Aprile 2014 - Istituto Nievo

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Aprile 2014 - Istituto Nievo
CARPE DIEM XX
Cogli l’attimo
Il giornalino del Plesso Nievo
ANNO XX N° 4
aprile 2014
UN INCONTRO SPECIALE
Molti ne avranno sentito parlare dai propri genitori,
parenti, amici ma soprattutto dai telegiornali e
notiziari. Il 9 Aprile del 2013 un giornalista italiano
inviato de La Stampa è stato rapito da un gruppo di
giovani ribelli in Siria. Il suo nome è Domenico
Quirico. All’inizio si pensò alla più tragica delle
ipotesi: che fosse stato ucciso dai ribelli siriani. In
Italia tutta la gente cercò di essere vicina alla
famiglia del giornalista rapito, portando un nastro
giallo intrecciato. Dopo un po’di tempo
confermarono che non era stato ucciso ma che era
ancora vivo. Dopo 100 giorni dalla sua scomparsa le
sue due figlie fecero un appello che poi venne
tradotto in diverse lingue e ascoltato da più di
10.000 telespettatori nel mondo. Verrà solo poi
rilasciato definitivamente l’8 Settembre 2013 grazie
ad un intervento dello Stato Italiano. Il giorno
19.03.2014 nel salone della scuola si è tenuto un
incontro molto importante con il giornalista
Domenico Quirico e la giornalista Raffella Silipo.
Appena è entrato nel salone è stato accolto da tutti
noi con un caloroso applauso. Tutto è iniziato con la
spiegazione del lavoro di giornalista, che a noi può
sembrare limitato solo a scrivere e a raccontare, ma
in verità il giornalismo è fatto di commozione e
soprattutto di saper provare le stesse emozioni delle
persone di cui si sta parlando o che si intervistano.
Poi sono seguite diverse domande “Cosa ci può
raccontare del suo viaggio in Siria?”, “Perché ha
scelto di fare questo lavoro?” e molte altre. Ci ha
sempre ribadito che un uomo che ha una fede non è
mai solo. Alla fine molti hanno voluto farsi fare
l’autografo. E’ stata una giornata indimenticabile.
Redattrice: Francesca Basso 1^E
(altri articoli all’interno)
MAGGIO 2014: GRANDI EVENTI ALLA NIEVO
Dal 12 al 16 maggio “MERCATINO del LIBRO” a cura della libreria Fogola Junior
Martedì 6 Maggio l’autrice ELENA ALECIincontra le classi prime
Martedi 13 Maggio L’autrice e attrice SARA D’AMARIO incontra le classi seconde e terze
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“VIVERE PER SCRIVERE”
“Piangere e poi scrivere, commuoversi,
diventare parte della storia degli altri, questo è
il giornalismo. Non puoi scrivere un articolo su
una storia che non vivi” queste le parole di
Domenico Quirico, venuto a parlarci, qui alla
Nievo il 19 Marzo 2014. Giornalista del
quotidiano “La Stampa”, inviato di guerra, da
molto tempo in prima linea nei paesi del Nord
Africa e del Medio Oriente, di cui è un grosso
conoscitore e a cui nel 2011 ha dedicato un
libro: “Primavera araba“. Nell’agosto 2011 nel
tentativo di arrivare a Tripoli, durante la rivolta
anti-Gheddafi in Libia, fu rapito insieme a due
colleghi e poi di nuovo in Siria lo scorso 9
aprile.
“Un giornalista deve raccontare le storie degli
uomini e per farlo deve viverle, trasformare la
storia in parole” Risponde così alla domanda: “
in cosa consiste il suo lavoro?” ci ha detto che
adora la storia, per questo ha deciso di fare il
reporter, perché non insegnarla? Perché voleva
raccontarla, tutto è storia e i giornalisti ogni
giorno ne scrivono un pezzo. Essendo un inviato
di guerra non è raro che si verifichino
inconvenienti, come quello del 9 aprile, il
rapimento, durato sei mesi, in Siria. Il problema
più grosso, dice, era il tempo; quei sei mesi non
glieli restituirà nessuno, le cose che avrebbe
potuto fare, le emozioni che avrebbe potuto
provare, tutto. Gli sono stati portati via sei mesi.
Ma la vera vittima non era lui, ma i ventidue
milioni di Siriani in piena guerra, compresi i
suoi rapitori per questo ci dice: “Non ho mai
odiato i rapitori perché sapevo che le vere
vittime erano loro, io avevo un’altra vita, una
casa, una famiglia, una volta rilasciato sarei
ritornato alla normalità. Loro no, quella era la
loro vita e probabilmente in questo momento
sono morti”. Continua dicendo che quando si è
prigionieri ogni minima cosa, gesti che
facciamo tutti i giorni come aprire la porta o
poter uscire senza che nessuno ci dica niente o
ancora premere un interruttore e accendere la
luce diventano quasi un sogno, segni di libertà.
Durante la prigionia ha trovato l’umiltà, capire
che tutto è fragile, che qualunque cosa si può
perdere. “durante la prigionia hai mai dubitato
della presenza di Dio?” a questa domanda ci
risponde dicendo che chi ha fede non è mai
solo, ad un certo punto ha anche creduto di
essere morto, di essere all’inferno, una stanza
buia chiusa dove non succede mai nulla.
Concludiamo l’incontro parlando dell’Ucraina,
del fatto che gli Ucraini sognavano l’Europa,
perché dice di essere quello che in realtà non è,
di fatto molte persone e ragazzi sono morte per
qualcosa che non c’è, sognando di poter venire
qui in Europa per studiare, per farsi una vita,
perché da fuori sembra il posto perfetto che non
è.
Giulia Turi classe III D
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DOMENICO QUIRICO UNA VITA PER IL GIORNALISMO
E’ nato ad Asti il 18 dicembre del 1951. Dopo la laurea in Giurisprudenza ha iniziato a scrivere nel 1980 per
La Stampa, alla redazione provinciale di Asti. È stato caposervizio degli Esteri, poi corrispondente da Parigi,
ora inviato. Negli ultimi anni ha raccontato il Sudan, il Darfur, la carestia e i campi profughi nel Corno
d’Africa, l’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda, ha seguito le Primavere Arabe, dalla Tunisia
all’Egitto, è stato più volte in Libia per testimoniare la fine del regime di Gheddafi. Da ultimo ha coperto per
tre volte la guerra in Mali, è stato in Somalia e più volte in Siria. Nell’agosto 2011, nel tentativo di arrivare a
Tripoli, è stato rapito insieme ai colleghi del Corriere della Sera Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina e di
Avvenire Claudio Monici. Nel sequestro è stato ucciso il loro autista e dopo due giorni i giornalisti sono stati
liberati. «Io avevo addosso questa maglietta del Paris St Germain e all’inizio mi hanno preso per francese.
Mi gridavano “Sarkozy assassino”, mi hanno dato un colpo in testa con il calcio di un fucile». Ad aprile
2013 è scomparso in Siria. L’ultimo contatto il 9 aprile. È entrato dal Libano il 6 aprile, diretto a Homs e poi
a Damasco. Nell’ultimo sms diceva di essere sulla strada verso Homs, cittadina bombardata più volte dal
regime e ora controllata da Hezbollah, che sostiene Assad. Aveva detto, prima di partire, che per una
settimana non avrebbe dato notizie, così fino al 15 aprile non è stato dato l’allarme. Poi sono iniziate le
ricerche. Il 6 giugno il primo contatto: una telefonata alla moglie in cui diceva di stare bene e di essere stato
rapito. Poi di nuovo il silenzio. È stato liberato l’8 settembre 2013. Con lui rilasciato anche il collega
cittadino belga Pierre Piccinin, erano partiti insieme. Il 19 marzo 2014 Domenico Quirico è venuto alla
S.M.S. Nievo Matteotti per parlare della sua esperienza di giornalista e inviato. Quirico ha cominciato col
raccontare il lavoro del giornalista e della sua esperienza in Siria: Il 9 aprile 2013, mentre si trovava in Siria
come inviato di guerra, di lui si perde ogni traccia. La prima notizia del suo rapimento giunge il 6 giugno
quando viene diffusa la notizia che Quirico è ancora vivo. Viene infine liberato l'8 settembre 2013, dopo 5
mesi di sequestro, grazie ad un intervento dello Stato Italiano e infine riportato a casa. Dopo aver raccontato
della sua esperienza in Siria i ragazzi della scuola hanno cominciato a fare delle domande sulle esperienze
della sua vita e quelle attuali.
Roberto Picari III D
IL GIORNALISMO, LA STORIA DELLE STORIE: Domenico Quirico si racconta
«Il compito di un giornalista è quello di raccontare le Storie degli uomini. Mi viene in mente un aneddoto, quello di un
tale McCullin, fotografo di guerra. Il suo primo giorno di lavoro fu mandato a Cipro, dove era in corso il conflitto tra
Grecia e Turchia. Questo fotografo dall’esterno di una casa vide una ragazza uccisa, entrò per fotografarla e poi si mise
a piangere, assieme ai familiari.»
