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Natalia Tedeschi
Mi chiamo Natalia Tedeschi, sono nata a Genova il 19 giugno del 1922. Sono di famiglia
ebrea, una famiglia della media borghesia piemontese, perché dal 1925 ci siamo trasferiti
a Torino. I miei fratelli, quando è stato il momento delle leggi razziali, erano tutti e tre
all'università; io nel 1938, avevo 16 anni e ho dovuto interrompere gli studi. E poi, con tutte
le varie vicissitudini della guerra, siamo sfollati con la mia mamma e la mia nonna a
Saluzzo, in provincia di Cuneo, sempre in Piemonte. Lì abitava una sorella di mia nonna e
allora pensavamo di essere abbastanza tranquilli in quella città,dove forse avremmo
anche evitato i bombardamenti.
Al momento delle leggi razziali, uno dei miei fratelli era andato con i partigiani, uno era
nascosto a Torino e l'altro è andato in Svizzera. Io sono rimasta sola con mia mamma e
mia nonna. Eravamo convinte di essere abbastanza in una botte di ferro, in quanto mio
fratello, che era nei partigiani, era venuto pochi giorni prima del nostro arresto a trovarci e
aveva detto non preoccuparci che qualsiasi cosa fose capitata,loro sarebbero venuti a
prenderci, cosa che non è potuta succedere e non è successa.
Mentre eravamo lì a Saluzzo, stavamo in albergo – era piccolissimo - un giorno, sono
scesa ne lla hall e sono arrivati due SS italiani, e sento che hanno detto: "Siamo venuti a
arrestare quella famiglia di ebrei". Io sono corsa immediatamente ad avvisare mia mamma
e mia nonna… Ancora adesso, penso che, forse, sapendo che eravamo lì, penso, ma con
molto ottimismo, solo adesso, che forse hanno voluto darci il tempo di metterci in salvo.
Essendo un alberghetto piccolissimo avevano solo da salire una piccola rampa di scale e
ci avrebbero preso. Siccome la nostra stanza, in questo albergo proprio minuscolo, aveva
una seconda uscita, che dava sulle scale, abbiamo raccolto le nostre poche cose e siamo
salite fin su al quarto piano, dalla gente del posto, che ci aveva dato ospitalità. Però
ospitalità per poche ore, perchè non potevano ospitarci per sempre. Allora si sono poi
convinti, compreso l'albergatore che era venuto in nostro aiuto, a chiamarci un taxi e a
farci accompagnare nella vallata. Siamo andati a Sanpeire, in valle Varaita, sempre in
Piemonte. Solo che lì, naturalmente, non sapendo che cosa sarebbe successo di noi
dopo, ci hanno messo un po' nella trappola dei topi, perché essendo nella valle si poteva
eventualmente andare su ma non si poteva più scendere.
Questo è successo nel febbraio del ‘44. Noi siamo state lì a Sanpeire, con mia mamma e
mia nonna, anche lì in un piccolo alberghetto, per un periodo di tempo, poi sono arrivati
tutti i partigiani su e noi, più che mai, ci sentivamo tranquille. Ce n'erano anche tanti, ben
armati e ben attrezzati, eravamo tranquillissime. Solo che, purtroppo, invece dalla valle,
sono arrivati i tedeschi… Hanno cominciato a salire nella vallata. Cosa potevamo fare? Ci
siamo portati, sempre con i partigiani, ancora un po' più verso il confine con la Francia. Lì,
però, c'è stata una carissima persona - un certo Flaminio Gazzano, che era guardia di
finanza, ci aveva visti a Saluzzo - che ci ha denunciati. Ci ha denunciati per la somma di
cinquemila lire, ai tedeschi che erano saliti su in vallata. Avevamo documenti falsi, ma
appena fatti, e poi, praticamente, no n avevamo mica niente da nascondere noi, siamo stati
un po' presi anche alla sprovvista… Appena arrivati, è arrivato il comando tedesco, e ha
detto: “Tenetevi a disposizione, che all'una di questa notte veniamo a prendervi”.
Allora sono venuti a prenderci, eravamo a Castel Di Fino, vicino al confine. Avevano
anche detto che io facevo parte dei partigiani, allora lì sarebbe stato ancora più grave per
me, perché forse avrebbero potuto ammazzarmi subito. Ci hanno caricati e ci hanno
portati sotto a valle a Venasca, dove siamo stati per tre o quattro giorni, non ricordo
esattamente, ospiti delle scuole di Venasca. Di notte dormivamo sui tavolacci delle celle di
sicurezza, insieme a tutti quelli che avevano rastrellato nella vallata. Una mattina,poi, ci
hanno caricati su un treno e ci hanno portati all'Albergo Nazionale a Torino, dove ci hanno
spogliato di quelle poche cose preziose che avevamo - perché avevamo ben poco - e
dopo ci hanno trasferito alle Carceri Nuove di Torino. Questa era la sede del comando
delle SS. Lì poi ci han fatto un brevissimo interrogatorio, perché c'era poco da chiedere,
eravamo ebree, mica ci eravamo nascoste sotto altri nomi, e non sapevamo, per fortuna
forse, cosa il destino ci avrebbe ancora riservato. Alle Carceri Nuove di Tori no, dove
siamo state per venti giorni. Io ero in cella con mia mamma e mia nonna. Quelle celle
tremende, perché eravamo proprio in carcere stretto e solo la compagnia con delle
cimici… Ce n'erano a profusione specialmente di notte. Poi avevamo un'ora di aria, e io
tanto per togliermi dalla cella, la sera andavo a sentire la messa, anche se a me non è che
interessasse molto la messa, ma era tanto per togliermi dalla cella. Nella chiesa delle
carceri c'erano tante piccolissime cellette, come fosse stato un alveare, e c'erano tante
piccole finestrelle ovali, dove si potevi stare unicamente inginocchiati su un'asse di legno.
