IL CONCETTO DI TUTELA DELL`AMBIENTE NELL`ANTICA ROMA
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IL CONCETTO DI TUTELA DELL`AMBIENTE NELL`ANTICA ROMA
TRADIZIONE E PERMANENZA DEI CLASSICI Anno accademico 2013-14 – II semestre UOMINI CHE ODIA(VA)NO LE DONNE? LA MISOGINIA NEL MONDO ANTICO Premessa metodologica “Il passato è una terra straniera” Nella lezione «Raccontare il mondo classico» tenuta presso la LUISS1 il 17/11/2011, Eva Cantarella, per introdurre la sua concezione della cultura classica in rapporto al nostro tempo, cita l’incipit del romanzo di L.P. Hartley del 1953 The Go-between (Messaggero d’amore, titolo italiano del film di Losey tratto dal romanzo]: Past is a foreign country. The do things differently there2. In sostanza, dobbiamo affrontare il nostro percorso di conoscenza del mondo classico come affronteremmo il viaggio in un paese sconosciuto. Di solito invece si tende a sottolineare la presunta continuità tra mondo antico e mondo contemporaneo, quasi a voler giustificare la legittimità e il valore dello studio dell’antichità classica. In realtà, come afferma Eva Cantarella: «L’antico è tutto interessante, ma non è attuale. Che cosa del mondo antico è ancora attuale? Niente è attuale nel senso che ha direttamente un interesse, ce lo ha perché ci aiuta a ragionare e a conoscere la storia di certe situazioni e di certi problemi. L’antico è attuale nel senso che rileggerlo oggi ci aiuta a ragionare sulle cose di oggi, che è diverso da dire che è la stessa cosa. La bellezza dell’antico è questa: viaggiare nel mondo antico, nel passato, è come vivere tante vite, è come fare un viaggio in un paese straniero, aiuta ad aprire la mente». Per studiare correttamente il mondo antico, senza correre il rischio di attualizzarlo indebitamente, è perciò necessario attuare quella che George Steiner definiva “correzione prospettica”: come gli astronomi, per determinare l’esatta posizione di corpi celesti distanti dalla Terra molti anni luce, devono tener conto della “deformazione prospettica”, ossia dell’errore di calcolo causato dalla distanza e dalla presenza dell’atmosfera terrestre, allo stesso modo chi studia l’antichità classica deve sempre tener presente la lunga distanza di tempo che ci separa da quel periodo, onde evitare di valutare gli eventi e le opere del passato come se fossero a noi contemporanei. Se anche opere a noi relativamente vicine nel tempo sono percepite in maniera diversa dai posteri, a maggior ragione occorre usare cautela e discernimento nel valutare le fonti documentarie e le opere letterarie dell’antichità classica, tanto remota da noi. 1 2 Nell’ambito delle «Conversazioni serali alla LUISS», la cui registrazione è visibile su YouTube. «Il passato è una terra straniera. Fanno le cose in maniera differente, là.» 2 Per fare solo alcuni esempi, Becky Sharp, la protagonista del romanzo Vanity Fair. A novel without a Hero, di Thackeray (1847-48), era nelle intenzioni dell’autore, un personaggio negativo di arrampicatrice sociale: orbene, nel recente adattamento filmico del romanzo, curato dalla regista anglo-indiana Mira Nair, il medesimo personaggio di Becky è invece guardato con simpatia, in un’ottica contemporanea, come quello di una giovane donna emancipata, che cerca di farsi strada nella vita. O ancora, il personaggio di Phil Marlowe, l’investigatore privato protagonista dei romanzi di Chandler, se giudicato secondo il metro di giudizio dei nostri giorni, apparirà come un individuo pieno di difetti, maschilista, omofobo e via dicendo, ma se inquadrato nell’epoca in cui fu ideato, gli anni ’40 del Novecento, riacquista il fascino di cui l’autore intese dotarlo. Questa deformazione prospettica nella rilettura dell’antico è del tutto ammissibile per gli artisti, che possono e in certa misura devono ripensare le opere e i personaggi del passato secondo la loro sensibilità, ma in nessun modo è ammissibile per gli studiosi dell’antichità classica, men che mai per i filologi, che hanno, tra gli altri loro compiti, quello di inquadrare correttamente le opere che studiano nelle coordinate temporali dell’epoca in cui esse furono composte. *********** LA MISOGINIA NEL MONDO ANTICO MISOGINO, MISOGINIA: STORIA DI PAROLE I termini misoginia, sostantivo astratto, e l’aggettivo derivato dalla stessa radice, misogino, non sono, in realtà, parole in uso nell’antichità classica, almeno non nel senso che diamo comunemente a questi termini, indicanti il diffuso pregiudizio e disprezzo nei confronti dell’intero genere