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Iconografia e iconologia nell'arte contemporanea [1]
Una realtà iconica (ogni opera prodotta nel linguaggio visivo è certamente tale) nasce sulla base
d'una creazione specificatamente artistica o semplicemente di operatori culturali singoli o collettivi,
a volte non-intenzionale, ma per lo più intenzionale, sia attraverso l'utilizzo di fonti (iconologiche o
iconografiche) esistenti, sia anche indipendentemente da fonti specifiche. [2] Quali fonti, sono da
prendere in considerazione sia testi (del linguaggio verbale, visivo stesso o sonoro), sia il contesto
culturale nel quale le fonti hanno assunto dignità simbolica o hanno concorso alla costituzione di
questa e si sono poi cristallizzate anche in date forme. Ulteriore elemento nel nesso icona-fonti, ma
anche - chiamiamolo così - elemento iconico in-assenza-di-fonti, è la (ri)-costruzione storico-critica
della realtà iconica; ricostruzione, questa, che si pone tecnicamente come interpretazione possibile,
generativa della comprensione semantica della realtà iconica: una 'ermeneutica', in sostanza. Così
come c'è un limite oggettivo all'accesso delle fonti e alla definizione del loro contesto, esiste un
limite intrinseco tanto nella ermeneutica del non-intenzionale, quanto all'esplicitazione stessa
dell'intenzionalità, sia essa operata dall'artista, sia dal critico-ermeneuta.
La fonte, incluso il suo contesto culturale, non è - rispetto all'icona - in una relazione di 'traduzione',
ma di 'transcodifica', di 'conversione' di altri codici (verbali o meno) in un codice visivo, quindi di
'associazione' di elementi presi da codici distinti e di 'metaforicità' non-verbale, implicita nel
carattere 'analogico' della rappresentazione iconografica. Vale spiegare questo punto.
La metaforicità propria d'ogni codice linguistico (verbale, visivo o sonoro) - la si chiami
metaforicità1 - non va confusa con quella specifica che il codice assume, al confronto con i suoi
congruenti semantici (metaforicità2): una cosa è, infatti, il carattere analogico di un'icona rispetto
alla sua fonte (così come l'icona di un bulldog rispetto alla fonte 'Churchill', nella nota vignetta,
oppure un putto bendato come 'amore cieco'); altra cosa è il carattere analogico dell'oggettosignificato (sia esso reale o mentale) rispetto al segno-simbolo che lo significa, come accade nella
relazione semantica del 'bulldog' in quanto simbolizzante-significante il corrispondente oggetto
(reale o mentale) significato. Tanto più i sensi di metaforicità ora indicati non vanno confusi con la
metaforicità 'verbale', che assegna diversa estensione ai suoi significati: questa è la metaforicità in
senso stretto (la si chiami metaforicità3), come nel caso della personificazione, della sineddoche,
dell'antonomasia, dell'iperbole, del litote e dell'ironia.
Il valore 'allegorico' o 'simbolico' (nel senso goethiano dei termini) [3] è invece, nel linguaggio
visivo dell'icona, un valore 'proprio', che si conserva o dovrebbe conservarsi nel programma
iconografico, che è programma di 'conversione' (su base metaforica) del codice della fonte e
riguarda (o dovrebbe riguardare) appunto la conservazione dell'allegoricità o del simbolismo della
fonte nel nuovo linguaggio visivo, cioè nella transcodifica (o conversione).
In altre parole: non è il programma iconografico per se stesso a dire qualcosa sul significato di
allegorie e simboli; questi sono piuttosto 'trasportati', nella transcodifica dei codici (con una
convertibilità associativa di codici).
Questa convertibilità, tuttavia, che dovrebbe poter essere in grado di conservare - nel 'trasbordo' - il
significato delle une e degli altri, resta invece problematica, sia nel limite oggettivo all'accesso delle
fonti e alla definizione del contesto in cui esse si collocano, sia ancora nell'intenzione dell'artistaoperatore, sia infine nella capacità penetrativa del critico-ermeneuta.