Sono passati così venti giorni, sino a quando, un mattino, non ci hanno caricato su un
pullman, o meglio un camion, e ci hanno portate a Porta Nuova. Con il treno siamo arrivati
a Fossoli, nel campo di raccolta di Fossoli.
Questo è avvenuto, io penso, i primissimi giorni di marzo. A Fossoli siamo state venti
giorni, senza naturalmente sapere, con incoscienza assoluta, cosa sarebbe stato di noi,
senza avere notizie dei miei fratelli: non sapevo assolutamente niente. Vivevamo proprio
in una specie di torpore, in un'incoscienza, ma non solo noi tre - io, la mia mamma e la
mia nonna - ma tutti…
A Fossoli ci hanno messi nelle baracche. Siamo rimasti nel campo dei razziali venti giorni.
Se ripenso, adesso, a distanza di tempo, lì era, non dico proprio un paradiso, ma
confronto a quello che ci aspettava dopo, poteva essere, non so, una pensione, una
buona pensioncina. Siamo stati lì, poi, altri venticinque giorni, con un trattamento… Non si
lavorava, c’ era da mangiare a sufficienza, avevamo ancora i nostri vestiti, le nostre cose.
Una mattina ci hanno caricati su dei carri bestiame, siamo partiti per una destinazione
ignota, di cui non si sapeva assolutamente. Da quel poco che avevamo saputo, si pensava
di andare in Germania, in un campo di lavoro, perché tutti, pur non sapendo niente,
dicevano che la nostra fine sarebbe stata quella.
Dal campo di Fossoli, ci hanno portato alla stazione di Carpi: lì è stata l'ultima volta, in cui
ho visto mia nonna. Perché mia nonna avendo mantenuto come cognome, quello da
sposata, cioè Sacerdote, è salita sul vagone prima di noi, che ci chiamavamo Tedeschi e,
così, non l'ho più vista. Io sono rimasta con la mia mamma…Venivamo divise per ordine
alfabetico, ci chiamavano per ordine alfabetico.
Questo transport è avvenuto il 16 maggio, ed è stato il transport più lungo che c'è stato,
perchè ad Innsbruck è stato diviso il convoglio, e noi abbiamo impiegato ben otto notti e
sette giorni, e io sono arrivata a Birkenau il 23 maggio. Nelmio vagone eravamo…Saremo
stati più o meno un’ottantina…Tutti stipati…
Di tutto questo ho un ricordo un po'… Quello che rimpiango molto, è che tutte queste
cose… Se avessimo potuto dirle, allora, appena tornate, con la memoria più fresca, e con
tutti i ricordi più freschi …La cosa sarebbe stata diversa. Rimpiango moltissimo che questo
interessamento per noi, sia arrivato adesso, quando noi siamo proprio ormai al lumicino…
Saranno stati motivi politici, saranno stati motivi, che noi non sappiamo, ma io…Anche il
viaggio che ho fatto ad Auschwitz con queste carissime insegnanti di Moncalieri…Per i
loro allievi hanno dovuto documentarsi, perché a loro volta non sapevano assolutamente
niente, ma sono stati bravissime, perché hanno fatto delle dispense, delle cose eccezionali
per questi ragazzi…A scuola finisce tutto alla prima guerra mondiale. Della seconda
guerra mondiale assolutamente niente.
Sono arrivata a Birkenau di notte. Il vagone è entrato dentro, lì sulla banchina. Siamo stati
nei vagoni fino al mattino dopo,
e quando ,poi, hanno aperto il portellone del carro
bestiame da cui siamo scesi… Tutti questi ordini in tedesco, che non si capivano; abbiamo
solo capito che dovevamo lasciare lì tutti i nostri bagagli, perché qualcuno - forse qualche
interprete o qualcuno dei prigionieri, che sapeva il tedesco - aveva capito che le nostre
cose ci sarebbero, poi, state restituite in un secondo tempo. E noi anche lì ci abbiamo
creduto. Poi hanno diviso immediatamente le persone giovani, da quellle meno giovani; gli
uomini dalle donne; quelli che potevano entrare in campo o meno. Io avevo sotto braccio
mia mamma - la mia mamma che non aveva ancora cinquant’ anni, ne aveva
quarantanove - che mi è stata proprio strappata dal braccio… E’ una sensazione che ho
ancora adesso: sento questo braccio che trema, e che mi viene staccato di dosso. Io sono
andata nel gruppo di quelle che entravano in campo e mia mamma, senza che io me ne
rendessi conto, è stata divisa.
Quando poi sono entrata in campo, dopo che ci avevano tolto tutto, completamente: anche
i vestiti che avevamo addosso… Tutto, completamente, quel poco che c'era rimasto … Ci
hanno tatuato il numero sul braccio - il mio numero è A5404 - e siamo entrati nel campo.