femminile, considerato per natura inferiore a quello maschile. Interessante notare come la prima attestazione certa dei termini sopra citati si abbia in uno scrittore latino, Cicerone, il quale nel suo dialogo filosofico in cinque libri sulle passioni umane e sul modo di controllarle, le Tusculanae Disputationes, usa il termine misogynía per indicare la malattia dell’animo contraria alla philogynía, ossia l’eccessivo, patologico amore per le donne: la misoginia è dunque, secondo Cicerone, un vizio di pochi, non, come intendiamo noi lo stesso sostantivo, un pregiudizio diffuso avverso al genere femminile. Vale la pena riportare per intero il passo ciceroniano, Tusc. IV 11, 25: Similiterque ceteri morbi, ut gloriae cupiditas, ut mulierositas, ut ita appellem eam quae Graece philogynía (φιλογυνία) dicitur, ceterique similiter morbi aegrotationesque nascuntur. Quae autem sunt his contraria, ea nasci putantur a metu, ut odium mulierum, quale in Misogyno (Μισογύνῳ) Atili est, in hominum universum genus, quod accepimus de Timone, qui misánthropos (μισάνθρωπος) appellatur, ut inhospitalitas est: quae omnes aegrotationes animi ex quodam metu nascuntur earum rerum quas fugiunt et oderunt. «Similmente si producono tutte le altre malattie dell’animo, come la bramosia di gloria, come l’eccessivo amore per le donne (mulierositas), per definire così quello che in greco si chiama philogynía (φιλογυνία), e tutti gli altri morbi e patologie dell’animo. Invece le patologie che sono contrarie a queste, si ritiene che nascano dal timore, come 3 l’odio per le donne, quale si riscontra nel Misogino di Atilio, o l’odio per l’intero genere umano, come quello che ci è noto di Timone, che è chiamato misantropo (μισάνθρωπος), quale è l’avversione per gli ospiti: e tutte queste malattie dell’animo nascono da una sorta di timore di quelle cose che si fuggono e si odiano». Molto interessante e acuta è l’osservazione di Cicerone (che mostra qui di seguire un’ignota fonte filosofica greca), che fa scaturire l’odio irrazionale per il genere femminile o per l’intero genere umano dalla paura e dall’ignoranza di ciò che provoca repulsione. La citazione di una commedia del poeta Atilio intitolata Il misogino ovvero Colui che odia le donne3 conferma quanto detto prima, ossia che il termine misoginia non indicava un sentimento diffuso in tutto il genere maschile, bensì un atteggiamento stravagante, al limite del patologico, di un singolo individuo, di un tipo da commedia. Nulla di paragonabile, dunque, all’uso che noi facciamo dei termini “misoginia” e “misogino”. Nel successivo §27 Cicerone ribadisce la precedente definizione data delle patologie dell’animo e si sofferma in particolare sull’odio per gli ospiti, sulla misogynía e sulla misantropia. Quale esempio di odiatore patologico del genere femminile viene citato Ippolito, personaggio mitico: Offensionum autem definitiones sunt eius modi, ut inhospitalitas sit opinio vehements valde fugiendum esse hospitem, eaque inhaerens et penitus insita; similiterque definitur et mulierum odium, ut est Hippolyti, et, ut Timonis, generis humani. «E la definizione del disprezzo e del rifiuto patologico è questa: la inhospitalitas è l’opinione forte, ostinata e profondamente radicata che l’ospite sia da evitare; e nello stesso modo si definisce anche l’odio per le donne, quale è quello di Ippolito, e l’odio per l’intero genere umano, quale è quello di Timone». ********** LA FIGURA DI ALCESTI TRA MITO E TRAGEDIA Il nucleo originario del mito di Admeto e Alcesti sembra ricollegarsi ad altri miti archetipici connessi al tema della morte e della palingènesi (resurrezione): il mito di Demetra e Persefone, rapita da Ades e condotta nel regno degli Inferi, il mito delle nozze di Ades, il dio che regna sui morti, il mito di Orfeo ed Euridice. Tutti questi miti rappresentano il tema “dell’eterno ritorno”, del ciclico avvicendarsi, nella natura, nel cosmo e nell’uomo, della morte e della rinascita. La vicenda mitica di Admeto e Alcesti è imperniata sul tentativo di sfuggire alla ineluttabilità della morte. Ciò appare fin dal prologo della tragedia euripidea, nel quale si ricorda che la servitù di Apollo presso Admeto era stata la conseguenza della trasgressione di Asclepio, figlio del dio, il quale aveva violato la legge di natura, resuscitando con l’arte medica un morto. E successivamente lo stesso Apollo aveva cercato di strappare alla morte Admeto, facendo ubriacare le Moire e convincendole ad accettare che qualcuno potesse salvare il re morendo al suo posto. Peraltro, la condanna di Admeto a una morte prematura era stata provocata da una colpa del re, il quale, nel giorno delle sue nozze con Alcesti, non aveva offerto alla dea Artemide (divinità legata essa pure al mondo ctonio, al regno 3 Una commedia dal titolo Il misogino (Misogýnes, Μισογύνης) è pure attribuita al poeta comico Menandro da Strabone; desta invece perplessità l’attribuzione da parte di Ateneo di un dramma con lo stesso titolo ad Euripide. 