Rapporto tra corruzione per l`esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e

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Rapporto tra corruzione per l`esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e
Rapporto tra corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e
corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.).
Brevi osservazioni a margine della sentenza Cassazione, Sezione VI, n. 40237 del 07.07.2016,
depositata il 27.09.2016.
Di Pasquale Mandolfino
Sommario
1 PREMESSA ................................................................................................................................................... 1
a) QUAESTIO IURIS ..................................................................................................................................... 1
b) QUAESTIO FACTI.................................................................................................................................... 2
c) ITER PROCESSUALE.............................................................................................................................. 2
2 I DELITTI DI CORRUZIONE PER L’ESERCIZIO DELLA FUNZIONE (art. 318 c.p.) E CORRUZIONE
PER UN ATTO CONTRARIO AI DOVERI D’UFFICIO (art. 319 c.p.)......................................................... 3
a) DUE DIVERSE FATTISPECIE INCRIMINATRICI A CONFRONTO TRA PASSATO E PRESENTE
....................................................................................................................................................................... 3
b) DALLA CORRUZIONE CD. IMPROPRIA, ANTECEDENTE E SUSSEGUENTE, ALLA
CORRUZIONE PER L’ESERCIZIO DELLA FUNZIONE (art. 318 c.p.) .................................................. 4
c) IL DELITTO DI CORRUZIONE PER UN ATTO CONTRARIO AI DOVERI D’UFFICIO (art. 319
c.p.) O CORRUZIONE CD. PROPRIA ........................................................................................................ 7
3 LA DECISIONE ........................................................................................................................................... 10
a) INTRODUZIONE ................................................................................................................................... 10
b) QUAESTIONES IURIS AFFRONTATE ................................................................................................ 10
c) OSSERVAZIONI FINALI ...................................................................................................................... 15
1 PREMESSA
a) QUAESTIO IURIS
Con la sentenza n. 40237 del 7 luglio 2016, depositata il 27 settembre 2016, la Corte Suprema di
Cassazione, VI Sezione Penale (Presidente Carlo Citterio, Estensore Andrea Tronci) è tornata ad
occuparsi di un tema classico e perciò sempre attuale del diritto penale.
Dopo aver indagato i profili di analogia e di distinzione tra i reati di corruzione per l’esercizio
della funzione ex art. 318 c.p. e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio ex art. 319
c.p., ha esaminato il rapporto intercorrente tra le due fattispecie incriminatrici, tracciando un’actio
finium regundorum tra le stesse. La Corte ha indagato il tutto alla luce sia della tradizionale
distinzione tra la corruzione cd. propria e cd. impropria, sia della novella normativa introdotta
1
con la l. 6 novembre 2012 n. 190, di cui ha valutato gli effetti sulle due figure incriminatrici in
punto di diritto intertemporale.
b) QUAESTIO FACTI
In particolare la Suprema Corte si è impegnata a qualificare giuridicamente la condotta di un
geometra, tecnico-istruttore in servizio presso la Direzione Sviluppo, Territorio ed Edilizia di un
comune, consistente in plurimi episodi di ricezione di denaro (attraverso un geometra, libero
professionista e consulente di un’associazione di albergatori, che faceva da intermediario) ad opera
di privati, che elargivano tali somme in cambio di favori e vantaggi, quali concessioni,
autorizzazioni, rettifiche ed approvazioni di progetti, nonché la creazione di vere e proprie “corsie
preferenziali” nella gestione di procedimenti edilizi e ciò anche attraverso la sottrazione o
l’inserimento di atti dai fascicoli del Comune.
Esattamente all’imputato venivano contestati cinque capi d’imputazione, di cui sub capo 1) lo si
accusava di aver percepito dal proprio intermediario, nel periodo compreso tra agosto 2003 e marzo
2011, somme oscillanti tra 50,00 € e 1.500,00 €, a seconda della tipologia e della complessità
dell’intervento operato a favore del corruttore, in relazione a ben sessantotto pratiche
amministrative. Mentre nei capi d’imputazione sub 2), 3), 4), e 5) gli venivano addebitati altrettanti
episodi di mala gestio riconducibili al settore urbanistico.
c) ITER PROCESSUALE
Il caso de quo giungeva al vaglio degli Ermellini a seguito delle valutazioni dei giudici di primo e di
secondo grado, i quali, pur concordando in ordine alla sostanziale colpevolezza dell’imputato,
evidenziavano una prospettiva nettamente differenziata con riferimento alla esatta qualificazione
giuridica di alcuni dei numerosi episodi criminosi contestati dalla pubblica accusa.
Più specificamente il Tribunale, quale giudice di prime cure, condannava l’imputato, ravvisando
negli addebiti sub 1), 2), 3), 4), e 5) l’unico reato di corruzione per un atto contrario ai doveri
d’ufficio ex art. 319 c.p., identificato nella formulazione antecedente alla riforma di cui alla
novella legislativa del 2012.
Ex adverso la Corte d’Appello, quale giudice di seconda istanza, pur confermando la sostanziale
condanna dell’imputato, scindeva i capi d’imputazione. In particolare la Corte riteneva che i fatti
contestati sub 1), avvinti dal vincolo della continuazione ex art. 81 co. 2 c.p., meritassero più
corretto inquadramento entro le maglie del delitto di corruzione per l’esercizio della funzione ex
art. 318 c.p., quindi nella sua formulazione successiva all’entrata in vigore della riforma del 2012,
in ciò dunque prendendo le distanze dal dictum di primo grado. Mentre sosteneva che i restanti
addebiti sub 2), 3), 4), e 5) integrassero il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri
d’ufficio ex art. 319 c.p. nella sua versione antecedente al restyling del 2012, sotto tale ultimo
profilo quindi convalidando la prospettazione del giudice di prima istanza.
La vicenda concreta giungeva all’esame della Suprema Corte a seguito di ricorso per Cassazione
promosso sia dal difensore dell’imputato, sia dal Procuratore Generale della Repubblica, animati,
per altro, da motivi e doglianze di segno a dir poco antitetico.
Con più precisione, la difesa dell’imputato lamentava la riconduzione dei soli fatti di cui al capo
d’imputazione sub 1) al delitto di cui all’art. 318 c.p. e sosteneva la necessità di ricondurre anche
gli addebiti sub 2), 3), 4), e 5) entro i confini del delitto di corruzione per l’esercizio della
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funzione ex art. 318 c.p. All’esatto opposto si poneva la principale eccezione del Procuratore
Generale, il quale impugnava la pronuncia d’appello al fine di veder ricondurre anche gli episodi
descritti nel capo d’imputazione sub 1) alla fattispecie incriminatrice della corruzione per un atto
contrario ai doveri d’ufficio ex art. 319 c.p. nella sua fisionomia ante-riforma del 2012.
2 I DELITTI DI CORRUZIONE PER L’ESERCIZIO DELLA FUNZIONE
(art. 318 c.p.) E CORRUZIONE PER UN ATTO CONTRARIO AI DOVERI
D’UFFICIO (art. 319 c.p.)
a) DUE DIVERSE FATTISPECIE INCRIMINATRICI A CONFRONTO TRA
PASSATO E PRESENTE
La corruzione ha da sempre rappresentato, prima ancora che un reato previsto e punito
dall’ordinamento penale, un fenomeno sociologico tra i più preoccupanti e difficili da arginare
all’interno della società italiana nel corso del tempo.