Io appena entrata nel campo, dopo pochissimo, forse il giorno dopo o il giorno stesso,
vedo nel campo mia cugina, Giuliana Tedeschi, che era stata deportata con mio fratello
Vittorio, che era nei partigiani ed era stato denunciato da un suo amico che era nei
partigiani con lui e che l'ha denunciato come ebreo. Poi, il destino ha voluto che lui sia
morto il 25 aprile, il giorno della liberazione a Mauthausen e questo amico che l'ha
denunciato - non so per quali motivi, non l'ho mai voluto sapere - è morto a sua volta a
Mauthausen: evidentemente qualcuno ha denunciato anche lui.
Entrando nel campo, ho visto mia cugina che era stata… Era venuta a Birkenau col marito
e a Fossoli si era trovata anche con mio fratello, che tra l’altro, oltretutto, aveva anche un
braccio ingessato al collo. E mia cugina entrando
mi ha chiesto:” Sei sola?", io ho
risposto: "No, sono arrivata con mia mamma e mia nonna, ma la mamma e la nonna sono
andate in un altro campo". E lei mi ha detto subito: ” Toglitelo dalla testa, perché di altri
campi non ce ne sono”.
Allora sono entrata nel campo, il femminile di Birkenau, penso nella baracca numero 10,
che c'è ancora oggi. Ma a distanza di tanti anni… Tante immagini si sovrappongono, poi
dei ricordi sembrano nitidissimi…Per me, qualcuno lo è senz'altro, altri, invece, non lo
sono. Appunto perché sono passati troppi anni. Ad esempio, mi ricordo benissimo, come è
avvenuta l’immatricolazione: c'era una, addetta a questo lavoro, che aveva una piccola
penna in mano con un pennino, che finiva con uno spillo, che veniva intinto in un
inchiostro speciale. In quel modo veniva tatuato il braccio… Eravamo in piedi, non c'erano
mica sedie: eravamo messe su questa specie di scrivania, di tavolo, che c'era lì.
Entravamo così, perché i nomi lì non esistevano mica, li abbiamo dimenticati, almeno loro
li hanno dimenticati completamente. Man mano che si… Siccome eravamo tutti
incolonnati, man mano che si passava davanti a questa, che faceva i tatuaggi… Poi si
andava alle docce… E, dopo,c’era la vestizione…La vestizione è stata una cosa tragica…
I vestiti erano stracci, non avevamo divise, assolutamente niente. Io per tutto il tempo, in
cui sono stata a Birkenau, ho sempre avuto una scarpa e uno zoccolo, non ho mai avuto
un paio di scarpe uguali. Avevamo degli stracci addosso, proprio stracci ! Ci veniva tolta
la roba, che portavamo con noi, e veniva mandata tutta in Germania, e ci venivano dati
degli stracci proprio: quelli che erano inservibili per altri, servivano per coprire noi. Io mi
ricordo che una mia amica, era arrivata persino a ridere in quella tragedia - poveretta era
del mio trasporto mi pare, anzi no, l'ho trovata lì – perché al momento del prelevamento,
aveva un abito da sera. Quello era proprio il massimo spregio.
Oltre al tatuaggio mi hanno dato il numero da mettere sul vestito. Non mi ricordo però del
triangolo, ricordo il numero… Non ricordo né la stella né il triangolo, però non bisogna
prenderlo come oro colato, perché sono delle cose che a distanza di mezzo secolo si
possono anche dimenticare.
Nel blocco con me c’erano solo deportate per motivi razziali. Le capoblocco erano tutte
polacche terribili, terribili, sì sì le capoblocco… Erano tutte razziali: c'erano francesi,
c'erano italiani… Sono andata a dormire con le francesi, ho imparato anche il francese, e
combinazione la mia vicina - posso dire di letto, quella che dormiva vicino a me - era nata
il mio stesso giorno e il mio stesso anno, era la mia gemella, una certa Susanne… Sono
stata lì e, poi, mi pare, abbiamo cambiato blocco… Eravamo in questi castelli, dove si
dormiva in dodici con un'unica coperta, dove si stava, naturalmente, di fianco perché non
potevi star di schiena di sicuro… Poi, a metà nottata, ci si girava tutti, e quella mia amica
di Venezia, eravamo sempre state vicine, sempre assieme… Allora le dicevo: "Guarda ti
ho portato nel mio ventre per tanti mesi, sei come una figlia" perché eravamo tutte con le
ginocchia piegate infilate una dentro all'altra… A metà nottata ci si girava…Con quei pochi
stracci che avevamo, la sera, quando si andava a letto, facevamo un fagottino e lo
mettevamo sotto alla testa. Una volta me l’hanno hanno rubato, di notte. La mia
disperazione era terribile, ho detto :"Come faccio domattina, non posso mica presentarmi
nuda all'appello?!", poi non so in quale modo l'ho recuperato, era stato qualcuno che poi
me l'ha ridato. Mi avevano rubato le mutande, e sono stata per tre mesi, credo, senza
mutande. Avevamo tutte, poi, una specie di camiciola sotto, un vestito e basta, queste
scarpe spaiate e basta. Non avevamo altro, e poi … Quando ero nel Revier, mi sono
caricata di pidocchi, ma proprio da toglierne a manciate…Pidocchi, da tutte le parti: tra le
braccia, in testa… Allora mi hanno poi rapata a zero. Solo allora, non quando sono
entrata, ma dopo, perché ero piena di pidocchi. Quando sono entrata nel campo, cioè il
23 di maggio io avrei dovuto avere il ciclo il 24, ma mi è cessato completamente di colpo.
