troppe mediazioni, avendo esperito
l’erötikon pathëma, che ha preso possesso di lui.
Se dunque si può parlare di innovazione da parte di Properzio, o
almeno di innovazione relativa, tenuto conto della « amplificazione in
chiave soggettiva » 22 a partire dalla citazione incipitaria dei primi versi
dell’epigramma di Meleagro (AP 12,101), dove tuttavia compare pur
sempre un’intenzionalità didattica, che è dato dal breve ‘botta e risposta’
tra Miisco, che esulta per il successo, e l’autore che gli ricorda (v. 5 Fivle
kou=re, tiv +ambei`ò;) che non è lui a dominarlo, ma il potere onnipotente
di Eros 23, è pur vero che Properzio non ha certo bisogno di null’altro,
se non dell’esperienza del suo servitium non solo per parlare a Cinzia,
19
Theophr. fr. 557 Fortenbaugh.
In Fantuzzi - Hunter 2002, 454 si sottolinea appunto, alla luce di un epigramma
di Posidippo (AP 12.98) e un altro di Callimaco (AP 12.150) « la paradossalità del fatto
che gli intellettuali [...] potessero cadere in preda alla passione d’amore intesa come vera
e propria malattia della ragione ».
21
Fantuzzi - Hunter 2002, 460.
22
Fedeli 1980, 62.
23
È alla luce dei vv. 5-6 di detto epigramma che viene a sciogliersi parte della
discussione sul ruolo di Miisco, cfr. Fedeli 1980, 62-63, dove rileva come il trionfo di
Eros appaia evidente in un altro testo di Meleagro, AP 12, 48.
20
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ma anche per apostrofare gli amici, che fanno la loro apparizione nelle
elegie del primo libro soprattutto, offrendo precetti della sapienza
d’amore (sapienza che si era concesso di evocare, pur nella mini-struttura
dell’epigramma, come abbiamo appena visto, Meleagro), che attestano
in qual modo e a qual prezzo, abbia acquisito quella competenza che fa
di lui un compiuto poeta d’amore.
E quindi, in conclusione, riprendendo il discorso iniziale, proprio
nello stesso decennio, in cui Orazio riesuma l’esperimento dell’Aeolium
carmen, che si vanta nel 23 a.C. di essere stato princeps ad aver ambientato nel contesto della poesia latina (3,30.13-14 ad Italos / deduxisse modos), e che poco più tardi, tra il 21 e il 20, quando si colloca l’epistola
a Giulio Floro, riconsidera con una certa dose di distacco e ironia per
aver presunto di verba lyrae motura sonum conectere (v. 86), in quell’ambiente rumoroso e inquieto che è tipico della capitale (rerum / fluctibus
in mediis et tempestatibus urbis) e che diverge quanto mai dai silenzi delle
vacuae Athenae, Properzio sceglie come proprio il programma di farsi
precettore, dove la poesia del suo amore, corredata dall’exemplum mitico
(presente anche questo al v. 6 dell’epigramma di Meleagro), si allarga a
movenze dialogiche con amici che nella fattispecie possono essere anche
rivali. L’autorevolezza della voce della persona loquens, persuasiva ed
esperta, si incide, si sdoppia, si sfalda per ritornare di nuovo formalmente impeccabile nella sententia conclusiva di una poesia che è coinvolta
fino in fondo nella funzione di « werben » 24, ‘cercare di ottenere’, ‘portare
dalla propria parte’.
A 1,1 dunque, dopo aver esordito nella carriera poetica con l’immagine del servitium amoris al quale sta soggiacendo per opera di Cinzia,
Properzio allarga il quadro della patologia dell’amante, confermata seduta stante dall’exemplum mitologico di Milanione, nell’illusorio richiamo
ai remedia in cui la tradizione vede un’alternativa di salvezza. Nell’elenco
di queste notae viae, che tuttavia Amor sembra restio a fargli percorrere,
prima viene la pratica della magia, che dovrebbe costringere Cinzia ad
amarlo, e quindi quella che si dispiega nel giro di sei versi come la
soluzione opposta 25, in favore della sua rinuncia, e quindi della negazione dell’amore. In questo caso, all’opera delle maghe si sostituisce l’appello agli amici, che tuttavia l’avverbio sero lascia intendere come uno
sconfortato richiamo alla lentezza del loro agire. La commedia nuova, e
sulla sua scia l’epigramma, hanno puntualizzato il motivo dell’amico che,
24
25
Il riferimento va chiaramente al volume di Stroh 1971, 4-5.
Aut è congettura di Housman.
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proprio se vuol essere chiamato tale, annovera tra i suoi compiti, in
prima istanza, quello di prestare soccorso all’innamorato sofferente; basterà al riguardo riportare la gnömë di Menandro che individua nell’amico il corrispettivo del medico che porta aiuto tw~` meVn toV sw=ma diakeimevnw~ kakw`ò, così quello tw`~ deV thVn yuchvn. Nel caso di Properzio tale aiuto
dovrebbe consistere nell’accompagnarlo ai confini del mondo, ma il testo latino, che risente del c. 11 di Catullo, dove l’erudizione geografica
attesta la dedizione di amici disposti a farsi suoi comites, è particolarmente incisivo per semantica e stile a causa dell’anafora ferte che instaura
una coppia polare tra le gentes, qui sinonimo di terrae extremae, e le
undae, dove nessuna donna possa mai trovarlo.
Ma, per ritornare al testo di questa elegia di indiscutibile statuto
programmatico, il quadro di questi personaggi, invocati perché intervengano, non può essere considerato come unitario, come ha visto Margaret Hubbard 26, proprio in quanto essi sono chiamati a svolgere nel
prosieguo del discorso, azioni diverse e ruoli divergenti, prima quello
compassionevole dell’amico in genere, di modello topico, poi quello più
specifico di patrii amici, amici di famiglia pronti a impedire che un giovane rampollo di ‘buona’ stirpe degeneri in una vita sine ratione, indegna della tradizione del mos maiorum e del rango della gente equestre, e
infine, con subitaneo scarto (v. 31 vos remanete), gli amici innamorati
come lui, verso i quali però Amor si rivela benevolo, consentendo quel
rapporto di parità tra amanti, che garantisce la stabile sicurezza della
relazione.
