Lo stress / Claudio Mangini

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Lo stress / Claudio Mangini
Lo stress / Claudio Mangini
“La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si pensa, non dobbiamo e non
possiamo evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in modo efficace e trarne vantaggi imparando di
più sui suoi meccanismi, ed adattando la nostra filofosia dell’esistenza ad esso”.
(Hans Selye – “Stress without Distress –“ 1974)
Quante volte abbiamo sentito parlare di “stress” in ambito cinofilo?
E quante volte – nel leggere anche un normale segnale calmante del cane – si è bollato
negativamente il professionista di turno?
Lo stress è davvero un qualcosa di eliminabile? E come?
E’ giusto far vivere i cani sotto una campana di vetro nel tentativo di proteggerli da un qualunque
tipo di stress?
Con il termine stress si indicava - durante il periodo della rivoluzione industriale inglese - la
resistenza che le strutture metalliche oppongono all’applicazione di determinate forze, ma solo
successivamente, e nel suo attuale significato biomedico, venne caricato di connotazioni negative.
Partiamo però da un concetto di base: ogni individuo sottoposto ad un certo livello di stress – il
quale però non deve mai superare la capacità di farvi fronte – migliora le prestazioni; comprese
quelle riferite all’apprendimento.
Ergo, i cani danno il meglio di se quando correttamente attivati e non certo quando sono
eccessivamente rilassati o portati all’apatia (è il caso dei cosiddetti “cani da salotto”).
Per questo motivo lo stress viene considerato come una capacità – quindi una risorsa – di
migliorare le prestazioni individuali esercitando un significativo effetto training (per “training” si
intende la capacità di imparare qualcosa).
Secondo la “legge di Robert Yerkes e John Dodson “per raggiungere livelli ottimali di efficienza,
l’organismo ha bisogno di operare in rapporto a quantità di stress non estreme. Le sollecitazioni
eccessive o la carenza di stimoli hanno effetti negativi sull’efficienza”, e solo questa citazione
basterebbe a chiudere la questione con un unico termine: equilibrio.
Ci sono delle terminologie – per così dire – parallele che indicano gli stimoli o i vari stati di stress:
Lo stressor:
cioè lo stimolo - o l’accadimento - che interessano l’individuo nel suo vivere quotidiano, a sua volta
diviso in esterno (di tipo fisico) ed interno (di tipo psichico).
L’eustress:
cioè lo stress positivo, adattivo e costruttivo (ad esempio la gratificazione o anche la ricerca di
questa da parte del cane, le attività cooperative con il proprietario, etc.).
In questo caso, l’organismo - di fronte ad uno stimolo stressorio - reagisce utilizzando le proprie
risorse fisiche e psichiche.
Il distress:
cioè lo stress di tipo negativo, distruttivo e disadattivo.
L’individuo, nel momento in cui si dovesse trovare in una situazione minacciosa, non riesce a
controllare la realtà vivendo sentimenti di inadeguatezza e di impotenza, con un conseguente
pericolo per il suo stato psicofisico.
Lo stress viene quindi classificato come una “risposta aspecifica” dell’organismo (intendendo il
fatto che questi risponde mediante una sindrome predefinita) nei confronti di una qualunque
richiesta provenga dall’ambiente. Tale richiesta è quindi definita stressor.
Ci sono dei meccanismi biologici e fisiologici che regolano lo stress, i quali si evidenziano in quella
che viene chiamata sindrome generale di adattamento divisa in tre fasi distinte
Allarme:
in essa troviamo lo shock (fase in cui sussiste la perdita del tono muscolare, un certo aumento del
ritmo cardiaco, una caduta della pressione arteriosa e della temperatura corporea) ed il contro shock
dove tutti quei meccanismi di difesa vengono mobilitati per ribaltare le reazioni fisiologiche della
fase di shock.
Resistenza:
dove si assiste ad un miglioramento generale ed alla scomparsa dei sintomi iniziali – quindi una
diminuzione della resistenza ad altri stimoli negativi.
Esaurimento:
una fase di perdita graduale della capacità di adattamento allo stressor con possibile insorgenza di
patologie psicosomatiche.