C'è dunque inadeguatezza dal lato del risultato iconografico ed anche da quello della completezza
dell'apparato dell'acquisizione iconologica; ma questo doppio limite altro non è che il prodotto della
incommensurabilità intrinseca al potere analogico del linguaggio visivo, intrinseca alla sua potenza
metaforica, a fronte delle fonti di riferimento. È la transcodificabilità delle fonti e del loro contesto
ad essere intrinsecamente inadeguata o, per meglio dire, ad essere operata su termini tra loro
incommensurabili. Il programma iconografico della conversione delle fonti, offerto nel dato iconico
è, potremmo dire, 'asintotico', 'tangente'. Con questo, i significati allegorico-simbolici si
trasformano, slittano di piano e dimensione, spostano gli accenti, cambiano del tutto e non sono né
raffigurabili univocamente, né criticamente definibili.
Quell'incommensurabilità che esiste fra codici delle fonti (testi e contesto, soprattutto) e il codice
visivo della loro icona (una incommensurabilità che, non essendo 'data' né universalità né metastoricità del codice visivo, va a sua volta intesa almeno come scarsa e differenziata omogeneità fra
codici visivi d'epoche diverse posti a confronto) si ripresenta anche come incommensurabilità tra
oggetto mentale (come immagine con potere significante) e icona (in quanto prodotto-significato).
La discrepanza è data ora tra intenzione e realizzazione artistica o, meglio, tra spazio della
significazione e strutturazione sintattica dell'opera. Non c'è qui un qualche resto (risultato d'una
differenza) non espresso e casuale, in quanto escluso dai processi intenzionali della creazione
artistica: la relazione in questione è tra termini decisamente incommensurabili, come possono
esserlo un'operazione mentale e l'oggetto prodotto, l'atto iconografico e l'icona. Se mai fosse,
l'inespresso, l'intenzione mancata riguarderebbe l'atto, non la relazione atto-prodotto, non una
'differenza' quantitativa fra l'uno e l'altro. L'incommensurabilità non ha misura in una differenza,
perché non la si misura affatto.
Questa seconda incommensurabilità è assai interessante perché pone la questione se il nesso
precedentemente posto tra icona e fonti non possa ripresentarsi ora come nesso fra prodotto d'arte
(come icona) e atto di creazione dell'artista-operatore (considerato come fonte iconica). L'icona
esiste come fatto iconografico solo in e per un'iconologia socialmente e/o storicamente e condivisa.
Quindi, se si può certo affermare che storicamente esiste una raffigurazione iconografica solo per il
fatto che essa risulta come prodotto di una iconologia socialmente accettata di significati e di
simboli, l'arte delle avanguardie, viceversa, che rompe intenzionalmente con il mito e la storia, non
si appella, nel generare oggetti iconici, ad una iconologia e non crea dunque icone in quanto oggetti
di una iconografia: nell'atto della sua produzione artistica non c'è accettazione culturale, condivisa,
dell'oggetto iconico.
L'esistenza iconica, dunque, in buona sostanza, non è a priori fattore di iconografia, finché o perché
non è (ancora) iscritta in una iconologia. Solo nel contesto storico o culturale avviene questo
'passaggio': la banidera rossa piantata sul Reichstag della Berlino occupata o le fotografie di
Salgado dalle miniere d'oro brasiliane sono immagini che si sono fatte e sono diventate
iconologiche e che s'inscrivono nell'iconografia contemporanea nel momento in cui diventano,
generato dai media, patrimonio culturalmente condiviso. Senza di ciò, come accade per la maggior
parte dei casi, le opere restano semplici oggetti iconici.
L'arte (sia astratta che figurativa) può percepire con 'occhio dionisiaco', nell'orizzonte semantico
dell'immaginazione, anche il senso del passato e del mito o i valori del progettare umano e
dell'utopia; ma, anche in questa circostanza, seppure lontana da molte correnti dell'avanguardismo
artistico, il significato sussunto come 'immagine' e poi comunicato con struttura sintattica in una
forma, non è ancora 'appropriato' da e nel medium culturale, come dato iconografico, attraverso
quella comprensione iconografica che nasce dalla critica e dalla condivisione culturale e che si
colloca in un contesto storico di riferimenti e di citazioni. Senza questa appropriazione storica e
'spaziale' (geografica), critica e condivisione (per quel che possono essere) non bastano a rendere la
loro comprensione un effettivo riferimento iconologico e quindi a rendere l'opera un atto
iconografico.