L’Anrede presuppone quindi uno scenario ben più articolato di quanto non risulti in prima istanza, alla luce del quale la posizione di Properzio subisce la metamorfosi dalla condizione di vittima di un male
inesorabile a quella di erötodidaskalos della tradizione alessandrina, sulla
quale si allunga l’ombra della funzione perlocutiva. Il passaggio non
sembra per altro nuovo 27, come sta a dimostrare l’idillio XXIII di Teocrito, che raffigura le conseguenze di un amore non corrisposto. Nei
confronti dell’efebo inesorabile l’amante prorompe in parole che gli sono
dettate dall’ira (v. 19 sgg.), finché non decide di impiccarsi davanti alla
sua porta; il componimento si conclude con il sentenzioso richiamo che
echeggia (ejpenavceto) dalla voce del ragazzo alla fine punito, mentre sta
agonizzando: stevrgete d oj iJ miseu=nteò, oJ gaVr +eoVò oi^de dikavzein “amate voi
che odiate, il dio infatti sa punire” (v. 63). Il tardivo pentimento fa da
26
27
Hubbard 1974, 18-19.
Giangrande 1974, 13-14.
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pendant al triplice grido dell’amante e al suo epigramma virtuale (vv. 4648 “Scrivi anche questo epitaffio che incido sulle tue mura: costui lo
uccise Amore; viandante non passare oltre, ma fermati e dì queste parole:
aveva un amico crudele”). In Properzio – nota ancora Giangrande 28 –
invece l’amore appare più forte dell’ira. Su questa strada egli trova l’epigramma di Meleagro, che a differenza degli altri modelli (Asclepiade,
Posidippo, Callimaco) celebra invece la costanza dell’amore.
Nella elegia incipitaria gli ultimi due distici sono appunto improntati all’immagine del poeta che, lasciate da parte tutte le altre potenziali
categorie di amici, si fa maestro degli innamorati corrisposti, immergendosi in quel ruolo di praeceptor amoris al quale si sente abilitato dalla
propria esperienza e dalla condizione in cui si trova a vivere: segni
evidenti della didassi sono l’imperativo vitate, al quale tengono dietro i
due congiuntivi di esortazione alla continuità (moretur ... mutet), mentre la
sua presa di possesso della strategia della persuasione è resa evidente
dall’inciso moneo, poi richiamato dal poliptoto monitis. Questi ammonimenti sono presupposti essere tanto autorevoli da prolungarsi nel tempo futuro per divenire quei verba mea il cui tenore vale a garantirne la
permanenza nel ricordo, che rischierà di suscitare tanto più dolore,
quanto più metterà in luce il ritardo, con cui il discepolo ha prestato
ascolto al maestro.
Non c’è dubbio che Properzio si sia dunque perfettamente calato nel
ruolo; tuttavia proprio il segno del ritardo (v. 37 si quis ... tardas adverterit
auris) sembra incrinare la performance didattica nel momento in cui
riflette la condizione dell’interlocutore sulla sua propria e evidenzia la
specularità di una situazione già incontrata al v. 25: qui sero lapsum revocatis.
Ora, proprio tenendo come base questa elegia programmatica, il
monobiblos lascia scorgere come l’utilizzo della Anrede consenta a Properzio una notevole variabilità nel presentare i personaggi interpellati, passando attraverso diversi stadi, dall’amico critico dello stesso rango sociale al compagno di lettere fino a sviluppare la figura del rivale 29.
A 1,4 l’Anrede a Basso coinvolge in forma interrogativa i primi due
distici aperti da un anaforico quid, interrogazione che la ricercatezza
dello stile 30 rende ancora più vivace. In realtà in questa elegia il ruolo
28
Giangrande ibid.
Fantham 2006, 184 nota che i confini del primo libro appaiono rigidamente
confinati da un « tight male circle » di personaggi.
30
Fedeli 1980, 139.
29
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dell’amico interpellato, pur cronologicamente prioritario, finisce per divenire subalterno perché il nucleo di questa consiste nella celebrazione
del patto d’amore che intercorre tra Properzio e Cinzia; si tratta di un
ruolo però necessario nella misura in cui l’amico, che vuol distogliere il
poeta dall’amore per un’unica donna, e che quindi si inserisce con una
sua specificità nella categoria generica degli amici conformisti dell’elegia
programmatica, assume la funzione del ‘danneggiatore’ del patto, al
quale ci si rivolge per contrastarne le dichiarazioni. Anche in questo
caso il movimento antifrastico tra l’individualità di chi parla e quella
dell’interpellato, appare perfettamente visibile nella distribuzione ponderata dei pronomi personali di prima e seconda persona; mihi ... mea
aprono infatti nel primo distico una sequenza allitterante, poi ulteriormente valorizzata dal me del v. 3, che sposta con determinazione su chi
parla, nel trapasso dal dativo di chi ascolta al caso diretto, la scelta del
servitium amoris. In questo modo, passando attraverso una composita e
ben costruita linea semantica che parte da mutatum [scil. me], cioè ‘corruptum’ 31, del quale è ancora Basso l’artefice seppure de conatu (cogis) 32,
per procedere fino a stemperare la volontà dell’interpellato, prima con
l’ambiguo non pateris e poi con il reciso assueto, Properzio riesce a capovolgere abilmente, tramite la strategia dell’Anrede, le pretese di chi ha
inteso mettere in crisi il suo rapporto d’amore, sicché quando il lettore
arriva al terzo distico, che inaugura l’exemplum delle bellezze eccellenti
del mito, con l’anafora del tu disposta a bella posta a cornice del v. 5
per conferire particolare solennità al dettato 33, l’opera di convincimento
di Basso può considerarsi ormai fallita e Properzio tiene saldamente in
mano le redini dell’argomentazione, che consiste non soltanto nell’esito
del giudizio (duro iudice) tra realtà e mito, al quale si è sottoposto, ma
anche e soprattutto nella scelta di vita, tanto da ripetere (v. 12) l’apostrofe del vocativo Basse, per notificargli tramite l’ossimoro perire iuvat la
sua sconcertante determinazione.
Consapevole della vittoria espressa nella ponderazione tra le forme
quo magis / hoc magis che aprono tanto l’esametro che il pentametro del
distico del patto d’amore (accepta fide) dall’esplicita connotazione giuridica, Properzio procede con una serie di comunicazioni che, pur conservando il tempo futuro che contrassegna la tradizione dell’Anrede, difficilmente potrebbero configurarsi come inviti e precetti; essi stanno ad
31
32
33
Fedeli 1980, 139.
Fedeli 1980, 140.
Fedeli 1980, 141.