Considerando che il manifestarsi di un qualunque disturbo è collegato a tre fattori (intensità dello
stimolo stressorio, la sua durata, il carattere e la personalità del soggetto sottoposto a stressor), ne
consegue – sommandoli a quanto descritto in precedenza - che lo stress sia uno stato fisiologico
normale e quindi impossibile da evitare, quanto però da conoscerne i range che lo definiscono nel
nostro cane per poterlo utilizzare al meglio.
Di fronte ad una situazione problematica, il cane può reagire attraverso tre precise modalità:
- con il tentativo di risolverlo cognitivamente (problem solving);
- con la regolazione emozionale; cioè tentando di controllare l’emozione e/o l’angoscia che insorge
in risposta al problema.
- con il tentativo di ignorare la minaccia dell’evento stressante, attivando la ricerca del supporto
sociale o impegnandosi in attività che distolgono la sua attenzione dal problema.
Questo insieme di sforzi cognitivi e comportamentali volti a gestire le specifiche richieste (esterne
e/o interne), valutate come situazioni che mettono alla prova o superino addirittura le risorse del
soggetto, viene definito “coping“ (Richard Lazarus, Susan Folkman).
Nel processo di coping una situazione di squilibrio o minaccia provocata dalla constatazione
dell’esistenza di un problema comporta connotazioni di tipo emozionale e conoscitivo (chiamata
primary appraisal) a cui segue la secondary appraisal, la quale a sua volta si attua attraverso due
processi di adattamento: il tentativo di risolvere o modificare la situazione (controllo primario) e
l’apprezzamento cognitivo (controllo secondario), in cui avviene una ristrutturazione della
situazione di squilibrio per ridurne le potenzialità di disadattamento.
Questa fase precede quella chiamata “mastery”, nella quale si arriva al momento di padronanza
della situazione ed in cui vengono quindi messe in atto le diverse strategie che sfoceranno nel
cambiamento.
Proprio quest’ultimo concetto verrà descritto - attraverso alcuni esempi - nell’ambito del prossimo
capitolo: il recupero comportamentale.
Siamo pertanto – ancora una volta - nel campo della percezione, cioè di come vengano percepiti –
da alcuni soggetti – gli eventi stressanti, e si può quindi sostenere che per un buon adattamento allo
stress, soprattutto in presenza di eventi stressanti duraturi o continui, l’elemento essenziale (quanto
vincente) sia la flessibilità nell’uso delle strategie di coping; quindi la capacità di non fissarsi su un
unico meccanismo, ma di riuscire a cambiarlo qualora si dimostri inefficace e disadattativo.
Lo stress è pertanto un fenomeno dinamico e a carattere relazionale del tutto inevitabile che fa
semplicemente parte della vita.
Il recupero comportamentale
In questi ultimi anni le televisioni di tutto il mondo – compresa l’Italia – hanno prodotto un numero
sempre crescente di “miracolisti televisivi” e “sussurratori” di ogni tipo che mostrano (si fa per
dire) il loro modo di risolvere problemi comportamentali di vario genere.
Essendo un uomo di cinema, sono perfettamente a conoscenza di come si confezionino questi tipi di
prodotti mediatici, così come conosco altrettanto bene i meccanismi di comunicazione (indotti o
meno) che ci stanno dietro; compreso il “disease mongering” (questo termine indica – CIT –
“un’operazione di marketing da parte delle aziende farmacologiche finalizzata all’introduzione di
un farmaco già pronto per l’immissione sul mercato attraverso una campagna
informativa/pubblicitaria finalizzata all’introduzione di quadri clinici al di fuori della seduta
medica, per indurre il consumatore alla ricerca di un rimedio. La traduzione esatta del termine è
“mercificazione della malattia”).
Un illustre collega – nella disamina del fenomeno mediatico – ritiene che la TV generalista (quella
cioè che si rivolge ad un pubblico vasto, diviso per varie fasce di età ed interessi) non sia in realtà
deputata a svolgere attività di approfondimento sul mondo dei cani, ma che debba servire – tuttalpiù
– a dare informazioni di carattere (appunto) generale, sostenendo al contempo che la divulgazione
di una determinata conoscenza, attraverso il servizio televisivo, debba essere quindi letta in modo
meno critico da parte del comparto professionale ed intesa come un servizio informativo che si
proponga di spingere il telespettatore medio a documentarsi successivamente in modo serio.
