Le origini dell`arte iconografica

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Le origini dell`arte iconografica
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La pittura iconografica e le sue origini
Così scrive Leon Battista Alberti nel suo “De Architettura”: “Gli egizi
affermano fra loro bene anni se’ milia essere
la pittura stata in uso prima che fusse traslata
in Grecia”- tesi che sembra oggi essere
confermata dalle ultime scoperte
archeologiche avvenute in Egitto.
Ma l’origine della pittura è ancora più
antica, si può addirittura risalire agli albori
dell’umanità quando l’uomo si serviva
dell’immagine per la ricerca di un linguaggio
grafico teso a stabilire un contatto con il
divino, con lo scopo di rendere reale la
presenza di ciò che raffigurava.
Le prime manifestazioni della capacità
espressiva dell’uomo sono da ricercare intorno al Paleolitico. L’etimologia del
termine Paleolitico, dal greco “palaios” che vuol dire “antico” e “lithos”,
“pietra”, ovvero “età della pietra antica”, mette in evidenza quel lungo
periodo preistorico caratterizzato dall’impronta umana sulla roccia.
Le due principali aree geografiche, in cui
apparve quella particolare creatività
artistica, furono la franco-cantabrica e la
mitteleuropea, ma possiamo ritrovare
un’espressione di graffismo non molto
dissimile anche in Siberia, in India, in
Brasile, in Argentina e perfino nell’estremo
sud dell’Australia. Queste notizie fanno
supporre che nel Paleolitico diverse
popolazioni abbiano fatto riferimento ad
un’“unica matrice” artistico-sapienziale, che poi si è sviluppata in parallelo in
diversi continenti del mondo, pur mantenendo la propria caratteristica
individuale.
Anche la Mesopotamia e l’Antico Egitto, già a
partire dall’età paleolitica, conobbero fenomeni di
civilizzazione, ma sarà la scoperta dei metalli ed il
lento passaggio dall’utilizzo di arcaici strumenti in
pietra a quelli forgiati in rame, bronzo e poi in
ferro, a portare un notevole contributo di progresso
a questi due paesi.
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Con la scoperta dei metalli nasce la scrittura e con essa si passa praticamente
nella storia delle grandi civiltà.
Nel 3000 a.C. in Mesopotamia,
nella valle tra il Tigri e l’Eufrate,
ed in Egitto, lungo le sponde del
Nilo, compaiono le prime così
dette “civiltà idrauliche” che,
sfruttando le acque di quei fiumi,
iniziarono un processo di
urbanizzazione che portò sviluppo
non solo all’economia del paese,
ma anche a scienze quali la
matematica, l’astronomia,
l’astrologia, la geometria e
l’ingegneria. Nei secoli successivi a questi due paesi si affiancheranno altre
civiltà nate nel bacino del Mediterraneo e nell’Asia Minore che daranno vita
a degli insiemi organizzati sia dal punto di vista politico che artisticoculturale.
Tra il IV ed il III secolo a.C. in Egitto viene ritrovata la Tavola di Smeraldo o
Tavola Smeraldina attribuita ad un grande personaggio che compare nella
storia dell’umanità per lasciare un pensiero filosofico-religioso innovativo,
caratterizzato da una spiccata impronta ermetica: Ermete Trismegisto, il dio
Thot per gli Egiziani, il “Tre Volte
Grande Maestro”, depositario di una
sapienza antica custodita e rivelata agli
uomini dalle epoche più remote.
Il suo famoso assioma -“ciò che è in
basso è come ciò che è in alto per
compiere le meraviglie della cosa
unica” - impresso su quella lastra di
smeraldo ed il Corpus Hermeticum, il
manoscritto nel quale racchiuse
l’essenza dei suoi preziosi insegnamenti,
portano la testimonianza della sua
grandezza.
Non si sa praticamente niente della sua vita ma si presuppone che la sua
apparizione possa risalire all’epoca di Mosè. Gli Egizi gli attribuirono
l’invenzione dei geroglifici quale espressione visibile dell’invisibile, secondo il
noto assioma ermetico da lui formulato; quest’attribuzione fu confermata
anche da Tertulliano e Lattanzio che lo definirono “perfettamente dotato di
ogni sapere”, inventore dell’alfabeto e di tutte le arti e le scienze.
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Con Ermete la parola assume una sua sacralità ed un suo simbolismo
figurativo impenetrabile per molti, ma ben comprensibile per chi aveva
acquisito la giusta chiave di lettura.