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indicare piuttosto la minaccia, o forse già la sanzione delle pene (non
impune feres) che condannano chi ha messo in atto il tentativo di nostros
solvere amores. Ciò risulta d’altra parte tanto più evidente per la circostanza che solo il primo e l’ultimo futuro della serie sono riferiti a
Basso, e quindi stanno alla seconda persona, mentre tutti gli altri si
riferiscono al gestire e all’agire di una Cinzia palesemente adirata.
La tecnica della Anrede si adatta anche ad una situazione diversa,
rappresentata nella fattispecie dal sovrapporsi del ruolo del rivale su
quello dell’amico, come nella elegia 1,5. Anche in questo caso, come a
1,4, l’esordio di Properzio non è una sua iniziativa autoriale, ma dipende dall’esser stato chiamato in causa da comportamenti e soprattutto da
chiacchiere fastidiose (voces molestas) dell’amico Gallo, il cui nome compare, tuttavia, solo nel distico finale del componimento. L’analogia con
l’elegia precedente si spinge fino a questo punto, attribuendo all’altro
una provocazione tale da richiedere l’intervento diretto del protagonista; il lettore, che aveva visto nell’ablativo strumentale di 1,4.1 (laudando
tam multas puellas) il tentativo di svalutare la bellezza di Cinzia, capisce
subito che questa volta Gallo risulta più pericoloso, perché parla per
insinuare dicerie tra i due amanti al fine di rompere la lealtà del loro
rapporto e prendere il posto di Properzio. Il tono più marcato è reso
dall’imperativo accompagnato dal pronome di seconda persona tu, che
è sicuramente un segno di dizione colloquiale 34, così come appaiono
tali le due interrogazioni che articolano il v. 3 35, mentre il verbo compesco ha il significato di invito a reprimere, quale sviluppo della radice
parcus, ogni interferenza tra i due amanti, appaiati nella loro rotta dalla
metafora del giogo matrimoniale 36, che esclude l’interpretazione sgradevole e incongrua che nos stia ad intendere Properzio e Gallo 37. Questo
ultimo in effetti potrebbe anche arrivare a fruire della stessa situazione
dell’altro, ma per ora essa è solo il frutto di uno scenario argomentativo
di Properzio, che fa sfoggio nella parte centrale dell’elegia del suo ruolo
di maestro, praeceptor amoris.
A Gallo sono riservati nei primi due distici tre vocativi allitteranti
invide – insane – infelix, con i quali il protagonista dispone in forma
progressiva la sequenza delle condizioni patologiche che riflettono e
compendiano la rovina dell’amico, guidato dall’invidia verso Properzio
34
35
36
37
Fedeli
Fedeli
Fedeli
Pasoli
1980,
1980,
1980,
1957,
154.
156.
155; Santini 2005, 158.
32-33.
L’ ANREDE ALL ’ AMICO E/ O RIVALE
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alla stoltezza 38 di credere che Cinzia sia una delle tante vagae puellae
che incontra nelle frequentazioni quotidiane. I futuri che fungono da
spia dell’intento didascalico si dispongono lungo tutta la sezione centrale della elegia, nei vv. 11-26, ma anche qui l’alternarsi dei ruoli tra
interpellato e interpellante appare chiaramente innovativo rispetto all’intento parenetico e didascalico. Appare chiaro, scorrendo il dettagliato
elenco delle curae che Cinzia procurerà al nuovo amante, come l’insegnamento oggettivo del praeceptor si sia trasformato nella comunicazione
di un dolente esperito, del quale lo stesso Properzio è ben consapevole.
Il punto di svolta sta nella locuzione cogere discere, dove il segno dell’apprendere non dipende più da Properzio, che si era immaginato poco
prima Gallo contemptus correre ad limina della sua casa, ma è gestito da
Cinzia detentrice del grave servitium. In conseguenza di siffatta autonomia, i segni del degrado fisico di Gallo (singultus; tremulus horror; informis nota in ore) si sono trasferiti sul volto di Properzio (pallorem mirabere
nostrum), che sottolinea con la posizione centrale del verbo la sua incapacità di aiutare l’amico e in ultima analisi il fallimento della sua opera
di maestro:
Non ego tum potero solacia ferre roganti,
cum mihi nulla mei sit medicina mali (vv. 27-28).
A questo punto la stessa potenzialità fàtica di Properzio è giunta al
termine, sicché non resta altro che il gesto dei due infelici innamorati,
associati dalla coercizione di un amore comune, che piangono l’uno nel
grembo dell’altro (v. 30 alter in alterius mutua flere sinu), un’immagine
che proviene a Properzio dalla memoria di un epigramma di Meleagro
(AP 12,72), dove lo scenario della sofferenza dell’amico viene concluso
nella partecipazione al comune soffrire: kaujtoVò E
[ rwtoò e{lkoò e[cwn ejpiV
soi`ò davkrusi dakrucevw “e io pure, soffrendo per una ferita d’amore, verso le lacrime sulle tue lacrime”. Il dettato di Properzio viene a raccogliere in funzione allusiva alcuni segni del testo precedente, come pariter
che echeggia ire pares dell’apertura, tanto più che l’idea di una comune
sudditanza d’amore viene esaltata dalla prima persona plurale: socio cogemur amore. A questo punto, pertanto, la forma dialogica da cui è partita l’Anrede ritorna alla constatazione della paritas, ma questa si realizza
per antifrastica simmetria tra i due antagonisti al posto di quella iniziale
38
Fedeli 1980, 156 nega qui un riferimento all’insania amoris (come Gallo nella
decima bucolica) e opta per il sinonimo di stultus.
240
CARLO SANTINI
tra gli amanti; sull’amico rivale si staglia in verticale la figura di quella
che è divenuta nel corso dell’elegia quasi una nuova divinità 39, la cui
epifania non può realizzarsi impune, e cioè sine poena, senza riscatto, con
lo stesso avverbio con il quale nell’elegia precedente Properzio aveva
ammonito Basso.