In altri termini, la critica del mito e della storia, nelle avanguardie, porta con sé la liquidazione di
una 'tradizione' iconografica; e l'oggetto iconico perde allora le connessioni anche con
quell'iconologia che fornisce il tessuto della sua comprensione.
Il 'fatto iconico' è costituito dall''oggetto' iconico (il putto bendato), ma non dal suo contenuto
(l'amore è cieco): l'oggetto, infatti, solo in connessione con il suo contenuto 'costituisce' una realtà
iconografica, e non soltanto iconica. Né il 'fatto iconico' è costituito dall'atto della raffigurazione,
che è una 'relazione' iconica (è la mimesi dell'oggetto reale o mentale): relazione, non
necessariamente carica di contenuto iconografico e iconologico.
Tuttavia, l''oggetto' iconico non è proprio soltanto del linguaggio dell'immagine, non appartiene
solo ad esso, bensì ad ogni linguaggio: icona è infatti anche un 'logo' editoriale, icona è la 'mossa'
del varietà napoletano o parigino, icona è una 'sigla' sonora di un programma musicale, ma anche il
tema (leitmotiv) usato da Wagner sistematicamente; ed ancora, icona in letteratura è ogni immagine
ricorrente (tema, motivo, topos e ancora una volta leitmotiv). Quindi, se il linguaggio figurativo
rappresenta-raffigura, quello sonoro esprime e quello verbale denota, questa distinzione non porta a
concludere in favore di una differenziazione fra linguaggi iconici e aniconici. Il fatto che tanto il
linguaggio sonoro quanto quello verbale siano iconici dipende da ciò, che un'icona si costruisce in
una sintassi, che la forma sintattica è produttrice di icona, proprio come l'immagine del linguaggio
visivo. Si può asserire soltanto che temi, leimotivs, sigle ed altro sono semplicemente icone più
forti, portatori eventuali di potenzialità iconologiche. Ma il linguaggio verbale e sonoro, invece e
ovviamente, non è iconografico.
S'è detto che l'arte figurativa contemporanea delle avanguardie non ha alle spalle una iconologia e
che allora a priori non può generare iconografie (a volte ciò accade a posteriori), ma
semplicemente oggetti iconici.
L'espressione dell'oggetto iconico viene inserita a posteriori in uno spazio interpretativo e
comunicativo; ma questo evento non garantisce il passaggio del fatto iconico ad una realtà
iconografica: l'interpretazione - sia della critica, sia nelle descrizioni o nelle spiegazioni dell'artista
(in quanto critico di se stesso) - e così la comunicazione, non sono atti iconologici che diano realtà
iconografica all'icona. Un'iconografia si genera, come s'è detto, solo nel contesto storico
(temporale) in cui si collocano gli antecedenti che la 'costituiscono', e nel contesto geografico
(spaziale), dove l'icona assume ampiezza culturale socialmente condivisa.
In altre parole: il valore iconografico dell'icona non si produce nell'atto della creazione di una
forma, nella transizione dall'inespresso all'espressione, ma solo con il ritrovamento di una forma in
un contesto spaziale e temporale.
Gran parte dell'arte contemporanea, figurativa o meno (ma certo non tutta), è priva di espliciti
riferimenti iconografici e iconologici, ma non di citazioni [4] alla cultura figurativa passata e
presente (richiami cubisti in un'opera, poniamo, non sono ancora e non hanno il potere di
indicazioni iconografiche negli oggetti iconici che la costituiscono); il linguaggio pittorico e
scultoreo, infatti, si appoggia di frequente al linguaggio verbale (al ready-made) per ricavarne una
'spiegazione' dell'opera: è l'artista stesso, non il critico, a fornire 'chiavi di lettura'. E queste non
sono - si badi bene - formulazioni inter-mediali, cioè incontri di linguaggi diversi, come si possono
avere, poniamo, nell'opera lirica, tra linguaggio sonoro e verbale: sono direttamente interpretazioni,
operazioni ermeneutiche dell'immagine, anche sottratte al critico. Ma esse non possono assumere di
per sé valore iconologico, fino a quando non entrino in un contesto culturale condiviso.