Il reporter Domenico Quirico, giornalista inviato di guerra, accavalla una gamba davanti alla cinquantina di studenti
nell’auditorium.
«Vedete, il giornalismo è proprio questo: commozione e partecipazione. Diventare parte della Storia degli altri e
descriverla. Vivere con gli uomini, dare voce ai loro sentimenti e a quello che sono. D’altro canto, la negazione del
giornalismo è l’indifferenza. Se sei leale e vivi la Storia con umanità, acquisisci il diritto di farti portavoce e di parlare
per conto degli altri. Ma quando io vivevo questa storia, tu dov’eri? Io ero con te, ho condiviso il tuo stesso dolore, ho
vissuto le tue stesse paure, ho provato i tuoi stessi entusiasmi. Ecco, questa è la risposta del giornalista.»
Domenico Quirico è reporter per il quotidiano La Stampa, caposervizio esteri. È stato corrispondente da Parigi e inviato
di guerra. Si è interessato tra l’altro degli avvenimenti sorti a partire dal 2010-2011 e noti come “Primavera araba”.
Nell’aprile 2013, mentre si trovava in Siria come portavoce giornalistico del nostro Paese, di lui si perde ogni traccia.
Dopo due mesi viene diffusa la notizia che è ancora vivo: è stato rapito. Viene infine liberato in settembre, dopo cinque
mesi di sequestro, grazie ad un intervento dello Stato Italiano e infine riportato a casa. Oggi, 19 marzo 2014, sta
raccontando a numerosi ragazzi della scuola media Nievo come si è ritrovato a fare il giornalista.
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«Io amo molto la Storia, »spiega. «avrei potuto fare l’insegnante di Storia, direte voi. Ma c’è un rischio: parlando del
passato, si finisce col dimenticare la realtà. Io invece, racconto ogni mattina per €1,30 la Storia mentre si crea. Non
parlo di statue, lapidi o pagine di libri, ma di chi in questo momento la Storia la sta vivendo. E poi mi piace la scrittura
particolare del giornalismo: sappiamo già che ciò che scriviamo diventa vecchio nel momento stesso in cui finiamo
l’articolo. È questo che spinge un uomo a comprare il giornale ogni giorno del calendario. La nostra scrittura è già
condannata, ha già in sé i germi della distruzione. Ogni giorno la Storia va riscritta in un modo continuo ma
affascinante.»
Un mio compagno alza lamano: «E non esistono dei “trucchi” del mestiere?»
Quirico sorride. «No, non ci sono trucchi: ciò su cui lavoro è la sofferenza umana. Il dolore non lo puoi maneggiare, solo
sfiorarlo con la punta del dito. Quando ciò accade non esiste alcun trucco, hai solo l’obbligo di essere onesto. Onesto e
umano, proprio come un ragazzino delle medie.
Dunque, credo sia arrivato il momento di parlarvi di una storia. Della mia piccola Storia siriana: i cinque mesi di
rapimento. Cinque mesi... Sapete, tutti gli uomini hanno un problema col tempo. Il nostro rapporto con esso è formato da
due semplici parole: “Troppo tardi”. E anche ora, il problema rimane lo stesso: quei cinque mesi non me li restituirà più
nessuno. Non certo per ciò che avrei potuto fare, ma per il tempo che avrei potuto vivere. L’ultimo giorno di prigionia, il
capo dei carcerieri è venuto a comunicarmi la fine del sequestro. Mi ha detto: “Questa sera sarai libero, riprendi la tua
vita. Noi restiamo qua, non possiamo oltrepassare la frontiera, ma tu oggi lo farai. Non sono vere le tue accuse: noi non
siamo affatto cattivi. Siamo come te, prigionieri della guerra siriana. Ma tu hai un’altra vita che ti aspetta, noi no. Ora
vai e raggiungila.” I cattivi di questa Storia erano anch’essi vittime.» il celebre giornalista allarga le braccia e continua a
raccontarci.
«Tornato in patria, mi si aprivano due strade: potevo perdonare oppure odiare, e non c’è niente di più semplice che
odiare. È normale. E poi, in fondo, solamente i santi sono capaci di perdono, ed io non sono certo un santo. Ma se avessi
deciso di odiare quegli uomini che mi hanno messo paura, mi hanno ingiustamente processato, che mi hanno puntato una
pistola alla tempia per il puro gusto di farmi provale il Male con la M maiuscola... Beh, se avessi deciso di odiare i miei
carcerieri, avrei commesso un errore capitale. Perché sarei rimasto attaccato a loro dall’odio, legato mani e piedi a quel
carcere: per sempre prigioniero. Così ho creato una terza scelta: non dimenticare mai le condizioni dei cattivi quando mi
hanno fatto Male. In quel contesto, chi aveva pietà era già morto. E io questo non dovrò mai dimenticarlo.»
Un’altra mano alzata: «durante quei cinque mesi, com’è stato il suo rapporto con Dio?»
«Caro mio, questa domanda mi affascina non poco. Ti risponderò così: chi crede e ha una Fede, non è mai solo e
l’atteggiamento di uomini in quella situazione è proprio l’angoscia di restare solo, di essere dimenticato. Ho letto il
romanzo di un prigioniero che dopo molti anni di convivenza si affeziona ai suoi carcerieri. Quando torna in libertà
nessuno si ricorda più di lui: ormai aveva un’altra vita. Temevo anch’io questo triste epilogo, in tanti momenti avevo
paura di essere morto e di trovarmi all’inferno. Non diavoli, torture e fiamme ma una stanza chiusa a chiave,
eternamente. Quando hai l’impressione che Dio non ci sia più, è lui che ti fa attendere e ti dà lezione dei più grandi doni
dell’umanità: accettazione, umiltà e pazienza.»
«Che reazione ha avuto »domanda una voce. «la prima volta che ha risentito i suoi parenti?»
«Per una serie di circostanze che non starò a specificare,» risponde lui. «dopo diverso tempo riuscii ad ottenere un
telefono. Il primo numero che composi fu quello di mia moglie. Dissi: “Sono io...”dieci secondi di silenzio. “Ma sei
vivo!” e cadde la linea. Così mi sono reso conto che il vero sequestrato non ero io, ma la mia famiglia e chi mi voleva
bene. La vera tragedia era il non avere mie notizie, il poter pensare che io fossi morto.»
«Una volta tornato a casa, è stato difficile riabituarsi alla libertà?»
Occhiata enigmatica del reporter. «Possiamo dire che la libertà è fatta perlopiù di gesti che agli uomini liberi appaiono
assolutamente banali, come quello di aprire una porta. Un’altra cosa è l’umiltà: tenere sempre presente che tutto è
fragile, non dovuto. Delle cose che per noi sono ovvie, in realtà non lo sono. In due terzi del mondo attuale, a un’ora
d’aereo da qua, gesti come aprire un rubinetto e premere un interruttore non sono possibili. Due cose normalissime, che
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facciamo tutti i giorni, ma che per loro sarebbero un miracolo. Andare in un certo luogo, comprare un certo libro, tutto
questo per noi è scontato... Ma in due terzi del mondo, no. Ecco, per me è questa la libertà, ed è un concetto che non si
scorda tanto facilmente.»
Quirico avvista un alunno con la mano alzata e gli cede la parola. «Quali sono le differenze tra l’Italia e la Siria? Potrebbe
descrivere sinteticamente la situazione in Ucraina oggi? Cosa ne pensa dell’annessione della Crimea alla Russia?...»
«Ebbene, procediamo con ordine.» lo interrompe. «Dunque, le differenze tra la Siria e il nostro Paese sono molte, a
cominciare dal fatto che la Siria è una dittatura. Da mezzo secolo. È fatta di gente che vive nella povertà, controllata dalla
mafia. Ti racconto questa storia: ci sono dei ragazzi che, forse per gioco ma più probabilmente sognando davvero un
mondo migliore, si buttano in strada e scrivono su un muro slogan contro la monarchia. Vengono arrestati e imprigionati
nel più grande penitenziario del Paese, dove li torturano con cavi elettrici. Allora i genitori radunano davanti alla prigione
un discreto gruppetto di amici, parenti e vicini, chiedendo a gran voce di liberarli. Secondo voi, le guardie cos’hanno
fatto? Hanno dato loro retta, magari tenuto i giovani in prigione ancora un po’ ma senza torture? No, hanno sparato a
vista, uccidendo una decina di persone. Da questo avvenimento è nata la Primavera araba. Attraverso solo questo fatto,
puoi misurare l’abisso di differenze che c’è tra la nostra e la loro cultura.