Un’ulteriore variante del modo di presentare la figura del protagonista, impegnato nel suo ruolo di praeceptor amoris e dispensatore di
saggezza all’interpellato, si realizza nell’elegia 1,10, dove compare di
nuovo quell’amico Gallo che si era mosso come insidioso rivale nella
1,5. Qui la situazione è radicalmente cambiata perché Gallo ha una
nuova amante; in aggiunta, solo al quinto verso compare il pronome
personale di seconda persona te ... morientem e il vocativo dell’apostrofe, essendo i primi versi finalizzati all’enfasi dell’invocazione della notte d’amore, della quale Properzio è stato sì partecipe (affueram; mihi;
meis), ma da spettatore in virtù della fiducia (non es veritus) dello stesso Gallo. La compartecipazione di Properzio va tuttavia oltre il ruolo
del semplice testis, per accedere alla sfera della empatia, come rivelano
i riferimenti tanto alla sua persona fisica (premeret mihi somnus ocellos;
non potui secedere), quanto ai gesti e alle voci degli amanti, scandite
dalla seconda persona plurale (vestris ... in lacrimis; a vestro ... lusu; in
alternis vocibus). Anche Properzio ha conseguentemente acquisito, tramite questa esperienza, un’ulteriore conoscenza (didici), che, pur inesprimibile, lo ha arricchito andando oltre alla lealtà del silenzio. In
questo modo la funzione perlocutiva di cui la persona loquens dell’elegia dà esplicita e sostanziale testimonianza (possum ego ... et ... possum ...
et possum ... nec levis in verbis est medicina meis) trascende il compito
canonico dell’ammaestrare e si rifrange negli effetti di un’esperienza
esistenziale alla quale non manca l’apporto di Cinzia (me docuit), pronta a renderlo consapevole di quanto si deve fare oppure evitare in
ogni occasione (semper quaecumque petenda quaeque cavenda forent). Alla
luce della dinamica dei passaggi che si succedono in questa elegia, la
figura dell’interpellante si fa più concreta e più ricca rispetto al tradizionale stereotipo della Anrede della lirica greca, perché i saperi di
cui il protagonista si fa forte, e che verranno esposti nella breve ars
amandi dei vv. 21-30, resa ancora più impositiva dal linguaggio giuridico dei divieti 40 e conclusa dalla sententia finale, risultano il prodotto
di una composita serie di mediazioni e acquisizioni, mai presumibil-
39
40
Fedeli 1980, 167.
Fedeli 1980, 251.
L’ ANREDE ALL ’ AMICO E/ O RIVALE
241
mente esauribili, come deve essere la condizione di chi numquam vacuo
pectore liber erit.
Gallo compare ancora nell’elegia 13, aperta da un sintomatico Tu,
che il lettore decodifica subito, tra il lento dipanarsi dei pleonasmi, nel
vocativo del verso successivo. Certo Gallo, consentendo a Properzio di
assistere ad una sua notte d’amore, aveva ammesso il ruolo prioritario
del poeta, ma si era trattato di una superiorità effimera nel momento
in cui apprendiamo qui un ulteriore capitolo della storia d’amore, con
Properzio abbandonato e rimasto solo. A commento di queste due elegie (10 e 13) viene riportato come testo di riferimento il lungo epigramma di Paolo Silenziario, tematicamente solitario, dove la dettagliata
descrizione dell’inestricabile viluppo dei corpi degli amanti si conclude
in contrasto fulmineo con ajll hj mJ ei`ò a[ndica kaiovme+a, “mentre noi invece
ardiamo separati”. A prescindere dalla priorità di Properzio e dal problema della probabile fonte comune tra il poeta latino e l’epigrammista
del V secolo d.C., a me pare logico che la vera pointe dell’epigramma
stia nella sofferenza d’amore resa tanto più crudele dalla vista della fusione dell’altra coppia. Quello che Silenziario ha unito insieme, Properzio si è compiaciuto a separarlo in due situazioni diverse, in modo da
poter giocare in entrambi i componimenti con il ruolo di praeceptor amoris, instaurando un discorso perlocutivo che altrimenti la sua condizione
di infelicità non gli consentirebbe.
Eccolo quindi iniziare sottolineando vigorosamente la differenza con
il comportamento abituale e sleale di Gallo. Potremmo chiederci cosa
sia successo nell’arco di tempo che separa la quinta dalla decima e
dalla tredicesima elegia, così come questo è stato determinato da Properzio nella sequenza del monobiblos. Le voces di Gallo si riferiscono al
tentativo di prendere il posto di Cinzia, oppure hanno attinenza con il
ruolo voyeuristico assunto da Properzio che si era impegnato a vestros
... reticere dolores, e che qui passa dalla condizione di discente a quella
di docente non in conseguenza di un rumor malus, ma proprio in seguito alla autoscopia evidenziata dagli stilemi retorici dell’alternanza
tra prima e seconda persona: haec ego ... / vidi ego: me ... teste .../ vidi
ego te ...
Il ruolo di praeceptor amoris viene in questa altra occasione convalidato da quanto Properzio ha visto, che supera gli amplessi più celebri del
mito; al riguardo appare significativa la forma negativa del trapasso
dall’esperito al racconto mitico, che apre l’esametro di tre distici consecutivi (v. 19 non ego / v. 21 non sic / v. 23 nec sic), riecheggiando il
catalogo delle Eoie. In effetti Properzio non ha mai abbandonato in
questa elegia la sua funzione di maestro, come evidenzia la serie di
242
CARLO SANTINI
quattro futuri, che seguono l’immagine di Gallo, mentre, ormai perditus
nell’amore, si sta avviando sulla via del baratro:
haec erit illarum contempti poena doloris
multarum miseras exiget una vices (vv. 9-10).
Il concetto di poena, nel significato originario di riscatto da una colpa, suona qui semanticamente affine al non impune che abbiamo già
avvistato a 1,4 riferito a Basso, e nella prima elegia di Gallo, la 1,5,
sicché, perché realmente innamorato, a Gallo non sarà concesso di passare da donna a donna se vuole restare amicus della donna che ama – un
concetto catulliano. E tuttavia ancora una volta questi suggerimenti, e
soprattutto l’imperativo conclusivo utere, rivelano come dietro la situazione erotica di Gallo, adombrata come incipiente (v. 7 primo ... gradu;
v. 33 es periturus amore), si profili la condizione di Properzio che sottolinea l’unicità della propria esperienza, riflettendola in quella dell’amico
(semel), e si dichiara disposto a considerare tale error con tutto il suo
portato di squilibrio e novità come causa di felicità. Proprio in nome
dell’amore dissoltosi per Cinzia, mai nominata in questa elegia e che è
quanto mai improbabile 41 considerare come l’amante di Gallo, Properzio
ora solitario (v. 2 abrepto solus amore vacem), augura all’amico un amore
totalizzante e irripetibile, quale è stato il suo. Con questo augurio, la
voce che si leva finale dal maestro d’amore rievoca il gesto con il quale
era stata proposta a conclusione di 1,5 la condizione di dolente compartecipazione tra amanti infelici per il socio amore, mentre piangono
l’uno sul petto dell’altro.