Un'iconologia non si costruisce, per così dire, a freddo, attraverso ermeneutiche critiche e d'artista;
si deposita invece nel tempo storico e nello spazio geo-cuturale.
D'altronde, che senso può avere il cercare in un linguaggio diverso da quello visivo il senso di ciò
che lo stesso linguaggio visivo dovrebbe offrire? L'analisi critica può solo testimoniare l'esito
interpretativo e comunicativo di una iconografia e di una soggiacente iconologia, offerto nel
contesto della condivisione sociale; non generarne il senso. Ci si potrebbe domandare se non sia
consentito parlare di un'iconografia in un senso diverso, più largo e 'altro' da quello panofskiano,
per esempio quando il centro del linguaggio figurativo non insista sul 'riferimento semantico' della
imitazione del reale, ma sulla mimesis dell'attività immaginativa (dunque del mentale). In realtà,
unoslittamento o una estensione dell'ambito della significazione del termine 'iconografia' non offre
chiavi migliori alla soluzione del problema: il concetto panofskiano è chiaro e non esclude di per sé
il riferimento possibile agli spazi del mentale; il punto invece è quello di una estensione, anziché dei
concetti di iconografia e di iconologia, di quello di 'oggetto iconico':
1) sua estensione e suo slittamento dal contenuto, espresso o narrato, alla forma, intesa questa, ora,
non come la modalità sintattica in cui un contenuto viene presentato, ma come (essa stessa)
'contenuto' culturale storicamente trasmesso e quindi iconologicamente e iconograficamente
riconoscibile (in questo senso potremmo e dovremmo parlare di oggetto-forma);
2) sua estensione e suo slittamento anche dal contenuto all'atto (anch'esso inteso come oggetto-
atto), culturalmente e storicamente riconoscibile: atto, come dato iconologico-iconografico. Nel
primo caso, quello della forma, possiamo ritrovare, per esempio, la prospettiva, in quanto forma
simbolica; [5] nel secondo caso, invece, ritroviamo gli 'atti' ai quali s'è già fatto cenno. [6]
È nel contesto storico-culturale che si colloca il valore iconografico e iconologico delle immagini in
quanto valori simbolici. Qui si dovrebbe operare anche la distinzione tra il più ampio concetto di
evento culturale e quello più ristretto di evento artistico (iconograficamente caratterizzato o meno).
Nelle opere delle avanguardie il significato simbolico ed il valore iconografico (se mai al primo uno
se ne accompagni) non dipendono dal linguaggio visivo (figurale o meno), ma dal contesto
ermeneutico che li genera; il linguaggio di Ad Reinhard non può rappresentare il concetto “fine
dell'arte”: questo valore simbolico viene a crearsi nel contesto culturale delle critica, nella misura in
cui viene sussunto ed assunto socialmente.
Il fatto che l'iconografia classica non richieda necessariamente esplicitazione iconologica nel
linguaggio verbale, non esclude l'assenza del 'testo', che però si è fatto cultura condivisa ed è
immediato, cioè senza esplicitazione necessaria. [7] Nell'arte contemporanea delle avanguardie,
invece, l'aggiunta del testo diventa necessaria, se si vuole conservare l'intenzione iconografica
dell'artista. Ma quel testo, finché non è ampiamente condiviso, non si solleva al livello di testo
iconologico.
Per questo si può dire che l'icona delle avanguardie , anche se contiene un'intenzione iconografica,
non è iconografica ed è priva di iconologia di supporto.
Il tempo comporta l'oscuramento e una perdita dei valori iconologici e delle possibilità
interpretative della testualità. Il senso dell'opera perde valore di significato anche per l'artista stesso
(come è stato più volte dichiarato).
Qual'è il valore iconografico della tela nera di Ad Reihard? Non è la tela stessa, ma il valore
rappresentativo che essa intende avere: la 'fine dell'arte'. Tuttavia, non si può parlare ancora di quel
valore convenzionale del simbolo, con il quale esso assume dimensione iconologica e con il quale
l'opera assume valore iconografico.
Una citazione di questa iconografia, ad esempio, non sarebbe ancora carica di tale senso e forse non
lo sarà mai. Solo un'altra tela nera potrebbe essere la sua citazione iconografica, ma allora niente
più che una copia e un plagio.
