Non siamo nati solo per noi - MUST Museo del territorio vimercatese

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Non siamo nati solo per noi - MUST Museo del territorio vimercatese
CONCORSO LETTERARIO
RACCONTI D'ESTATE 2015
FINALISTA SEZIONE ADULTI
Non siamo nati solo per noi
di Cristian Bonomi
Dico: «Mi ricordo»; e scanso gli anni come una ragnatela. Da cascina Moriano, dove sono nato,
affrettavo i passi negli zoccoli fino a villa Sottocasa per vedere mio padre in divisa di autista. Era al
servizio dell’ing. Luigi Biffi, podestà di Trezzo, e si toglieva il cappello ogni volta che lo citava.
Conduceva in vettura anche i famigliari dell’ingegnere; specie tra Milano, la villeggiatura trezzese e
Vimercate, dove il figlio Antonio era fidanzato con Arnolda Sottocasa.
Dalla conversazione dei signori, riportava in cascina le frasi più poetiche: «Non siamo nati solo per
noi», scandiva affinché me ne ricordassi. Per il resto, papà era così discreto che imparai da lui
senza che pretendesse d’insegnarmi. Mi mostrava il garbo con cui accogliere i clienti, quando mi
legai in vita un grembiule per servire nei ristoranti del dintorno. Come lui mi aveva spiegato, ogni
sera consigliavo vivamente risotto col pesce persico e vino di Montevecchia solo alla coppia
d’innamorati più felice. Volevo spendere i miei salari di cameriere all’Accademia dei
Filodrammatici, per diventare attore. Volevo sentire il palco scricchiolarmi sotto ai piedi. Se stavo al
botteghino, intanto, don Francesco Calchi Novati mi consentiva di applaudire gratis tutte le
rappresentazioni domenicali presso il suo teatro: a Oreno. «La tua parte non è facile - scherzava
mio padre - Anche la platea dove mormora il pubblico è un palcoscenico. Tu ne sei regista». Per
sua insistenza, staccavo il biglietto 46 solo ai militari in divisa.
Escluse queste esuberanze, cui consentivo volentieri, papà era posato e autorevole. Nemmeno
imprecava in osteria, se perdeva a briscola. Aveva anzi una sua preghiera, che io pure
pronunciavo ad alta voce contro ogni inquietudine: «O Signore, aiutaci ad essere degni / armati
come siamo di fede e di amore». Compivo 21 anni quando mio padre mi regalò il suo orologio da
taschino. Sulla cassa era cesellato «26 luglio 1942», una data di cui non ricordavo l’avvenimento.
«Stefano», mi disse papà; e io lo guardai negli occhi come se le parole dovessero uscire di lì. «Un
figlio che perda il padre si dice “orfano” ma come si dice il padre che perda un figlio? Il suo dolore
è impronunciabile. Sai in quanta stima tengo l’ing. Luigi Biffi. Di tre nati, il tifo seppellì Adele e la
guerra gli tolse anche Antonio». Tacque come per sciogliere quel nome sul palato. «Dopo una
frattura sugli sci, in servizio, Tonino era rimasto claudicante senza chiedere l’esonero dalle armi. E
lo destinarono in Russia, capitano di complemento sul battaglione alpino “Val Chiese”. Verso
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Nikolaevka il suo aiutante maggiore, Gaetano Maggi, cercava il nemico nel mirino. Era il 25
gennaio 1943. Biffi lo scostò e, in piena fronte, ebbe la pallottola destinata all’amico. Ora è un
pugno di polvere e gloria».
Ricordavo l’alpino Biffi, cui appuntarono medaglia d’argento alla memoria; ma la data incisa sul
mio orologio non era quella della sua caduta. «Prima di partire per il fronte, Tonino trascorse una
domenica con la famiglia, proprio il 26 luglio 1942. Non sapeva che quei sorrisi erano addii - disse
mio padre, come chi medita da molto cosa dire - Io stavo al volante già di buon mattino. Da Trezzo
sull’Adda portai i Biffi alla parrocchia di Porto d’Adda; qui Antonio sostò per la messa con la moglie
Arnolda Sottocasa, l’ing. Luigi e Raimondo, il primogenito ancora in fasce. Pronunciò la “Preghiera
dell’Alpino”, di cui tu e io recitiamo una parte quando siamo inquieti. Tonino indugiò poi col pittore
Vanni Rossi, che affrescava le navate di quella chiesa. Aveva un figlio al fronte anche l’artista, cui
Antonio ripeté calorosamente le parole di Cicerone: “Non siamo nati solo per noi ma per la Patria e
gli amici”. La famiglia pranzò sul fiume, all’osteria “Molinetto”. Per sé e la moglie, Tonino ordinò
risotto col persico, di cui amava andare a pesca. Alzarono brindisi di Montevecchia prima che
rientrassimo da Porto verso Trezzo. Mentre Arnolda cullava il bimbo in casa, Antonio e Luigi si
svagarono al vicino cinema “Vittoria”, dove il giovane in uniforme sedeva al posto 46. Entro l’ora di
cena, posteggiai in villa Sottocasa, a Vimercate. Il martedì successivo, Tonino Biffi partiva in armi
per la meta più lontana».
Mi sentivo il battito alle tempie. Le mie pose di cameriere, quelle domenicali cure al botteghino
erano commemorazioni funebri, echi e non parole? Con macabra puntualità, mio padre mi
chiamava al perenne crampo di servire riso e vino, staccando il biglietto 46.
«Lascia che chiuda il sipario - proseguì lui - I minimi gesti che hai elevato a teatrali, nei ristoranti e
al botteghino, consolano Luigi Biffi più di qualsiasi filosofia. Il suo lutto è tale che, alle volte,
rammenta Tonino ma non se stesso. Si mette a cercare sul calendario l’ultima giornata trascorsa
col figlio. Nel ricordo c’è già qualcosa della Resurrezione: perché l’ingegnere ricordi, lo porto là
dove tu insceni i felici dettagli di quella domenica. Lui è il tuo pubblico senza applausi. Se solo
sapesse con quanta dedizione perpetui, di Antonio, il pasto con Arnolda e il posto in platea.
Talvolta, accenni a mezza voce persino la frase di Cicerone o la Preghiera dell’Alpino, che erano
tanto care al giovane Biffi».
Recito per le malinconie di un vecchio, che ignora la mia recitazione? Non so se mi sta guardando,
ora che mio padre è morto. Ma io lavoro non visto a un invisibile capolavoro. Lungo gli anni ho
perfezionato le mie battute, l’intuizione di quale sia la coppia più simile ai coniugi Biffi, l’annata dei
vini, l’angolatura in cui stacco il biglietto al militare. Mi sono licenziato dai locali che non offrano più
Montevecchia o risotto col persico. Questa maschera è il mio volto definitivo. Se pure papà ha
peccato, amando le cose belle più di quelle vere, le nostre piccole mani hanno costruito un teatro
grande quanto la realtà.
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