Se nella scelta del genere letterario la tradizione antica in generale,
ed elegiaca in particolare, percepisce e illustra una scelta di vita, non
sarà irragionevole rappresentare l’amico/rivale come un letterato, un
poeta emulo della persona loquens, nella fattispecie quel Linceo, di certo
lo pseudonimo di un personaggio del circolo di Mecenate, che con buona probabilità sta a designare il poeta epico e tragico Vario Rufo 42, visto
che la screziatura della « gaietta pelle » della lince è resa in latino dall’aggettivo varius, indizio questo assai convincente nonostante la non
sovrapponibilità prosodica dei due onomastici, rispettivamente spondeo
e tribraco 43.
41
42
43
Fedeli 1980, 301.
Boucher 1958, 307-322.
Fedeli 2005, 954.
L’ ANREDE ALL ’ AMICO E/ O RIVALE
243
Ma prima di affrontare questa ultima forma di Anrede, più complessa di quelle del primo libro, sembra opportuno soffermarsi ancora su
due esemplari di questo, in cui il tema della sofferenza d’amore è solo
presupposto per l’alternativa tra generi letterari contrapposti (epica vs/
elegia). A 1,7 l’Anrede a Pontico, autore di un poema epico sul ciclo
tebano, si apre con il vocativo che occupa tutto il quinto piede dell’esametro, in piena ed esplicita visibilità; al tempo stesso Properzio non
rinuncia a quel richiamo di prudenza (Dum tibi ... nos, ut consuemus) che
lo vede rispondere, dopo due distici, reagendo, piuttosto che agire, secondo una tecnica di mediazione che abbiamo verificato altre volte.
L’esordio per altro dipende dal testo della Anacreontea 26 A; si tratta di
un componimento di età ellenistica, incentrato nell’antitesi suV meVn ... ejgwV
dev che decodifica le conquiste epiche come invece pertinenti agli amori 44 della persona loquens. In Properzio c’è spazio anche per un altro
genere di ironia che traspare con bella evidenza nel primo inciso (ita
sim felix), quando augura all’amico di emulare Omero, che resta primus
per fama, e soprattutto nel secondo, dove mollia fata innesta un’anfibologia da scambio generata dall’aggettivo pertinente proprio al genere
dell’elegia, nella cui sfera invece si muove Properzio con il predominio
del segno opposto con incluso il bisticcio dei suoni (v. 6 duram quaerimus
in dominam ... v. 8 tempora dura queri).
Se, originato da un impulso di affermazione delle sue scelte poetiche, appare puntiglioso il gioco di contrapposizioni tra i pronomi di
prima e seconda persona, sul quale si appoggiano ben undici dei tredici
distici che compongono l’elegia (1: tibi; 3: nos; 5: mihi ... mea ... mei; 6:
me; 7: me; 8: te ... te; 9: tibi; 10: tibi; 11: me ... ego; 12: nostro; 13: tu ...
nostra tuo), la prestanza del praeceptor amoris emerge ancora una volta
dall’esperienza del poeta stesso, tutto chiuso nella condizione di un dolor che dura nel tempo e non ha alternative (v. 5 nos, ut consuemus,
nostros agitamus amores). È importante rilevare l’innesto del nos nella sfera del tu dell’Anrede che sta a sottolineare la prova di fusione di destini, già tentata con la sorprendente profezia di 1,5.11, che Abel constata
avrebbe potuto essere anche espressa nella « Ich-Form » 45, e che apparirà
realizzata nell’attacco della 1,9.1 Dicebam tibi venturos, irrisor, amores.
Emerge ancora una volta il tema della scelta di vita (v. 9 hic mihi
conteritur vitae modus), che, se implica la sofferenza della poesia elegiaca
44
All’origine sta naturalmente la Priamel sul piacere che si trae da immagini differenti, immortalata da Saffo al fr. 16 V.
45
Abel 1930, 25.
244
CARLO SANTINI
(dolor), offre comunque a Properzio la consapevolezza della fama raggiunta. Ciò risulta perfettamente funzionale all’intento didattico del suo
dire, che offre al lettore, immaginato come un neglectus amator che si
trovi nelle sue stesse condizioni, il giovamento che trae origine dalla
assiduità (assidue) della frequentazione con la sua voce e dalla conoscenza dei suoi mali (v. 14 et prosint illi cognita nostra mala).
L’innesto dell’Io sul Tu dell’Anrede non resta per altro senza effetto.
Sarà Pontico a seguire presto il poeta elegiaco lungo la sua stessa strada? Properzio lascia affiorare ancora una volta il motivo del futuro di
una situazione di trapasso dall’epica alla elegia. Esso nasce da una profezia e si espande con le consuete allusioni, che corrispondono esattamente alle tradizionali connotazioni del genere elegiaco (flebis; mollem
componere versum), che all’esordio avevamo invece trovato riferite a Properzio. La profezia pare in parte costruita sulla condizione dell’innamorato della prima elegia programmatica, ma questa volta il ricorso dell’aggettivo serus non opera per condannare la iniziale indifferenza degli
amici, quanto piuttosto per stigmatizzare l’orgoglio letterario di Pontico,
dissuaso nel distico finale dal disprezzare la poesia d’amore, visto il magnum faenus, che Amor richiede a quanti pensano di poterne fare a
meno.
Properzio si è dunque rivelato in questa elegia autorevole maestro
non soltanto nell’indicare il decorso della malattia d’amore, ma nell’affermare che tale sofferenza trova una compensazione nel momento in
cui è resa celebre e famosa. Il faenus, ovvero l’interesse che ‘nasce’ dalle
transazioni finanziarie, come la poena, sono le metafore di un mondo
‘altro’, che, pur nella loro estraneità al contesto dell’erös, allo stesso
modo del catulliano disvalore dell’unus as, cui equivalgono tutti i rumores
senum severiorum, finiscono per conferire un elemento romano di severità e di equilibrio di cui sente il bisogno. In questo modo si prefigura
l’altra faccia, quella del verso che reca utilità, giovamento ed immortalità, in contrasto con la sofferenza d’amore.
E puntualmente la profezia di 1,7 prende corpo ad 1,9, dove, se il
vocativo Pontice, destinatario della Anrede, compare solo al v. 26, l’intera
strutturazione del testo con l’infectum incipitario di Dicebam lascia intendere questa elegia come la continuazione di un discorso intrapreso.