Può darsi che fosse per un’ infezione, che mi è venuta alla gamba, come conseguenza di
quello … Io do ,però, una versione un po’ semplicistica, magari, sulla reale causa…So
solo che hanno cessato di colpo, di colpo… Penso, che sia stata una conseguenza quella.
Come sono entrata in campo mi avevano detto tutte: “Ricordati di morire in campo, se devi
morire, ma non andare al Revier! Perché se vai al Revier non esci più”. E io
disgraziatamente, ho avuto una infezione alla gamba tale, che non camminavo più: ho
dovuto andare al Revier per forza.Mi sono detta: “Tanto per morire qui vado a morire nel
Revier”. Ho cominciato con una piccola vescichetta sulla caviglia, che, poi, nel giro di
ventquattro ore è diventata una cosa enorme: la gamba è diventata enorme, avevo
un'infezione terribile. Ho pensato:”Camminare non posso camminare, vado in Revier".
Dopo pochissimo che ero arrivata a Birkenau, proprio due o tre giorni… In quei due o tre
giorni, in cui ero lì, il nostro lavoro era stato quello di trasportare pietre. Trasportavamo le
pietre: da un mucchio lo portavamo lontano in un altro mucchio, poi viceversa … Sono
entrata nel Revier, ho detto: "Se è la mia ora"… A parte il fatto che l'idea della morte non
c'era mai, forse perché eravamo molto giovani, forse sarà stato pure quello… Non è che
avessi la convinzione di morire, era tanto per dire qualcosa. Allora sono entrata in Revier,
sono stata seduta su una specie di sedia, con la gamba alzata, e ho fatto per terra una
pozza di sangue, di pus, di tutto quanto; mi hanno messo intorno alla caviglia della carta
igienica, e poi mi hanno mandato nuda come un verme in quei castelli di legno con una
che aveva il tifo. Tutte e due nude per dieci giorni, nude completamente, con questa che
aveva il tifo
e che naturalmente si sporcava in continuazione e un'unica coperta. E
quando ho chiesto - mi son fatta capire - quando avrei potuto cambiare quella
medicazione - chiamiamola pomposamente medicazione - mi hanno detto: "Fino a martedì
non si cambia"- era venerdì quando sono entrata in Revier-. Si può ben immaginare quella
carta, cosa era diventata: se l'infezione c'era prima… Immaginarsi dopo quelle cure…
Sono stata nel Revier immobile per quaranta giorni e per ogni singolo giorno, tutte le
mattine, è entrato Mengele… Era l'angelo della morte, elegantissimo, un bellissimo uomo,
elegantissimo col frustino in mano, con cui segnava nei vari castelli, chi doveva andare
alla selezione. Non so se dietro qualche segnalazione dei più gravi… Però andavano, le
selezioni avvenivano così. Chi doveva andare alla selezione, chi doveva morire, era
messo in un blocco particolare per tre giorni, e per tre giorni aveva un supplemento di
viveri. Uno dice perché? In campo c'erano tanti perché ma non c'era nessuna risposta a
questi perché.
Andare alla selezione voleva dire che si era segnati, predestinati per andare ai forni
crematori. Ti mettevano in un blocco particolare, ti davano questo supplemento di vitto, e
poi dopo c'era … Di notte e sentivi tutte queste creature, caricate sul camion, che urlavano
perché sapevano che andavano a morire. C'era una certa Vanda Maestro, di Torino - non
so se l'avete sentita nominare, che era ebrea, e credo che fosse anche partigiana - che è
morta in quel modo lì. La cosa tremenda è che, quando sei in quel blocco per tre giorni, tu
sai che devi andare ai forni crematori. C'era questo block particolare, da cui non potevi
uscire, assolutamente neanche a fare pipì fuori, perché fuori dalle baracche c'erano questi
contenitori che… Guai a te se arrivavi come ultima, dovevi prendertela e andarla poi a
svuotare nel waschraum.
