collana di racconti brevi collana di racconti brevi

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Carla Cirillo
Le mitomani favolose
Racconti del femminile
Copyright © MMXII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133/A-B
00173 Roma
(06) 93781065
isbn
978-88-548-4458-2
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: Guida Editore, Napoli 2006.
II edizione: gennaio 2012
Capitano Harville: «Credo di non avere
mai aperto un libro in vita mia in cui
non si dicesse qualcosa sull’incostanza
delle donne. Canzoni e proverbi parlano tutti della volubilità femminile. Ma
forse, dirà lei, furono tutti scritti da
uomini».
Anne Elliot: «Sì, se non vi spiace, non
riferiamoci agli esempi che si trovano
nei libri. Gli uomini hanno avuto tutti
i vantaggi su di noi nel raccontare la
propria storia… sono le loro mani che
hanno usato la penna…»
Jane Austen, Persuasion
Dedico queste rivisitazioni di donne a
mia nonna Giuseppina Sangiorgio, una
ragazza speciale, coraggiosa. Per lei,
a volte, vorrei credere alla persistenza
delle anime.
Queste storie fantastiche sono anche
per mia sorella Antonella.
Premessa
L’immaginario comune si nutre da troppo di racconti sulle donne
che mescolano storia e leggende e preconcetti derivati dal punto di
vista esclusivamente maschile. Le donne nella letteratura sono state
troppo a lungo descritte da uomini, che ne hanno disegnato profili
impietosi.
Christa Wolf sostiene che le donne sono più vicine alla quotidianità
della storia, mentre gli uomini ne coltivano solo i momenti topici,
eroici.
Ho provato a immaginare la quotidianità di alcune Signore della
mitologia classica greca da una prospettiva diversa. Nessuno sguardo
esaurisce una situazione, ma almeno aiuta a non essere categorici.
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Alcesti
Un uomo, Admeto, deve morire.
Gli dei accettano uno scambio: un’anima è un’anima, per loro.
Davvero il Sole sembrava non essersi accorto di nulla. Era salito
altissimo nel cielo, con il suo scudo rotondo arroventato o forse, pensò
Alcesti, fingeva che tutto fosse uguale, anche se non doveva aver visto
ancora simili cose sotto di lui.
Quella donna non pensava di doversi credere simile a una dea, soprattutto simile all’occhio onniveggente del Sole ma, ancora una volta
nella sua vita, provava il terrore abissale di stare sfiorando il divino.
Molti dicevano della presenza di un dio simile all’animo a precipizio su
una voragine o a un vento improvviso: il turbinio di aria in cui l’umano, infinitamente piccolo, fragile, limitato, non era neanche un soffio
calcolabile. O anche la nozione del vuoto in cui, le sembrava, anche il
Sole si sarebbe perso.
Il Sole. Lo fissò per guardarlo, almeno una volta, senza preoccuparsi di rimanerne accecata. Vide un cerchio più piccolo e rossoaranciato
che diventava, fissandolo, più scuro, quasi ambrato. Il cuore del Sole.
Il cuore della luce. Il cuore della verità.
Pensò agli occhi perfetti degli dèi che potevano fissarlo come un
oggetto qualsiasi. Pensò alla mente degli dèi che potevano dire vuoto, mancanza, eternità, senza averne paura, comprendendone senso e
dimensioni, e potevano parlarne tra loro come di argomenti qualsiasi.
Lei, invece, era tutta sola nella sua casa. Sola come nessun umano
poteva comprendere.
«Scegli».
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Carla Cirillo, Le mitomani favolose
E lei aveva scelto.
Poi erano arrivate le domande, ma per pura convenzione o per cortesia. Le più tristi erano state quelle fatte solo con gli occhi, senza
parlare. Certe lacrime, trattenute nell’incavo degli occhi come se gli
occhi soltanto volessero lacrimare, nonostante la fermezza della mente. Lei non aveva pianto che davanti a chi si aspettava che dovesse
piangere e poi aveva chiesto di restare un po’ da sola, nella sua stanza.
Richiesta incredibilmente piccola, paragonata alla condanna.
Lui, lo sapeva, era restato per un po’ nella casa. Nella stanza accanto. Poi si era fermato un po’ sull’uscio. Poi era uscito a fare il giro della
casa. Conosceva il suo passo e ancora aveva dovuto fare il tentativo di
separare una unità, da un filo solo farne due: dal ritmo del suo proprio
cuore, separare quello dei passi di lui: lui camminava e il suo cuore
lo seguiva, lui accelerava il passo, il suo cuore lo seguiva più rapido.
Passo-nel-mondo di quell’uomo che nessuno avrebbe detto il più bello.
Attesa di una donna nella stanza che non si sentiva la più coraggiosa.
Era preoccupata, Alcesti, del suo animo. Il suo animo sembrava più
grande di lei: era come se un fiume all’improvviso avesse scoperto
di dover contenere una enorme portata di acque. Il fiume ne avrebbe
avuto paura, come lei ne aveva paura. In lei un animo di lei più grande.
Alcesti, mantieni l’orgoglio, si diceva, stringendosi le braccia intorno
al corpo. Non irritare gli dèi. Non inquietarli. Invoca la loro pietà. Loro
sono più grandi di te. Loro hanno deciso.
«Scegli».
E lei aveva scelto.