L’aspetto più interessante di questo nuovo confronto con l’irrisor
Pontico sta tuttavia nella condizione nella quale costui si trova relegato
conseguentemente alla schiavitù d’amore che ora gli impedisce l’uso di
libera verba per perseguire quella produzione poetica alla quale si stava
dedicando, in perfetta conformità con quanto gli aveva Properzio anticipato a 1,7, nel caso fosse stato anche lui vittima di una infallibile
L’ ANREDE ALL ’ AMICO E/ O RIVALE
245
freccia di Amore (vv. 19-20 et frustra cupies mollem componere versum / nec
tibi subiciet carmina serus Amor). In effetti l’intento didascalico di Properzio si dipana e si distribuisce equamente tra 1,7 ed 1,9, ovvero tra
predizione e constatazione; dapprima Pontico scoprirà che i grandi temi
epici (castra; septem agmina) sono divenuti silenziosi (surda), ovvero non
hanno più nulla da ispirargli, poi cercherà di passare senza successo
alla poesia elegiaca per lenire la sofferenza dell’animo 46. E tuttavia deve
sapere – incalza Properzio a 1,9 – che, se lui è divenuto peritus, all’origine sta la sua sofferenza (l’avverbio merito conferma la teodicea del
rapporto tra pav+oò e mav+oò). Forte della sua dottrina, può ora autorevolmente istruire il suo discepolo, rammentandogli la superiorità dell’euJrethvò della poesia d’amore, Mimnermo, rispetto al quale anche
Omero deve lasciare il posto 47. Con rapido movimento argomentativo
tipico del sermo diatribico (i quaeso), Pontico è invitato a riporre (tra i
volumi della sua biblioteca) 48 i tristes libellos dell’epica per cantare ciò
che ogni ragazza vuol venire a sapere dal suo amante (v. 14 quod quaevis nosse puella velit). La vivacità del dettato si avvale di ulteriori segni
di forte intensità (l’inaspettata interrogativa, latrice di un’ipotesi tanto
irrealizzabile da essere considerata impossibile; il tu pleonastico annesso
ad insanus; il motivo proverbiale di chi cerca l’acqua in mezzo al fiume)
con la quale Properzio dimostra di vivere il problema della inventio dei
loci, che, anche nel caso di Pontico non andranno oltre l’esperito dettatogli dalla passione d’amore.
Se anche qui Properzio ha voluto ribadire il criterio di aequabilitas
che regola il rapporto tra poesia e vita, la sua dottrina appare riflessa
in forme intermittenti, in cui il tempo presente dell’osservazione (v. 3
iaces supplexque venis; v. 17 palles; tangêris) lascia spazio al futuro didascalico (cupies), ad un perfetto ‘zeitlos’ di valore sentenzioso (praebuit) e ad
un’altra formulazione didattica (nec te decipiat: esortazione al negativo),
per tornare di nuovo alla forma del presente (subit; patet). I diversi soggetti, la puella e Amor, appaiono cooperare in una situazione patologica
della quale Properzio è ancora il solo a gettare la legge. Proprio il richiamo alla dimensione fisica della passione con riferimenti agli aspetti
intimi del corpo umano (le medullae di Pontico; gli ossa verosimilmente
46
Sulla utilità della elegia per quanti sono caduti in amore cfr. Maltby 2006, 170.
Il riferimento a Mimnermo è sicuramente un segnale di adesione alla poesia di
Callimaco, che ricorre al nome dell’elegiaco di Colofone tanto nell’esordio degli Aitia
quanto nel programmatico giambo 13, cfr. in proposito M. Puelma Piwonka 1949, 250.
48
Fedeli 1980, 238.
47
246
CARLO SANTINI
di Properzio) si attualizza in una dichiarazione razionalistica (quare) intorno all’emergenza fàtica (vv. 33-34) che, nel riconoscere l’errore e parlare della causa del proprio struggimento, trova un’occasione di sollievo.
La sententia finale quindi propone con una costruzione ad anello in Pontico un nuovo compagno alla ricerca di conforto – si ripropone quindi
in una certa misura il modello di 1,5 di Gallus e di Properzio che piangono l’uno sul sinus dell’altro. Ma la 1,9, con l’invito all’elegia come
sola possibilità di sottrarsi all’erötikon pathëma, rievoca nella memoria del
lettore alcuni segni del testo dell’ultima bucolica di Virgilio, come l’insania di Gallo, il suo desiderio di una mollities che funge da equivalente
alla poesia elegiaca (v. 33s. o mihi tum quam molliter ossa quiescant / vestra
meos olim si fistula dicat amores!), le inesorabili frecce di Amor, rispetto alle
quali quelle del mondo d’Arcadia parrebbero valere tamquam haec sit nostri medicina furoris.
Quando, alla luce delle considerazioni fin qui elaborate, e concentrate su un gruppo di elegie contigue, guardiamo ad un’altra stagione
della produzione di Properzio, di qualche anno successiva, ed in particolare alla elegia 2,34, che conclude il secondo libro, dove l’Anrede a
Linceo è affiancata a quella rivolta a Virgilio 49, il lettore ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una struttura ben più complessa e polisemica
rispetto alle precedenti 50. Qui tuttavia sono chiamati a raccolta non pochi dei motivi già visti, dalla esperienza del proprio amore alla gelosia
per l’amico rivale, dalla recusatio dell’epos alla storia dei precursori del
genere elegiaco, con la finalità di riconoscere la tradizione di questo
genere poetico sì da sostenerne la grandezza anche nel confronto con
l’epos di Virgilio che rappresenta la novità di quegli anni.
Se l’elegia esordisce con un attacco alla slealtà di Linceo, che rievoca nella sua durezza alcuni dei carmi di Catullo (c. 30 ad Alfeno; c. 77
a Rufo; c. 82 a Quinzio; c. 91 a Gellio), il tono diviene più comprensivo
a partire dal v. 25 Lynceus ipse meus seros insanit amores per concludersi
con la deissi del v. 55 Aspice me che è sostanziato sul piano visivo con
l’immagine del poeta che, nonostante la modestia della eredità, regna
sovrano indiscusso nei banchetti (conviva) inter mixtas puellas, che non si
interessano né del tragico coturno di Eschilo, né di Omero ed Antimaco,
49
Abel 1930, 30: l’Anrede a Virgilio, pur avendo un carattere sostanzialmente « apostrophenartige », rivela altresì la scelta di Properzio « mehere Anreden in einem Gedicht
nebeneinander treten zu lassen ».
