L`essere della poesia. Una riflessione su Paul Valéry a proposito di
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L`essere della poesia. Una riflessione su Paul Valéry a proposito di
L'essere della poesia. Una riflessione su Paul Valéry a proposito di Pasolini-Zigaina Paul Valéry: poésie, exhitation prolongée entre le sens et le son. Innanzi tutto 'esitazione'. È questa la sospensione che - nel processo creativo - in un tempo non prolungato e a volte persino fulmineo, si genera tra un atto mentale d'immaginazione e di memoriazione - presimbolico ancora (non denotativo dunque) - e l'atto di conversione di opportuni 'segnali' in 'codici', regolati in forme, quando si abbia l'emersione d'un bisogno o nella concomitanza con esigenze di rappresentazione, che interrompono l'originaria identificazione affettiva ed 'empatica' con l'oggetto: una conversione, capace di portare quell'atto della mente al linguaggio e di offrirlo in trama di parole. Generazione simbolica, conversione: operazione su termini tra loro incommensurabili, fra un mondo prelinguistico, presimbolico e, a partire da esso, l'altro, quello del linguaggio. Ma poi ancora 'esitazione', prolungata ora davvero, nel tempo storico, perché qui viene ricostituita ogni volta, nella poesia, quella catena dei nessi culturali che porta indietro fino all'unità originaria, quando parola e cosa, mondo e pensiero, coincidevano ancora nella consapevolezza primitiva. Questa (prolungata) esitazione non è scelta che sia stata compiuta o che sia possibile compiere: non preferenza, non predilezione, tale che, fatta una volta, nel 'suono' possa restituire un 'senso' lasciato in sospeso. Questa esitazione è costitutiva, appartiene all'atto creativo stesso, concerne interamente la pulsione espressiva e comunicativa, la sua trasformazione in messaggio: è uno stato, una presenza necessaria in quell'istanza, in quel bisogno rappresentativo dell'agire presimbolico, che cresce con il rompersi dell'immediatezza empatica del rapporto con l'oggetto. Esitazione tra senso e suono, cioè tra significato e forma, che costituisce la mimesis espressiva sia del mondo più intimo che di quello più estraneo. Si scende così nel profondo della definizione della poesia. Ma molto ancora resta da scavare. Un significato diventa senso significante, cioè pensiero nel suo pensare, ora separato, a fronte del mondo oggettivo, spazio semantico, che si illumina - del tutto e subitaneamente - come tale, solo e non appena i suoi codici assumano il loro luogo formale, una loro sintattica temporalità, dove strutture connettive accendono quel senso, ancora latente nello spazio della denominazione, e prendono 'suono' (o diventano scrittura). Un senso che tuttavia sempre resta in sospeso e si prolunga nelle opere. Ma si completa, anche, con la morte? Con la sua morte, Pasolini ha posto al centro questo problema: ha ragione Zigaina, allora, nella sua strenua difesa del poeta? È la morte del poeta, e quella in particolare, parte integrante dell'opera? Può essere, lei, chiave per dare 'funzione stilizzatrice' all'opera, per organizzare il 'montaggio' della vita creativa? Può essere l'unico suggello formale e l'ultimo contenuto sensato, nella crisi esplosiva in cui è caduta la ricerca di novità linguistiche e lessicali, dopo le esperienze del novecento, e nell'esaurimento dei temi di contenuto iconografico, a partire dalla svolta borghese dell'arte, che si completa nell'ottocento? Dev'essere 'scelta', pertanto, e quindi morte 'sacrificale', per ridare valore al linguaggio? La scrittura, d'ora in poi, sarà dunque anche 'essere', cioè momento stesso del vivere? Deve l'arte, con quel suo atto sacrificale che include in sé la morte, prendere la connotazione d'una suprema forma di 'life-art' ? Esprimersi con il corpo, come segno iconico di se stessi. Questo enunciato può essere anche inquietante, perché di per sé già iconico è ogni linguaggio che, in una sintassi, costruisce la sua icona, la produce nella sua sequenza di segni e di suoni e di figurazioni. Temi, motivi, topos o leitmotivs musicali sono icone, modi ricorrenti dell'immaginazione. Allora perché anche il corpo? Quei temi e motivi, e via dicendo, sono icone del linguaggio, ma non sono eventi linguistici portatori necessari di potenzialità iconologiche: perché questo accada occorre che il fatto iconico sia un 'oggetto' (iconico: p. es. un putto bendato) preso nella sua connessione con un 'contenuto' (di senso iconico: p. es. 