4 sotterraneo dei morti) i dovuti sacrifici. Gli sposi novelli avevano così trovato il talamo nuziale invaso da serpenti aggrovigliati4. Nel finale della tragedia euripidea viene celebrato il trionfo sulla morte, ottenuto grazie alla lotta di Eracle con il dio Thánatos. Occorre notare che l’impresa di Eracle può essere considerata un doppio della successiva fatica dell’eroe, di passaggio a Fere durante il suo viaggio per recarsi a domare e portare a Micene le cavalle di Diomede. Anche questa fatica di Eracle è dunque connessa con il regno di Ade. Infatti Roberto Calasso, nelle Nozze di Cadmo e Armonia, ha messo in luce le numerose correlazioni tra l’Ade e le cavalle di Diomede: affini ad altri animali mostruosi associati al regno dei morti, quali le Arpie, le Gorgoni e le Erinni, esse si cibavano di carne umana, erano dunque legate al tema della consunzione provocata dalla morte. Notevole anche il fatto che si tratti di cavalle e non di cavalli; sono infatti per lo più femminili le entità divine o mostruose che presiedono alla morte: Moire, Parche, Sirene, Erinni, Gorgoni etc. IL RUOLO DI APOLLO NELLA TRAGEDIA E IL DUALISMO TRA LUCE E TENEBRE In quanto divinità solare, Apollo, come Φοῖβος (Phoibos = Febo è uno degli attributi del dio), ossia “il Luminoso”, si contrappone al dio della morte e re degli Inferi, Ἃιδης (Hades = Ade), il cui nome significa “l’Invisibile” e dunque anche “l’Oscuro”, “il Tenebroso”. Apollo era però percepito dagli antichi anche come divinità associata alla morte, in quanto il ciclico sorgere e tramontare del Sole era paragonato alla vicenda del nascere e del morire degli uomini5. E poiché ogni notte, tramontando, Egli muore e poi all’alba rinasce, la figura di Apollo è associata alla palingenesi, alla possibilità di resuscitare dopo la morte. In alcune vicende mitiche che riguardano Apollo si evidenzia inoltre il rapporto tra Φιλία (Philía) e Thánatos, tra Amore e Morte. Così Apollo provocò, accidentalmente, la morte di due giovinetti da lui amati, Giacinto e Ciparisso, e li fece rivivere nella forma, rispettivamente, di fiore e di albero (il cipresso). Si tratta, non per caso, di due piante associate al mondo ctonio, dunque al regno dei morti, e ai riti funebri. Pure Admeto, va ricordato, fu amante di Apollo. ADMETO-HADES Roberto Calasso, nel suo già citato saggio Le nozze di Cadmo e Armonia, ha avanzato in maniera convincente l’ipotesi che Admeto altri non sia che Ade, il dio del regno dei morti. Lo dimostrerebbe il nome stesso dell’eroe, in quanto ádmetos significa “l’indomabile”, attributo che designa sia il dio Ade sia il dio Thanatos. Secondo Calasso, di conseguenza, il regno di Admeto, la Tessaglia, si identificherebbe con gli Inferi. La Tessaglia è anche la 4 Secondo gli studiosi, questo episodio potrebbe riflettere una più antica versione del mito, nella quale i serpenti intenti ad accoppiarsi altri non sarebbero che gli stessi sposi Admeto e Alcesti, coppia parallela degli sposi ‘infernali’ per eccellenza, Ade e Persefoni. I serpenti rappresentano le divinità ctonie, sotterranee. 5 Lo stesso avveniva per la sorella di lui, Artemide, associata alla Luna. Gli antichi perciò attribuivano alle frecce di Apollo la morte prematura e inspiegabile di un uomo, alle frecce di Artemide la morte prematura e inspiegabile di una donna. 5 regione che ospita le cavalle di Diomede, la cui associazione con Thanatos è già stata indicata sopra. Admeto e Alcesti rappresenterebbero insomma l’equivalente della coppia di sovrani infernali, Ade e Persèfone. Ma chi è Admeto? Si chiede Roberto Calasso, e così si risponde: «[...] scopriamo che all’ombra Admeto appartiene di diritto. Il paesaggio è la Tessaglia: terra che “nei tempi antichi era lago circondato da monti alti come il cielo” (uno dei quali è l’Olimpo) e ha conservato un’intimità con le acque profonde, che periodicamente erompono da molte bocche e la inondano dalle vene di molti fiumi; campagna ferace, gialla e aspra, ricca di cavalli, di armenti e di streghe. Non vi presiede la trasparenza fredda di Atena, ma una grande dea