50
Linceo sembra costruito come un secondo Pontico, « o meyor un Póntico corregido y aumentado »: Álvarez Hernández 1997, 167.
L’ ANREDE ALL ’ AMICO E/ O RIVALE
247
e neppure, come terza alternativa, del messaggio didascalico di un poema periV fuvsewò nel quale non è difficile scorgere un’allusione che si
stende fino a Lucrezio.
Partito da una condanna per il modo di comportarsi di Linceo, Properzio trascorre nella seconda parte del componimento alla recusatio della sua poesia, con l’invito a seguire altri modelli (vv. 31-32 tu satius
memorem Musis imitere Philitan / et non inflati somnia Callimachi) e a muoversi in sintonia con il programma di leptotës, che forma l’architrave
della poetica alessandrina 51. La ricezione di Callimaco, che Properzio
suggerisce a Linceo, ma alla quale lui per primo vuole attenersi, è una
fusione di flessibilità (v. 42 ad mollis membra resolve choros!) e al tempo
stesso di precisione (v. 43. angusto versus includere torno) 52 che rappresenta un qualcosa di più impegnativo rispetto alla ripresa di Mimnermo e
degli epigrammi di Meleagro del primo libro: essa trascorre trasversalmente soprattutto nelle elegie del terzo libro di Properzio, conferendo a
molte di esse quel caratteristico tono discorsivo che parrebbe accostarle
alla produzione dei Sermones e ad alcune delle Epistulae di Orazio.
Il caso di Linceo accosta alla rivalità in amore quella attinente alla
sfera della poetica e della letteratura: l’amico, sulla cui identità, come
abbiamo visto, si discute, ma che appare nel testo con i connotati della
maturità, se non della vecchiaia 53, è perfidus perché ha osato mettere le
mani addosso alla puella nonostante essa sia la cura di Properzio. Sebbene Cinzia in tale occasione si sia dimostrata constans e tam certa (una
nota che, confrontata con i comportamenti di altre elegie, lascia filtrare
una luce ironica dalla scena del maldestro corteggiamento), Properzio dà
prova di considerare con severità il potenziale flagitium dell’amico, dal
quale è disposto a subire tutto (vv. 13-14 tu mihi vel ... vel / ... tantum te
mea, in chiasmo) e con il quale divide tutto (vv. 15-16 te ... te ... / te ...
meis secondo una distribuzione per clausole seguita dalla disposizione a
cornice, ma in aggiunta ad una tecnica tanto sapiente di articolazione
dei pronomi e aggettivi personali, sta la pregnante e allusiva ripetizione
domina / Cinzia ... dominum / Linceo), ma non l’amore, concretizzato nel
letto, luogo e strumento del sesso, cfr. v. 17 lecto te solum, lecto te deprecor
uno, con doppia anafora, che enfatizza per la posizione incipitaria nei
due emistichi il pronome di seconda persona e riproduce l’andamento
del precedente esametro 15 te socium vitae, te corporis esse licebit.
51
52
53
Puelma Piwonka 1949, 253.
Si tratta di due verbi che indicano azioni opposte: Álvarez Hernández 1997, 171.
Soprattutto se, come è probabile si tratta di Vario Rufo, cfr. Fedeli 2005, 953.
248
CARLO SANTINI
La struttura del testo converge alla fase conclusiva nella constatazione del v. 18 rivalem possum non ego ferre Iovem, per la quale suggerirei
l’influenza di vari epigrammi di Meleagro, tutti impostati sul timore che
per il suo amasio possa ripetersi la vicenda di Ganimede, rapito da
Zeus, quali quelli di AP 65, 68 e soprattutto 70, dove la pointe che fa
impennare il ritmo espositivo sta nel trapasso inaspettato da tavd ej l[ exe
a tavde fhsivn, il cui soggetto è in entrambe uno Zeus, il quale ha promesso, ma del quale il poeta non sembra fidarsi, se solo si appressi una
mosca (h]n mui=a parapth`)~ , surreale trasfigurazione dell’aquila del mito.
Il problema dell’unità dell’elegia è stato molto dibattuto, ma il punto di cesura individuato al v. 25 implica che due carmi successivi abbiano stesso dedicatario ed una stessa Anrede, cosa che non si verifica mai
nel complesso di tutta la produzione di Properzio 54, quando invece proprio la Anrede spiega che tutti, persino Linceo sanno che è bello fare
all’amore. Anzi proprio questo modo di procedere spiega la seconda
Anrede (a Virgilio) 55 dove si chiarisce che anche la poesia d’amore, che
Virgilio ha praticato prima di altri generi, è in grado di accordare a chi
la pratica l’immortalità 56. La conclusione dunque, che tiene conto di un
nuovo punto di articolazione del carme, a v. 59, ma non di uno iato
che implica l’origine di una nuova composizione, come vuole Jacob nel
suo commento del 1827 seguito da Carter 57, appare giustamente infondata a Fedeli 58 perché la discussione sui generi letterari trova la sua
reale motivazione nei comportamenti di Linceo, che altrimenti non riusciremmo a giustificare partendo solo da Virgilio. L’elegia trova quindi il
suo commento nella doppia Anrede che sostiene il componimento in un
tutto unitario dove vediamo risaltare la vita di Properzio, signore dei
conviti, e al tempo stesso la sua poesia come celebratore di Cinzia. La
chiusa della elegia (e del secondo libro) ci appare pertanto un abile
artificio che consente il convergere dei motivi in un’unica affermazione
di gloria letteraria, sancita nella ‘callida’ sovrapposizione tra la forma
oggettiva della terza persona e il richiamo autobiografico della prima:
Cynthia quin etiam versu laudata Properti,
hos inter si me ponere Fama volet (vv. 93-94).
54
55
56
57
58
Fedeli 2005, 950-951.
Abel 1930, 60.
Fedeli 2005, 952.
Carter 1976, 41-44.
Fedeli 2005, 951.
L’ ANREDE ALL ’ AMICO E/ O RIVALE
249
Il lettore noterà che, oltre ad attribuire ad Amor il ruolo di ispiratore
di comportamento nefando quale troviamo espresso nei vv. 5-6 polluit
ille deus cognatos, solvit amicos / et bene concordis tristia ad arma vocat con il
raffinato gioco di antiklimax dei vincoli e di klimax delle azioni dei verbi 59, Properzio adduca a giustificazione l’ebbrezza di Linceo, della quale
si è visto rappresentare un elemento diffuso e attenuante nella poesia
ellenistica per introdurre il discorso erotico:
Vna tamen causa est, cur crimina tanta remitto,
errabant multo quod tua verba mero (vv. 21-22).