Se da una parte posso trovarmi d’accordo con questo spirito – seppure a grandi linee - dall’altra non
si può nascondere il fatto che gli argomenti trattati dai vari format siano di carattere tutt’altro che
generale, ma più simili a veri e propri tutorial (strumenti d’apprendimento di nuova generazione),
capaci di trasformarsi – attraverso l’immaginario collettivo – in un vero e proprio termine di
confronto tra i vari professionisti.
D’altra parte, i numeri parlano chiaro: circa otto milioni di proprietari che producono un business
enorme, ma completamente fuori controllo a causa del vuoto Legislativo in cui versa il settore;
un’occasione davvero ghiotta per chi vuol fare della cinofilia un’operazione di marketing su larga
scala.
La mia prima regola riferita a questo tema è quindi:
<<Non si fanno recuperi comportamentali in televisione>>
Questo personale atteggiamento ostracista, come ho già accennato nel capitolo sull’aggressività,
sottintende in prima istanza la consapevolezza del possibile “effetto emulazione”, il quale potrebbe
portare a gravi conseguenze sul piano della salute e dell’incolumità pubblica.
Se da una parte, come ho detto prima, la cinofilia italiana manca di una Legislazione ferrea che
certifichi chi possa o meno esercitare questa delicata professione, dall’altra tocca prendere atto che
l’80% dei casi in recupero comportamentale arrivati alla mia attenzione provengano proprio da tutte
quelle famiglie che erano passate in prima istanza per le mani di personale inesperto formatosi in
ambito mediatico, se non addirittura di stampo hobbystico o new age.
“Don’t try this at home” - recita puntualmente la sovraimpressione di alcuni programmi – eppure in
giro per le strade si assiste ad un largo uso di “tschhhh”, guinzagli chilometrici, scambi di cani e
“colpi di tacco” nel costato.
La pericolosità di certe iniziative commerciali (perché di questo si tratta; si ricordi il disease
mongering) è a mio parere discutibile sia sotto il profilo etico, visto che gli animali coinvolti nei
recuperi comportamentali hanno una dignità che va difesa, che pratico, dal momento che certi modi
escono velocemente dall’etere e si radicano nella quotidianità.
Secondo il mio punto di vista, ormai al peggio non c’è più limite per di uscire dall’anonimato, ed
ogni giorno si assiste alla nuova produzione di vari contenitori che non viaggano affatto in favore
dei cani, ma solo nella direzione di chi li conduce e li produce.
Detto questo, dobbiamo innanzi tutto capire cosa quindi io intenda per “recupero
comportamentale”, anche per sgombrare il campo da false interpretazioni riferite al tema.
-
aggressività interspecifica o intraspecifica
fobie
Tutto ciò che esula da queste due importanti categorie (compreso il controcondizionamento e la
desensibilizzazione), rientrano nel contesto educativo o rieducativo del cane.
Molte scuole cinofile di ultima generazione sostengono che alla base dei problemi comportamentali
dei cani ci sia un’insoddisfazione relativa delle esigenze canine sul piano generale e, più nello
specifico, nel loro lato individuale.
In realtà, mi appare un po’ troppo generica questa definizione, soprattutto in virtù del fatto che molti
comportamenti anomali – o indesiderati - sono già di per se il frutto di una reazione a catena che
affonda le sue radici nell’incomprensione del linguaggio canino o in altri fattori.
Abbiamo visto nei precedenti capitoli quanto incida la percezione della realtà nella nostra relazione
con il cane; così come abbiamo visto quanto il sistema cooperativo sia in grado di baipassare
situazioni conflittuali.
Tutto questo è stato generalmente disatteso dai proprietari in difficoltà, così come spesso non viene
considerato da altrettanti educatori cinofili; e nel recupero comportamentale – infatti - dopo aver
escluso patologie di carattere clinico, si effettuano una serie di test per fare la storia a ritroso del
soggetto che abbiamo di fronte, affinché ci racconti qualcosa di lui e di comke siano andate
veramente le cose.