'l'amore è cieco'); solo in questi termini l'unità dell'oggetto al contenuto diventa un fatto iconico. Ma se e quando il contenuto è dato in assenza di fonti (un testo e un contesto culturale, che assumono o concorrono a dare dignità 'simbolica' alla fonte, che si cristallizza in una 'forma' permanente) non c'è istituzione di 'valore iconologico' nel fatto iconico. L'esistenza iconica, in altre parole, non è fattore di iconologia (e quindi non è neppure fattore iconografico, fermo restando che iconografici, di per sé, non sono i linguaggi verbali e sonori). Quando l'oggetto perde la sua connessione con una iconologia (con un rapporto storico, mitico o utopico, e geografico, di confronti culturali e di traducibilità) che dia il tessuto delle sue connessioni culturali, quell'oggetto riduce allora e perde il suo spazio di significazione, si riduce ad un astratto 'presente', perde il suo senso. L'arte contemporanea, l'arte delle 'avan= guardie', che ha inteso separarsi dal suo passato e dall'utopia futuristica, non ha un'iconologia a cui riferirsi: può generare solo oggetti iconici. Esprimersi con il corpo non è una fondazione o l'istituzione di una iconologia. Ma senza il corpo ed il suo gesto, s'impoverisce, della parola, il suo valore semantico? Senza quel gesto (che appartiene al teatro), il fonema si degrada in un semantema impoverito e diverso? L'opera, che si dice abbia sempre (oltre ad una rappresentatività intrinseca, in quanto 'descrizione' di fatti, ed una sua plurivalenza, in quanto 'evocazione' anche di altri discorsi, oltre il proprio) una sua 'integrazione figurale', una sua figuratività, (come auto-evocazione, disponibilità del linguaggio a lasciarsi percepire in se stesso, per cui ogni espressione è virtualmente figurata), non è per questo né iconologica né iconografica. Può l'opera avere allora 'la morte' come sua iconologia ed iconografia, come loro offerta della dignità estetica (o, meglio, di quella poetica) andata perduta? Può essere il rito della morte una via per ri-costruire (a ritroso!, dal rito al mito) in tutta consapevolezza quel mitico racconto di sé (capace di iconologia), alternativo all'astratta via d'usare mitologie di convenzione, puramente letterarie? Occorre insistere su questa attualità della crisi dell'arte e dei suoi linguaggi, quello figurativo o sonoro e, per quel che ci riguarda ora, verbale. C'è in effetti un motivo ancora di esitazione, che riguarda ora propriamente la creatività dal lato del contenuto, la creazione stessa dello spazio semantico, la produttività dell'immaginazione e della memoria e, di conseguenza, la 'scoperta', il ritrovamento, del nuovo oggetto che non c'è più, di quel 'contenuto supremo' che abbia la capacità di iconografia che ebbero i temi dell'Antico e del Nuovo Testamento, le allegorie, nella personificazione delle virtù e dei vizi e delle verità, o le storie di valore simbolico e la mitologia e l'utopia. Il mondo borghese ha cancellato tutto questo senza poter sostituire altro che la privacy del soggetto e insieme una sua vita socialmente e piattamente 'condivisa'. Al dilagare e alla profusione delle forme ha fatto eco il prosciugamento e l'essiccazione dei contenuti, all'esplosione delle prime, l'implosione dei secondi: forme che scoppiano, come surrogati del vuoto del contenuto, fino all'arte astratta, dove si compie l'auto-riflessione della forma e la sua auto-costituzione quale nuovo contenuto (la sua identificazione con la forma stessa); e, per contro, contenuti ripetitivi che immiseriscono, come ripiego e compensazione al 'pieno', indigesto, delle forme, fino al