Tracce di tal genere di malcostume - rappresentativo di un deprecabile modo di concepire i rapporti
tra i cives e l’Autorità costituita - sono già presenti in fonti letterarie molto risalenti. Orazio nella
sua “Satira del Seccatore”1 riferisce del suo incontro a Roma, sulla via che dal Foro va al
Campidoglio, con uno strano personaggio, che si mostra fin da subito spaccone, gretto, meschino,
un vero arrampicatore sociale. Egli tenta in tutti i modi di esibire al poeta le proprie doti artistiche,
ottenendo però solo l’effetto di irritare Orazio, il quale cerca in più modi di sbarazzarsi dello
scomodo interlocutore, del seccatore appunto, senza, per altro, riuscirci. Solo dopo lungo
discorrere, il seccatore chiacchierone chiede al poeta “Maecenas quomodo tecum?”2, ovvero “Come
va tra te e Mecenate?”, così palesando il vero scopo di quel dialogo forzato: tentare di
corrompere il poeta affinchè lo presenti a Mecenate e lo introduca nel suo circolo di
intellettuali, al fine di trarne tutti i vantaggi che il filantropo mette a disposizione dei propri
1
(Orazio, Satire, I, 9)
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In particolare versetti 43-48:
“… cùm victòre, sequòr. "Maecènas quomodo tècum?"
Hìnc repetìt. "Paucòrum hominum èt mentìs bene sànae".
“Nèmo dèxteriùs fortùna est ùsus. Habères
màgnum adiùtorèm, possèt qui fèrre secùndas,
hùnc hominèm vellès si tràdere: dìspereàm, ni
sùmmossès omnìs". …”
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protetti. Né però riesce nel proprio intento, Orazio lasciando intendere che l’accesso al virtuoso
circolo è subordinato al possesso di valori quali l’onestà, l’integrità e l’autentico talento.
Il legislatore odierno ha elaborato una strategia di contrasto ai fenomeni di corruttela basata
essenzialmente su due essenziali fattispecie incriminatrici, la corruzione per l’esercizio della
funzione ex art. 318 c.p. e la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio ex art. 319 c.p. E’
opportuno passare in rassegna i loro peculiari elementi costitutivi al fine di meglio poter indagare il
rapporto intercorrente tra le stesse figure criminis. La loro attuale fisionomia, per altro, è solo il
portato di una evoluzione normativa lunga e tormentata, che ha preso le mosse dal Codice penale
del 1889 per poi proseguire nel Codice penale del 1930, e della quale è opportuno, pur brevemente,
dare atto.
b) DALLA CORRUZIONE CD. IMPROPRIA, ANTECEDENTE E
SUSSEGUENTE, ALLA CORRUZIONE PER L’ESERCIZIO DELLA
FUNZIONE (art. 318 c.p.)
La prima forma di incriminazione storicamente predisposta dal legislatore italiano per contrastare il
fenomeno della corruzione all’interno della P.A. è rintracciabile nel Codice penale Zanardelli del
1889, che, nel Libro II, Titolo III, intitolato Dei Delitti contro la Pubblica Amministrazione, Capo
III, rubricato Della Corruzione, all’art. 171 puniva “Il pubblico ufficiale, che, per un atto del suo
ufficio, riceve, per sé o per altri, in denaro o in altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta o
ne accetta la promessa …” con “la reclusione sino ad un anno, con la interdizione temporanea dai
pubblici ufficii e con la multa da lire cinquanta a tremila”. Trattasi della prima cristallizzazione
codicistica della corruzione cd. impropria, cioè di quella forma corruttiva caratterizzata dalla
configurazione, quale oggetto del patto illecito di mercimonio della funzione pubblica, del
compimento da parte del funzionario pubblico di un atto del suo ufficio, cioè di un atto attuativo dei
suoi doveri istituzionali, che quindi avrebbe comunque dovuto essere emesso dall’agente pubblico a
prescindere dalla ricezione o promessa di vantaggi da parte del privato corruttore. La sostanziale
aderenza dell’atto, pur sollecitato illecitamente, alle regole istituzionali di settore, connota tale
fattispecie incriminatrice di un ridotto disvalore penale, ciò che coerentemente giustificava un
trattamento sanzionatorio piuttosto blando.
La figura della corruzione cd. impropria è sopravvissuta anche nel Codice penale Rocco del 1930,
il quale anzi la ha arricchita di distinzioni e specificazioni.
L’art. 318 c.p., rubricato Corruzione per un atto d’ufficio, infatti, al co. 1 sanzionava il “pubblico
ufficiale, che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro o altra
utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa …”, punendolo dapprima
“con la reclusione fino a tre anni e con la multa da lire centomila a due milioni” e, a partire
dall’entrata in vigore della l. 26 aprile 1990 n. 86, “con la reclusione da sei mesi a tre anni”. Il
legislatore del 1930, dunque, manteneva la figura della corruzione cd. impropria, circoscrivendo
però al comma 1 la fattispecie corruttiva avente ad oggetto un atto dell’ufficio che dovesse ancora
compiuto e che, quindi, l’agente pubblico semplicemente si impegnasse ad emettere in futuro. Si è
data, così, origine alla specifica figura della corruzione impropria cd. susseguente, caratterizzata
dalla peculiarità per cui la realizzazione dell’atto da parte dell’agente pubblico segue, piuttosto che
precedere, l’accordo criminoso di mercimonio dell’attività pubblicistica.
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La stessa norma al comma 2 comminava la pena, dapprima “della reclusione fino a un anno e della
multa fino a lire seicentomila” e, successivamente alla novella del 1990, “della reclusione fino a un
anno”, nel caso in cui “il pubblico ufficiale riceve retribuzione per un atto d’ufficio da lui già
compiuto”. Il redattore del codice del 1930 riservava quindi al comma 2 dell’art. 318 c.p. la
previsione e la punizione della specifica ipotesi di corruzione impropria cd. antecedente,
caratterizzata dall’inversione logica e cronologica, rispetto alla ipotesi di cui al comma 1, del
perfezionamento del patto illecito rispetto all’esecuzione dell’atto pubblico. Nel capoverso in esame
era stigmatizzata, infatti, l’ipotesi in cui il compimento dell’atto ad opera del pubblico ufficiale
precedesse, anzichè seguire, l’illecita ricezione della retribuzione. Il dato che l’atto del funzionario
rispetti le regole pubblicistiche di forma e contenuto che sovrintendono alla sua emissione, in uno
alla circostanza che l’atto stesso sia già stato compiuto a prescindere dalla datio illecita e che quindi
il patto corruttivo intervenga solo in un momento distinto e successivo a quello di realizzazione di
un’attività istituzionale comunque necessitata, sono elementi sintomatici di uno scarso disvalore
penale, che coerentemente giustificava una scelta sanzionatoria sensibilmente tenue.