Per quanto riguarda la situazione in Ucraina, è obbligatorio dire che in quella parte d’Europa, uguale a noi per molti
aspetti (la loro Storia è la nostra Storia) tutti i giorni uomini muoiono invocando il nostro continente. Perché? Perché
dovrebbe essere la terra dei diritti, dove ognuno è sacro in sé, vale in quanto individuo. Forse noi non la meritiamo così
tanto, ma l’Europa ha dato la Storia del mondo. C’è un posto in Europa dove ogni giorno i ragazzi di piazza Tahrir
muoiono a -25° gridando alla nostra fortuna. Noi ci facciamo un sacco di problemi, con il terrore di diventare un po’ più
poveri, quando a un’ora d’aereo c’è un posto dove si sogna e si lotta, si combatte e si muore. Un posto chiamato Ucraina.
In quanto all’annessione della Crimea, credo che in qualche modo fosse già scritto. Tutto è nato da una serie di
avvenimenti: quando l’Unione Sovietica si disintegrò, nel 1991, il segretario russo nella fretta si dimenticò della Crimea,
che divenne prima Repubblica Indipendente e poi parte dell’Ucraina. Ora la Russia di Putin la rivendica. Ma prendiamo
per esempio un luogo molto abitato, come Sebastopoli. Bellissima città, sapete? Nonostante per un certo lasso di tempo
essa sia politicamente appartenuta all’Ucraina, Sebastopoli fa parte della Russia. Hanno la stessa Storia, lo stesso sangue,
gli stessi ricordi; ma c’è un problema: l’Ucraina non è la Russia. E una rivolta come quella dell’11 marzo era normale che
accadesse, prima o poi. Dopotutto, c’era da aspettarselo.»
A questo punto interviene la professoressa a fare una domanda: «Se ci è concesso, dove ha in programma di andare, ora?»
Sul volto dell’uomo si disegna un’espressione vaga. «Non so di preciso dove andrò, quel che è certo è che mi pagano per
andare, ma ora davvero non saprei dire. Dovete saper che ho un modo tutto mio di viaggiare, completamente diverso da
quello di ogni altro viaggiatore. Ciò che io intendo per viaggio è lo spazio, il tempo, gli uomini che incontro dalla
partenza all’arrivo. Una continua Odissea. Il Domenico che parte non sarà più lo stesso quando giungerà alla fine del suo
percorso. Io sono un viaggiatore che racconta, proprio come Ulisse...»
L’ultima domanda della giornata arriva dalla mia bocca: «E nonostante tutte le fatiche, i pericoli e i difetti di questa
avventura continua che è il giornalismo, lei non si stanca mai del suo lavoro?»
Mi guarda, strofinandosi il mento con la punta delle dita. Risponde dopo diversi secondi. «Anche volendo, non potrei mai
stancarmene. La mia intera vita è composta dai frammenti degli uomini che ho raccontato. Potrei tirarli fuori dalla
memoria, uno ad uno, in qualsiasi momento. Loro sono la mia vita, la rendono straordinaria e io non saprei stare senza.
Ho avuto la fortuna di vivere la Primavera araba, quelle rivolte le hanno fatte ragazzi come voi, che volevano migliorare il
loro mondo. Vivere la Storia di questi Paesi mi ha fatto amare non le cause di questi ragazzi, ma amare loro: la
concezione che il domani è tuo, che puoi andare contro ogni convenzione per cambiare la società... È proprio di questo
che non mi stancherò mai.»
Giulio Frangioni, Redattore III F
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Intervista a Domenico Quirico
1. Come si crea un articolo di giornale?
“Scrivere un articolo di giornale riguardante eventi drammatici o brutti non è facile; per raccontare
un fatto realmente accaduto bisogna aver visto con i propri occhi l’accaduto e provare commozione
per le persone che hanno vissuto l’esperienza. Da qui può nascere un articolo di giornale i cui è il
giornalista che racconta quello che ha visto e i sentimenti che ha provato, ma bisogna farlo con
lealtà”.
2. Perché ha scelto di fare il giornalista e cosa le piace del suo lavoro?
“Ho deciso di fare il giornalista perché mi piace la storia, voi dite che avrei potuto fare l’insegnante
di storia, ma no!! A me piace raccontare la vita delle persone che fanno la Storia attuale e le realtà
odierna e le loro sofferenze, mi piace scrivere ciò che vedo e ciò che provo, i miei sentimenti”.
3. Come ha vissuto durante il periodo in cui è stato catturato in Siria e quali sono stati i suoi
sentimenti?
“Vi rispondo raccontandovi un po’ in generale ciò che mi è accaduto in Siria. In quel periodo in Siria
regnava la famiglia Assad, la quale era odiata un po’ da tutto il popolo perché era rigidissima e sleale
nei confronti della popolazione. Per questo in molti erano scesi in piazza a protestare, ma la
rivoluzione nacque a seguito del seguente episodio. Un giorno tre ragazzi di 13/14 anni andarono a
protestare cantando cori che avevano sentito da altra gente. La polizia locale li catturò e li portò in
caserma dove procedette alla tortura. Quando i genitori dopo aver riunito tutti i parenti andarono a
chiedere davanti alla caserma di liberarli, alcuni vennero uccisi a colpi di mitragliatrice. Da qui
nacque la rivolta di tutto il popolo. Ero andato in quei luoghi per fare un servizio su quello che stava
accadendo in quel periodo in Siria e un giorno dei sicari mi catturarono perché pensavano che io
poi li avrei mandati in prigione. Mi tennero prigioniero per 5 mesi, in cui io subii due finte
esibizioni, nelle quali mi puntarono la pistola carica alla testa; non perché volevano uccidermi, ma
per il semplice fatto che li divertiva vedermi soffrire. Durante i primi due mesi non mi lasciarono
telefonare nessuno, successivamente si! Chiamai subito il numero di casa mia dove rispose mia
moglie, io dissi che ero io e lei mi rispose chiedendomi se ero vivo, poi cascò la linea. Al quinto
mese un giorno il capo dei sicari, mi fece visita e mi disse che il giorno dopo sarei stato libero, che
avrei potuto ricominciare la mia vita normale, ma che loro restavano lì perché non potevano varcare
la frontiera. Mi disse che avevano capito che non volevo accusarli di niente, ma che erano anche loro
vittime della dittatura. Quando tornai a casa avevo due possibilità, odiarli o perdonarli, non scelsi
nessuna delle due, perché odiare mi avrebbe fatto ostaggio infinitamente dell’accaduto, ma per
perdonarli non avevo il potere, decisi quindi di dimenticare”.
4. Ha avuto dei problemi a riabituarsi alla vita normale dopo l’esperienza in Siria?
“No per niente, primo perché avevo capito che non ero io l’ostaggio principale del sequestro, ma
tutte le persone che tenevano a me e, che mi credevano morto. Secondo perché sentii una storia di
uno che sosteneva che riabituarsi a qualcosa fosse come aprire e chiudere una porta, in effetti era
vero. Ero entusiasta di tornare alla mia vita di giornalista”.
5. Dopo la sua esperienza in Siria ha mai dubitato della sua fede in Dio?
“No mai! Ho imparato che chi crede non è mai solo e che bisogna avere pazienza, per questo ho
sempre creduto nell’aiuto che mi avrebbe potuto dare Dio, ma con pazienza”.
6. Lei è appena tornato dall’Ucraina ci potrebbe raccontare la situazione attuale?
“In Ucraina si sta verificando una situazione veramente starna, perché da una parte ci sono gli
ucraini che chiedono la libertà, dall’altra ci sono i russi che vogliono che questo paese non si stacchi
da loro. Per la libertà e il sogno di avere un come quelli dell’Europa occidentale decine di giovani
sono morti.
Emanuele Gay II B
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Torino tra guerra e Resistenza
MUSEO DIFFUSO: MERITA DAVVERO!!!!
Giovedì 3 marzo io e la
mia classe siamo andati a
visitare il Museo Diffuso
della Resistenza, della
deportazione,
della
guerra, dei diritti e della
libertà. Il Museo è stato
inaugurato nel 2003 ed è
situato all’interno del
Palazzo dei Quartieri
Militari, progettato nella
prima metà del Settecento
dall’architetto piemontese
Filippo Juvarra. Si tratta
di un"museo diffuso", che si propone di rendere
i luoghi della memoria del territorio di Torino e
provincia come altrettanti elementi di un
percorso museale. E’ uno spazio di incontro fra
ricerca e comunicazione: partendo dalle vicende
di Torino e del suo territorio tra il 1938 e il
1948, allarga il suo campo d'interesse all'Europa
e a tutto il Novecento, con una particolare
attenzione ai grandi temi dell'affermazione dei
diritti e della libertà. È un museo non
convenzionale, che sperimenta forme di
comunicazione e linguaggi espositivi originali e
innovativi. I suoi spazi ospitano un allestimento
permanente “Torino 1938-1948. Dalle leggi
razziali alla Costituzione”: un percorso
multimediale
interattivo
che,
attraverso
testimonianze, immagini, filmati e suoni,
conduce il visitatore in un viaggio virtuale nella
città. Dal periodo tragico dell’occupazione e dei
bombardamenti, fino alla Liberazione, il
percorso si conclude con l’installazione “Vivere
la Costituzione”. Dallo stesso locale, è inoltre
possibile accedere al rifugio antiaereo del
Palazzo, a 12 metri di profondità, scoperto
durante i lavori di restauro del palazzo.