Il ritrovamento in una necropoli
ad Abydos di placchette d’osso e di
argilla risalenti al 3400 a.C.
sembra confermare la nascita dei
primi caratteri ideogrammatici in
Egitto e non in Mesopotamia come
sempre si era creduto. Questa
scrittura si presenta complessa,
fatta di segni che velano dietro
all’immagine l’idea simbolica che si
voleva rappresentare.
N e l g e ro g l i fi c o
egizio lo scritto si sposa con l’immagine e segni e disegni
diventano un mezzo comunicativo di alta potenzialità,
tanto da venir praticamente monopolizzato dai sacerdoti
per renderlo sempre più segreto ed esclusivo.
La pittura diventò così una pratica religiosa e gli artisti
vennero educati a seguire regole e canoni precisi affinché
ogni elemento raffigurato rispondesse a sacri significati. Il
vero artista era dunque colui che, oltre ad avere l’attitudine
necessaria, possedeva una solida cultura religiosa che
esprimeva in una tecnica pittorica stilizzata e sintetica, ma
di grande valore simbolico.
Nell’Antico Egitto ogni opera
artistica era considerata
l’espressione non del singolo
individuo, ma di una collettività
che si riconosceva in essa. Infatti
nelle fasi esecutive di
un’importante raffigurazione, il
progetto veniva affidato al
Maestro mentre le altre
operazioni venivano assegnate
ad una equipe di artisti: ogni
artista era specializzato in un lavoro diverso ma, tranne rarissime eccezioni,
mai veniva posto il suo nome al termine dell’opera.
L’arte egizia risponde al bisogno di descrivere l’ambiente circostante
attraverso precise convenzioni simboliche, o canoni, in modo che il
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messaggio possa arrivare chiaro ma al tempo
stesso pregno di sacralità. Secondo il grande
Ermete, l’Alto si riflette nel Basso e ad un
“ordine” Divino deve corrispondere un ordine
geometrico-raffigurativo.
Con il termine canone quindi si intende un
insieme di norme codificate che permettono di
dare dimensione e proporzione ad una forma
che riproduca questo concetto non solo
nell’architettura ma anche nelle arti figurative.
Nella pittura egizia le immagini ed in particolare
quelle umane, vengono rappresentate con una
stilizzazione fissa, servendosi di un reticolo,
ovvero di una maglia di linee che definiva un
campo quadrettato,
dentro al quale le figure trovavano la loro precisa
costruzione. Tale reticolo subirà nei secoli una
sua evoluzione e passerà ad un aumento da 18 a
22 piccoli quadrati per fissare, con sempre
maggiore ordine ed esattezza, il soggetto che si
voleva riprodurre.
Su parete il reticolo veniva ricavato da una
battitura di fili secondo un preciso criterio
ordinatore: una cordicella intrisa di pigmento
rosso veniva fatta battere
s u l l a s u p e r fi c i e d a
affrescare in modo da
lasciarne traccia e così
per il resto della griglia;
gli eventuali schizzi che
potevano avvenire sarebbero poi stati ricoperti dalle
sovrapposizioni degli strati di colore.
I dipinti venivano eseguiti oltre che su parete anche
su papiro, su ceramica e su legno; in questo caso la
dimensione della casella del reticolo si riduceva a
pochi centimetri e l’abbozzo veniva realizzato con
ocra rossa diluita.
La figura umana quindi inserita in quegli schemi quadrettati, seguiva delle
regole precise in modo che in quella maglia ortogonale fossero rappresentate
tutte le parti del corpo. Per realizzare una figura in piedi si divideva il foglio
di papiro in 18 o 22 sezioni e le prime tre righe di quadrettatura servivano
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per delimitare l’area compresa tra la
fronte e il collo; i successivi 10 quadrati
erano per la zona che andava dalle
spalle al ginocchio ed infine gli ultimi
cinque per gli arti inferiori.
La testa veniva riprodotta di profilo,
mentre l’occhio ben aperto e vigile era
frontale; anche le spalle e il petto erano
a vista frontale, invece gambe e piedi
venivano disegnati di profilo per
indicare la direzione del movimento.
Ogni particolare del corpo aveva una
sua misura: se la figura era in posizione
di quiete la distanza tra un piede e
l’altro era di 4,5 quadretti, se invece si
voleva raffigurare in movimento,
quella distanza veniva praticamente
raddoppiata. Quindi il metodo che si
utilizzava per stabilire le dimensioni di
ogni parte del corpo, si fondava sull’utilizzo di un modulo o “quadretto base”
che veniva moltiplicato tante volte a seconda della sezione che si voleva
riprodurre; questi schemi assumevano una maggiore rigorosità quando si
trattava di opere celebrative a carattere iniziatico.