Quando, poi, sono uscita dopo quaranta giorni, miracolosamente, dal Revier…
Naturalmente non riuscivo a camminare, perché
dopo quaranta giorni di immobilità…
Sono uscita ancora con una cicatrice lunga cinque-sei centimetri, una ferita aperta, e mi
hanno messo in un blocco di francesi, dove c'erano anche delle italiane. C'era un'italiana
di Venezia, l'Enrichetta Polacco - non so se l'avete sentita… Poverina, adesso non può più
testimoniare…Era un tipo in gambissima, con una grinta - . Era arrivata già due mesi
prima, sapeva come si svolgeva la vita nel campo. Io mi era lasciata andare, perché
uscendo dal Revier, non avevo più forze, non potevo stare in piedi e quando mi sedevo
per terra , logicamente, avevo tutte le ossa che scricchiolavano come se fossero state
senza lubrificazione . E questa ha parlato con una certa Rosi, una polacca, che lavorava
alle cucine, l'ha impietosita - era una polacca, questa era una internata - e le ha detto:
"Senta, faccia venire anche la mia amica a lavorare con me", così mi ha lasciato andare…
Lei da buona veneta mi diceva:"Vergognati, guardati, con tutta quella ciccia che ti gà, se ti
devi far questo, muoviti, lavati". Veramente, le devo molto, perché proprio mi ha dato una
scossa. Dopo essere entrata nel campo, sapendo che mia mamma e mia nonna erano
passati per il camino - l'ho, poi, saputo mentre ero nel Revier, non l'ho saputo subito - ho
pianto un giorno e una notte consecutivi, da allora non so più piangere, assolutamente. Mi
posso commuovere, ma le lacrime niente, assolutamente non piango più. E allora sono
andata a lavorare nelle cucine. Il lavoro consisteva… Era un lavoro anche abbastanza
fortunato, perché prendevamo i bidoni di zuppa … Quei bidoni con ai lati, quelle lamiere
per infilare i bastoni dentro. E portavamo da mangiare al Revier. Io non sono mai uscita
dal campo a lavorare, e quella è stata una fortuna. Oltretutto non è che fosse un lavoro
continuativo, si portava nelle ore dei pasti. E qualche volta, ma molto molto raramente, ci
restava qualcosa sul fondo del barile, ma proprio pochissimo. E andando in Revier una
delle cose… Un ricordo davvero terribile… C'erano delle donne che avevano partorito,
durante la notte e che c'erano tutti questi esserini messi in fila su una specie di, neanche
davanzale, come si può dire? Un ripiano… Ed erano tutti lì che si muovevano, qualcuno si
muoveva ancora, non erano ancora morti, si vede che qualcuno o era nato da poco o era
più forte degli altri e stentava a morire. C'erano tutti quei cadaverini di bambini lì nell’ antiRevier diciamo.E io sono stata lì facendo quel lavoro lì fino a quando un mattino c'è stato
un appello particolare. Io avevo la febbre, avevo la febbre altissima… Lì né si aveva radio,
né si aveva l'orario, un orologio fosse un orologio non c'era, non ricevevi posta da
nessuno, non avevi notizie… C'era solo una simpaticissima ungherese Pagni Margaret, la
zia Margaret la chiamavamo, l'avete conosciuta voi questa Pagni Margaret ungherese?
che veniva sempre a dirci: ” Non chiedetemi come, ma io ho sentito la radio e dicono che
fra una settimana tutto è finito, state tranquille, era alla radio”. Inventava tutto, tanto per
tirarci su il morale, ma anche quello ci ha aiutato molto. Quella mattina… Io sono stata
fino… Da quando sono arrivata, ed era il 23 maggio, fino ai primissimi di novembre, il
giorno di Tutti i Santi, sono stata lì nel campo di Birkenau.
Una mattina, in cui eravamo tutte inquadrate davanti alla baracca… Non so ora fosse,
perché era quasi chiaro, ma a novembre viene chiaro un po' più tardi, dunque non so, non
ho idea di che ora potesse essere…Siamo stati in appello fino a notte, fino a notte. E non
solo ma io avevo la febbre, avevo un febbrone, non so dire quanto, ma avevo una
febbre…
Quando poi ci hanno avviate, ci hanno detto che potevamo camminare incolonnate; non
sapevamo dove saremmo andate, se ai forni crematori, se in un altro campo. Nel campo,
si parlava sempre di un eventuale trasporto, come di un miraggio, dato che non era mai
avvenuto… Un miraggio, il miraggio di quel trasporto. Quel momento, poi, è arrivato, però
non sapevamo assolutamente dove ci avrebbero portate. Ci hanno di nuovo messo in un
carro bestiame. Mi ricordo che ero proprio vicino al portellone del carro bestiame, e non ho
potuto muovermi di lì, perché avevo una febbre che non potevo neanche alzare un
braccio, sono sempre stata sdraiata lì senza mangiare per, mi pare, tre giorni e quattro
notti. Ci hanno portato poi a Bergen Belsen. A Bergen Belsen, quando siamo arrivati, mi
ricordo che pioveva, ma siccome non c'era la baracca per noi, ci siamo buttate per terra a
dormire e abbiamo dormito lì, sotto la pioggia. Poi ci è stata assegnata la baracca, ma solo
dopo. A Bergen Belsen non abbiamo lavorato, sono stata poco a Bergen Belsen.
Cercavano del personale per andare a lavorare in fabbrica, a Dessau, che è un
sottocampo di Buchenwald, ma, al momento della selezione, mi hanno scartata perché
ero troppo magra. Quella mia amica veneziana è intervenuta… E, chi lo sa… Questa mia
amica ha detto: "Lasciate venire mia sorella con me". Non dico per bontà o per tenerezza,
forse per comprensione, non so… Comunque, mi hanno tolto dal gruppo e sono andata
con loro. Da Auschwitz a Birkenau è stato il primo trasporto ad andar via… Si parlava solo
e sempre di questo miraggio, di questi trasporti, che non sarebbero mai avvenuti, perché
non si sapeva,ma… Ah, no è venuto dopo… Quello di Auschwitz degli uomini era poi il 27
di gennaio.
A Bergen Belsen, anche lì, eravamo sistemati in baracche, i soliti castelli, le solite cose,
però lì non c'erano i forni crematori se no n altro. Poi ci hanno scelto per andare a lavorare
in fabbrica. In questa fabbrica si faceva del materiale, dei pezzi di ricambio per aerei, pezzi
di ricambio, bulloni, quelle cose così, e si lavorava in gruppi di venticinque persone per
volta: di giorno e di notte, dalle sei del mattino alla sei di sera, o viceversa. Andavamo a
lavorare con cinque SS e i cani lupo. Immaginate in quelle condizioni: cosa potevamo
fare? Non potevamo mica né scappare né fare niente.Non so se avessero dei registri …Io
ho avuto solo un'immatricolazione da Bergen Belsen a Buchenwald.