Il Museo promuove la valorizzazione dei luoghi
di memoria, normalmente non accessibili o poco
conosciuti, presenti sul territorio cittadino,
attraverso percorsi di visita tematici legati alla
lotta
clandestina
contro
l'occupazione
nazifascista, alla Resistenza, alla deportazione e
alla vita quotidiana durante la Seconda Guerra
Mondiale. Nello stesso Palazzo hanno sede tre
istituti specializzati nella storia del Novecento:
l’Archivio Nazionale Cinematografico della
Resistenza, l’Istituto piemontese per la storia
della Resistenza e della società contemporanea
“Giorgio Agosti” e il Centro Internazionale di
Studi “Primo Levi”.
Bertinetti Letizia 3D
Il Museo diffuso della Resistenza
In vista del 25 Aprile, festa della liberazione dall'oppressione
tedesca abbiamo visitato il Museo diffuso della Resistenza, della
deportazione, della guerra, dei diritti e della libertà che è situato in
Corso Valdocco 4 a Torino ed è stato inaugurato il 30 maggio 2003.
Il visitatore può rivivere, attraverso delle cuffie, dei documenti e dei
filmati, la storia della città dalle leggi Razziali del 1938 all'entrata
in vigore della nuova Costituzione Repubblicana e gli avvenimenti
della seconda guerra mondiale, inoltre, dopo varie ristrutturazioni è anche accessibile il rifugio
antiaereo situato nei pressi dei sotterranei del museo. Per accedere al rifugio è necessario scendere
12 meri sotto terra. Una volta arrivati si possono sentire, grazie ad un sistema audio, i rumori che
corrispondono agli aerei che bombardavano la città sopra di noi. Finita la visita prima di uscire al
museo si arriva all'ultima stanza chiamata "stanza dei post-it" dove ogni visitatore può lasciare un
proprio commento personale riguardo al museo.
Federico Arrichiello III D
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Torino tra guerra e Resistenza
Stazione Porta Nuova di Torino 1944: verso i Lager
Dalla Stazione di
Porta Nuova partirono
centinaia di deportati
destinati ai campi di
transito o direttamente
ai lager nazisti. I
gruppi di donne e
uomini condannati alla deportazione venivano
radunati all'alba dentro il carcere delle Nuove e
trasportati alla stazione alle prime luci del mattino,
transitando lungo corso Vittorio Emanuele II. Il
primo trasporto partì il 13 gennaio 1944 con
destinazione Mauthausen, luogo in cui giunse il
giorno successivo. Un secondo trasporto lasciò
Torino il 18 febbraio di nuovo con destinazione
Mauthausen dove arrivò il 21 febbraio. Il 27
giugno1944 partì il primo convoglio verso
Ravensbrück. Porta Nuova non fu solo luogo di
partenza per i deportati ma anche luogo di arrivo per
i rari superstiti. Nel 1974 la città ha voluto ricordare i
deportati torinesi con una lastra in rame incisa da
Cagli e voluta dall'Associazione Nazionale ex
Deportati nei Campi Nazisti (ANED) con il
patrocinio della Regione Piemonte. La targa è posta
sul lato arrivi di via Sacchi. La targa apposta in
prossimità del binario, recita:"Partirono da questa
stazione i deportati politici per i campi di sterminio
nazisti / A chi rimaneva lasciarono la consegna di
continuare la lotta contro il nazifascismo / per
l'indipendenza e la libertà".La stazione ferroviaria,
con annessi uffici e magazzini (per un totale di 800
locali circa), fu colpita da bombe sia incendiarie, sia
dirompenti, durante i bombardamenti dell’8
dicembre 1942
e del 13 luglio 1943, effettuati da aerei della RAF
con bombe di grosso e grossissimo calibro. I
principali danni furono: il crollo di muri e il crollo
delle coperture e del tetto. Dal diario dell’Istituto
Lorenzo Prinotti, 1940. E' venerdì – ore 2 mattina nel
rifugio contraereo, nella torretta di S. Secondo vicino
alla sua camera, rannicchiato sulla scaletta, dopo
aver condotto i 15 misteri non lo sentirono più.
Chiamato non rispose. Nell'oscuramento si sentì un
rantolo, era morto. Con molta fatica di Grande
Aviolo. Mons. Pinardi e un inquilino lo portarono a
letto. Il venerdì prima aveva troncato gli Esercizi
Spirit. alla pace di Chieri, perchè soffriva di angina
pectoris. Fu l'aorta gonfiata che gli scoppiò a un
bombardamento più accentuato allo smistamento di
Porta Nuova la notte che bombe incendiarie inglesi
bruciarono 18 vagoni di nafta, e l'emorragia lo
spense".
Filippo Lops classe III D
MARTINETTO: DAL 1943 I TIRI AL BERSAGLIO SONO GLI UMANI
Il sacrario del Martinetto si trova a Torino e sorge nel luogo dove, tra il settembre del 1943 e l’aprile del
1945, furono giustiziati partigiani e oppositori del Duce. Il Martinetto però era già un poligono di tiro, ma i
bersagli erano ovviamente i soliti cerchi di truciolato, infatti, il Comune di Torino l’ha ceduto nel 1883 alla
Società di tiro a segno nazionale. Purtroppo, dopo l’annuncio dell’armistizio e la nascita della Repubblica
Sociale, la zona fu usata come luogo per le fucilazioni secondo un preciso rituale: i condannati, spesso
reclusi nel carcere “Le Nuove” venivano ammanettati e portati all'alba presso il poligono dove militi fascisti
li attendevano; una volta arrivati venivano legati alle sedie con le spalle rivolte al plotone d'esecuzione;
seguivano la benedizione del cappellano, la lettura della sentenza e infine la fucilazione. Nel periodo della
Repubblica Sociale Italiana furono eseguite59 esecuzioni, ricordate da una lapide che riporta i nomi delle
vittime e dai resti delle sedie dove vennero posti i condannati. Il 5 aprile del 1944 ci fu la fucilazione di otto
membri di spicco del Comitato militare piemontese del CNL,Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio
Biglieri, Paolo Braccini, Errico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano e Giuseppe Perotti. Questo
fatto è stato raccontato dall’avvocato Valdo Fusi nel libro “Fiori Rossi al Martinetto”eogni anno in questa
data viene effettuata una cerimonia in ricordo di tutti i martiri del Martinetto. Dopo la guerra ci fu lo
smantellamento del poligono, che nel 1951 fu definitivamente trasferito alle Basse di Stura, e la zona delle
esecuzioni fu dichiarata "luogo sacro d’interesse nazionale" ed adibita a sacrario in ricordo dei giustiziati.
Federico Tiberga Redattore III D
carpe diem
luoghi della memoria
Hiroshima e Nagasaki: fine di una
guerra inizio dell’era atomica
Anna Degani è stata una professoressa del corso D della
Nievo. Nel 1988 è andata in Giappone, ma non aveva in mente
di andare verso Hiroshima e Nagasaki. Invece alla fine,
insieme ad una sua amica, sono andate. Un giorno il nonno di
un bambino ha chiesto di far fare una foto al suo nipotino con
loro due, ha detto “ gli faccio una foto con voi così da grande
si ricorderà di aver visto delle straniere.” In Giappone, infatti,
gli stranieri sono molto importanti. Nagasaki è una città
portuale, c’è poco spazio tra le montagne e le coste, nella parte
più alta della città c’è il “ parco della pace”, è un giardino. Lo hanno costruito lì perché è il punto esatto in
cui è scoppiata la bomba atomica nella seconda guerra mondiale. In questo parco c’è un albero, sui rami ci
appendono gli ex-voto. C’è anche la fontana della Pace, dove i sopravvissuti dopo la bomba andavano a bere,
anche se non era una buona idea, perché tutta la radioattività era anche nell’acqua e quindi si bruciavano
subito i polmoni. La bomba di Hiroshima, che si chiamava ”Little boy”, era fatta con l’uranio ma era meno
pericolosa di quella di Nagasaki, che si chiamava “Big fat”, era fatto con il plutonio. Anche a Hiroshima c’è
un giardino, dove il particolare più bello è la campana della Pace.