La fattispecie incriminatrice de qua subisce un completo restyling con l’entrata in vigore della l. 6
novembre 2012 n. 190, che ne ridefinisce significativamente la fisionomia. L’art. 318 c.p., nella
versione attuale, è rubricato Corruzione per l’esercizio della funzione, sanzionando, fino al 2015
“con la reclusione da uno a cinque anni” e, dall’entrata in vigore della legge n. 69 del 27 maggio
2015 in poi, “con la reclusione da uno a sei anni”, il “pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle
sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne
accetta la promessa”. Il novum normativo ha rappresentato il recepimento in sede legislativa delle
istanze a più riprese manifestate dalla giurisprudenza di legittimità, nonché l’allineamento del
legislatore domestico alle soluzioni di politica criminale già da tempo adottate negli ordinamenti di
molti Paesi europei, il tutto nel segno di un’anticipazione della tutela nel reato de quo, nella
prospettiva di una più efficace strategia di contrasto al dilagare del fenomeno corruttivo.
In modo particolare la soluzione elaborata dal riformatore del 2012 scardina la summa divisio, di
zanardelliana memoria, sia tra corruzione cd. propria ed impropria, sia tra corruzione cd.
antecedente e susseguente. Tali distinzioni presupponevano che l’ubi consistam del fenomeno
corruttivo si polarizzasse essenzialmente sui singoli atti emessi dall’agente pubblico, i quali, infatti,
potessero essere classificati sia a seconda della loro aderenza o meno alle regole amministrative, sia
a seconda della loro collocazione temporale rispetto alla stipulazione del pactum sceleris.
Un’impostazione del genere, che immaginava quindi una corruzione fatta di singoli e specifici atti
pubblici, aveva sicuramente il grande pregio di essere semplice e schematica, consentendo
all’interprete di ritenere integrato il reato solo ove emergesse la prova di un patto a fronte di un
preciso atto del pubblico ufficiale ed, ex adverso, impedendo la sua configurazione ove il
mercimonio non avesse ad oggetto un dato atto del dipendente pubblico infedele.
Orbene, la novella del 2012 recide il cordone ombelicale della corruzione con l’atto,
abbandonando una logica formale ed abbracciando invece la prospettiva funzionale della
compromissione della funzione pubblica. Più specificamente il novellatore opera mosso dalla
consapevolezza che il necessario aggancio del reato di corruzione al meccanismo dell’atto pubblico
rischia di lasciare impunite numerosissime ipotesi concrete, le quali, pur presentando un’autentica
essenza di segno corruttivo, sono però segnate dalla mancanza del dato formale dell’atto
amministrativo quale controprestazione della datio o promessa illecite. Viene quindi sdoganata e
preferita la prospettiva funzionale, che elegge ad essenziale polo di riferimento del delitto in
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esame la funzione amministrativa. In altre parole, la nuova versione dell’art. 318 c.p. stigmatizza
ogni ipotesi di mercimonio o di asservimento della funzione amministrativo-pubblicistica, arrivando
così a colpire anche condotte prodromiche e/o postume rispetto all’emissione del singolo atto ad
opera funzionario. Il reato di corruzione è stato interessato, insomma, da una evoluzione nella
polarizzazione del disvalore penale, da un passaggio dall’atto alla funzione, attraverso quella che
è stata definita, in modo evocativo ed efficace, la “rarefazione” della corruzione come
tradizionalmente conosciuta. Il delitto, infatti, si è emancipato da uno schema formale, stretto e
rigoroso, ma poco aderente alla realtà criminologica, per transitare in un paradigma più sfumato e
dai contorni meno rigidi, ma di certo più idoneo a far emergere e reprimere il malcostume nella
P.A.
La maggiore e rinnovata adeguatezza della fattispecie in parola emerge chiaramente anche
attraverso l’esame della sua struttura e l’analisi funditus dei suoi caratteri ed elementi costitutivi.
Il bene giuridico che tale previsione incriminatrice tende a proteggere è, di certo, il corretto
funzionamento ed il prestigio della P.A., non disgiunti dall’interesse della P.A. alla fedeltà ed
onestà dei propri funzionari.
E’ possibile affermare che il soggetto attivo del reato è rappresentato in primis dal pubblico
ufficiale, che è expressis verbis ed in via esclusiva nominato ex art. 318 c.p., ed in secundis
dall’incaricato di pubblico servizio, al quale l’art. 320 c.p. estende l’operatività dell’intero
disposto ex art. 318 c.p. Inoltre rientra tra i soggetti attivi del reato il privato parte del pactum
sceleris, contemplato ex art. 321 c.p., secondo il quale le pene previste, tra gli altri, dall’art. 318 c.p.
“ … si applicano anche a chi da o promette denaro o altra utilità.”. La completa equiparazione
quoad poenam del privato-corruttore all’agente pubblico-corrotto fa del reato de quo un illecito a
concorso necessario proprio. Il soggetto passivo è da identificarsi, evidentemente, nello Stato o
nella singola amministrazione di riferimento nel caso concreto.
Passando ad esaminare il profilo oggettivo, la condotta penalmente rilevante coincide con la
indebita ricezione ad opera del funzionario pubblico di denaro o altra utilità ovvero nella
accettazione della promessa di tali beni. Il legislatore riserva quindi la risposta sanzionatoria ad
ipotesi caratterizzate sia dal denaro, sia dalla categoria onnicomprensiva e generica delle utilità,
nonchè alla duplice attività sia della ricezione ingiustificata degli stessi beni, che si colloca in un
momento avanzato ed attuativo dell’accordo, sia della semplice promessa degli stessi, che si
inquadra invece in una fase anticipata e solo formativa del pactum sceleris.
La corruzione integra la tipica ipotesi di cd. reato-contratto, nel quale cioè si colora di illiceità la
stessa stipulazione del contratto a prestazioni corrispettive, in quanto lesiva del principio
dell’incommerciabilità della funzione pubblica. La conseguenza sul piano civilistico di tale
fattispecie è la nullità per violazione di norme imperative ex art. 1418 co. 1 c.c., dovendo
considerarsi il summenzionato principio proprio alla stregua di una norma imperativa, configurante
una regola di validità della pattuizione, piuttosto che una mera regola di comportamento.
Il cd. reato-contratto si distingue dal cd. reato-in contratto, nel quale ad essere stigmatizzata non è la
pattuizione in re ipsa, bensì le modalità di formazione del patto (si pensi, ad esempio, al contratto
frutto di truffa) e per il quale la conseguenza civilistica può essere, a seconda delle caratteristiche
del singolo caso concreto, ora la nullità, ora l’annullabilità.
L’art. 318 c.p. richiede poi che l’attività illecita del funzionario pubblico sia contestualizzata
nell’esercizio delle sue funzioni ovvero dei suoi poteri. Il legislatore circoscrive dunque la
condotta penalmente rilevante dell’agente pubblico alla dimensione istituzionale del suo agere, cioè
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limita l’intervento della scure del diritto penale ai casi in cui emerga che la funzione pubblica venga
piegata a finalità locupletative personali, espellendo quindi dal tessuto della norma incriminatrice
l’attività extra-funzionale del dipendente pubblico inteso quale persona fisica.