Un detto recita:-“I cani non mentono mai”, e quando mi arriva un caso concedo normalmente poco
tempo al colloquio con il proprietario, proprio perché questi – per vari motivi – omette spesso una
percentuale altissima del problema; comprese le tante sfumature.
Ritengo che per valutare correttamente un cane, mettendolo quindi di fronte ad un certo numero di
stimoli e situazioni (indoor e outdoor), non basti meno di una settimana a stretto contatto.
Ci sono casi – anche perché l’esperienza aiuta – in cui si riesce a fare una valutazione onesta in un
giorno o due, ma ce ne sono altrettanti decisamente più complessi, nei quali il treno di risposte è
talmente articolato da imporre analisi più attente e a largo spettro.
Molti educatori cinofili – in modo improprio – entrano spesso in ambiti che non gli competono
(psicologia umana), ma altre volte si assiste all’affiancamento di personale specializzato per trattare
la questione “proprietario”, da cui si ritiene – in mondo non sempre del tutto vero - provenga il
maggior numero dei problemi.
Certamente mi sento di sostenere una cosa: a “problemi sociali” bisogna dare “risposte sociali”; e
quando i casi arrivano alla mia attenzione, generalmente mi viene detto:-“Il mio cane ha una serie
di problemi!”.
Rispondo sempre con una domanda:-“E il binomio che problemi ha?”
Con una semplice frase saltano fuori situazioni di carattere logistico, la mancanza di tempo a
disposizione; problemi riconducibili alle aspettative, ad una visione superficiale della relazione
uomo-cane: un calderone antropocentrico viziato da innumerevoli fattori che con il mondo animale
c’entrano poco o nulla.
Prendersi cura di un cane non è affatto un’impresa facile considerando il mondo nel quale vive ed i
ritmi che l’essere umano moderno deve sostenere per tirare avanti, e capisco perfettamente che la
risposta cinofila vigente sia quindi condizionata dalla velocità e dall’ottimizzazione delle cose.
Peccato però che il recupero comportamentale non sia una gara a cronometro, e che molto spesso i
cani abbiano dei tempi di interiorizzazione piuttosto elastici se visti nel loro sviluppo sul lungo
termine.
Ci sono certamente dei limiti imputabili ai costi, ma questa è una faccenda che non ha a che vedere
con i cani o con i proprietari, ma con l’onestà di chi se ne prenderà carico.
Come dicevo, quando arrivano a me, i soggetti sono generalmente già passati da altri professionisti
- o presunti tali - e questo non fa che sommare i problemi a quelli già esistenti, soprattutto se sono
stati trattati sotto il profilo farmacologico a cui corrisponde un periodo di svezzamento adeguato
(ricordo che sia la prescrizione di farmaci - che lo svezzamento farmacologico - sono ad unica e
legittima discrezione dei medici veterinari) che dilata ulteriormente i tempi.
E’ capitato a volte di fare dei recuperi comportamentali su soggetti provenienti dai campi di
addestramento, ma devo ammettere che questi – alla fine - risultano una risicata minoranza se messi
a confronto con quelli provenienti dalle famiglie o passati dagli educatori cinofili.
Il motivo risiede nel fatto che se per “addestrare” occorrano competenze di un certo livello e
soprattutto specifiche di una determinata disciplina (esattamente come ne occorrono altre per il
recupero comportamentale), nel mondo dell’educazione cinofila – oltre ad esserci un numero mille
volte superiore di addetti – le competenze sono minime o di carattere generale; molto spesso riferite
solo ai cuccioli.
Le tante demonizzate discipline di attacco e difesa (UD, Mondioring, etc) – in realtà - producono
raramente soggetti fuori controllo o aggressivi, proprio perché basano il loro lavoro sull’equilibrio
del cane e sui tre termini chiave: tempra, temperamento e docilità; inserite peraltro nel grande
bacino della vocazione.