Per trovare questa campana, non ci sono delle indicazioni, ma
bisogna sentirla con il suono, e quando la si è trovata si può
suonare con un tronco di legno. Anna Degani nel 1999 è ritornata
in Giappone. Yousuke Yamakata è stato un fotografo di due
giorni dopo lo scoppio della bomba di Nagasaki. Nel suo libro c’è
questa foto di due bambini, il più grande che porta in spalle
quello più piccolo ferito. Chiedono aiuto al fotografo ma lui non
li aiuta e li fa solo una foto. Dopo essere uscito da Nagasaki si
rende conto che avrebbe dovuto aiutare quei due bambini, la
radioattività non ti fa più ragionare. È tornato indietro a cercarli,
ma non li trovò e non seppe mai più niente di questi due bambini.
Caterina Gardino Redattrice III D
carpe diem
personaggi
QUANDO C’ERA BERLINGUER
L’11 giugno di 30 anni fa, in seguito ad un ictus avuto
quattro giorni prima ad un comizio, ci lasciò l’allora
segretario generale del Partito Comunista Italiano
Enrico Berlinguer. Berlinguer è stato uno dei più
importanti personaggi della politica italiana: uno dei
primi rappresentanti comunisti italiani a sottolineare
errori ed incoerenze dell’Unione Sovietica e ad
ipotizzare una strada diversa dal seguire lo stalinismo
ed anche, con Aldo Moro, uno dei fautori del
compromesso storico. Il politico, discendente di una
famiglia catalana nobiliare, nasce, a Sassari il 25 maggio 1922 in un ambiente intellettuale,
progressista e antifascista. La sua infanzia lasciò un segno profondo nella sua ideologia. Membro
del partito fin da giovanissimo; segretario prima della Federazione Giovani Comunisti Italiani e,
successivamente della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica. Nel 1968 divenne per la
prima volta deputato e nel 1972 divenne segretario generale del partito, carica che ricoprì fino alla
morte. Ciò che caratterizzò il modo di fare politica di Berlinguer era l’approccio completamente
nuovo con cui affrontava faccende politiche, economiche e culturali. L’Unione Sovietica non era
più la bibbia e non bisognava ubbidire ciecamente a ciò che diceva il partito. Si dichiarò a favore di
un nuovo modello di sviluppo industriale per l’Italia, un’apertura verso il mondo dell’industria che,
da parte di un membro del PCI lasciò la gente sorpresa. L’azione probabilmente più importante di
Berlinguer fu quella con cui disse al mondo che il PCI si poteva alleare anche con un partito di
centro: il compromesso storico. Nel 1978 il politico cercò di coalizzarsi con Aldo Moro e la
Democrazia Cristiana e formare per la prima volta un governo formato da estrema sinistra e centro.
Berlinguer si può considerare il padre di una sinistra moderna e uno delle personalità più
progressiste della scena politica italiana. E, in aggiunta, a differenziarlo in modo ancor maggiore
dalla maggioranza dei suoi colleghi, era una persona onesta. Come diceva anche Gaber: “Qualcuno
era comunista perché Berlinguer era una brava persona”.
Colla Emiliano, redattore III D
SOLUZIONI SUDOKU
carpe diem
attualità
Una macchia sulla mia T-shirt
Ho controllato e la mia statistica dice: il 74% delle mie
magliette e il 62/% dei mie pantaloni sono macchiati. Sì,
intendo che sono “Made in Bangladesh, Malesya,
Cambogia, Cina, Indonesia” e non lo dico in senso
“xenofobo”. Le mie magliette sono fatte molto bene e mi
piacciono molto. Ma ho letto e visto in TV che proprio
nell’aprile di un anno fa, in un povero quartiere di Dacca in
Bangladesh un edificio di otto piani di cemento armato e in
cui lavoravano quasi 4000 operai del tessile -per 20-30
dollari al mese, per più di 12 ore di lavoro al giorno- è
crollato. I lavoratori erano preoccupati per le paurose crepe
del Rana Plaza, ma erano stati rassicurati, invitati ad
entrare e addirittura chiusi dentro pochi minuti prima del crollo. The business must go on, e gli
operai sono poveri, devono guadagnare quei pochi soldi. Alla fine si conteranno 1134 morti, oltre a
duemila feriti; ci sono voluti quasi 20 giorni per tirare fuori i feriti. E la tragedia non è poi così
diversa dal rogo nella fabbrica-materasso qui, in Toscana, dove sono morti operai cinesi, alcuni
ancora senza un nome. Sono le fabbriche di vestiti, di magliette e di T-shirt esposti con grazia nei
negozi di mezzo mondo. Negozi che non crollano. La piaga è quella dei marchi internazionali,
inclusi marchi famosi italiani che fanno produrre a basso costo girando la testa dall'altra parte,
mentre le vittime sono voci silenziose. E’ nata una campagna, la Clean Clothes Campaign (“Abiti
puliti” in Italia) che chiede ai marchi della moda che si riforniscono in Asia di risarcire i familiari
delle vittime, di regolamentare il lavoro, garantire i diritti dei lavoratori e un ambiente di lavoro
sicuro. Non si vuole eliminare l’industria tessile, grazie alla quale il poverissimo Bangladesh ha
conosciuto un boom economico. Il tessile è la prima attività del Paese, l’80% dell'export e occupa 4
milioni di persone, in maggioranza donne, permettendone così l’emancipazione. La storia non è poi
così diversa da quella di inizio ‘800 della rivoluzione della industria tessile Biellese (le mie origini):
nata da “spionaggio industriale” in Inghilterra, ad opera di Pietro Sella, inviato a fare l’operaio.
Sella ha importato i segreti dell’industria meccanica in un territorio ricco di energia idrica, e ne è
nato il primo lanificio italiano a lavorazione meccanica, primo passo verso la rivoluzione industriale
in Italia. L’industria tessile ha impiegato molte donne, che hanno così potuto guadagnare, imparare
a leggere e ad emanciparsi. La mia coscienza un po’ sporca di occidentale, è però rinfrancata
dall’avere scoperto che il Bangladesh ha un economista di eccezione: Muhammad Yunu, premio
Nobel per la pace 2006. E’ lui l’inventore del Microcredito, cioè un credito di piccolo ammontare
per iniziare un’attività imprenditoriale. Yunu ha fondato la Grameen Bank nel 1983, considerata il
primo istituto di microcredito moderno. Yunus ha iniziato il suo progetto utilizzando il proprio
denaro per fare piccoli prestiti a bassi tassi d’interesse per i poveri delle campagne. Il suo primo
prestito fu di 27 dollari ad un gruppo di donne del villaggio di Jobra, che producevano mobili in
bambù, ed erano costrette a rivenderli per molto poco ai fornitori di materia prima.
"In Bangladesh, dove non funziona nulla - disse una volta Yunus - il microcredito funziona come un
orologio svizzero".
Alessandro Sosso Redattore III D
carpe diem
attualità
TAGLI ALLA SPESA PUBBLICA: F-35 SÌ O NO?