Il campo di concentramento non era lontano: noi andavamo inquadrati in cinque per
cinque, e camminavamo dieci minuti, un quarto d'ora a piedi. Eravamo tutte donne… Lì si
stava già leggermente meglio, appunto perché non c'erano… c'era poca gente e non
c'erano i forni crematori. Si lavorava per ventiquattrore di fila, con un intervallo di dieci
minuti ogni sei ore… No lavoravamo dodici ore non ventiquattro, con questi turni: una
settimana dalla sei del mattino alle sei di sera, e l'altra dalla sei di sera alle sei del mattino
… Ci portavano da mangiare, quando andava bene, cinque patatine, ma grosse così, e se
no quattro, e quello era il tutto. Quando c'erano questi intervalli, eravamo talmente sfinite
che avevamo vicino a noi delle cassettine - che non so se servivano per il materiale, non
so per cosa - su cui ci mettevamo a sedere e ci si addormentava di colpo, fino a quando
non suonava il campanello… Erano dieci minuti, dieci minuti solo.
In questo campo c'erano pochissime, saranno state cinque… Era una cosa molto
piccolina, non era proprio un campo di concentramento come poteva essere Bergen
Belsen o Auschwitz o Birkenau, era più piccolo non era così esteso. Il trattamento era
leggermente più umano, benché noi si parlasse solo e sempre di mangiare… Avevamo un
unico argomento e un unico sogno, sempre quello. La fame è terribile: chi non ha provato
questa cosa non può rendersi conto, è inutile che uno dica. Però la sete è peggio. La sete
ti fa impazzire proprio. La fame è terribile, perché noi avevamo sempre e solo
quell'argomento, non si faceva altro che raccontarsi e scambiarsi ricette, si parlava di
cosa faceva la mamma, di cosa faceva la nonna, di cosa facevamo noi. Era solo quello,
c'era un discorso unico, solo quello. Ho già raccontato in varie occasioni che una mia
carissima compagna di sventura, Anna Cassuto, la moglie del rabbino Cassuto di Firenze,
aveva lasciato a Firenze, quando l'hanno arrestata, quattro bambini. L'ultima bimba aveva
quaranta giorni e non l’ha più trovata. I nonni sono riusciti a portare i tre bambini più grandi
in Israele, mentre lei è stata deportata col marito, che, poi, non è più tornato: lui era
oculista ed era anche rabbino di Firenze. Quando io le ho chiesto: “Anna, ma cosa
preferisci un piatto di pastasciutta o vedere i tuoi bambini?. Dice: "Un piatto di
pastasciutta", guardate che colmo. Questa proprio è una cosa, che mi è sempre rimasta.
Voglio raccontare anche questo, una cosa tragica… Anna è poi riuscita ad andare in
Israele - allora era ancora Palestina credo - e ha ritrovato i suoi bambini; lavorava ad
Hassa, nell'ospedale di Hassa, e per un attentato arabo in un pullman è saltata per aria.
Portare a casa la pelle dopo quel popo' di tragedia che c'è stata e morire così, poverina!
A Dessau, i pezzi che facevo, credo siano serviti molto poco, proprio perché non riuscivo a
capire, ed ero ben contenta che non potessero funzionare. In tutto il periodo, che ho
passato nel campo l'unico aiuto che ho avuto è stato da uno di questo piccolo reparto, di
questa officina, che mi ha messo dentro a una specie… Come un casco, quelli che hanno
le pettinatrici… Un pezzettino così di sapone, ma quel sapone era tutta pietra pomice.
L'unica cosa che ho avuto… No anche un'altra cosa che poi dirò. Una mattina, dovevamo
finire il turno, c'era già il cannoneggiamento russo… Come è successo anche ad
Auschwitz, da dove ci hanno spostati perché c'era già l'avanzata russa. Si sentiva, da
lontano, questo cannoneggiamento, però sapevamo sì e no cos'era… A me era venuto sul
fianco un foruncolo, un foruncolo di quelli terribili, e naturalmente si era tutto appiccicato a
quel camicino, che avevo sotto il vestito, perché non potevo staccarlo. Ci hanno caricato
uscendo dalla fabbrica su un camion, e anche lì abbiamo detto :"Dove andremo a finire?".
Ci hanno caricato … Questo foruncolo, dopo un po' che eravamo tutti in piedi su questo
camion, è scoppiato e io sono rimasta con quella popo' di roba attaccata alle carni, e non
mi è venuta l'infezione . E ci hanno portato a Terezin, dove lì sono stata liberata…Sono
stata liberata il 6 di maggio, poi mi sono ammalata subito di tifo petecchiale… Poteva
essere aprile, metà aprile, perché non è che abbiamo lavorato tanto in fabbrica,
praticamente quindici giorni…Proprio le date precise non le so, approssimativamente.