che esce dalle tenebre, FERAIA. Tiene due fiaccole in mano e raramente è nominata. Anche questo corrisponde al genio della Tessaglia, terra dove la divinità è più vicina al primordiale anonimato, dove gli dèi raramente si presentano con un volto e dove gli Olimpi non sono avvezzi a scendere. Quando il dio vi appare, irrompe brusco e selvatico, come il cavallo Scafeio che spunta con la chioma dalla roccia, schiantata dagli zoccoli. I cavalli galoppanti nella Tessaglia sono creature del profondo, catapultati dalle spaccature della terra, le stesse da cui si sparge nella pianura l’onda posidonica. Sono loro i morti, fulgenti di biancore o nerezza. Feraia è un nome locale di Ecate, la dea nottambula, sotterranea, che ferisce il buio con le torce, la dea cavallo, toro, leonessa, cagna, colei che appare in groppa al toro, al cavallo, al leone, la nutrice di ragazzi, la moltiplicatrice degli armenti. È lei, in Tessaglia, la Forte (Brimò), unita allo Hermes che è figlio del Forte (Ischýs, l’amante che Coronis ha preferito ad Apollo). E “forza” (alké) è anche nel nome di Alcesti. In questa terra, prima che come figura, la divinità si dichiara come pura forza. Ma Feraia, dice il dizionario di Esichio, è anche la “figlia (kore) di Admeto”. Forse Alcesti e Admeto, prima di essere una coppia di regnanti provinciali, già sedevano accanto come la coppia sovrana degli Inferi? Ora il paesaggio si svela. È una rigogliosa terra di morti, quella Tessaglia dove Apollo sarà schiavo per un “grande anno”, finché gli astri, in nove anni, non tornino alle loro posizioni originarie. Il soggiorno di Apollo in Tessaglia è un ciclo infero. Se Zeus aveva scelto quella terra per punirvi Apollo, in sostituzione del Tartaro, già per questo le spettava di essere un luogo della morte. Il nome Admeto vuol dire “indomabile”: ma nessuno è indomabile come il signore dei morti. Ora i pochi tratti che conosciamo di lui acquistano un nuovo senso: nessuno è ospitale come il re dei morti; suo è l’albergo che non chiude mai le porte, a nessuna ora del giorno e della notte; nessuno ha armenti così numerosi. Quando Admeto invita amici e parenti a morire per lui, non fa nulla di aberrante: è quello il suo operare quotidiano. E che Admeto si aspetti come ovvio di essere sostituito nella morte ora si spiega: è lui il signore della morte, colui che accoglie i cadaveri e li smista nei suoi ampi domini. Qui si mostra che l’amore di Apollo è davvero estremo, più di quanto già sembrava: per amore, Apollo vuole sottrarre alla morte il signore dei morti. Ora l’amore di Apollo e di Alcesti rivela tutta la sua provocazione: è un amore per l’ombra che rapisce. In Alcesti si dichiara ciò che la kóre rapita da Ade6 sul prato fiorito di narcisi non disse mai: che quel dio dell’invisibile non è solo un rapitore, è un amante». ******** 6 Calasso si riferisce ovviamente a Persefone o Proserpina che dir si voglia. 6 L’ALCESTI DI BARCELLONA (ALCESTIS BARCINONENSIS) A parte un solo verso superstite della tragedia Alcestis di Accio, adattamento del dramma di Euripide, gli scarsi frammenti della trasposizione lirica del mito di Alcesti composta nel I secolo a.C. dal poeta neoterico LEVIO, (uno dei componimenti compresi nella raccolta degli Erotopaegnia, “Scherzi d’amore”), l’unico testo integro in latino sul mito di Alcesti era il centone virgiliano Alcesta, trasmessoci all’interno dell’Anthologia Latina; fino a quando, in un codice miscellaneo conservato a Barcellona, fu rinvenuto e pubblicato, nel 1982, dal filologo catalano Roca-Puig, il carmen de Alcestide. Questo componimento (da allora comunemente indicato col titolo di Alcestis Barcinonensis, dal luogo di conservazione del manoscritto che ce lo ha tramandato) consta di 122 esametri e narra la vicenda di Admeto e Alcesti, alternando le voci dei personaggi a una voce narrante che collega i vari discorsi, quella del Poeta. Infatti il testo, trascritto da uno scriba maldestro e ignorante come se fosse prosa, reca in margine note con il nome dei personaggi, il che fa pensare che il carme fosse destinato alla recitazione. L’anonimo autore, uomo erudito anche se non particolarmente abile come poeta, si colloca, secondo le più verosimili ipotesi formulate dagli studiosi, nell’Africa romana, e precisamente nell’Egitto di cultura greco-romana, tra fine III - inizio IV secolo. Secondo la puntuale definizione di Vincenzo Tandoi, possiamo definire il nostro poeta «un rappresentante in ritardo della seconda Sofistica, che coltiva anch’egli una tenue Musa d’occasione