Basti pensare che in questi settori vengono generalmente accettati solo ed esclusivamente cani con
particolari doti e attitudini, esattamente come per il mantrailing e le attività di soccorso, le quali
necessitano di altre caratteristiche peculiari per svolgere questo delicato compito.
La sequenza che ho quindi notato negli anni è la seguente:
- Il cucciolo, dopo un paio di mesi dal suo ingresso nella famiglia, viene messo in mano ad un
educatore, cominciando così l’acquisizione di nuove competenze intraspecifiche ed interspecifiche.
Per garantirgli una corretta socializzazione, viene normalmente iscritto nelle “puppy class” o nelle
“classi di comunicazione”, le quali dovrebbero garantirgli l’interfaccia corretta con i suoi
conspecifici sul lungo termine, ma già in questa sede possono però nascere dei seri problemi capaci
di radicarsi profondamente ed esplodere successivamente.
Quella a cui si assiste è spesso una sovraesposizione, quando non addirittura ad un vero e proprio
mal utilizzo di questo strumento.
Bassotti che vengono fatti “socializzare” con i retriever, scale neoteniche strampalate o non
considerate; individui (soli) costretti a rapportarsi con branchi conclamati e/o stabili, cani istruttori
che non hanno le giuste caratteristiche comportamentali per affiancare cuccioli un po’ irruenti o – al
contrario – timidi.
Come abbiamo visto nei primi capitoli, è la madre a fornire gli autocontrolli e quelle forme di
comunicazione che serviranno al cane per andare d’accordo con il mondo dei quattro zampe, ma
capita a volte che tali fattrici – perdonerete il termine zootecnico – possano non essere delle buone
madri, e gli allevatori non rappresentare al meglio la loro categoria.
In tal caso il recupero comportamentale permetterà solo di insegnare al cane la gestione degli
impasse – non la sua interiorizzazione - anche perché le negligenze poste in atto durante i periodi
sensibili sono – nella maggior parte dei casi - irreversibili.
Il cucciolo comincia a crescere e si hanno di fronte le varie opzioni.
Prendiamo il caso di un cane dotato di un certo carattere e di una buona tempra.
Alla prima insorgenza di problemi più o meno gravi (all’inizio non sono mai significativi, quanto
più delle vere e proprie anticamere) l’educatore cinofilo generalmente invita i proprietari a
“ignorare” gli atteggiamenti indesiderati, premiando quelli opportuni.
Secondo questa romantica visione del mondo animale, si ritiene che il soggetto prima o poi capisca
quali siano gli atteggiamenti da tenere (quelli premiati) e quelli da evitare (quelli ignorati dal
proprietario), ma così facendo – in realtà - non verrebbero considerati, né valutati correttamente,
gli inneschi che portano a quel determinato comportamento, riducendo il tutto alla questione
sociale.
Il cane – quindi - che cosa potrebbe fare secondo questo schema?
1) capire da solo il comportamento giusto
2) tentare altre strade per esprimere il suo disagio (visto che viene ignorato)
Il risultato – stando ai dati – è che il cucciolo diventa con il tempo un adulto, ed i problemi che
prima venivano ignorati si amplificano in coincidenza della sua maturità sessuale, fissandosi nei
periodi immediatamente successivi.
Nel giro di due anni, i proprietari contattano lo specialista per l’evidente ingestibilità del loro cane.
Secondo questa analisi – confrontata peraltro con tanti colleghi che si occupano di recupero
comportamentale – emergono limiti professionali squisitamente umani che sono riconducibili ad un
periodo chiave della vita del cane (il maggior numero di danni viene fatto proprio nel lasso di tempo
che parte dai novanta giorni fino ai due anni, a seconda della razza).
La cosa diventa ancora peggiore nel momento in cui le basi educative vengono impostate attraverso
le concessioni di cibo, e molti cinofili che sono venuti a trovarmi nel tempo hanno visto con i loro
occhi con quale velocità un marsupio pieno di bocconcini è capace di scatenare reazioni legate al
concetto di risorsa primaria; soprattutto nel momento in cui è indossato in modo disinvolto dal
proprietario (motivo per cui non dovrebbero essere usati nelle classi di socializzazione, a cui
partecipano normalmente un certo numero di cani).