rifiuto di queste, alla ricusazione loro, con quell'esito 'informale' che attua un'illusoria separazione definitiva e il rifiuto d'ogni soluzione di forma: vitalismo e anti-concettualismo, puramente pragmatico. «All is pretty» assicura Warhol identificando l'opera con i prodotti della cultura di massa e confermando un'etichetta di Pop-art. Certo, c'è la calandra della Rolls-Royce di Panofsky a darci l'ultima pallida forma dell'icono=" txt[10]="grafia, ma con essa anche l'oggettistica della mercificazione, che in quanto tale è già Pop-art. Perfino la 'prospettiva', come forma simbolica, è scomparsa, dissolta nelle ricerche nuove di spazi alternativi. Creatività. Tutta sbilanciata in avanti sul versante della forma e ritratta indietro su quello del contenuto. Né può esserci supremo contenuto, come non c'è divina forma, dove la morte, creata ed intesa come atto sacrificale, non sia creatrice essa stessa di iconografia e non possa dunque 'costituirsi' quale novità assoluta - quale 'oggetto' e 'significato' - né porsi con funzione formale e di stile; come porsi e costituirsi tale, quando non è anche data un'iconologia, fondamento della riconoscibilità iconografica, per potersi identificare ad essa morte? Non crocifissione, non figura di Madonna né storia di fughe dall'Egitto, né mitica rappresentazione della Verità o di leggende (Piramo e Tisbe, per esempio) o allegorie (di Prudenza, di Buon Consiglio, d'un'Arcadia). Cos'è l'iconografia di una impossibilità? Se non c'è spazio per una iconologia, a fondamento della sua raffigurazione, dal momento che le sono stati sottratti i 'significati', irriconoscibili nella piatta indeterminazione dell'oggetto-merce - sia quelli naturali (fattuali ed espressivi), sia quelli delle convenzioni distintive e infine dei valori simbolici d'ogni sostrato storico e geografico, di civiltà e di cultura - caduta l'identificazione motivazionale e quindi iconologica, cosa resta? Cosa resta, se l'opera non è sintomo d'altro, non è più simbolica? Quando la morte sacrificale non è simbolo, perché non introiettata culturalmente come tale, essa rischia d'essere la massima esibizione. Morire per esprimersi, anzi: morire come suprema forma d'espressione, uscendo così dall'arte e tentando insieme di restarvi dentro unificandola alla vita, questa soggettiva performance, questo estremo happening (che mistifica l'og=" txt[12]="getto prodotto - l'opera - con l'azione producente e confonde l'atto creativo con il fatto creato: e che perde, in sostanza, non solo il contenuto, come accade per l'arte astratta, ma la forma stessa, come di nuovo accade per l'arte informale), questo 'gesto' del teatro è l'opposto del linguaggio della poesia: è anti-poesia. Non può essere poesia la morte stessa in quanto simbolo, che prenda in sé il 'significato' del gesto e la 'forma' della sua organizzazione. Poesia vuole un contenuto che non si esaurisca come simbolo, senza articolazione alcuna: deve descrivere o narrare, dischiudersi e testimoniare, diacronicamente sempre, per essere linguaggio effettivo e non 'life-art'. Furore romantico d'ascesi, d'identità dionisiaca con dio, è prendere sul serio una peraltro disperata tentazione di scorciatoie di rinascita della poesia, in un clima di morte dell'arte. E questa creatività estrema, la masochistica esibizione e manifestazione- insieme - del più potente androgino narcisismo, non può aver senso senza poter essere anche esibizione d'una perdita della storia e del passato, d'un abbandono di sicurezze e di certezze: l'ostensione della tabula rasa compiuta sulla 'conservazione'. Perché mai? Perché la riduzione della creazione al 'gesto' puro - non solo senza più il fonema (compresente, nel teatro, al gesto e che al gesto s'accompagna sempre e gli dà supporto giustificativo), ma anzi 'gesto' ormai identicamente sostitutivo ad esso - esibirà la 'perdita ottenuta' con l'attiva volontà e, passivamente insieme, la sua 'constatazione'. Poesia non è l'offrirsi, non è mostrarsi o anche solo un presentarsi, ma è l'offerta, è presentazione