Quello che rimpiango è che ci facciate adesso che tutti questi interrogatori, però quando
sono tornata due anni fa a Terezin, perché avevo piacere di tornare…Ed è una fortezza
che hanno mantenuto così… Io, invece, nei miei ricordi vedo tutto diverso…Posso dire
poco di Terezin, perché quando sono andata non ho trovato niente di quello che pensavo
di trovare. Ma, su questo insisto, perché Teresin è rimasto così, com'era… Indubbiamente,
siccome io ero malatissima lì, avevo il tifo petecchiale, mi è successo di tutto, questi ricordi
si sono sovrapposti, si sono accavallati. Ho avuto il tifo petecchiale, e ricordo quella febbre
terribile, che ho avuto, perché sono arrivata proprio al delirio. Nel mio piccolo castello non
c'ero solo io, ma c'era un'altra, e quell'altra ero sempre io, c'è stato uno sdoppiamento. Io
parlavo con quell'altra, l'altra mi rispondeva, ma ero sempre io, la stessa persona. Si può
immaginare la febbre a quanti gradi sarà arrivata, non lo so, perché lì era proprio delirio. D
Chi era stato con me diceva- io questo non lo ricordo - che pregavo che mi portassero al
waschraum, perché avevo bisogno di buttarmi dell'acqua addosso, han detto che ero
cieca. Io questo non lo ricordo, questo particolare non lo ricordo, io ricordo di essermi
alzata e di aver visto nero ad un certo momento, ma proprio di esser stata cieca per dei
giorni è una cosa che non
ricordo, assolutamente. Al 6 di maggio è avvenuta la
liberazione… Io ho detto: "Ce l'ho fatta fino adesso, adesso non ce la faccio più". Allora mi
sono imposta quando stavo leggermente meglio, di fare due passi tutti i giorni, il terzo
giorno farne tre, farne quattro, perché … Sono arrivata alla liberazione, mi avevano detto
che c’erano i russi, che eravamo liberi. Poi, però, quando lì nessuno veniva a prenderci,
nessuno sapeva della nostra esistenza. I francesi erano venuti a prendere i francesi, i
belgi, ma gli italiani niente. Allora appena mi sono sentita un pochino meglio, in quattro
siamo partite e siamo andate fino a Praga, con mezzi di fortuna e a piedi, e siamo andati
alla casa d'Italia. Alla casa d'Italia lì a Praga dove ci hanno accolte, e ci han dato, anche,
credo, qualche soldo, abbiamo girato un po' per Praga, poi lì è venuta fuori tutta la nostra
femminilità : con quei due soldi che avevamo siamo andate a comprare il rossetto. Si può
immaginare in quelle condizioni: magre, brutte, smunte, senza capelli, abbiamo L'ho
raccontato alle ragazze, quelle di Moncalieri: nelle cose tragiche c'è persino una nota
comica, perché è comica sì, in quelle condizioni. Di lì, abbiamo lanciato degli appelli,
qualcosa tramite radio, però non abbiamo mai avuto nessuna risposta. Allora un giorno ci
siamo dette: "Cosa facciamo? andiamo via”, e io ho detto "Andiamo fino a Vienna? Da
Vienna ci sarà qualche mezzo, qualcosa che ci porti in Italia”. Allora siamo arrivati fino a
Vienna, anche lì con mezzi di fortuna e a piedi, tutto quello che capitava… Abbiamo preso
un treno che andava al Brennero, solo che ci hanno fatti scendere dicendoci che non
potevamo rientrare così alla spicciolata. Siamo stati lì altri quaranta giorni, sistemate in
queste case che erano state devastate. Mangiavamo quelli, che chiamavamo
ceci
imbottiti, perché erano pieni di vermi… Però allora andava tutto bene! Era estate, era a
maggio, cadevano le mosche nel piatto, ma con disinvoltura buttavo giù la mosca,
continuavo a mangiare, adesso se capita una mosca nel piatto butto via anche il piatto,
allora niente, tutto così. E poi da Dato che anche lì nessuno veniva a prenderci, e c'erano i
russi… Allora noi eravamo molto giovani, e c'erano i russi che volevano farci andare a
lavorare di notte. E a noi quello non piaceva molto, perché non sapevamo come sarebbe
poi finita, anche se dicevano … Allora abbiamo deciso, abbiamo preso una strada una
mattina e ce ne siamo andate e siamo arrivate a piedi fino in Ungheria, e lì siamo andate a
… Ho avuto un lasciapassare, che, però, non serviva a niente, c'era solo scritto che
eravamo andate a … Nome e cognome, era come un lasciapassare, che poi a quell'epoca
lì il lasciapassare non è che servisse a molto: uno andava così…
Di lì siamo arrivati poi… Con un treno dei partigiani siamo arrivati fino al confine con la
Jugoslavia. Arrivati ad un certo punto il treno si è fermato, non andava più avanti, e noi
abbiamo chiesto perché. Avevano inaugurato un ponte e i macchinisti erano andati a
pranzo con chi li aveva invitati. Il treno era fermo, noi lì sul treno, allora abbiamo detto: "e
noi?" , ci dicono: "Venite anche voi". E siamo andate anche noi lì. Siccome, però, quelli poi
tornavano indietro, di lì abbiamo preso, sempre con mezzi di fortuna che non so dire, tra
camion e l’ andare a piedi, siamo arrivati a Tirana… A Lubiana siamo arrivati.