all’insegna del virtuosismo declamatorio, da proporre mediante la recitazione a un pubblico di modeste pretese e facile agli applausi»7. Sempre Tandoi ha formulato l’ipotesi che il carme fosse destinato alla recitazione durante le feste Carnèe in onore di Apollo, che venivano celebrate annualmente anche nell’Africa Cirenaica. Sul collegamento tra queste feste con il culto eroico di Alcesti si ricordi Euripide, Alcesti, 445 ss. Per quanto riguarda la versione del mito di Alcesti scelta dall’Anonimo, essa si discosta dalla trama del dramma euripideo in diversi punti. Il componimento si apre con un dialogo tra Admeto e Apollo, il quale rivela al re la sua fine imminente, che potrà essere evitata soltanto se qualcuno accetterà di sostituirsi a lui nella morte. Admeto, caratterizzato come individuo lamentoso e pavido, si dispera e scongiura prima il padre e poi la madre di aiutarlo, ma entrambi i genitori rifiutano di sacrificarsi, argomentando con freddo cinismo la loro crudele decisione. La divergenza principale dal modello euripideo sta però nel fatto che Alcesti non resuscita: il carme termina infatti con la descrizione della morte della protagonista, che muore, inoltre, immediatamente dopo avere dichiarato la sua intenzione di sacrificarsi per Admeto. Tra i personaggi compare, come già si è detto, anche la madre di Admeto, alla quale anzi viene assegnato un ruolo più importante di quello attribuito al padre: ella pronunzia un discorso assai elaborato dal punto di vista retorico, al quale, nel finale del carme, viene contrapposta la rhesis di Alcesti, in cui viene evidenziata la valenza eroica del gesto della donna. Negando la resurrezione ad Alcesti l’Anonimo mostra di ritenere che l’unica forma di sopravvivenza possibile dopo la morta sia la buona fama conquistata durante la vita con le proprie azioni. Il tema della gloria conquistata dall’eroina con il suo gesto era già presente nella tragedia di Euripide, ma nel nostro carme l’autore sembra avere avuto presente anche l’ideologia romana e la tradizione poetica latina: infatti la figura di Alcesti ha i connotati 7 V. TANDOI, La nuova Alcesti di Barcellona, in Disiecti membra poetae, vol. I, Foggia 1984, p. 242. 7 delle matrone romane più virtuose, è unívira (cioè ha avuto un solo marito), è fertile, pia e fidelis. È appunto il discorso finale di Alcesti la parte artisticamente più valida del carme. Come osserva Lorenzo Nosarti nella sua ottima edizione commentata: «la figura di Alcesti è quella sbozzata con più impegno dal nostro Anonimo e quella dove egli riesce meglio che altrove, pur tra le pastoie della retorica di scuola, a farci sentire qualche lieve afflato di poesia»8. Proponiamo perciò qui di seguito, nella traduzione di Nosarti 9, i due discorsi contrapposti della madre di Admeto e di Alcesti, vv. 43-122 del carme: POETA Dopo il rifiuto del padre, [Admeto] si va a prostrare ai piedi della madre, supplice li adora e versa lacrime sul suo seno: ella fugge il figlio che la prega, non si lascia vincere, empia, dalla pietà, né, senza cuore, dal pianto; anzi lo incalza con questi rimbrotti: MADRE Senza un briciolo di pietà verso i genitori tu, scellerato, oseresti vedere la morte di tua madre, gioire della mia tomba? Questo petto, vuoi che distruggano le fiamme e che il fuoco estremo del rogo consumi l’utero che ti ha generato, nemico alla mia vita, nemico, figlio, a quella di tuo padre? Io vorrei farti dono della vita, a patto però che tu potessi per sempre risiedere in una dimora eterna. Perché temi la morte, per la quale nasciamo? Fuggi lontano, dove c’è il Parto, dove il Medo o l’Arabo, dove l’uccello esotico nasce e una nuova era ricomincia: là, figlio, sta pure nascosto; forse che il tuo destino di morte non ti seguirà? Nulla è eterno, nulla è stato creato disgiunto dalla morte: la luce svanisce e sorge la tenebra, muoiono anche gli anni; non inghiotte la terra i luoghi, che prima aveva generato? Perfino il padre del mondo [Zeus] si narra che sia morto e sia stato sepolto e il fratello [Plutone], penalizzato dalla sorte, sia sceso al regno Stigio; corre fama che Bacco sia stato raggirato e ucciso dai Titani e che Cerere e Venere abbiano varcato il guado della morte. Perché dovrei dolermi del figlio che il fato reclama? Perché non dovrei piangere, come hanno pianto altre madri prima di me? Ha perduto il figlio Diomede [la madre di Giacinto], lo ha fatto a brani Agave, lo ha ucciso Altea, lo ha ucciso Ino, una dea; ha pianto Iti Progne, ma lo raccoglie insanguinato. La verità è che quante