In oggetti iconici come la tela di Ad Reinhard, dove il significato di dichiarazione di morte dell'arte
viene espresso nella 'forma' della tela nera, lo spazio semantico dell'immagine mentale corrisponde
(non è ovviamente 'identico') alla sintassi (campeggiatura nera) dell'oggetto.
Ma anche qui l'iconografia, che chiede una conoscenza condivisa della tematica concettuale
appartenente all'opera, non è prodotta dall'opera stessa, come lo è la sua tematica concettuale; e
l'iconologia, che contribuisce a generarla, non è neanch'essa identica a quella tematica concettuale:
la trascende nella condivisione intersoggettiva.
Negata la mimesi, anche quella dell'immagine mentale, la visione è il prodotto di un puro atto del
vedere (il nero), come sensazione senza oggetto (specifico), che non sia quel prodotto puro. Ma tale
oggetto non esiste in quanto 'opera', ma solo come rappresentazione di un atto puro del vedere.
Senza una sua 'collocazione' iconografica che dia spessore iconografico, quella tela è un semplice
oggetto d'uso, che un guardiano di museo può raccogliere per pulirsi le scarpe.
Nell'opera di Ad Reinhard, priva di ogni forma di mimesi, resta implicito un concetto, c'è traccia di
un'idea, c'è un'intenzione iconologica (espressa dall'autore), ma non un'iconologia che supporti
un'iconografia, anche se oggi lo 'scandalo Ad Reinhard' abbia fatto conoscere a sufficienza il senso
della sua 'intenzione': quell'icona non è 'citabile' come lo è, invece, un putto bendato.
La perdita della condivisione sociale è perdita della memoria (storica, temporale) e della reciprocità
(spaziale, geografica). L'avanguardia ha spazzato via il doppio riferimento della condivisione,
sebbene agogni alla condivisione della sua nuova icona.
Non è secondario distinguere tra arte astratta (il cui contenuto è un atto di mimesi mentale) Mondrian, Oldenburg o il 'grande vetro' di Duchamp-(Hamilton) - ed arte concettuale (dove, invece,
opera e critica dell'opera coincidono) - Rotko e il bianco, Yves Klein e il blu, Ad Reihard e il nero.
Quest'arte è autoreferenziale,nel senso che il contenuto a cui si riferisce ha per oggetto l'opera, in
quanto 'oggetto iconico' del linguaggio visivo (l'opera d'arte, che quel contenuto intende demolire).
Autoreferenziali sono anche le opere in cui è la dimensione fisica a porsi come elemento proprio del
loro contenuto (grandi murales, opere di Chuck Close). Per questi lavori non si pone ora in
questione il fatto che l'opera abbia sempre bisogno di essere spazialmente percorsa per poter essere
posseduta formalmente ed anche contenutisticamente: questo è un fatto ovvio e concerne la
proprietà temporale della sintassi e convolge ogni opera, sia di grandi come di piccole dimensioni.
Qui invece la dimensione, in quanto 'opera', è data come intenzione di 'messaggio', con valore
dunque di contenuto e, per l'argomento che ci riguarda, quest'intenzione è iconologica. Essa, se
pretende di svelarsi, senza altre mediazioni testuali, nello stesso 'oggetto iconico' (come accade
anche nell'espressionismo astratto di Jackson Pollock), non si appoggia più ad una iconologia
ricostruita nel linguaggio testuale ed 'associata' al linguaggio figurativo: nella sua immediatezza,
rimane invece proprio al suo livello di pura intenzionalità, perché l'oggetto iconico non contiene in
sé la potenza iconologica dell'iconografia: non ha storia né condivisione nello spazio geo-culturale.
L'identificazione dell'opera con il suo contenuto iconografico intenzionale ha bisogno di essere
'spiegata' e, per questo, deve avere un background storico e di condivisione, che non ha. E fuori di
questa dimensione spazio-temporale non c'è 'comprensione' possibile.
L'arte contemporanea tende a seguire il percorso e il destino seguito dalla filosofia postkantiana, quello di portare l'attenzione espressiva dal piano della riflessione e della continuità
storica della citazione dei maestri al piano della affermazione, se non della declamazione eticomorale e della attestazione pratica.