Riferendomi a questo tema, qualcuno sostiene che - per i behaviouristi - il “cane competitivo” sia in
realtà un “cane dominante”, ma la competizione – oltre ad essere molto spesso indotta – non può
sposare un sistema sociale, dal momento che, per definizione stessa, è un principio di scontro non
cooperativo (vedi le aggressioni competitive nel capitolo XIV).
Le regole sociali seguono indirizzi di status tra i vari livelli, ma questo non significa che la
dominanza assuma dei connotati dittatoriali, ma che sia più semplicemente uno dei tanti ruoli (nei
cani, tra l’altro, di tipo plastico) che permettono all’intero gruppo di concorrere alla sopravvivenza.
Come si induce quindi la competizione in tale contesto?
In un modo molto semplice: legandosi la relazione con il proprietario attraverso il cibo (da cui
ricordo si scatenano tutte le attività di specie), i meccanismi interni deputati alla sopravvivenza si
sovrappongono a quelli prettamente sociali e/o di legame, e nel momento in cui un individuo
esterno – un altro cane – entra in gioco, le risposte saranno multiple in quanto associate a fattori
diversi.
Lo stesso vale quando si osservano tre cani dello stesso proprietario rincorrere una pallina.
Essendo questa, molto spesso, uno strumento relazionale all’interno della quale il cane vede una
forma di comunicazione vincente, ed un momento intimo con l’essere umano, la competizione
potrebbe scatenarsi proprio per l’ottenimento dell’approvazione (e non dell’oggetto, il quale
diventa mezzo, tramite), per tutelare – in qualche modo - l’interazione stessa con il proprietario
anche a causa delle varie forme di gratificazione a cui queste sono legate.
Secondo l’analisi di cui sopra, si è osservato peraltro che molti soggetti arrivati a me o ai miei più
illustri colleghi in recupero comportamentale, non conoscevano il “no”, brancolando in un’anarchia
sociale che lentamente ha superato i confini del buon senso e del vivere sereni fino a tradursi in vere
e proprie patologie.
Passando per un certo concetto ideologico - a mio avviso inutile e controproducente – la
“punizione” del cane non è nemmeno contemplata da alcuni educatori moderni e/o proprietari.
Perché?
Per il semplice fatto che oggi c’è chi insegna il mondo dei cani, senza che peraltro ne abbia mai
visto uno (vedi capitolo III).
Prima di arrampicarsi sulla disamina dei cani ferali o sulle dinamiche di branco dei lupi per avallare
tesi del genere, sarebbe a mio avviso più opportuno vedere la realtà intraspecifica per quella che è.
In un gruppo di cani randagi, per fare un esempio, l’elemento disturbatore – o che si rende
responsabile di atti contro il gruppo o di un suo elemento – ha solo due possibilità: venire alienato o
venire eliminato, nel momento in cui la diplomazia delle ritualizzazioni venisse disattesa.
Ergo, la punizione dell’individuo – sotto il profilo etologico - esiste eccome; e ovviamente
proporzionata al danno (concetto etologico di “sanzioni”).
Questo accade perché reggendosi proprio sul sistema sociale e cooperativo – a cui concorrono
norme e regole di sopravvivenza dettate proprio dalla massimizzazione dei benefici e dalla
minimizzazione delle costi/energie – non sarebbe pensabile fare altrimenti nell’interesse di tutto il
gruppo sociale, il quale resta il punto fondamentale della questione.
Il professionista che decide di farsi carico del recupero comportamentale si prende dunque
un’enorme responsabilità, anche perché nel caso di insuccesso le conseguenze potrebbe essere
l’abbattimento del cane, il suo abbandono o il confinamento a vita nel box; ed il solo fatto che il
cane paziente sia costretto molto spesso a dover rivedere e rielaborare anche il suo rapporto con
l’essere umano – oltre che con gli altri cani – la dice lunga sui tempi e sulle modalità di lavoro.
Personalmente il dispendio di energie investite in un’attività di recupero è altissimo – soprattutto
sotto il profilo psichico - e questo mi impedisce di farne due o tre alla volta.