Ma l’orgoglio montava, come la piena del fiume nel letto improvvisamente stretto. Seduta sul suo letto Alcesti non piangeva. Non pensava. Non soffriva. Era calma di una calma che non può essere concessa
facilmente agli umani. Udì il passo dell’uomo e quello più piccolo di
un bambino che lo seguiva. Sentiva allora le fasi del suo cuore: quando
Alcesti13
li vedeva camminare, uomo e bambino insieme, nel suo corpo si disegnava la mappa di un cuore e di quello che lo animava: folle corsa del
sangue a rincorrersi a precipizio nelle braccia, nelle gambe, sul volto.
Il suo sangue. Il suo sangue. Un turbinio violento di vita che stordiva
e faceva tremare le gambe. Adesso era di nuovo umana: gli dèi sanno
misurare la gioia.
Poi, improvvisa, una rabbia tignosa la prese allo stomaco, proprio
dove teneva incrociate le braccia.
Si alzò e andò alla finestra.
L’uomo si fermò vedendola e lei, guardandolo, sfiorò, come faceva
da tempo senza dirlo, per non irritare gli dèi, il senso del divino. Non
completò neanche il pensiero che diceva: un divino morente, un divino
che potrebbe morire… Forse lui era un segreto e glielo avrebbe detto.
Ma quel bimbetto…
Vedendola alla finestra, il bambino smise di trotterellare e si fermò
con le braccia distese lungo il corpo. Stette fermo senza sollevarle
verso di lei, come avrebbe fatto in qualsiasi altro momento.
L’uomo si accovacciò davanti a lui e gli chiese perché non correva
verso sua madre.
Il bambino la guardava. La fissava con occhi duri.
Allora Alcesti gli fece cenno di andare da lei e lui, con passo improvvisamente sicuro, come se fosse cresciuto di un secolo in un solo
istante, andò verso l’ingresso della casa, dove Alcesti lo attendeva.
Il bambino arrivò da lei, lei lo prese per mano e andarono lentamente nella stanza grande, accanto al letto.
Alcesti lo fissò a lungo, senza fargli carezze. Pensò che quel bambino era grande. Che capiva. Tutto l’amore che lei provava, era lui. Fuori
di sé, di fronte a lei, in piedi sul suo letto, con una faccia da bambino
e due occhi da uomo antichissimo che la fissavano.
Il bambino le sorrise con le labbra, mentre i suoi occhi continua-
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Carla Cirillo, Le mitomani favolose
vano a fissarla seri. Alcesti ringraziò gli dèi perché lui conosceva solo
poche parole e non poteva dire quello che sentiva. Allora il bambino
cominciò a camminare nella stanza e Alcesti vedeva muoversi tutto
quello che provava fuori di lei e vedeva il suo sangue placato nella
mescola esatta di Admeto e, presa da una furia disperata, andò verso
il piccolo e si mise a guardarlo in faccia per vedere dove il suo piccolo
occhio somigliava al suo, dove il naso era quello di Admeto e se era
dell’uomo la forma di quelle piccole orecchie e se era il suo o il passo
di Admeto nelle sue gambe. Sollevò di nuovo il bambino sul letto. Il
piccolo ora sorrideva ma aveva paura. Alcesti lo abbracciò e lui sentì
che quell’abbraccio diceva: «Io ti amo ma ti odio con una forza uguale
al mio amore perché tu sei me e lui insieme, come io non potrò mai
essere e io sono umana perché provo questo odio insieme all’amore e ho
invidiato al mondo quello che tu vedi con i nostri occhi insieme e con
le nostre orecchie insieme e dirai parole con la nostra lingua e sentirai
il corpo che era il nostro, come noi, da soli non potremo mai essere.
Questo è stato possibile una sola volta nel mondo. Niente potrà essere
uguale. Ma io ho toccato la mia anima, che è mia ma non mi appartiene
perché è bella e somiglia a un bambino».
Il bambino si strinse a lei perché aveva paura di lei e il suo abbraccio fu dosato dall’amore e dalla comprensione. Stretti, uniti, loro
somigliavano a Admeto che, fermo nel giardino, si sentiva svuotato
di sé e avrebbe voluto stringerli entrambi, sognando braccia forti e
infinite.
Alcesti lasciò la stretta. Il bambino tornò bambino e disse che aveva fame. Voleva fare capricci, perché aveva toccato qualcosa di grande
e ne era stato spaventato.
Alcesti aprì la finestra e vide che Admeto la stava aspettando. Gli
passò il bambino che aveva fame e lo diceva come una filastrocca.
«Io sono la donna più orgogliosa del mondo» gli disse, come parole
Alcesti15
d’amore, e si chiese se il dono estremo di Admeto era quello di non
parlarle del divino che era in lui, anche se di terra.
E là dove chiunque avrebbe atteso lacrime, si videro un uomo e
un bambino affamato che abbracciavano l’aria e parlavano di ciò che
stava per morire, con un ineffabile sorriso di complicità sulle labbra,
spaventosamente uguali di forma e di sorriso.
Quindi il bambino inciampò in un uomo gigantesco che lo prese in
braccio.
«Chi sei?» gli chiese il piccolo, toccando la sua pelle di leone e
tentando di prendergli la clava.
«Ercole» rispose l’ospite «sono venuto per farti un regalo che neanche gli dèi possono accettare».
Tutti e due avevano fame e compiti belli da svolgere.