Ogni figura trovava una sua postura rigida, ma anche stabile e solenne ed i
volti erano raffigurati calmi e sereni; i personaggi umano-divini venivamo
riprodotti quali esempi di giovinezza e prosperità, niente doveva far pensare
alla malattia o alla vecchiaia. Invece i soggetti
inseriti nell’ambiente circostante, pur
seguendo lo stesso schema-griglia, venivano
dipinti con uno stile più naturale e di
dimensione più ridotta per mostrare la loro
minore importanza rispetto alle figure
protagoniste.
Anche nella tracciatura dei reticoli era
consentita una certa elasticità: si potevano
avere reticoli più fitti quando serviva una
maggiore precisione del dettaglio oppure
limitarne l’utilizzo solo per le figure principali.
Questa tecnica rimarrà in uso fino al regno di Tutankhamon e poi si perderà,
ma fino a quel momento la propensione per il reticolo resterà il punto fermo
che unirà l’arte all’idea religiosa che pervase tutta la cultura egizia di quei
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secoli: la vittoria dell’ordine sul caos, una lotta cominciata all’inizio dei tempi
e destinata ad non avere mai fine.
Al tempo della XVIII dinastia (1295-1150 a.C.) la grafica del progetto
pittorico era organizzata come
l’impaginazione di un testo:
segno e disegno perseguivano
un fine comune non solo
artistico-simbolico, ma anche di
carattere comunicativo.
Lo scopo era di dar vita ad
immagini durature che in
qualche modo trascendessero la
Natura e la figura umana con
l’intento di perpetuare un
linguaggio figurativo, segreto per la massa, ma ben comprensibile per chi era
addentro a quella Dottrina. Non dimentichiamo che Mosè studiò nei collegi
iniziatici egiziani prima di condurre fuori dall’Egitto il popolo ebraico e
mettere per scritto la sua Sapienza, e che Pitagora dimorò in Egitto per più
di vent’anni entrando in contatto con la cultura misterica di quelle scuole
iniziatiche, quindi come non pensare che anche la
tecnica pittorica non seguisse quei precisi schemi?
Gli artisti egiziani dipingevano per lo più con
pigmenti naturali provenienti dal regno animale,
vegetale e minerale, ma anche con colori sintetici
ottenuti mediante particolari procedimenti alchemici.
Il pittore sapeva bene che ogni pigmento che
proveniva dai tre regni era vivo ed aveva un’anima e
che era la sua mano a caricarlo di una buona o
cattiva energia;
ecco perché nell’Antico Egitto il
promettente artista veniva cresciuto
fin da piccolo con una cultura
religiosa dai precisi significati
simbolici.
Nel tesoro di Tutankhamon, ad
esempio, è stata ritrovata una scatola
di colori contenente polvere di gesso,
orpimento, ematite e malachite ed
andando ad esaminare la simbologia
di quei colori si intuisce bene che
l’idea che si voleva perpetuare era di
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purezza e rigenerazione.
Di solito i pigmenti di origine naturale più utilizzati erano le
ocre nei colori giallo e rosso, ma anche
l’azzurrite, la malachite, i lapislazzuli
derivati dalle omonime pietre ed infine
l’indaco e la robbia ottenuti dalla
macerazione delle piante Indigofera
tinctoria e Rubia Tinctorum.
In epoca molto più tarda, nel papiro di Stoccolma e nel
Papiro X di Leida, ritroviamo ricette per la
preparazione di coloranti risalenti al III e IV secolo d.C.
In questi due papiri, scritti in lingua greca, sono
contenuti importanti testi alchemici con all’interno un
ricettario tecnico che descrive i procedimenti pratici da adottare per ottenere
i pigmenti e leghe simili all’oro.
Gli Egiziani amavano molto il colore e lo consideravano parte integrante di
ogni singola immagine. La loro percezione cromatica era fortemente legata al
paesaggio in cui vivevano e la parola Iwen non esprimeva solo il concetto di
“colore” ma la sua essenza e la sua
funzione
altamente simbolica.
All’inizio i pittori disponevano di quattro colori
classici, gli stessi utilizzati nelle opere del Paleolitico e
ad ognuno di questi dettero un nome che legarono ad
una particolare simbologia: “kem” il nero, “hedj” il
bianco, “desher” il rosso e “uadj” verde. A questi
quattro colori si
affiancarono “khenet” il
giallo e “hsh” il blu egizio.