Passando ad esaminare l’elemento soggettivo del reato de quo, esso va identificato nel dolo
generico, ovvero nella volontà di ricevere/dare denaro o altra utilità ovvero di accettarne/offrirne la
promessa con la consapevolezza che ciò avvenga al fine di esercitare le funzioni ed i poteri
istituzionali propri dell’agente pubblico.
Infine, è necessario prendere in considerazione i profili di diritto intertemporale che hanno
interessato l’art. 318 c.p. a seguito della riforma del 2012. In particolare, a seguito della novella
legislativa si è posta la quaestio iuris in ordine alla persistenza o meno della punibilità della
corruzione cd. impropria di cui all’art. 318 co. 1 c.p. versione ante-2012. In proposito la Corte di
Cassazione3 ha ritenuto non configurarsi una abolitio criminis, bensì ha riconosciuto la continuità
normativa tra la fattispecie ex art. 318 co. 1 c.p. versione ante-2012 e quella ex art. 318 c.p. post2012. La novella legislativa, infatti, lungi dall’aver ridotto l’area del penalmente rilevante, ha
invece esteso la punibilità, coniando una figura incriminatrice più ampia ed onnicomprensiva di
quella esistente in precedenza. Sulla base di tale premessa e dovendo applicarsi il regime
normativo che, ex art. 2 co. 4 c.p., si configuri come più favorevole in concreto al reo, in sede
applicativa deve essere preferito l’art. 318 co. 1 c.p. versione ante-2012, in quanto prevede la
pena, più blanda, della reclusione da sei mesi a tre anni.
c) IL DELITTO DI CORRUZIONE PER UN ATTO CONTRARIO AI
DOVERI D’UFFICIO (art. 319 c.p.) O CORRUZIONE CD. PROPRIA
La seconda essenziale figura incriminatrice storicamente elaborata per contrastare il fenomeno
corruttivo risale al Codice penale Zanardelli del 1889, che, sempre nel Libro II, Titolo III,
intitolato Dei Delitti contro la Pubblica Amministrazione, Capo III, rubricato Della Corruzione,
all’art. 172 stigmatizzava il contegno del “pubblico ufficiale, che, per ritardare od omettere un atto
del suo ufficio, o per fare un atto contro i doveri dell’ufficio medesimo, riceve o si fa promettere
danaro o altra utilità, per sé o per altri”, sanzionandolo con la pena della “reclusione da sei mesi a
cinque anni, con la interdizione temporanea dai pubblici ufficii e con la multa da lire cento a
cinquemila”. Siamo di fronte alla prima formalizzazione normativa della figura della corruzione
cd. propria, cioè della più grave ipotesi di mercimonio della funzione pubblica, caratterizzata da un
contegno del pubblico funzionario deliberatamente contrastante con le norme che regolamentano
l’esercizio del suo incarico istituzionale. In tale fattispecie incriminatrice la compravendita del ruolo
istituzionale dell’agente pubblico sfocia, in particolare, o nella emanazione di un atto in tempi
successivi a quelli scanditi dalla normativa di settore, o nella mancata adozione di un atto, che
invece si atteggia come necessitata alla stregua delle regole pubblicistiche, o infine nel
confezionamento di un atto che contraddica i dettami della buona gestione dell’ufficio al quale
l’agente pubblico è preposto. E’ intuitivo il maggior disvalore penale di tale forma di corruttela
rispetto alla corruzione cd. impropria; ciò, coerentemente, giustificava una scelta legislativa più
impegnativa ed afflittiva quoad poenam.
Anche la corruzione cd. propria viene ereditata dal Codice penale Rocco del 1930, che addirittura
ha infittito il tessuto normativo della relativa disposizione incriminatrice.
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Cass., Sez. VI, n. 19189 del 11 gennaio 2013.
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L’art. 319 c.p. incrimina l’atteggiamento del “pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per
aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto
contrario ai doveri d’ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la
promessa”. Tale disposizione comminava, fino al 1990, la sanzione, della “reclusione da due a
cinque anni e [della] multa da lire seicentomila a quattro milioni”, mentre, dal 1990 in poi,
applicava la sola “reclusione da due a cinque anni”, e ancora, dal 2012 in poi, la reclusione “da
quattro a otto anni”, prevedendo, infine, dal 2015 ad oggi, la sanzione della “ reclusione da sei a
dieci anni”, il tutto secondo un trend punitivo evidentemente crescente.
Il codificatore del 1930, dunque, oltre a mantenere la figura criminis della corruzione cd. propria, la
scompone secondo una prospettiva temporale.
E’ corruzione propria cd. antecedente la condotta infedele del funzionario pubblico tenuta “ per
omettere o ritardare … un atto del suo ufficio, ovvero per compiere … un atto contrario ai doveri
d’ufficio”. In tal caso l’indebita dazione o promessa di vantaggi ad opera dell’extraneus-corruttore
precede, anzicchè seguire, la realizzazione del contegno istituzionale del funzionario, consistente
nella mancata ovvero ritardata adozione di un atto necessitato o addirittura nella positiva emissione
di un atto antigiuridico.
Viene qualificata, ex adverso, corruzione propria cd. susseguente quella che vede coinvolto il
pubblico ufficiale “… per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero … per aver
compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio”. Id est viene stigmatizzata l’ipotesi di corruttela
nella quale la dazione o promessa da parte dell’extraneus-corruttore intervenga a valle, cioè soltanto
dopo che l’intraneus-corrotto abbia già realizzato il contegno antigiuridico secondo le tre possibili
varianti, già esaminate, dell’omissione o ritardo di un atto in linea con le direttive istituzionali,
ovvero dell’emissione di un atto anti-funzionale. Si registra in tal caso, rispetto alla corruzione cd.
antecedente, un ribaltamento logico e cronologico dei due momenti, rispettivamente, della
stipulazione e dell’esecuzione del rapporto sinallagmatico di mercimonio dell’attività dell’ufficio.
Orbene, dopo aver esaminato le due possibili forme di estrinsecazione dell’illecito, è ora necessario
passare in rassegna gli elementi costitutivi del reato di corruzione cd. propria nella fisionomia ad
essa conferita dall’art. 319 c.p.
La fattispecie de qua è volta a proteggere il bene giuridico del prestigio della P.A. e del regolare
funzionamento della P.A. da tutti i possibili vulnera, rappresentati da funzionari infedeli e senza
scrupoli che compromettano la funzionalità dell’attività amministrativa.
I soggetti attivi del reato sono un intraneus, cioè sia il pubblico ufficiale, sia l’incaricato di
pubblico servizio per effetto dell’estensione operata ex art. 320 c.p., sia anche un extraneus, ovvero
il privato-corruttore, il quale, ai sensi dell’art. 321 c.p., non sfugge alla scure della sanzione
penale, il suo contegno non venendo valutato come meno turpe di quello del funzionario pubblico;
ciò rende il delitto de quo a concorso necessario proprio. Soggetto passivo dell’illecito è lo Stato
o comunque l’ente pubblico al quale appartiene l’intraneus.