cose ci sono sulla terra, el mare e nell’aere vagante, svaniscono, periscono, muoiono, vengono sepolte. POETA ALCESTI 8 La figlia di Pelia, come vide il consorte così piangente, esclama: Me consegna, me, sposo, consegna al sepolcro; volentieri ti concedo, ti faccio dono, Admeto, del tempo datomi in sorte, io, sposa, per il mio sposo. Se vinco la madre, la vinco proprio nell’amor materno; se muoio, grande lode sarà di me; dopo le esequie non ci sarò più, ma tutti gli anni il mio gesto sarà celebrato e sarò per sempre una sposa pia. Non sarò costretta a vedere con tristezza i volti scuri, a piangerti tutta la vita o a conservare le tue ceneri. Lontano da me una vita di lacrime; preferisco una morte come questa. Me consegna al sepolcro! È meglio che Portmeo [Caronte] dal nero mantello mi porti via con sé. Questo solo ti chiedo mentre mi appresto a morire, che dopo la mia morte per nessun’altra donna tu provi dolcezza, che nessuna sposa, di me a te più cara, ricalchi le mie orme. E tu non onorarmi solo a parole e fa’ conto che di notte giacerò accanto a te. Non disdegnare di tenere in grembo le mie ceneri, di carezzarle con mano non timorosa, mentre ne trasuda l’unguento, e di cingere la mia urna di fiori freschi. Se è vero che le ombre tornano sulla terra, ritornerò e giacerò con te tua sposa. sì, qualunque sia il mio stato, per non sentirmi abbandonata da te e non dolermi della scelta fatta di lasciare per te questa vita. Prima di tutti ti affido i figli, pegno d’amore, pegno frutto della nostra unione feconda ed esclusiva: Anonimo. L’Alcesti di Barcellona. Introduzione, testo, traduzione e commento di L. NOSARTI, Bologna 1992, p. XXXI. Al volume di Nosarti si rinvia per un approfondimento degli argomenti qui sopra trattati. 9 Ed. cit., pp. 19-21. 8 così questa morte possa non avere motivo alcuno di lamento. Non svanisco senza lasciare traccia e certo non muoio del tutto: credimi, sopravvive qualcosa di me che, prossima a morire, lascio figli a te tanto simili. Ti prego, non voler da persona indegna affidarli, piccini come sono, a una matrigna; non volere che la pia ombra della madre debba protestare i propri diritti sui figli in lacrime. Se tu non terrai fede a questo impegno, la mia dolce ombra non verrà neanche un poco la notte... [rivolgendosi alla figlia] E tu impara a morire per il tuo caro sposo, apprendi da me l’esempio dell’amore coniugale. POETA Già la notte errante si trapuntava di stelle e il Sonno alato riempiva di soporifera rugiada ogni cosa; Alcesti, affrettandosi incontro alla morte, si stringeva al marito e vedeva, ormai prossima a morire, le sue lacrime. Invita lo sposo e i figli a piangerla spesso; dà disposizioni ai servi, lieta mette a punto ogni cosa per il proprio funerale, il letto funebre ricamato e addobbi di vari colori, ramoscelli esotici e profumi, incenso e zafferano: da un ramoscello trasudante trae il pallido balsamo, riduce in polvere l’amomo sottratto a un nido, ricava il cinnamo dall’arida corteccia di rami purpurei e mette al suo posto ciascun aroma da bruciare con se stessa. S’appressava l’ora che avrebbe rapito la luce alla giovane sposa e la rigidezza della morte le impacciava le mani, s’impossessava di tutta la sua persona; prossima alla fine, ella notava le unghie bluastre e sentiva i piedi di ghiaccio: oppressa dal freddo mortale, si rifugia tra le braccia di Admeto, ombra ormai fuggente dalla vita. Non appena riprende coscienza: «Sposo, dolcissimo sposo» esclama «è venuta la morte estrema, è venuta a portarmi via e il dio infernale mi avvolgerà tra qualche istante nel sonno eterno». ******* LA FORTUNA DELLA TRAGEDIA EURIPIDEA E DEL MITO DI ALCESTI IN EUROPA TRA SEICENTO E NOVECENTO Nel teatro neoclassico francese del Seicento e poi in tutto il Settecento la figura di Alcesti acquista una funzione esemplare, modello sublime di fedeltà e di amore coniugale. Perduta è la tragedia Alcesti di Jean Racine, ma sappiamo dallo stesso poeta che l’opera non era stata accolta con favore dal pubblico. Questa reazione, in un pubblico che di solito apprezzava l’opera di Euripide, può spiegarsi con l’ambiguità (presunta, come abbiamo visto) del dramma euripideo10, anche nel finale, e con la percezione del personaggio di Admeto come spregevole, per aver accettato il sacrificio della moglie. Vedremo così, dal Settecento in poi, adattamenti della tragedia di Euripide nei quali si cerca di eliminare questa presunta negatività di Admeto, ricorrendo a vari espedienti. ALCESTI NEL DRAMMA PEDAGOGICO DEL SETTECENTO All’inizio