L'arte esce così dal suo terreno per farsi prassi; e l'artista esce dall'arte nell'esprimere la sua presenza
e il suo slancio vitale. Ma ciò non crea di per sé un'iconografia simbolica della vita e del vitale,
perché unico modo per esprimere 'analogicamente' in immagini le nuove sensazioni e idee, gli atti e
le parole che le accompagnano è il generale 'segno, proprio dell'astrazione' (da Mondrian a
Kandinsky, da Pollock a Francis Bacon da Joseph Beuys a Roy Lichtenstein). [8] E questo segno
generale dell'astrazione, che attraversa quasi per intero l'arte di oggi, ha bisogno di una iconologia
condivisa e iconograficamente ripetibile, ossia 'citabile'. La citazione si esaurisce, invece, soltanto
in una analogia di formalismo.
Ma è il piano storico-critico dell'iconologia che si affievolisce oggi, anche nei confronti del passato,
perché la perdita del senso storico-filologico dei simboli rende sempre più oscure ed
incomprensibili le stesse immagini 'classiche'.
Nell'arte contemporanea l'atto creativo sembra avere, nella 'coscienza' e nell'intenzione dell'artista,
un rilievo maggiore rispetto al prodotto iconico, che si produce: ma questo spostamento di peso non
genera necessariamente maggior significato all'opera; anzi: se il problema del 'significato' è legato a
quello di una iconologia e di una iconografia socialmente condivise, esso si sposta tutto su questo
nuovo terreno.
Così la distinzione astratto-concreto nell'arte è solo convenzionale: la differenza fra raffigurazione
mimetica del reale o del mentale, che dà rilievo centrale a certi 'caratteri' del linguaggio anziché ad
altri (composizione strutturale, colore, luce, ecc., piuttosto che la raffigurazione oggettuale), è solo
differenza di significati, ma la loro radice iconologica oscilla fra gli estremi di ciò che è
socialmente condiviso e di ciò che è soggettivamente intenzionale.[9]
Lo slittamento dell'arte dal terreno della conoscenza (della 'scienza' implicita, teorica e storica) a
quello dell'etica, dell'azione e, in generale, della prassi, parallelo all'identico slittamento del
pensiero filosofico dopo la Critica della ragion pura, è uno slittamento dall'universale o,
comunque, dalla condivisione in un quadro unitario di cultura, alla molteplicità di
Weltanschauungen soggettive, non più condivise: un molteplice, che rivela l'assenza di una
iconologia comune e comporta la necessità di una 'fondazione' iconografica di fatto e ormai
impossibile.
Se l'omogeneità culturale ha storicamente consentito la comprensione della simbologia e del
rapporto semantico che legava le icone significanti all'immagine significata, si è costretti a chiedere
perché mai questo non debba accadere oggi, quando la vuotezza del concreto nell'arte sembra
esprimere la vuotezza di senso del mondo e l'immersione del 'pubblico' in tale mondo sembra
sottolineare la sua omogeneità ad esso, nel senso della 'globalizzazione'.
Il punto rilevante è che non è una figurazione non-realistica ciò che fornisce l'incomprensibilità
della 'denuncia' contro il mondo contemporaneo: vale a dire che, se anche l'arte esprimesse sia pure
'realisticamente' (e in un linguaggio comprensibile) la vuotezza del mondo contemporaneo, questa
stessa arte non riscontrerebbe la sua condivisione sociale: anche l'espressionismo ha denunciato il
mondo borghese e le sue guerre ed è stato tuttavia bollato come arte degenerata o comunque
considerato in modo del tutto indifferente, come se riguardasse 'altri' e non lo stesso borghese
fruitore di quell'arte.
Il nocciolo della questione sta nel fatto che l'intenzione iconologica nell'arte contemporanea è un
voler-essere e un dover-essere, ma non un poter-essere, perché nessun modello iconologico può più
godere dell'universalità nello spazio della condivisione, che fu propria del ristretto mondo delle
culture storiche e, insieme, dei suoi assoluti valori.