In tempo di crisi gli investimenti pubblici e i tagli alla spesa sono un punto
cruciale di notevole disaccordo tra le parti, come nel caso dei tagli alla Difesa. In
particolare l'acquisto di 90 cacciabombardieri F-35. L’F-35, nato dalle richieste
del Pentagono, progettato dalla ditta Lockheed-Martin e tuttora, dopo 15 anni, in
fase di sviluppo è un monoposto supersonico, di caratteristiche tecniche
avanzate, sofisticati sistemi di bordo, netcentrico e a bassissima rilevabilità (Stealthness). Per tali
caratteristiche è adatto a missioni con attacco di precisione contro obiettivi strategici e per supporto a
operazioni di terra; è un aereo con funzioni esclusivamente d'attacco. Al suo sviluppo lavorano con gli USA
8 Paesi partner, inclusa l'Italia, che nel 2007 si è impegnata all'acquisto di 131 F-35. Questa partecipazione,
non è un'effettiva collaborazione, ma solo un “valore aggiunto”, in quanto gli USA non prevedono la
diffusione della tecnologia che sta dietro agli F-35 e solo gli USA potranno intervenire sull'“arma”. L'Italia al
momento ha partecipato con più di n miliardo di euro. Gli USA, dal canto loro, hanno concesso una linea di
assemblaggio in Italia, con ricadute occupazionali. La nostra Marina e la nostra Areonautica hanno al
servizio velivoli a fine vita operativa, con costi crescenti di manutenzione e problemi di sicurezza. Con una
stima di circa 135 milioni di euro per ogni F-53 altri Paesi coinvolti hanno ridotto o annullato gli ordini. Nel
2012 l'Italia è scesa all'acquisto di 90 F-35. L'analisi dei fatti evidenzia che l'Italia è già inserita con una
partecipazione diretta nel programma europeo Eurofighter 2000, velivolo europeo avanzato, il cui progetto
mete insieme capacità di ricerca, di sviluppo tecnologico, finanziario dei principali Paesi europei ed è, di
fatto in concorrenza con l'F-35. I 15 miliardi di euro degli F-35 possono essere utilizzati per le reali necessità
del Paese, quali la bonifica ambientale, il dissesto idrogeologico la sicurezza delle infrastrutture esistenti,
interventi sulle scuole, oltre che a sostegno dello stato sociale, di ricerca, scuola, giustizia, sanità,
formazione. Ciò avrebbe anche uno sviluppo occupazionale. Contro chi sostiene che i tagli non andrebbero
fatti sulla Difesa, impegnata in missioni umanitarie all'estero, soccorso ai migranti, difesa del “Mare
Nostrum”, emergenze ambientali oltre che anticrimine, si contrappone la stessa nostra Costituzione. Le
nostre forze armate hanno altre priorità per la vera difesa del Paese o di un popolo in difficoltà: un sistema di
comando efficiente, trasporti più sicuri, miglior addestramento del personale, inclusa una miglior
comprensione delle diversità storiche, politiche, culturali e religiose dei luoghi in cui ci si potrebbe trovare a
operare. Un Paese molto forte militarmente, in cui la popolazione è poco sana, ignorante, e vive in un
territorio insicuro, non può considerarsi davvero un paese potente. Il tema degli F-35 pertanto riguarda non
solo i tagli alla Difesa, ma più ampiamente le strategie, le scelte economico-finanziarie di un governo e
l'impiego delle risorse pubbliche, sempre al servizio del bene comune. Per un confronto diretto: un F35A (il
cui costo complessivo è attualmente stimabile in 135 milionidi euro) è pari alla spesa necessaria per:
• la retribuzione di 5400 ricercatori per un anno;
la messa in sicurezza di 135 scuole (rispetto norme antincendio, antisismiche, idoneità statica);
• l'acquisto di 21 treni per pendolari con 12.600 posti a sedere;
• la garanzia di 33.750 borse di studio di 4000 euro per gli studenti universitari;
• la partecipazione di 20.500 ragazzi al Servizio Civile Nazionale;
• la costruzione di 405 nuovi asili capaci di accogliere 12,150 bambini e creare 3645 nuovi posti di lavoro;
• l'accoglienza dignitosa di 10.567 richiedenti asilo per un anno.
Tratto da: “Caccia F-35 La verità oltre l'opacità”, Campagna “Taglia le ali alle armi”, Roma, 18/02/14
Alessandro Sosso redattore III D
carpe diem
a proposito di…
LA FORZA DEI CONDIZIONAMENTI
Grazie all'aiuto di alcuni
professori siamo riusciti riflettere
su
cosa
ci
condiziona
maggiormente
e
abbiamo
compreso che la famiglia dà il
primo e il più importante
condizionamento, seguono la
scuola e lo sport. Poi vengono gli
amici e i gruppi a cui sentiamo di
appartenere. I condizionamenti
influenzano la nostra vita, il
nostro comportamento, le nostre
scelte. Le sorgenti principali dei
condizionamenti
sono
la
famiglia, la scuola, la religione,
la società e il clan. I
condizionamenti sono una necessità legata al fatto
che viviamo in relazione con altre persone. Mano a
mano che si cresce si fanno nuove cose senza
pensarci troppo,solo per sperimentare nuove
abitudini . Un esempio è il fumo. Molto spesso si
fuma per rimanere nel gruppo di amici. I deboli
fumano per lanciare una nuova moda, per non
rimanere esclusi . È stupido, ma in molti ambienti,
se sei diverso, ti prendono in giro . Non tutti hanno
il coraggio delle proprie scelte e quindi, per paura di
venir "bulleggiati" i ragazzi si vestono tutti in modo
terribilmente uguale, ascoltano la stessa musica e
guardano le stesse serie televisive. Un altra forma di
condizionamento che noi subiamo quasi senza
accorgercene é la pubblicità che ci seduce creando
un richiamo verso il prodotto,enfatizzandone la sua
importanza. La pubblicità stimola il desiderio e porta
anche attraverso messaggi subliminali, a interpretare
i segnali come comandi :non posso vivere senza, lo
voglio, deve essere mio. I condizionamenti possono
essere volontari o involontari, quelli sociali sono i
più difficili da individuare e dai quali uscire.
Bisognerebbe sviluppare una capacità critica, ma non
è facile! Siamo bombardati da modelli e mode.
Siamo raggiunti da notizie e informazioni di ogni
genere, certe volte anche senza rendercene conto. In
questi tempi le più tenaci forme di condizionamento
sulle persone sono date da televisione e media . Il
condizionamento però non è solo negativo, infatti
anche le regole e consigli dati dai genitori fin da
piccoli fanno sì che le persone sviluppino
un'educazione che permette di compiere scelte civili
e giuste nella società. Le persone più deboli di
carattere o magari quelle che hanno problemi,non
solo malattie o problemi mentali ,ma
anche
semplici
problemi
in
famiglia,sono più soggette ad essere
influenzate. La spinta maggiore al
compromesso con se stessi è il
giudizio altrui: "Cosa dirá la gente?
Gli sarò piaciuto oppure no?"
Alcuni di carattere forte riescono a
dire "Cosa me ne importa?!" Ma la
maggior parte segue il gruppo e si
lascia condizionare. Si persuadono a
diventare, o a fare quella cosa che
secondo qualcuno è giusta.E i ragazzi
più deboli sono i più condizionabili.
Noi siamo convinti di essere liberi,
ma persino quando guardiamo la
televisione, mentre siamo rilassati sul divano
subiamo tantissime influenze che tentato di
modificarci. Parliamo di noi. I ragazzi sembra si
divertano soltanto davanti alla televisione, al
telefono e con l'ipad, pensano di essere felici senza
conoscere la felicitá. Non si accorgono che ogni
giorno le faccine sostituiscono le loro emozioni e i
loro sentimenti. La felicitá dei ragazzi viene
continuamente legata al possesso di cose non
indispensabili e al seguire le mode del gruppo. Un
esempio di passione collettiva , di condizionamento
di gruppo è la musica. La musica rock, per esempio
che all'inizio era la musica più trasgressiva,
addirittura definita satanica dal mondo degli adulti,
che la consideravano pericolosa perché diversa,
controversa, poco melodica. Una volta il bello era
vario,interessante ora invece se sei "vario" ti
prendono in giro e ti bulleggiano. I ragazzi
,soprattutto ,per paura di venir presi in giro si
vestono tutti in modo terribilmente uguale, ascoltano
la stessa musica e guardano le stesse serie. I
personaggi della musica vengono imitati ed ammirati
al punto che molti fan quando sentono un insulto al
proprio idolo si infuriano e litigano arrivando ad
alzare le mani, che se ci pensiamo è davvero una
cosa stupida, così come sono ridicole le persone che
si vestono punk per imitare il proprio idolo,
credendosi alternativi,mentre sono solo dei falsi
,degli imitatori privi di vera personalità .
Emma Caprioglio e un gruppo di alunni della 2B
carpe diem
interno nievo
GIORNATA
INTERNAZIONALE
IL BORGO MEDIEVALE
Il 24 marzo 2014 la classe 1E si è recata al Borgo Medievale del parco del
Valentino. Francesca, la nostra guida, ci ha portato a visitare la maestosità di questo
castello. Non tutti sanno che questo castello non è mai stato abitato,ed è stato
costruito appositamente per essere un museo. All’ ingresso c’è un ponte levatoio che
viene tirato su al calar del sole e giu all’alba. Disegnato sopra alla porta delle mura
c’è un grande “mostro peloso”che tiene in mano un mazza, che indica che all’
interno della città ci sono delle leggi e delle regole da rispettare. Di conseguenza a
chi non le rispettava veniva attaccata la testa alla gogna e non beveva nè mangiava
per circa tre giorni; il poveretto poteva anche venire umiliato con lanci di verdure
contro di lui. Francesca ci ha portato a visitare molte stanze: la prima che abbiamo
visto è stata la stanza per “accogliere” i nemici, subito dopo c’era il cortile che era
la stanza più importante del castello, perché era attorno ad esso che era costruita
l’intera pianta del castello. Nella stanza delle guardie lungo i muri erano appese
armature, balestre ed archibugi, lontani antenati dei fucili. In questo locale i
cavalieri dormivano, mangiavano e si riposavano. A seguire c’erano le due cucine,
una che aveva il ruolo di dispensa mentre l’altra era dove la servitù mangiava, ed i
cuochi preparavano il cibo per i nobili del castello. Nella sala da pranzo, dove
mangiavano i nobili con il Conte, dopo la cena venivano tolti i tavoli ed arrivava il
giullare che faceva partire le danze. Egli veniva messo dietro una specie di pannello
perché non si mescolasse alla nobiltà. Poi c’era una stanza dove stava il capo delle
guardie, collegata direttamente con le caditoie, che erano dei buchi che guardavano
sulla stanza di "accoglienza" per i nemici. Da codeste caditoie venivano buttati giù
sassi, acqua bollente e sabbia incandescente sui poveri nemici. Molte camere ci ha
mostrato la nostra guida, ma il luogo dove si soffriva di più erano le prigioni, dove si
pativano le gogne manili e testili, cioè testa e mani erano bloccate in un giogo di
legno. C’erano due tipi di condanne a morte per le classi sociali alte e basse, quella
per i più umili era l’impiccagione perché si soffriva di più, mentre per i nobili c’era
la decapitazione.