Si parla di quotidianità, di “cani tutor” in ausilio, di ore ed ore giornaliere spese per restituire ai cani
le corrette sequenze comportamentali (invio, ricezione e risposta), a cui concorrono troppe cause
che devono essere in prima istanza identificate nel modo corretto.
Come per il capitolo dedicato all’aggressività, è praticamente impossibile fare un “manuale del
recupero comportamentale”, anche perché ci sono fattori legati alla soggettività dei singoli individui
e alla multifattorialità delle patologie di cui mi occupo solitamente, ma resta il fatto che qualunque
professionista del settore abbia il dovere – in prima istanza - di escludere patologie cliniche
attraverso indagini approfondite che solo gli strumenti diagnostici possono dare, ed in accordo con
il medico veterinario, il quale – vale la pena ricordarlo – è l’unica figura ufficiale in Italia alla cui
discrezione è affidata l’opera di recupero comportamentale.
Parlando in linea molto generale, in prima istanza tento quindi di “spogliare il cane” (altrimenti
come potrei rivestirlo?), riportandolo alla sua vera natura, e cercando di far emergere ogni suo
aspetto (negativo e positivo) nei differenti contesti.
In questo modo riesco a scoprirne i vari lati e a capire da quale stimolo – o serie di stimoli
(genetico, caratteriale, esperienziale, traumatico, etc.) si scatenino i suoi atteggiamenti negativi.
Questa disciplina tratta una materia pericolosa a cui concorrono tantissimi fenomeni ed altrettanti
metodi di lavoro che – almeno secondo i miei criteri – non contemplano ovviamente la coercizione,
la violenza, l’inibizione o le imposizioni.
“Dare regole” non significa “costringere”, ma più semplicemente restituire i corretti pattern sociali
di cui ogni sistema cooperativo è composto.
Come dice uno dei miei Maestri:-“Se voglio farci qualcosa con il cane – in questo caso recuperarlo
– devo in prima istanza diventarci amico” (Paolo Villani), e questo termine esclude ogni forma di
maltrattamento psichico o fisico.
E come faccio a rendermi amico?
Nel modo più semplice: attendendo che sia lui a proporsi e ad innescare la relazione con me.
L’errore umano più frequente in questa disciplina nasce proprio dal meccanismo di approccio del
quale l’uomo si rende immediatamente parte attiva.
Generalmente siamo infatti proprio noi a tentare di stabilire una connessione con il cane, ma questo
disattende i suoi tempi e – soprattutto - il suo modo di interagire con il mondo.
A questo ci dovremo arrivare in modo graduale, anche perché la confidenza – e le dinamiche legate
alla fiducia - non può nascere in pochi minuti o solo perché lo vogliamo noi.
La fase della conoscenza può durare giorni interi senza che il cane abbia alcun desiderio di entrare
in contatto con il professionista, e sta solo a questi osservarlo attentamente per capire quale possa
essere la prima fonte di attrazione che lo inviti (e non obblighi) a stabilirci un inizio di relazione.
E’ forse il momento più difficile e complesso, ma il legame che si instaurerà vicendevolmente sarà
capace di premiare gli sforzi iniziali andando ben al di là di quanto si possa immaginare.
Per fare questo occorrono strutture adeguate che simulino – per così dire – l’ambiente di
provenienza/ritorno del soggetto paziente, e l’Experience è studiato proprio per fare fronte a questa
particolarità attraverso una divisione ottimale dei suoi spazi.
C’è un home range (con il suo salotto, la sua cucina, la cuccia del cane, il divano, la televisione,
etc.), c’è un cross gate, c’è l’outdoor (con la sua macroarea) e ci sono tanti altri cani – e figuranti con cui lentamente si approccerà.
Non è pensabile – almeno secondo il mio modo di vedere la questione – che un cane oggetto di
recupero comportamentale possa vivere i vari contesti in un colpo solo, quando non addirittura fare
la spola tra il box ed il campo di lavoro.
E’ vero che devo in qualche modo essere in grado di generalizzare ogni evento, ma dovrò
necessariamente procedere a piccoli passi.