del Settecento, il bolognese Pier Iacopo Martello dà inizio a questo processo di semplificazione della complessità del testo euripideo, scrivendo un adattamento dell’Alcesti nel quale il personaggio di Admeto viene modificato al fine di depurarlo da quella viltà che gli veniva comunemente attribuita. Egli dunque modifica la trama: Admeto è ammalato e i suoi parenti apprendono dall’oracolo di Delfi che egli potrà salvarsi se qualcuno accetterà di morire al suo posto. Alcesti subito accetta di sacrificarsi e chiede al medico Macaone di 10 Peraltro Racine mostra di avere ben compreso il carattere di Admeto nella tragedia di Euripide, come si evince dalle sue osservazioni nella prefazione all’Iphigénie. 9 procurarle un veleno. Il medico però, ritenendo che per adempiere l’oracolo fosse sufficiente che Alcesti venisse posta, apparentemente morta, nella tomba al posto del marito, invece del veleno le fornisce, senza dirglielo, un potente sonnifero, che sprofonda la donna in uno stato di catalessi. Il trucco funziona: appena l’eroina viene sepolta, Admeto riacquista la salute ed Eracle, avvertito da Macaone dello stratagemma, recupera Alcesti dalla tomba e la conduce, già rinvenuta e velata, al marito. Admeto supera la prova propostagli da Eracle, respingendo la sconosciuta velata che gli viene offerta, sicché i due sposi si riuniscono, più felici di prima, dopo avere entrambi dato prova della loro dedizione coniugale. Evidente lo scopo pedagogico ed edificante dell’autore, così espressa nell’epilogo del dramma: «Dopo sì gloriosa prova di tanta fermezza, fattasi alfin riconoscere Alceste in maniera da non poterne più dubitare, rimangono ambedue felicissimi per la vicendevole esperienza della lor fede, esempio del vero amor coniugale a tutti gli sposi avvenire». IL MELODRAMMA ALCESTE DI GLUCK-CALZABIGI (1769) Il libretto di Ranieri de’ Calzabigi, musicato da Christoph Willibald Gluck, è più fedele alla versione tradizionale del mito, ma anche qui si modifica il personaggio di Admeto, semplificando la complessità che aveva nella tragedia di Euripide: essendo ammalato, egli è infatti inconsapevole del patto di scambio con la Morte e ignaro del sacrificio di Alceste. Nel finale la sposa è strappata al regno degli Inferi dal provvidenziale intervento, ex machina, del dio Apollo, al quale è affidato il messaggio edificante sulle virtù coniugali, proposte come modello per gli spettatori: «e a chi stringe l’imen, [voi, Admeto e Alceste] modello siate e guida». L’ALCESTE PRIMA E L’ALCESTE SECONDA DI VITTORIO ALFIERI L’Alceste prima di Vittorio Alfieri, pubblicata nel 1798, è in realtà la traduzione del dramma di Euripide, piuttosto fedele all’originale, se si eccettuano gli interventi sul testo greco aventi lo scopo, come dichiara l’autore, di renderlo più chiaro. L’Alceste seconda è invece una vera e propria riscrittura della tragedia, presentata però da Alfieri, con un espediente erudito assai in voga a quei tempi, come «traduzione intera ed esattissima da un manoscritto perduto di Euripide». Anche Alfieri comunque, ponendosi nel solco delle precedenti riscritture in chiave pedagogica dell’originale euripideo, si cimenta nell’impresa di ‘correggere’ il carattere di Admeto pareggiandone le virtù a quelle di Alcesti. Anche qui infatti Admeto è inconsapevole della decisione di Alceste di sacrificarsi per lui, e quando ne viene a conoscenza egli chiede al padre di donare quel che gli resta da vivere non, egoisticamente, per sé, bensì per salvare la vita della moglie. Alfieri ha reso più nobile anche il personaggio di Fereo, padre di Admeto: egli acconsente alla richiesta del figlio, ma si scontra con la risolutezza della nuora, decisa a morire. Pure la figura di Eracle viene depurata dei tratti grotteschi che mostra in Euripide, e appare come nobile eroe: nella riscrittura alfieriana egli non si ubriaca e interviene a impedire il suicidio di Admeto, deciso a uccidersi sul corpo di Alceste. Nel finale, come in Euripide, Eracle presenta ad Admeto una donna velata offrendogliela come sposa: Admeto rifiuta risolutamente, avendo in 10 precedenza giurato che non avrebbe più toccato acqua né cibo, dopo la morte di Alceste. Allora Eracle gli rivela l’identità della donna velata, che, al contrario della creatura muta e misteriosa messa in scena da Euripide, è quanto mai loquace, e il marito la riconoscerà appunto dalla voce. Anche qui, come nei precedenti rifacimenti del dramma euripideo in chiave pedagogica, vi è un esplicito messaggio edificante, affidato nell’epilogo