Con “kem” s’intendeva il colore nero, l’abisso,
l’oscurità primordiale che apparve prima che il
Sole si manifestasse; questo termine si riferiva
anche all’Egitto, alla Terra Nera, oscura ed
arida, ma intimamente collegata all’idea di
fertilità e rigenerazione grazie alle attese
inondazioni del Nilo.
Ecco perchè il nero, assenza di tutti i colori,
trovava assonanza con “uadj” o “wad” il
colore verde, simbolo della nuova vita e della
crescita.
Il dio Osiride, re dell’Oltretomba, veniva
chiamato “il nero”, ma spesso il suo volto
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veniva dipinto di verde per mettere in risalto l’idea di morte e Resurrezione.
Con “uadj” o verde s’intendeva anche
l’ambiente acquatico, dato che acqua e
vegetazione per gli Egiziani erano
praticamente la stessa cosa. Spesso
l’acqua veniva riprodotta adottando un
motivo a zig zag di colore nero alternato
con il blu, mentre quando si voleva
indicare ciò che accadeva sulla sua
superficie, si adottava una semplice linea
di profilo con uno sfondo verde pallido e
celeste; le piante acquatiche di solito erano verdi, ma a volte anche blu per
l’idea di rigenerazione a cui anche questo colore era legato.
Hedj o bianco, invece indicava la luce del Sole ed era associato alla purezza
rituale ed alla sacralità, dato che nei templi egiziani i sacerdoti vestivano di
questa tinta. Il Sole era ritenuto l’origine di
tutto il creato, datore di vita ed astro
splendente da cui derivava la percezione di
tutti gli altri colori.
Râ era il dio Sole e la sua manifestazione
terrena scandiva tre diversi momenti della
giornata mettendo in evidenza tre aspetti
differenti di un’unica Divinità: “Sono Khepri
al mattino, Râ a mezzogiorno, Atûm alla
sera”, si trova riportato sulle pareti dei
templi di Edfu e di Esna.
Khepri rappresentava l’alba, il “divenire”,
Râ il mezzogiorno, lo Zenit, il suo punto
culminante nel cielo ed Atûm il momento
del tramonto, quando l’astro è nel suo punto
più basso; al tramonto le luci si fanno rosse vermiglie per arrivare a spegnersi
nel buio della notte e nel “Duat”, o Oltretomba, che porta con sé l’idea della
morte ma anche di una nuova alba e
di una nuova vita.
Ecco che il termine “deshr”, il rosso,
assume il valore di fuoco benefico
inteso come potenza vivificatrice,
ma al tempo stesso anche di pericolo
perché, preannunciando le tenebre,
fa riflettere sui rischi connessi al
momento della perdita della luce.
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Per “desher” s’intende anche la Terra Rossa
del deserto ed il sangue, il sacrificio,
riproponendo la stretta relazione che vi è tra
la vita e la morte. I sacerdoti egizi, durante le
celebrazioni rituali erano soliti tingere il
corpo con ocra rossa e nell’antica tradizione
ebraica “tingere di rosso” assumeva il
significato di “ungere con olio”, “consacrare”.
Il colore giallo o “khenet”, che si otteneva
dall’ocra gialla, invece indicava tutto ciò che
è eterno ed indistruttibile e spesso è associato
all’oro ed al Sole mettendo in evidenza l’idea
di una Luce che viene rivelata.
Infine “hsh”, il blu egizio, chiamato
c o mu n e m e n t e b l u
pompeiano o “fritta”, viene considerato il più antico
pigmento sintetico prodotto dall’uomo. Si pensa che
la sua invenzione risalga al 3000 a.C. per la necessità
di disporre di un pigmento più stabile dell’azzurrite e
meno raro e pregiato del lapislazzulo. Il blu
simboleggiava l’unione del cielo e delle acque e
quindi la Sapienza divina nel suo aspetto creativoregale, ecco perché il dio Amon viene raffigurato con
il volto blu, ed è blu il copricapo che il faraone
utilizzava per determinate cerimonie.
I colori erano preparati con una miscelazione di
pigmenti ottenuti dalla macinazione di pietre e di
terre colorate e, per rendere più fluida e coprente la pennellata, si adottavano
leganti come la gomma arabica oppure la chiara d’uovo o una colla ottenuta
dalla bollitura di pelli animali.
Il colore veniva steso a “campitura
piatta”, in maniera uniforme
all’interno di una figura ben
delineata dal contorno, ma vi
erano anche eccezioni a questa
regola. Per dare una maggiore resa
naturalistica all’immagine a volte si
adottavano sovrapposizioni di
colori e velature che si ottenevano
seguendo mescolanze e diluizioni.