In ordine all’elemento oggettivo del reato, si è già dato atto della condotta penalmente rilevante
con riguardo alla summa divisio tra la forma antecedente e quella susseguente del meccanismo
corruttivo. Il contegno incriminato è sia quello quello del funzionario, il quale riceve o accetta la
promessa di denaro o altra utilità, sia quello del privato, il quale dà o promette i suddetti
vantaggi.
Importante è circoscrivere la latitudine semantica del concetto di atto contrario ai doveri d’ufficio.
Per dottrina e giurisprudenza consolidate esso non va inteso unicamente quale atto violativo di un
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preciso obbligo normativo, positivamente cristallizzato a carico del funzionario, bensì qualunque
atto erosivo dei valori di imparzialità, fedeltà, onestà, obbedienza, ai quali l’agente pubblico è
tenuto in modo immanente. Inoltre non è necessario che l’atto del dipendente pubblico assuma la
forma di un vero e proprio provvedimento amministrativo formalmente inteso, ma è sufficiente
anche un mero comportamento de facto che si configuri come necessario anche in base a mere
istruzioni di servizio. Più in generale i più recenti arresti giurisprudenziali e dottrinali propendono
per una valorizzazione, non tanto e non solo dei singoli atti posti in essere dal dipendente pubblico,
i quali, presi a sé stanti, potrebbero anche essere formalmente legittimi, quanto del complessivo
servizio reso dal funzionario alla collettività, che invece può rivelarsi come sostanzialmente
asservito a finalità extra-pubblicistiche. E’ insomma doveroso, da parte dell’interprete, adottare
sempre una prospettiva d’indagine anche di tipo funzionale e non già soltanto rigidamente formale.
Vexata quaestio è la configurabilità o meno del reato in esame a fronte dell’adozione di atti aventi
natura discrezionale. Ad oggi la tesi prevalente in dottrina fornisce una risposta affermativa,
precisando che, al fine di valutare la contrarietà o meno ai doveri d’ufficio di un atto non vincolato,
è necessario verificare l’avvenuta violazione o meno delle regole che sovrintendono all’esercizio
del potere discrezionale e, segnatamente, occorre accertare se il funzionario abbia o meno
perseguito l’interesse concreto per il quale la legge gli ha conferito il relativo potere, nonché se
abbia o meno rispettato i criteri di logica ed imparzialità necessariamente insiti nell’attività
pubblicistica.
Venendo all’esame del profilo soggettivo del delitto in parola, occorre fare una distinzione. Nella
fattispecie corruttiva propria cd. antecedente, è necessario che si configuri il dolo specifico, in
particolare dovendo gli agenti rappresentarsi ab initio la contrarietà dell’atto alle regole dell’ufficio
quale componente essenziale della finalità della condotta. Ex adverso, nell’ipotesi di corruzione
propria cd. susseguente, è sufficiente il dolo generico, cioè la mera rappresentazione e
consapevolezza degli elementi costitutivi del patto sinallagmatico di asservimento della funzione
pubblica.
Infine occorre precisare la differenza che intercorre tra la corruzione cd. propria ed il delitto di
concussione di cui all’art. 317 c.p. Come è noto, si tratta di un tema da sempre esplorato in dottrina
e giurisprudenza, le quali, dopo numerosi approdi ermeneutici, sono pervenute alla conclusione che
l’essenziale discrimen tra le due figure sta nel fatto che “… nella concussione il privato certat de
damno vitando, mentre nella corruzione certat de lucro captando …”4. In altre parole si configura
la fattispecie concussiva solo allorquando il privato consociato che partecipa al turpe accordo operi
mosso dall’esigenza di scongiurare un nocumento che gli possa derivare dall’operato della P.A.; in
quest’ipotesi il privato appare, dunque, quale figura soccombente di fronte ad un agente pubblico
spregiudicato. Ex adverso è integrata la fattispecie di corruzione laddove il cittadino agisca
tendendo a conseguire un vantaggio illecito dalla P.A. in una chiara prospettiva locupletativa
personale; in tal caso il consociato non si configura come mera vittima del funzionario pubblico,
bensì alla stregua di concorrente, in uno all’agente pubblico, nel contesto di un’attività
complessivamente lesiva degli interessi dello Stato.
4
F. ANTOLISEI, “Manuale di diritto penale Parte Speciale – II”, Milano, 1995, pag. 305.
9
3 LA DECISIONE
a) INTRODUZIONE
Dopo aver esaminato i due distinti reati sia sotto il profilo evolutivo-diacronico, sia sotto il profilo
strutturale, occorre adesso analizzare la decisione della Suprema Corte di Cassazione,
approfondendone gli approdi fondamentali, al fine di trarne in ultimo delle valutazioni conclusive.
b) QUAESTIONES IURIS AFFRONTATE
La pronuncia della Corte di Cassazione si è occupata essenzialmente della qualificazione giuridica
del contegno del geometra comunale, protagonista di plurimi episodi di ricezione di denaro,
conseguito attraverso un collega libero professionista che faceva da intermediario, da parte di
privati, che versavano tali importi in cambio di favori e vantaggi, quali concessioni, autorizzazioni,
rettifiche ed approvazioni di progetti, nonché la creazione di vere e proprie “corsie preferenziali”
nella gestione di procedimenti edilizi, ciò che avveniva anche attraverso la sottrazione o
l’inserimento di atti dai fascicoli del Comune. Al geometra imputato venivano contestati ben cinque
capi d’imputazione in ordine ad altrettante vicende illecite, che lo vedevano impegnato, in qualità di
intraneus, nel contesto del mercimonio del proprio ruolo istituzionale di sovrintendente al regolare
sviluppo urbanistico del territorio comunale.
L’impegno ermeneutico degli Ermellini si è concentrato in particolare sull’esatta qualificazione
giuridica dei fatti di corruzione contestati e pacificamente ritenuti provati. Più esattamente l’opera
della Corte si è focalizzata nel verificare la riconducibilità dei fatti addebitati entro la fattispecie
incriminatrice della corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318 c.p. ovvero entro quella
della corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio ex art. 319 c.p., cioè nel valutare
l’includibilità delle condotte contestate nell’alveo della figura della corruzione cd. impropria ovvero
della corruzione cd. propria, di cui alla summa divisio tradizionale. Tale sforzo interpretativo ha
dato modo al supremo consesso dapprima di esaminare analogie e divergenze tra i due illeciti e
successivamente di approfondire e definire con esattezza il rapporto intercorrente tra gli stessi, ciò
che costituisce il principale approdo ermeneutico della decisione de qua.
Il percorso argomentativo della Corte di Cassazione prende le mosse dall’esame del fenomeno noto
come la cd. “messa a libro-paga” del pubblico ufficiale, con tale espressione intendendosi
l’asservimento stabile e funzionale dell’agente pubblico, preposto ad un ufficio della P.A., a finalità
extra-funzionali ed extra-istituzionali dell’ufficio e invece coincidenti con i desiderata personali di
privati senza scrupoli, con conseguente compromissione e snaturamento del regolare fluire
dell’attività amministrativa svolta dal dipendente pubblico.
I giudici romani inquadrano la problematica dapprima in una prospettiva giurisprudenziale di tipo
storico-diacronico.