Dopo aver visitato l’interno del castello la mia classe ha visitato anche gran parte
dell’esterno, ma a causa della pioggia, siamo entrati in una struttura dove abbiamo
fatto il cruciborgo (un cruciverba sul medioevo) divisi in quattro squadre. Questa
esperienza al Borgo Medievale è tata molto divertentente ed instruttiva, ringraziamo i
nostri professori che l'hanno organizzata.
Redattrice: Celeste Mostert 1E
carpe diem
GIORNATA INTERNAZIONALE del BRAILLE
Io leggo con le dita
e lo farò per tutta la vita.
A scuola il braille ho imparato
e non l’ho più dimenticato.
Le parole sono fatte di puntini
ma le sanno leggere solo alcuni bambini.
EDOARDO OSELLA classe I D
PENSIERI, RIFLESSIONI e altro
Il Braille è un sistema di scrittura a punti in rilievo, leggibili con il tatto e serve per le persone non
vedenti per comunicare e scrivere. E’ stato inventato da Louis Braille. I caratteri sono ottenuti dalla
combinazione di sei punti disposti in due colonne e tre righe. Essi sono tre punti a sinistra e tre
punti a destra. Dal centro e verso sinistra si trovano i tasti per i punti 1,2,3 mentre verso destra
quelli per i punti 4,5,6. I caratteri dell’alfabeto derivano dalla diversa collocazione e dal numero
variabile dei punti. Si può scrivere qualsiasi parola, segni matematici, musicali o di punteggiatura.
Della mia classe c’è Edoardo un compagno non vedente che utilizza la dattilobraille che non ha un
tasto per ogni carattere ma dispone di sei tasti che corrispondono a sei punti della cella Braille, di un
tasto per la spaziatura, uno per andare a capo e uno per tornare indietro. Il giorno 21/02/14 è stata la
giornata Nazionale del Braille ed io, con Edoardo ed Anna siamo andati nelle classi II d, III d e in
segreteria per informare gli altri ragazzi e le altre persone su questa giornata e su questo sistema di
lettura e scrittura per i non vedenti. La stessa cosa hanno fatto tutti i nostri compagni, così tutta la
scuola è stata sensibilizzata. E’ stata un’esperienza molto speciale. Inoltre sono stati messi delle
targhette scritte in braille in tutti i luoghi importanti per i non vedenti: le porte delle classi,
l’ascensore, la segreteria, la palestra, la sala insegnanti, ecc.
Carlotta Panini e Pietro Gardino I D
FILASTROCCA “ IL BRAILLE”
Per leggere, scrivere e per studiare
non solo la vista tu puoi usare,
se tu sei in gamba e fai attenzione
un metodo c’è, una grande invenzione!
Con un solo dito potrai sentire
i punti in rilievo e tutto capire.
Scrittura “BRAILLE” è stata chiamata
dal nome di colui che l’ha inventata.
Giulia Beltramo I
carpe diem
tendenze
SWAG
Queste scarpe sono davvero swag!!!
Quel vestito é troppo swag!
Swag, swag, swag, swag!!! Impazziamo tutti quest'anno per questa parola!
Ma sappiamo realmente cosa significa?
Il termine "swag", tornato di moda quest'anno anche grazie a Justin ed alla sua canzone "Swag's
Mean", si è facilmente diffuso negli ultimi anni lontano dalle realtá legate all'hip bop, mondo dal
quale questo stile è nato.
MA DA COSA DERIVA?
Swag, tradotto in italiano come "bottino o refurtiva", nello slang dei giovani è il degno sostituito
dalla parola "cool" identificando quindi una persona, un capo di abbigliamento o, in generale, un
oggetto che ha stile.
"Hei, You've got swag" corrisponde al nostro "Hei, hai stile!".
Lo swag non è legato solo al modo di vestirsi e di scegliere i giusti accessori, è anche un vero
proprio stile di vita: sottolinea anche il comportamento e l'attitudine della persona- alla fine la
parola d'ordine è ostentare il proprio stile, osare ed essere fuori dagli schemi. Anche Miley Cyrus,
scegliendo il titolo del suo ultimo album #Bangerz ha optato per uno slang strettamente legato allo
swag, sottolineando la volontà di creare un album cool, che rispecchi il suo stile ed il suo
atteggiamento.
La parola swag, in altri casi, può essere una sigla, ma che non riguarda lo stile
•Secrelty We Are Gay
•Somethong We ALL tired of he arino
•termine utilizzato dagli scozzesi per rappresentare una persona che cammina in modo particolare.
Esterina Cusumano redattrice 1ªA
carpe diem
musica e dintorni
Zendaya e Bella Thorne a confronto
Zendya Coleman è un'attrice, cantante,
ballerina e modella statunitense. Lei ha iniziato
la sua carriera come modella per Macy's,
Bella Thorne è un'attrice, cantante e ballerina
Mervyns e Olden Navy. Nel 2009 ha figurato nel statunitense. Nel 2003 ha partecipato a “Fratelli
video musicale Kidz Bop per la sua cover del
per la pelle”. Nel 2008 E’ stata protagonista
brano Hot an Cold. Nel 2010 ha iniziato a
della serie “My own worst enemy” poi è
lavorare per la Disney con la serie “A tutto
comparsa nella serie “Little work”. Nel 2011 ha
ritmo” nel ruolo di Rochy Blue. Nel 2011 ha
partecipato con Zendaya alla parata di Natale e
inciso il suo primo singolo “Swog il Out” questo ha inciso con Pia Mia il singolo “Bubblegum
video è stato rilasciato il 15 dicembre. In questo Boy” anche lei partecipa ad A tutto ritmo.
periodo ha anche prtecipato alla parata di Natale
della Disney. Nel 2012 ha girato il suo secondo
video “Clique” mentre nel 2013 ha girato un
terzo video “Love Me Like You Do”.
Miley Ray Cyrus, vero nome Destiny Hope Cyrus è nata a Nashville, negli USA il 23 novembre
1992) è un'attrice e cantautrice. Diventa famosa grazie al ruolo di Miley stewart/Hanna Montana
nella hit tv series della Disney Channel “Hanna Montana”. Nell'ottobre del 2006 esce la prima
colonna sonora del programma dove Miley canta nove canzoni, otto come Hanna Montana ed una
come se stessa. Nel 2007 firma per la Hollywood Records un contratto per intraprendere la carriera
solista e pubblica l'album “Meet Miley Cyrus”, insieme alla seconda colonna sonora “Hanna
Montana 2”. Nello stesso anno si esibisce nel Best of
WorldsTtour, in cui canta sia come se stessa che come
personaggio. Il tour si trasforma poi in un film – concerto ed un
album dal vivo, Hanna Montana e Miley Cyrus: Best of Both
Worlds concert usciti nel gennaio del 2008. Nel luglio 2008
pubblica il suo secondo album da solista, Breakout. Nello stato
del Montana: The movie, uscito nel 2009 durante la primavera
e l'estate del 2009 escono altre due colonne sonore “Hanna
Montana the movie e Hanna Montana 3”.
carpe diem
italia
Bambini dell’Aquila: Mai stati in una vera scuola
I bambini dell’Aquila,
non sono mai stati
dentro ad una vera
scuola; con i muri di
mattoni,
con
un
portone, con un tetto
con sopra le tegole e
con un pavimento.
Dopo al sisma del 3
aprile di cinque anni
fa, che ha distrutto
tutta l’Aquila, non sono mai più state ricostruite delle
scuole con tutte le caratteristiche che ho elencato
prima, sono
in scuole fatte di lamiera, di
prefabbricati; che avevano montato per esigenza
subito dopo in sisma. Ogni giorno, quando suona la
campanella entrano in scatole di lamiera per restarci
otto ore o a volte di più. In Emilia Romagna dopo
pochi mesi dal sisma sono state ricostruite 58 scuole.