Il gesto sconveniente dell’avance delle mani, che poi sfuma nel vociare dei verba del kwmasthvò, incapaci di stabilità come la sua andatura
barcollante, risulta pertanto un dettaglio mimetico mirante a far scendere un velo di compassione su Linceo, che ha voluto esperire, lui anche,
la sententia sulla generalità del piacere d’amore (v. 24 omnes iam norunt
quam sit amare bonum).
Il quadro dei modelli che viene proposto risulta composito, perché
questa volta la poesia non è rappresentata soltanto dai tradizionali generi alti dell’epica (Omero; Antimaco) e della tragedia (Eschilo), ma
dietro la ruga vitae severae vediamo affacciarsi la sapientia della filosofia,
desunta dai libri Socratici (v. 27). Questi non hanno nulla a che vedere
con i dialoghi di Platone in cui compare il personaggio di Socrate, ma
sono un’espressione abbastanza generica, che trova confronto con altre
dizioni dell’aggettivo Socraticus 60 in cui il nome del filosofo è sinonimo
di philosophia e quindi « libri di poesia morale » 61. Probabilmente la formula tradisce chi di filosofia non si è mai interessato se non superficialmente, e quindi confonde i Socratici libri con le opere dei fisiologi che
trattano in versi dei fenomeni della natura e contengono forse nella
susseguente specificazione un accenno al poema De morte di Vario (v. 53
nec si post Stygias aliquid restabimus undas) 62.
Resta l’immagine dell’enigmatico vester senex, un maestro di dottrina,
per la cui identificazione sono state proposte molte ipotesi, tra le quali
Epicuro, o Filodemo 63, ma sostanzialmente insolubili per l’incertezza del
testo.
59
60
61
62
63
Fedeli 2005, 957.
Fedeli 2005, 966.
Fedeli ibid.
Fedeli 2005, 992.
Cairns 2002, 309-312.
250
CARLO SANTINI
Ma forse il richiamo all’opera del senex dice più del semplice stereotipo, anche alla luce della ‘rivoluzione catulliana’, che si fa gioco dei
senes severiores. L’allusione potrebbe risultare generazionale e riguarderebbe le due voci della stagione precedente, come Vario e Virgilio. Il
contesto mi pare possa essere interpretabile in qualche misura alla luce
di un segno come seros [scil. amores], che abbiamo già segnalato in altri
due passaggi cruciali di questa indagine e che ora sta a complemento
dell’insania di Linceo. Insomma la filosofia, o almeno la poesia filosofica, è presente sullo sfondo come poesia dai connotati non giovanili, e
quindi stonata per un poeta che ora insanit amores, mentre la sua attività
era stata contrassegnata dalla scelta di produrre tragedie eschilee. Il
quadro disarmonico converge verso l’immagine sorprendente del toro,
noto exemplum di sessualità sfrenata, che converrà sperimenti lacci diversi da quelli ai quali è soggiaciuto come durus poeta nella sua esperienza
sul verso tragico. Incapace di sopportare quelli che gli appaiono duros
amores, è invitato a esporre la sua esperienza d’amore (in tuos ignes ...
veni!); a questo punto Linceo non potrà non chiedere aiuto alla competenza di Properzio verso il quale è invitato a volgere lo sguardo, seppure l’intera scena sia stata presentata con una notevole carica di spigliata
ironia (trux tamen a nobis ante domandus eris), vista la scelta opposta alla
consuetudine di vita.
Aspice risulta quindi un invito accompagnato dal gesto, perché Linceo si volga una buona volta almeno a tenere in considerazione quella
poesia per la quale invece Properzio è ora da lui disprezzato (quo nunc
tibi elevor), ma proprio i connotati senili di Linceo e la susseguente esposizione dell’opera di Virgilio a partire dal suo ultimo stadio, ovvero l’epica, per procedere poi all’inverso, dall’esordio bucolico ai temi esiodei
delle Georgiche, abilita a ritenere che anche Properzio ammetta in qualche misura la corrispondenza tra età e genere poetico.
Lui ora è giovane come lo era stato quasi venti anni prima il Virgilio delle Bucoliche. Anche Virgilio, dopo aver riportato le parole di Gallo, determinato a venire in Arcadia, eppure consapevole dell’ineluttabile
dominio di Amor (omnia vincit Amor, et nos cedamus Amori), conclude l’egloga e l’intero libro con un verso Ite domum saturae, venit Hesperus, ite
capellae, dalla quale si evince in modo più che trasparente che l’esperienza della giovinezza è giunta ad esaurimento.
Rapportare questo finale della prima opera di Virgilio all’elegia 2,34
parrebbe convalidare l’impressione che i tratti di senilità che affiancano
il ritratto di Linceo servano altresì a marcare un momento di trapasso
nella carriera poetica di Properzio, che dopo aver citato qui per la prima volta Callimaco e Filita (vv. 31-32), conclude con un catalogo dei
suoi predecessori. Proprio tale catalogo ci appare come una sphragis che
L’ ANREDE ALL ’ AMICO E/ O RIVALE
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finisce il libro secondo per aprire la tematica più composita del terzo,
dove Properzio cambia ruolo di persona loquens, lasciando sfaldare il suo
ruolo di praeceptor amoris e soprattutto anticipa il progetto del quarto
(4,1.57-58 moenia namque pio coner disponere versu / ei mihi quod nostro est
parvus in ore sonus!).
Properzio si accosterà a tale progetto, consapevole pur sempre del
parvus sonus che producono i suoi versi, ma senza dimenticare il retaggio memoriale della poesia della gioventù, al quale, come risuona la
voce, ironica, eppure verace ed autorevole di Horos, gli sarà impossibile
sottrarsi. Properzio aveva dichiarato a suo tempo a 2,10,7 aetas prima
canat Veneres, extrema tumultus, ma non c’è altro che vada ad aggiungersi
alle parole dell’astrologo, oltre la dispositio delle elegie del quarto libro;
non sappiamo dunque come Properzio avrebbe risposto alla sfida degli
anni, che anche Orazio conosce melanconicamente ai vv. 55-57 dell’Epistola a Floro senza possibile alternativa:
Singula de nobis anni praedantur euntes;
eripuere iocos, venerem, convivia, ludum;
tendunt extorquere poemata: quid faciam vis?
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CARLO SANTINI
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