Riconoscono infatti che quando, intorno alla metà degli anni ‘90, fu sdoganata tale figura in sede
pretoria, in termini di cd. asservimento della funzione o di cd. messa a disposizione, la
giurisprudenza di legittimità tendeva a ricondurla entro i confini della corruzione cd. propria di
cui all’art. 319 c.p. nella sua formulazione allora vigente5. Più specificamente, si riteneva doversi
5
Cass., Sez. VI, n. 4108 del 17 febbraio 1996.
10
far rientrare nel reato di corruzione propria “non solo l'accordo illecito contrassegnato dallo
scambio tra il denaro o altra utilità, da un lato, e un ben determinato o determinabile atto
contrario ai doveri d'ufficio, dall'altro, bensì anche l'accordo avente ad oggetto una pluralità di
atti non previamente fissati e però determinabili per genus mediante il riferimento alla sfera di
competenza o all'ambito di intervento del pubblico ufficiale, ovvero i pagamenti compiuti per
retribuire i favori assicurati dal pubblico ufficiale, alla stregua delle funzioni esercitate”. A tale
conclusione la giurisprudenza giungeva facendosi forte di un’interpretazione estensiva del dato
dello scambio sinallagmatico tra promessa-dazione ed atto del funzionario pubblico. Infatti riteneva
sufficiente ad integrare tale meccanismo a prestazioni corrispettive di do ut des non
necessariamente la già avvenuta individuazione, precisa e puntuale dell’atto pubblico del
funzionario, bensì anche la preventiva identificazione del solo genus al quale poter ricondurre l’atto
pubblico da emanare; e ciò appunto attraverso la circoscrizione "della competenza o della sfera di
intervento del medesimo e suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non
singolarmente prefissati e programmati sin dall'inizio, ma pur sempre appartenenti al genus
previsto”6.
Tale arresto pretorio viene superato nel 2012, quando il legislatore riformula l’art. 318 c.p., che
passa dall’incriminare la corruzione per un atto d’ufficio allo stigmatizzare la corruzione per
l’esercizio della funzione. Infatti, il venir meno di ogni riferimento all’atto d’ufficio e lo
sdoganamento della più rarefatta e capiente figura dell’esercizio della funzione, quale nucleo
nevralgico della nuova norma incriminatrice, rendono la fattispecie ex art. 318 c.p. molto più
adeguata a ricomprendere gli episodi di corruzione cd. “sistemica” e strutturale, così
frequentemente emergenti nella concreta fenomenologia criminale e al contempo, fino ad allora,
così difficili da incasellare entro le eccessivamente strette pieghe del tessuto normativo esistente, in
quanto svincolati dall’aggancio a singoli atti dell’ufficio. Viene battezzata, così, una figura
criminis intermedia tra la fumosa cd. “messa a libro paga” di genesi prettamente pretoria e la
pregressa corruzione cd. impropria. Essa inoltre viene corredata, quoad poenam, di uno
strumento sanzionatorio anch’esso di tipo intermedio tra quello, più consistente, di cui era dotata
la previgente corruzione cd. propria e quello, ben più blando, attribuito alla antecedente corruzione
cd. impropria. A ciò si aggiunga l’inserimento nel nuovo art. 318 c.p. dell’ulteriore novum
normativo, rappresentato dalla punibilità dell’extraneus privato-corruttore, il quale, nella rinnovata
intentio legis, non è più percepito come vittima del reato, bensì alla stregua di vero e proprio reo.
I giudici di piazza Cavour, una volta sgombrato il campo dai dubbi in ordine alla latitudine
operativa dell’art. 318 c.p., si interrogano sulla relazione esistente tra la corruzione per l’esercizio
della funzione ex art. 318 c.p. e la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio ex art.
319 c.p., nel contesto dell’assetto normativo risultante a seguito della entrata in vigore della l.
190/2012.
Orbene, il delitto di corruzione per l’esercizio della funzione si atteggia, di sicuro, quale
fattispecie-base delle varie ipotesi codicistiche di corruzione. La sua stessa collocazione topografica
nell’art. 318 c.p., cioè in apertura della serie di disposizioni dedicate dal codificatore alle fattispecie
di corruttela (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio ex art. 319 c.p., circostanze
Cass., Sez. VI, n. 5340 del 5 marzo 2006.
Cass., Sez. VI, n. 2006 del 13 agosto 1996.
6
Cass., Sez. VI, n. 4108 del 17 febbraio 1996.
11
aggravanti ex art. 319 bis c.p. e corruzione in atti giudiziari ex art. 319 ter c.p.) ne attesta la natura
di figura incriminatrice avente portata generale, suscettibile dunque di specificazione nelle
disposizioni seguenti.
Infatti il delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio ex art. 319 c.p. si atteggia
a norma speciale rispetto alla norma collocata nell’articolo immediatamente precedente, nella
misura in cui l’art. 319 c.p. stigmatizza unicamente quegli episodi di asservimento della funzione
pubblica che siano sfociati precisamente in uno dei tre eventi alternativi della emanazione di un atto
contrario ai doveri d’ufficio, o nella mancata adozione o nella ritardata emissione di un atto dovuto.
Il rapporto tra le due norme de quibus è evidentemente di cd. specialità unilaterale per
specificazione, giacchè l’art. 319 c.p. è norma contraddistinta sì dalla medesima componente di
mercimonio della funzione pubblica, che è dato riscontrare già nell’art. 318 c.p.; tuttavia tale
componente, in seno all’art. 319 c.p., non è genericamente ed onnicomprensivamente intesa,
bensì viene declinata e concretizzata nella specifica modalità di un contegno antigiuridico ed
anti-funzionale del dipendente pubblico procedente.
Gli Ermellini, dunque, a questo punto richiamano alcune pronunce giurisprudenziali idonee a
confermare e corroborare le conclusioni suesposte. Di particolare rilevanza appare, ex plurimis,
l’intervento pretorio7, secondo il quale "In tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico
ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di
ufficio non predefiniti, nè specificamente individuabili ex post, integra il reato di cui all'art. 319
c.p., e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 c.p.”.
Il supremo consesso non manca di prendere in considerazione il rapporto tra le due fattispecie
anche sotto il profilo sanzionatorio. In proposito la Corte osserva che la scelta legislativa di
sanzionare ex art. 318 c.p. la mercificazione della funzione in modo più blando rispetto alla
mercificazione del singolo atto ex art. 319 c.p. non merita di essere biasimata o valutata come
irragionevole. Vero è che ex art. 318 c.p. i soggetti agenti fanno mercede dell’intera funzione
pubblica, rispetto all’art. 319, ove ad essere compravenduto è un singolo atto dell’agente pubblico;
e vero è che è dura a morire la tentazione di considerare più allarmante la vendita senza scrupoli
dell’intero funzionamento di un ufficio pubblico rispetto al mercimonio di un unico atto, magari
isolato, da parte del funzionario infedele. Tuttavia va considerato che a guidare la scure
sanzionatoria del legislatore non è la maggiore o minore ampiezza della entità o del bene
oggetto di mercificazione (la funzione ovvero il singolo atto), bensì il diverso e più pregnante
profilo della contrarietà ai doveri dell’ufficio che caratterizza unicamente il singolo atto ex art.