Ogni immagine ha 'senso' in relazione ai modelli storici della tradizione, ma anche perché si
differenzia da essi. Ciò vuol dire che un'iconologia, storicamente riconoscibile, non è eliminabile
(anche nell'immaginazione artistica della più agguerrita avanguardia): l'artista vive, in sostanza,
sempre inserito in una sua storia collettiva e la differenziazione dalla tradizione è anche rottura con
essa.Questo ribaltamento del punto di vista sostenuto sull'impossibilità di una iconografia nell'arte
contemporanea risulta contraddittorio solo se non si guarda al 'problema' nella sua purezza teorica:la
presunzione delle transavanguardie di togliere passato e futuro dal loro orizzonte e di ridursi alla
fenomenologia del puro presente ha come conseguenza l'impossibilità iconologica e l'assenza
iconografica;ma la presunzione teorica si ammorbidisce nei compromessi e nella malafede
pragmatica, dove la rottura con la storia è solo asserita, ma resta di fatto impraticabile.
[1] Riflessioni su un manoscritto, tesi di specializzazione: Possibilità iconografiche nell'arte
contemporanea, di Marco Tonelli.
[2] Si dà qui per scontata la distinguibilità dei concetti di arte e cultura, il primo come sottoinsieme,
per estensione, del secondo.
[3] In Massime e riflessioni, J.W. Goethe definisce allegoria la ricerca del particolare come
esempio del generale (p. es., l'Allegoria della prudenza, di Tiziano), dove il particolare è il
significante, come parte che rappresenta l'idea (il tutto); definisce simbolo invece la visione del
generale nel particolare (p. es., in Aspettando Godot, di Samuel Beckett), dove il generale è il
significato, indeterminato, al quale non si tende, ma che resta immanente.
[4] Si deve sottolineare questa distinzione tra un riferimento iconologico-iconografico e la
citazione, in quanto la seconda non ha affatto necessariamente i poteri referenziali del primo.
[5] Nello schema di Erwin Panofsky (Il significato nella arti visive, Einaudi, Torino 1962, p. 44), il
mondo dei motivi artistici, che non si pone ancora come creazione iconografica ed è priva di una
possibile descrizione iconologica e quindi appartiene ancora ad una pura prassi figurativa, diventa
creazione iconografica di immagini convenzionali, con una conoscenza di temi e concetti come
fonti iconografiche, assume interpretazione iconologica nel momento stesso in cui l'immagine
convenzionale assume il suo valore simbolico con la conoscenza dei valori culturali che quelle
immagini assumono: quella che, al primo livello, può essere storia dello stile, cioè dei modi in cui
oggetti ed eventi sono espressi mediante forme, diventa storia dei tipi, cioè dei modi in cui temi e
concetti sono espressi mediante oggetti ed eventi e, sul piano iconologico, storia dei sintomi
culturali, cioè dei modi in cui tendenze culturali sono espresse mediante temi e concetti. Quindi si
hanno tendenze culturali che temi e concetti (espressi mediante oggetti ed eventi, a loro volta
espressi mediante forme) esprimono. Ma le stesse forme possono presentarsi come eventi ed
oggetti con cui esprimere temi e concetti e quindi tendenze culturali.
[6] L'atto diventa oggetto iconico nelle forme dell'action-painting, della body-art, della Happening-
art, ecc. Ma parte integrante dell'oggetto iconico può essere anche un materiale, quando esso
assume il valore di intenzionale simbolo iconologico (nelle sculture di David Smith, l'acciaio vuol
essere simbolo totemico, con funzione analoga a quella che ha il colore in Rotko ed altri.
[7] Si pensi alla comprensione 'di massa' del linguaggio simbolico della pittura e della scultura, ma
anche della stessa architettura, delle chiese medievali.
[8] Gli oggetti iconici di Lichtenstein, che sembrerebbe debbano essere ampiamente condivisi in
quanto inseriti in un dominio pubblicitario, senza funzioni sociali, soffre della non-condivisione
connessa alla falsa coscienza borghese del pubblico, più che a incapacità comunicativa e
'iconologica' dell'artista.
[9] Si ricordi che anche nel medioevo ampio fu lo spazio di un'arte non figurativa: ma il rilievo dato
in essa ai valori 'formali' (ornamentazione, cromatismi, valori della misura e del numero della
sezione aurea, e del ritmo geometrico) fu di valore fortemente simbolico (e quindi iconologico)
condiviso.