Prima abbiamo fatto la Serbia, poi Ungheria, poi siamo arrivati a Lubiana . Qui siamo
andate a cercare qualcuno che ci potesse aiutare: c'erano dei campi di accoglienza, che
allora non si chiamavano così, dei campi di raccolta, ma lì era effettivamente un altro
campo di raccolta, dove non avremmo saputo quando ci avrebbero liberati. Così, abbiamo
deciso di tornare, abbiamo lasciato gli zaini alla stazione, siamo andate fino alla stazione,
e siamo arrivate a Trieste. E lì su quel treno di Trieste, un capotreno, mica ci ha chiesto
biglietti, ci ha regalato un pomodoro. Quello è stato il secondo regalo che abbiamo avuto,
però quando eravamo, mi ricordo … Avevamo trovato una patata, una piccolissima, che
abbiamo mangiato così, cruda, con la terra, e abbiamo detto: "Che meraviglia, i bignè non
sono mai stati buoni così". Ad ogni modo siamo arrivate a Trieste, e lì siamo andate alla
comunità ebraica, dove ci hanno accolte e ci hanno messo a disposizione delle brande,
ma noi non eravamo più abituate a dormire nelle brande e abbiamo dormito per terra,
abbiamo dormito alla stazione di Lubiana, poi di Trieste, poi siamo andate appunto alla
comunità. Con tutti i mezzi di fortuna che ho trovato ci ho impiegato otto giorni, ma sono
arrivata a Torino. Quando sono arrivata fino a Milano, sono andata… Allora mio fratello
era fidanzato con una ragazza di Milano… Io mi ricordavo l'indirizzo ed il nome, sono
andata a presentarmi lì - mio fratello si era sposato nel frattempo, in Svizzera a Bellinzona
ed erano a Torino - . Da Trieste avevo fatto mandare un telegramma a Torino per avverire
che ero viva, e i miei fratelli volevano venirmi incontro. Ma dove? Non sapevano mica
dove. E allora nel mio peregrinare sono arrivata a Milano, sono andata a casa di mia
cognata, e quando mi sono presentata alla porta non mi ha riconosciuto. Mi hanno preso
per una donna di servizio che era stata lì anni addietro, non mi hanno assolutamente
riconosciuto. Poi il fratello di mia cognata la sera mi ha accompagnato ad una tradotta
militare, che partiva da Milano, alle dieci. Sono arrivata a Torino a mezzogiorno, da
Milano, perché i militari non volevano farmi salire, poi quando ho detto: “Ma io sono stata
deportata!” mi hanno detto: "Ah per carità hai più diritto tu di un altro". E poi arrivata Porta
Susa, alla stazione di Torino, ho preso un tram… Non so con quali soldi, non lo so, non mi
ricordo! Sono scesa proprio alla fermata sotto casa, e qualcuno che mi ha visto in quelle
condizioni mi ha detto: "Ma lei arriva da lontano". Si vede che delle notizie era già giunte
nel frattempo. Dico: “ Io arrivo dalla Polonia”. Sono scesi tutti dal tram per farmi gli auguri,
e poi sono arrivata alla porta di casa mia senza sapere chi avrei trovato. Ho trovato mio
fratello, che si era sposato in Svizzera con mia cognata di Milano, che era incinta di tre
mesi, e mio fratello Cesare che si era nascosto in una soffitta qui a Torino. Ho saputo
solo in quel momento, che mio fratello era mancato il 25 aprile del 45, il giorno della
liberazione.Quando è nato il bambino, l’ abbiamo chiamato con il nome di mio fratello… E
la vita ha ripreso, per forza.
Anche se io mi chiedo a volte…quando sono venuta a Torino, perché non abbiamo mai
parlato per tanto tempo, perché quando si cercava di parlare gli altri dicevano: "Basta con
queste cose, sono cose passate, son superate, la guerra è finita, basta". Ho trovato una
persona che mi ha detto: "Ma cosa hai fatto? Perché ti sei scritta il numero del telefono sul
braccio?" E poi tutti in generale non volevano più toccare l’argomento. E quella è stata
proprio una cosa che ha … Completamente, perché ci siamo chiusi tutti in un mutismo
assoluto? Proprio per queste frasi che ci venivano dette che ci ferivano da morire…Da
sempre mi sento così… Fino a pochi anni fa quando dal Cedec - che mi hanno proprio
presa alle brutte, mi hanno detto che dovevo fare queste interviste. Ho detto di no,
all’inizio. Poi, come succede sempre, fatta la prima le altre mi son venute leggermente più
facili, anche se, ripeto: sono convinta che queste cose, nessuno potrà mai capirle fino in
fondo, nessuno capirà mai questa tragedia cosa è stata… Se non quando se ne parla con
i compagni di deportazione. Allora con i compagni di deportazione si parla la stessa lingua,
e si è convinti di essere capiti. Invece con gli altri senti che con tutta la buona volontà che
ci mettono per capirti non arriveranno mai in fondo. Hai sempre l'impressione di non
essere capita appieno, anche se qualcuno ti dice:” Noi capiamo queste cose, noi ci
immedesimiamo"… Non è possibile
farlo, se uno non le ha vissute! Questa della
deportazione è una cosa terribile… Però qualsiasi cosa nella vita, se non l'hai vissuta tu,
gli altri non la possono capire, se hanno vissuto la stessa cosa sì, ma altrimenti no.
Faccio l’ultimo esempio… C'è stata anche un'altra persona, quando sono tornata… Sono
tutte frasi che feriscono, come quella del numero del telefono o come una che m'ha detto:
"Sai anche noi in fondo abbiamo patito tanto: mia mamma quando ha aperto un armadio
mancavano due lenzuola". Io arrivata a quel punto lì, ecco…Sì ,lei avrà sofferto perché le
sono mancate due lenzuola, ma quando a me sono mancati, nel modo in cui sono
mancati, tre componenti della famiglia, la nonna, la mamma e un fratello… Mio fratello non
aveva ancora trent’ anni quando è mancato…Questo è stato il nostro destino…Solo
perché siamo nati ebrei: tutto qui ?!