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Anche per la carnagione ci si avvaleva di una tecnica
particolare. Con lo scopo di renderla più luminosa si
inseriva tra uno strato e l’altro di ocra, l’orpimento, un
pigmento pregiato, di colore simile all’oro chiamato dai
romani “aurum pigmentum”; il suo utilizzo rendeva le
velature di un colore rosato-dorato particolarmente
adatto per i
volti femminili.
Nel caso dei
volti maschili
invece veniva usato il colore rosso,
riproponendo il duplice
simbolismo legato a questo colore.
Questo tipo di tecnica si chiamava
a “tempera”, dal latino “tempero”
che vuol dire“mescolare”,
“preparare” (mescolando) ed il
colore veniva steso con pennelli
ricavati dalle fibre di palma.
I pennelli avevano misure diverse: vi erano a spazzola larga, composte di
fibre di palma piegate ed assemblate con fascette, e
pennelli più fini in stelo di giunco che servivano anche
per i geroglifici; quelli a spazzola larga si utilizzavano
per stendere il fondo colorato, mentre quelli tondi, più
fini, servivano per la carnagione e quelli ancora più
sottili per le rifiniture.
Il pittore disponeva di
mortai in pietra abrasiva per
preparare i pigmenti ed una tavolozza comune
che conteneva ciotole dentro alle quali vi
trovavano collocazione i
colori ottenuti; una ciotola
d’acqua serviva per diluire i
colori ed il legante. Vi erano
anche due piccoli contenitori per il colori rosso e nero
che venivano utilizzati sia per le scritte, che per mettere
in evidenza i profili dei personaggi raffigurati.
Di solito era lo scriba che, depositario di un antico
sapere, si dedicava a quest’arte pittorica.
Nel Regno Antico gli scribi venivano scelti fra le
famiglie più nobili e l’insegnamento che era loro
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impartito si basava su uno studio filosofico,
religioso e scientifico che li metteva a conoscenza
di una sapienza che solo i sacerdoti potevano
acquisire; mantenere il segreto della loro
professione e tramandarlo solo a coloro che erano
in grado di recepirlo, era uno dei compiti da
conseguire. La loro crescita avveniva all’interno di
severe scuole specializzate il cui modello a cui
attenersi era il dio Thot, Ermete Trismegisto, dio
della scrittura e della saggezza e protettore di tutte
le Arti.
L’arte egiziana non dava spazio alla creatività
come noi oggi la intendiamo; per l’artista l’arte
non era sinonimo di “inventiva”, ma di “ben
fatto”. Solo un modello ideale perfetto unico ed
immutabile e quindi divino, poteva essere considerato tale e forse è proprio
per questo che l’Egitto per secoli ha riprodotto stili e modelli dalle
caratteristiche così ben riconoscibili.
Quando, nella pittura iconografica bizantino-russa, entreremo in merito alle
singole tecniche utilizzate ed alle relative simbologie, ci accorgeremo di
quante similitudini ed analogie intercorreranno tra quest’arte e quella egizia.
Iconografia, dal greco“eikòn”, vuol dire immagine e
“graphein” scrivere; ecco che ritorna il concetto di
una “scrittura” che si legge per immagini (come
quella egizia) e che segue precisi canoni simbolicopittorici che rimandano ad un ordine e ad un modello
“unico” Divino.
Dopo la venuta di Gesù Cristo anche in Egitto, per
opera di San Macario e
San Pacomio, monaci
anacoreti, nasceranno i
primi raggruppamenti
cristiani intorno al delta
del Nilo e quei luoghi
diventeranno la culla
dell’arte iconografica copta, ricca di elementi
attinti da quell’antica tradizione egizia.
Carl G. Jung, nel suo “L’homme et ses symboles”
riprende il già espresso concetto di quanto la
storia ci può ricondurre allo stretto legame,
sempre esistito, tra religione ed arte: “...è la
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testimonianza lasciata dai nostri antenati, dei simboli che hanno avuto un
senso e li hanno commossi.”
L’icona quindi attinge ad un antico passato, quando l’uomo fin dai primordi
della civiltà ha sentito il richiamo verso il mondo divino ed ha voluto in
qualche maniera riprodurlo per entrarne in risonanza e riceverne i benefici
influssi, ecco perché “l’immagine” o “eikòn” o icòna ha sempre assunto un
carattere sacro ed un costante immutabile linguaggio.
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Valle delle Regine “Tomba di Nefertari”
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