o mostra, dove un 'petrarchesco' io scompare: poesia-umiltà, dunque, poesia anti-esibizione dell'io, quand'anche sia un 'io' profondo a generarla: non rito-esibizione di sé, ma arcaico 'senso' del luogo della celebrazione d'un rito di significazione, di tensione semantica, quindi, di re-identificazione, di ricongiungimento (nella loro incommensurabilità) del nome e della cosa. L'arte e la poesia non sono allora sotto il segno immediato della comunicazione, ma comunicativa tensione (e dunque una sorta di preghiera) con quell'alterità dell'oggettivo (del mondo e e degli oggetti - immagini-ricordi - della mente) che è l'utopico non-luogo dell'origine dell'oggetto semantico (del 'significato'), il non-luogo delle pulsioni pre-simboliche. Connivenza con l'oggetto e allusione all'oggetto: e la creazione dal nulla della parola nuova, di un lessico, della significazione, fino alla forma poi, al suo ordine (dal caos, fino al cosmo), dove la poesia muore perché 'finita'. Quel contenuto immanente (quel mito che affiora da spazi pre-simbolici) è dunque un percorso, che continua oltre, in un'auto-mimesi (rovesciamento dell'i= mitazione) di immaginazione-assenza dell'oggetto e memoria-lontananza estrema da esso. Rappresentazione in uno spazio semantico e nel tempo delle forme sintattiche, attraverso la nascita di quello spazio e di quel tempo. L'arte non può essere che maschera, non l'io stesso. Maschera dell'io che si nasconde piuttosto che esibirsi. È nel 'senso' della maschera, infatti, (il 'senso' dell'assenza e della lontananza), che si cela l'io e l'oggetto significato: la maschera consente in tal modo d'esserci ancora, anche se solo nella lontananza e attraverso una assenza, e in tal modo e per questa via consente il suo rito, tramite cui il mito (immanente contenuto oggettivo) vive. L'arte non viene esibita attraverso l'artista (o come artista stesso), nel modo di un happening, ma si nasconde e si svela insieme, da sé, senza quel nome proprio, che - non più vissuto dal soggetto che lo porta - diventa nome comune, generico nome di riferimento convenzionale, nome di fatto, d' evento (Dante, per esempio): un 'io' sconosciuto ormai come persona, ma 'riconosciuto' soltanto e riconoscibile per un insieme di notizie e di parole e versi. La poesia deve fare i conti con la morte, come dispersione e fine, tanto dell'io quanto, poi, dell'opera. Guardare dritto negli occhi di Dioniso, della morte, che insegna a vedere in altro modo, senza più veli. Arte, sempre maieutica, dunque. Ma poesia, esitazione prolungata anche perché il suo dilemma è quello della 'creazione', da un lato: e allora atto d'un pensiero laterale rispetto alla norma, atto di trasformazione di 'schemi' attraverso intenzionalità 'provocatorie', atto di sfida e di rottura dei parametri familiari che definiscono le norme; allora 'lateralità' come sostanza del pensiero e dell'agire creativo, non conformità alle attese, novità assoluta, che solo a posteriori, quando la cultura l'introietti come atto socialmente condiviso, torna e ricade nella normalità. Ma, dall'altro lato, il dilemma sta nella comprensibilità compatibile con la creatività, nella comprensione possibile. L'arte contemporanea, senza supporto iconologico, senza una storia culturale che sia già profondamente introiettata nella società scorre sul crinale dell'incomprensibile. La morte, allora, non è nel non comunicare, ma nel poter l'opera non essere compresa. Qui nasce la tentazione e cresce il pericolo di 'riti culturali' di contaminazione tra linguaggio dell' opera e linguaggio 'iconico' dell'estrema azione. Può sembrare questo insieme di riflessioni un messaggio di restaurazione e di conservazione? Si vorrebbe proprio dire di no, perché, se la morte come 'rito' davvero s'accompagna a quello della rinascita, allora essa non può percorrere scorciatoie trasgressive né usare lo scandalo 'vitale', ma è duramente costretta sul sentiero dell'opera e del linguaggio, deve fare ben difficili conti con un'implosione di contenuti e un'esplosione di forme.