319 c.p. e non già la funzione come contemplata ex art. 318 c.p.
La Cassazione si concentra, quindi, proprio sull’ermeneusi della nozione di contrarietà dell’atto ai
doveri d’ufficio. Essa afferma, dunque, che tale contrasto con le regole istituzionali si configura,
non solo allorchè l’atto venga adottato in violazione delle regole formali che disciplinano la sua
emanazione, bensì anche ove l’atto, pur emesso in attuazione di poteri discrezionali del funzionario,
di fatto raggiunga uno scopo prestabilito extra-funzionale ed eversivo rispetto agli obiettivi
istituzionali della P.A. Inoltre a colorare di contrarietà ai doveri d’ufficio un atto non si pone
soltanto la sua illiceità, intesa come contrarietà a norme imperative, o la sola illegittimità, intesa
quale contrarietà alle regole di validità od efficacia, bensì anche il suo scollamento dalle semplici
regole di correttezza ed imparzialità, le quali devono sempre illuminare l’operato dell’agente
pubblico.
7
Cass., Sez. VI, n. 9883 del 15 ottobre 2013.
12
Tanto premesso, i giudici di piazza Cavour, dopo aver passato in rassegna i rapporti esistenti tra i
due reati, entrano finalmente in medias res, affrontando il principale nodo interpretativo della
vicenda sottoposta al loro esame.
La Corte di legittimità non concorda affatto con la scelta ermeneutica della Corte d’Appello di
scindere, in sede valutativa, i capi d’imputazione e ricondurre il solo capo sub 1) nel reato ex art.
318 c.p. ed i capi sub 2), 3), 4) e 5) nel reato ex art. 319 c.p. I giudici di legittimità osservano,
infatti, che “è irragionevole prospettare una duplice e parallela vendita delle funzioni da parte
del[l’imputato] - l'una funzionale alla commissione di atti conformi ai doveri d'ufficio e l'altra
esitata contestualmente nell'adozione di atti contrari a detti doveri - giacchè il dato fattuale
incontestabile, che scaturisce dalla concorde ricostruzione operata in sede di merito, è quello della
presenza di un unico e continuativo rapporto, […] nell'ambito del quale, a mò di picchi che
esprimono il punto più alto della condotta contra ius del funzionario comunale qui imputato,
s'inserisce la commissione degli specifici atti contrari ai doveri d'ufficio di cui si è detto.” In altre
parole, i giudici romani stigmatizzano la scelta della corte distrettuale, giacchè essa avrebbe dato
luogo ad un ingiustificato sdoppiamento nella valutazione di una vicenda criminosa sostanzialmente
unitaria, ma formata di plurimi e differenti segmenti operativi. Più specificamente ci si trova al
cospetto di una vicenda di corruttela unitaria e duratura nel tempo, ma composita, cioè
costellata di una pluralità di episodi di mercimonio della funzione pubblica, alcuni dei quali
sfociati nell’adozione di atti conformi ai doveri d’ufficio ed altri esitati nella tenuta di contegni
contrari agli stessi doveri d’ufficio.
Gli Ermellini non mancano di notare come d’altronde, per giurisprudenza consolidata8, il reato di
corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318 c.p. “ha natura di reato eventualmente
permanente se le dazioni indebite sono plurime e trovano una loro ragione giustificatrice nel
fattore unificante dell'asservimento della funzione pubblica”. E’ infatti molto frequente nella
prassi criminale, non solo che alla mera accettazione della promessa di denaro segua poi l’effettiva
dazione dello stesso, ma anche che, all’accettazione della promessa faccia seguito una lunga serie di
dazioni indebite ad opera dell’extraneus. Ebbene - osserva la Corte - in tali casi sarebbe un errore
ritenere configurati tanti reati quante sono le singole dazioni, rilevando, al più, in una prospettiva
cronologica la dazione iniziale e quella finale quali momenti identificativi, rispettivamente,
dell’esordio e della cessazione della consumazione del delitto. Una mera sommatoria delle
dazioni, secondo una sorta di “tot dationes tot crimina”, va evitata ponendo mente al dato
dell’esercizio della funzione pubblica, che catalizza nel suo alveo ed unifica funzionalmente i
singoli episodi di elargizione indebita, i quali tra loro si compongono e si combinano quali
tasselli di un unico ed unitario mosaico di turpe mercificazione.
Ebbene i giudici di legittimità applicano tali coordinate ermeneutiche anche alla corruzione cd.
propria, sostenendo che “tali argomentazioni conservano intatta la loro validità, qualora ci si trovi
in presenza di fatti di corruzione propria che, lungi dal poter essere apprezzati come singole ed
autonome monadi, costituiscano i punti di emersione, per la maggior gravità che è loro propria
in forza del già rilevato sinallagma con un atto contrario ai doveri d'ufficio, della vendita della
funzione esistente a monte”. In tal modo viene chiarito che, anche ai fini dell’integrazione del
delitto di cui all’art. 319 c.p., sarebbe metodologicamente scorretto scomporre e selezionare i vari
episodi di illecito do ut des tra extraneus ed intraneus in modo da farne derivare la moltiplicazione
8
Cass., Sez. VI, n. 3043 del 27 novembre 2015.
Cass., Sez. VI, n. 49226 del 25 settembre 2014.
13
dei fatti di reato, giacchè i plurimi episodi si dissolvono nella assorbente e preponderante figura
della vendita della funzione.
Il ragionamento degli Ermellini procede, dunque, escludendo anche la configurabilità del concorso
formale tra l’art. 318 c.p e l’art. 319 c.p., in quanto a ciò osterebbe la unitarietà della vicenda
esaminata in concreto.
Ma la Corte va oltre, giungendo a chiarire definitivamente il più corretto inquadramento
giuridico dell’episodio criminoso sottoposto al suo vaglio. In tale prospettiva appare dirimente
l’istituto dell’assorbimento, nella misura in cui “la vendita della funzione che, anzichè risultare
circoscritta alla sola commissione di atti conformi ai doveri d'ufficio, contempli, ove necessario,
anche la consumazione di atti contrari ai doveri anzidetti, realizza una forma di progressione
criminosa rispetto alla ineludibile base di partenza dell'intera vicenda”. Insomma la Corte risolve
il nodo ermeneutico avvalendosi della chiave di volta rappresentata dagli istituti dell’assorbimento
e della progressione criminosa, valutando come il concorrere, nella realtà empirica criminale, di
episodi corruttivi che sfocino sia in atti conformi ai doveri d’ufficio, sia in atti contrari a detti
doveri, non vada assecondato in sede ermeneutico-giuridica in modo pedissequamente
corrispondente. Infatti lo spezzettamento degli episodi illeciti dell’un tipo dagli episodi di segno
opposto rischia di far perdere di vista all’interprete il contesto unico ed assorbente nel quale tali
singoli avvenimenti maturano, cioè il mercimonio della funzione pattuito tra le parti unitariamente a
monte. In modo particolare, tra le due tipologie operative di corruzione è dato ravvisare un trend
crescente di pericolosità ed allarme sociale man mano che dalla corruzione per un atto d’ufficio o
cd. impropria si passi verso la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio o cd. propria. In
un crescendo criminale di tal fatta, dunque, la fattispecie di corruzione cd. impropria o
comunque riconducibile ex art. 318 c.p., in quanto evocativa di un più ridotto allarme sociale,
va considerata dissolta nella ben più allarmante e grave figura della corruzione per un atto
contrario ai doveri d’ufficio o cd. propria ex art. 319 c.p., capace di ricomprenderla e
polarizzarne il disvalore penale.