ad Eracle: «Unico esemplo di coniugale amor, felici e degni sposi all’età lontane [ai posteri] i nomi vostri e celebrati e riveriti andranno». L’ALKESTIS DI REINER MARIA RILKE Durante il suo soggiorno a Capri, nel 1907, Reiner Marie Rilke compose il poemetto Alkestis, che si ispira, oltre che alla tragedia di Euripide, al bassorilievo Il sacrificio di Alcesti conservato a Villa Albani a Roma. Rilke si scosta dal modello euripideo e dalla versione più diffusa del mito collocando la morte di Alcesti nel giorno stesso delle sue nozze con Admeto. Un motivo, questo, che si trova in racconti folklorici nei quali la Morte si presenta alla festa di nozze per rapire la giovane sposa. Nella prima parte del poemetto viene descritto l’arrivo alla festa nuziale di Hermes, il messaggero degli dèi e lo psicopompo, colui che accompagna i defunti nell’Ade. Egli viene ad annunziare che Admeto deve morire quello stesso giorno. Il dio si aggira nel tripudio della festa senza che nessuno degli invitati lo noti, finché uno non si accorge, dal viso turbato di Admeto, che qualcosa di orribile sta accadendo. A questo punto, cala il silenzio nella sala. Nella seconda parte del poemetto viene descritta la disperazione di Admeto, il quale chiede ai genitori di sostituirlo nella morte: essi non adducono argomentazioni per rifiutare il loro aiuto (come invece avviene in Euripide e nell’Alcestis Barcinonensis). rimangono attoniti «davanti al figlio urlante». Ed ecco che si fa largo tra la folla degli invitati silenziosi Alcesti, nel suo abito da sposa, e si rivolge direttamente a Hermes offrendosi spontaneamente al sacrificio. Nell’epilogo il poeta descrive l’uscita di Alcesti, scortata da Hermes psicopompo. Admeto barcollando si dirige verso di loro, protendendo invano le mani «come in un sogno», mentre la sposa gli rivolge un sorriso di addio. In questa originale riscrittura del mito, Alcesti non è più modello di fedeltà e di dedizione coniugale: il suo sacrificio infatti si compie prima che la vita matrimoniale abbia inizio. Interessante è inoltre, nel poemetto di Rilke, il ricorrente riferimento all’identità ErosThànatos, esplicitata dalla frase rivolta da Alcesti a Hermes: «Non te l’ha detto, la dea che ti manda, che quel talamo, che là dentro attende, agli Inferi appartiene?» che rimanda al valore archetipico, da noi già rilevato prima, della coppia Admeto-Alcesti come doppio della coppia Ade-Persefone. 11 L’ALCESTI DI SAMUELE DI ALBERTO SAVINIO Nel 1949 Alberto Savinio, pseudonimo di Alberto de Chirico, pubblicò un dramma in due atti intitolato L’Alcesti di Samuele, che fu rappresentato l’anno successivo al Piccolo di Milano, con la regia di Giorgio Strehler. Si tratta, in realtà, di un’opera liberamente ispirata al mito di Alcesti e ambientata in Germania durante il nazismo: la protagonista è una donna ebrea, che decide di suicidarsi per evitare la rovina del marito, un editore musicale di Monaco, in conseguenza delle leggi razziali. Vicenda che ricalca una storia vera, appresa per caso da Savinio. Il ruolo che in Euripide era di Eracle viene svolto nel dramma di Savinio dal presidente americano Franklin Delano Roosvelt, che si reca nel Kursaal dei morti per trarne Teresa. La donna, tornata dal marito, descrive sarcasticamente il mondo dei morti, con toni che ricordano i Dialoghi dei morti di Luciano di Samòsata, autore cui Savinio mostra di essersi ispirato. Nel finale, Paul, il marito, si accascia, morto, e Teresa-Alcesti proclama che solo nella morte loro due potranno essere uniti. Evidentemente la morte è vista come l’unico modo per sottrarsi ad un mondo in sfacelo. Il dramma di Savinio è caratterizzato da una forte componente metateatrale: l’autore è infatti presente sulla scena come regista ma anche come spettatore dello svolgersi dell’azione tragica. Ed è proprio l’Autore che mette in risalto l’affinità tra Teresa e la mitica Alcesti. Egli sottolinea come il mito del sacrificio di Alcesti [a dispetto del valore esemplare di virtù coniugale sbandierato, come s’è visto, nei drammi pedagogici del Settecento] sia in realtà molto più raramente emulato di quanto possano esserlo altre vicende mitiche: «Bastano due soli individui a costituire una specie? Dai tempi precedenti il tempo storico, attraverso millenni e millenni non storicizzati, e attraverso millenni e millenni storicizzati, soltanto noi ora abbiamo la riprova che Alcesti non è un individuo ma una specie. Conoscevamo Alcesti di Pelia: [...] ora conosciamo Alcesti di Samuele [nome del padre di Teresa]».