A L’Aquila e dintorni dopo qualche mese sono
arrivati 31 Musp (Moduli ad Uso Scolastico
Provvisorio), volgarmente definiti containers. Ma
cinque anni dopo a L’Aquila e dintorni ci sono gli
stessi 31 Moduli ad Uso Scolastico Provvisorio
frequentati da oltre 6 mila studenti. Qualcosa non
torna. Anche perché nel frattempo le scuole private
sono state ricostruite. «Forse c’è un equivoco, si
chiamano Moduli ad Uso Scolastico Provvisorio, la
“p” non vuol dire permanente». Terrorizzati all'idea
di questa latta provvisoria che lentamente si
trasforma in permanente, gli aquilani quest’inverno
hanno iniziato a far sentire la loro voce. Nei giorni
scorsi Stefania Pezzopane - da un anno al Senato per
il Pd - ha scritto a Matteo Renzi per chiedergli di
occuparsi anche delle scuole devastate dal terremoto,
perché se l’edilizia scolastica italiana è uno scandalo
le scuole del capoluogo abruzzese sono un buco nero
non più sostenibile. Il sindaco della città, Massimo
Cialente, era a Palazzo Chigi per incontrare il
sottosegretario Graziano Del Rio e il sottosegretario
all’Economia Giovanni Legnini. Hanno ottenuto la
promessa di una delibera
del Cipe che assegnerà
altri 180 milioni di euro
e la possibilità che le
risorse destinate alla
ricostruzione
dei
Comuni
terremotati
possano essere escluse
dal Patto di stabilità.
Sono fondi da destinare
alla ricostruzione in
generale non solo alle scuole, ma è comunque
qualcosa. Ed è probabile che Renzi sia all’Aquila per
l’anniversario del 6 aprile. All’Aquila non vogliono
più sentir nominare la parola progetto. Di rinvio in
rinvio, di promessa in promessa, chi era bambino
durante il terremoto è diventato adolescente e chi
aveva delle speranze ha fatto presto a vederle
trasformarsi in delusioni. Perché è vero che gli
studenti entrano ogni giorno in classe, trovano gli
insegnanti, e fanno lezione come se tutto fosse
normale ma di normale c’è poco in un Musp dove
per quattro anni nessuno sa che agli aeratori vanno
cambiati i filtri. «Poi c’è stato un allarme per le
malattie respiratorie - racconta Silvia Frezza - e ora
i filtri vengono cambiati ogni sei mesi». Né è
normale che si debba studiare in luoghi dove i
pavimenti sono coperti di scotch da imballaggio
perché i moduli si stanno separando, e si deve usare
il nastro adesivo per tenere insieme le connessioni e
per evitare che i bambini si taglino con i pezzi
staccati. Oppure che le finestre studiate per dei
containers non garantiscano la sicurezza dei ragazzi
e quindi debbano restare chiuse per l’intera
giornata.
Ternavasio Andrea 3D
carpe diem
dal mondo
TIFONE COLPISCE LE FILIPPINE
Il 7 novembre le Filippine sono state colpite da un potente tifone chiamato Haiyan, una tempesta
che viaggiava a 300 chilometri all’ora. Il 15 novembre la protezione civile filippina ha aggiornato a
3.621 il numero dei morti. Il presidente filippino, Benigno Aquino, il 13 novembre ha dichiarato
alla Cnn che la stima iniziale di 10.000 morti è stata troppo alta, e che il numero delle vittime
dovrebbe essere inferiore alle attese. Undici milioni di filippini sono rimasti coinvolti nel passaggio
del tifone. Molti di loro sono rimasti senza casa, cibo e acqua corrente. Il tifone si è poi spostato in
Vietnam, dove ha perso forza ed è stato declassato a tempesta tropicale. Secondo il governo
vietnamita il passaggio del tifone Haiyan non ha causato vittime. La tempesta ha colpito anche il
sud della Cina, dove ha causato almeno otto morti.
Il governo delle Filippine ha ricevuto diverse critiche per la lentezza delle operazioni di soccorso,
soprattutto nelle zone più colpite, come Tacloban. Nella città i cadaveri si sono accumulati per le
strade e i residenti, alla disperata ricerca di cibo, hanno cominciato a saccheggiare i negozi. Il 14
novembre un portavoce di Medici Senza Frontiere ha detto alla Bbc che al momento ci sono grandi
problemi logistici nella distribuzione degli aiuti. L’esecutivo si è difeso dicendo che il tifone Haiyan
è una delle tempeste più potenti della storia. Il 14 novembre gli Stati Uniti hanno inviato nelle
Filippine una portaerei, la Uss George Washington, che aiuterà le operazioni di ricerca e soccorso.
Per gli scienziati, che hanno studiato le immagini satellitari, Haiyan è una delle tempeste più forti
approdate sulla terraferma mai registrate. L’aeroporto di Tacloban ha parzialmente riaperto la
mattina dell’11 novembre per permettere un arrivo più veloce degli aiuti umanitari. Il Regno Unito
e gli Stati Uniti hanno inviato navi da guerra per aiutare i soccorsi nelle Filippine. E diversi altri
paesi, tra cui Giappone e Cina, stanno mandando soldi, medicine e provviste
Lodovico Dallago III D
carpe diem
sport
IL TENNIS
La storia del tennis affonda le sue origini all'antico gioco greco
dello “sphairistike”, ed è menzionato nella letteratura fin dal
Medioevo. Francesco I di Francia, che era appassionato del
real tennis, costruì campi e divulgò il gioco sia tra i membri
della corte sia tra il popolo. Il suo successore Enrico II era
anch'egli un ottimo giocatore e continuò la tradizione. Re Carlo
IX stabilì la prima corporazione dei professionisti di pallacorda
nel 1571, organizzando inoltre il primo torneo con racchette,
diviso in tre categorie: apprendisti, amatori, professionisti. Il
primo codice che stabiliva il regolamento ufficiale fu pubblicato nel 1599. Nel XVII secolo il gioco
si diffuse completamente tra la nobiltà della Francia, della Spagna, dell'Italia e dell'Impero AustroUngarico.
Come nasce il nome tennis? E' un mistero linguisticosportivo ancora senza soluzione.
Il nome del tennis non è sempre stato quello che è adesso.
In Italia era spesso confuso con la pallacorda, e nella
stessa Francia era chiamato “jeu de paume”, come la
pallacorda. Alcune fonti riportano che il nome nacque
dall'errore di pronuncia dei primi tennisti inglesi: nel XV
secolo era obbligatorio, prima di lanciare la palla, gridare l'avvertimento tenez! (francese per
tenete!). L'assonanza portò poi gli inglesi a chiamare il gioco "tennis". L’ origine del tennis
potrebbe appartenere alla cultura greco-romana o in uno sport praticato dai Longobardi.
Il Campo da gioco:
Il rettangolo di gioco ha le seguenti dimensioni: 23,77m x 10,97m, compresi i corridoi laterali che
sono larghi 1,37m e sono validi solo nelle partite di doppio. La rete divisoria ha un'altezza di
0,914m al centro e 1,07m ai pali di sostegno che devono trovarsi a 0,914m fuori dal campo. Da
ciascun lato della rete le linee a essa parallele sono distanti 6,40m; subito dopo 5,49m sono
tracciate le linee di battuta. Ai lati e al fondo del campo di gioco vi deve essere spazio sufficiente
per i movimenti del giocatore: rispettivamente di 3,65m e 6,40m per le gare internazionali e 3,05m
e 5,50m per le gare nazionali.
Redattrici Ludovica Covizzi Lucia Guerrara
carpe diem
sport
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Un campo per ogni livello affinché tutti si divertano.
Consigli tattici
Quando si gioca una partita, non è l’esecuzione tecnica del colpo ad essere decisiva bensì il
risultato che si ottiene. In poche parole non è l’estetica a contare ma l’efficacia!
Superficie
Una diversa superficie, imprimendo una diversa velocità al rimbalzo della pallina, può modificare
notevolmente lo stile di gioco del tennis. In particolare nei tornei internazionali vengono utilizzate
tre tipologie di superficie:
•
•
•
Terra, principalmente utilizzata la classica terra battuta (come nel Roland Garros o negli
Internazionali d'Italia), più raramente (specialmente negli USA) una particolare tipologia di
terra denominata terra verde;
Superfici dure, come il cemento (es. US Open e Australian Open fino al 2007) o i manti
sintetici;
Erba, il cui esempio più celebre è Wimbledon.
Evoluzione della Racchetta
Questo sport ha subìto comunque una completa rivoluzione con l'utilizzo delle racchette di grafite,
inizialmente furono adottate quelle in leghe di metallo, ma davano molte vibrazioni dopo ogni
colpo. Rispetto alle racchette di legno, che furono utilizzate fino agli anni ottanta, le nuove, per via
della loro straordinaria leggerezza e del piatto corde molto più uniforme, sono risultate essere un
discreto vantaggio per i tennisti meno dotati tecnicamente perché le nuove racchette perdonano più
facilmente anche impatti con la palla non perfetti e soprattutto quelli dotati di più potenza a causa
della leggerezza.
carpe diem
sudoku
a cura di Davide Mesturino redattore III D
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