La Corte prende la posizione vista aderendo al già consolidato orientamento9 secondo cui "In tema
di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi
realizzato attraverso l'impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di
atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all'art. 318 c.p. (nel testo
introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190), e non il più grave reato di corruzione propria di
cui all'art. 319 c.p., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il
compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, poichè, in tal caso, si determina una
progressione criminosa nel cui ambito le singole dazioni eventualmente effettuate si atteggiano a
momenti esecutivi di un unico reato di corruzione propria a consumazione permanente".
Tale impostazione viene, per altro, dalla Corte messa in relazione ad altro insegnamento pretorio10,
secondo il quale "… l'art. 318 c.p. non [… ha …] coperto integralmente l'area della vendita della
funzione, ma soltanto quelle situazioni in cui non sia noto il finalismo del suo mercimonio o in
cui l'oggetto di questo sia sicuramente rappresentato da un atto dell'ufficio". In tal modo gli
Ermellini completano l’excursus relativo ai rapporti tra l’art. 318 c.p. e l’art. 319 c.p., chiarendo una
volta di più come la figura incriminatrice della corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318
9
Cass., Sez. VI, n. 49226 del 2014.
Cass., Sez. VI, n. 47271 del 2014.
10
14
c.p. operi in realtà quale mera fattispecie-base, quale figura incriminatrice, per così dire, solo di
partenza, operante tutte le volte in cui l’episodio corruttivo non risulti precisamente circostanziato o
comunque non lasci emergere particolari profili di specialità. In tali casi l’esame dell’interprete si
dovrà arrestare a prendere atto della sola verificazione della vendita della funzione, senza che possa
ulteriormente consentire l’accertamento di dettagli o di particolari quanto al profilo finalistico o
delle modalità operative del fatto.
In conclusione, la Suprema Corte di Cassazione, sulla base dell’impostazione descritta, dispone la
riqualificazione dei capi d’imputazione, da sub 1) a sub 5), tutti quanti entro l’unico delitto di
corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 319 c.p., in quanto idoneo ad inglobare, in forza
dell’assorbimento e della progressione criminosa, tutte quante le condotte contestate ed, a tal fine,
annulla la sentenza della Corte d’Appello e rinvia a diversa Sezione della stessa Corte distrettuale
per la rideterminazione della pena.
c) OSSERVAZIONI FINALI
La pronuncia di legittimità esaminata affronta un argomento in realtà classico e già molto spesso
trattato nel diritto penale. Che la Corte sia chiamata a ritornare su un percorso già battuto
numerose volte in precedenza dimostra come le singole fattispecie incriminatrici di corruzione
continuano ad affaticare gli interpreti delle locali corti di merito. Ma - ancor più a monte e
ancor prima di considerare l’operato dei giudici locali - la suesposta analisi storico-diacronica di
tali figure delittuose, a partire dal Codice Zanardelli fino ad arrivare al Codice Rocco con le sue
plurime novelle sia semplicemente quoad poenam sia incidenti sulla fisionomia di detti crimini,
rende chiaramente l’idea della difficoltà che incontra il legislatore nel fornire un’adeguata
risposta di politica criminale ad un fenomeno sociale avvertito come altamente fastidioso e
riprovevole dai consociati, ma al contempo assolutamente difficile da far emergere e capace di
un’evoluzione non facilmente controllabile attraverso la sola arma del diritto penale.
Gli Ermellini si intrattengono essenzialmente su due argomenti giuridici di notevole respiro.
In primis si occupano di definire in termini generali il rapporto che intercorre tra l’art. 318 c.p. e
l’art. 319 c.p. e giungono alla conclusione che i due delitti si relazionino in termini di specialità
per specificazione. Nel ribadire tale conclusione i giudici di legittimità fanno applicazione delle
coordinate ermeneutiche classiche in tema di rapporto tra norme penali incriminatrici, correttamente
valutando come la fattispecie ex art. 319 c.p. in realtà contenga in sé la fattispecie di cui all’art. 318
c.p. con l’aggiunta del quid pluris rappresentato da alcuni elementi di specificazione. Questi ultimi
rendono tale disposizione incriminatrice prevalente in sede applicativa rispetto alla figura-madre,
volutamente elaborata dal legislatore in termini più sfumati e meno dettagliati al fine di ampliare
l’area della punibilità. Di certo è condivisibile tale lettura dei giudici di legittimità, giacchè coglie
nel segno esattamente l’intentio legis oggettiva che ha guidato il riformatore del 2012, cioè
l’esigenza di mantenere in vita la duplicità delle figure criminose di corruzione, ma
rendendone una più sfumata, più ampia e, soprattutto, polarizzata sull’onnicomprensivo
concetto di compromissione della funzione, e invece lasciando all’altra contorni più precisi ed
allarmanti con riferimento specifico all’atto del funzionario.
In secondo luogo la Corte romana passa ad esaminare il caso concreto, applicando le coordinate
interpretative suesposte e giunge a risolvere il nodo giuridico ritenendo l’art. 318 c.p. dissolto e
ricompreso nell’art. 319 c.p. quale unico reato configurabile sulla base degli istituti
15
dell’assorbimento e della progressione criminosa. Tale approdo ermeneutico è senz’altro da
convalidare, nella misura in cui esso impedisce di giungere, ex adverso, ad una irragionevole
vivisezione della condotta illecita del funzionario, ad un suo sdoppiamento, che non darebbe il
dovuto conto dell’effettivo disvalore penale del complessivo fatto contestato. A ben vedere, infatti,
la singola condotta incriminata si caratterizza per un trend crescente di disvalore penale, che dalla
messa a disposizione della funzione sfocia nel confezionamento di specifici atti anti-funzionali. E’
più che apprezzabile, dunque, la ricostruzione della Corte ove avverte la necessità di ritenere
l’episodio meno grave contestato non già quale fatto di reato autonomo, bensì quale singolo
segmento esecutivo della fattispecie di reato più grave.
In conclusione, la Corte di Cassazione nella sentenza esaminata si limita ad applicare gli
orientamenti pretori già consolidati sul punto, ribadendo le conclusioni già da tempo esistenti in
tema di corruzione cd. propria e cd. impropria ed, in più, inquadrando le due norme di riferimento
nell’ottica della progressione criminosa. Né deve, però, pensarsi che la pax ermeneutica in tema di
corruzione sia destinata in futuro a rimanere infranta, se sol si pone mente al continuo lavorìo
interpretativo degli interpreti ed all’incessante e frenetica ricerca da parte del legislatore di sempre
più idonee soluzioni di politica criminale.
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