Tanto per cominciare, difficilmente propongo ai proprietari dei cani pazienti di partecipare al
recupero, ed i motivi sono sostanzialmente quattro:
1) il cane può essere stato da loro stessi – in modo inconsapevole – portato a quel livello di disagio;
2) le ansie del proprietario durante il lavoro potrebbero riflettersi negativamente sul cane con seri
rischi per l’incolumità;
3) i proprietari scandiscono e dettano – in modo inconsapevole – i tempi di recupero;
4) gli occhi di un cinofilo non sono gli occhi dei proprietari, e le aspettative dei secondi seguono
raramente l’andamento reale – e cinofilo - delle varie fasi di recupero.
“Calma” è la parola chiave, unita al concetto di “libertà d’azione”: senza queste due componenti
fondamentali non sarebbe possibile svolgere un lavoro serio ed efficace.
Nella maggior parte dei casi sussiste oltretutto un cosiddetto “cordone ombelicale” tra i cani ed i
loro proprietari – causato da un eccesso di attenzioni e di affetto - che deve essere spezzato, mentre
altre volte si osserva l’esatto contrario (la mancanza di relazione).
Una cosa però accomuna la maggior parte delle persone che si rivolgono a me: l’amore per il loro
cane; sempre più inteso come un vero e proprio componente della famiglia.
Gli errori fatti, gli stessi che li hanno poi condotti all’Experience, sono generalmente frutto di buona
fede, non di atti volontari tesi a minare il benessere degli animali, e questo implica un rispetto che
purtroppo non tutti i professionisti riescono ad avere nei confronti dei loro clienti, ai quali viene
addossata ogni genere di responsabilità e altrettante forme di giudizio.
Le patologie di cui mi occupo vanno quindi affrontate con il cervello, non certo con i muscoli, ed
uno dei tanti modi che ho escogitato – e per il quale mi sono attrezzato – è rappresentato dal lavoro
in acqua; soprattutto se devo riabilitare un soggetto mordace o particolarmente aggressivo.
L’acqua è un elemento naturale comune (valore condiviso) che permette al cane di lavorare in
libertà scaricando nel movimento del nuoto le varie energie negative e/o distruttive.
Non tutti i cani, però, amano tuffarsi di primo acchito in una piscina alta 1,50 cm e sarà proprio
questa particolarità – ed il mio modo di fare - che mi consentirà di costruire il valore di centro
referenziale e di coordinatore ai suoi occhi, gettando così le basi per l’edificazione della fiducia
reciproca.
La prima necessità del cane sarà quelle di riuscire a stare a galla, poi di muoversi correttamente e
quindi darsi un giusto assetto; e sarò proprio io a dargli una mano facendomi anche aiutare da due
cerchi (simili a quelli dell’hula hoop, ma solo più grandi) che gli insegneranno a non avere paura di
me, a stare dentro un’area precisa e ad avvicinarsi dolcemente senza che io abbia bisogno di fare
alcuna trazione: basterà infatti avvicinare a me il cerchio dentro il quale nuota il cane per indurlo a
venirmi incontro o ad allontanarlo, creando un’interazione fluida e armonica che assume connotati
davvero magici, quanto straordinari da vedere.
Questo metodo è in realtà uno dei tanti che ho preso in prestito dal mondo dei cavalli.
Nella fantasia europea c’era la tendenza a credere che siano stati i Nativi Americani ad usarlo per
primi nell’addestramento dei mustang, ma è un clamoroso falso storico.
I loro metodi erano brutali quanto spiccioli, dal momento che non avevano molto tempo da perdere
a causa delle fughe continue imposte dai reggimenti di cavalleria, ed i professionisti che mi
formarono sotto questo aspetto erano rigorosamente italiani, e svolgevano la loro attività
nell’ambito dell’idroterapia riabilitativa (traumi ossei o applicazioni in acqua della fisioterapia).
Osservare la confidenza di questi cavalli che andava instaurandosi così velocemente con i loro
trainer mi fece capire che la cosa poteva essere trasferita in qualche modo anche in ambito cinofilo
e, attraverso i giusti accorgimenti, anche nell’ambito dell’aggressività intraspecifica (strumenti e
mezzi compresi, tra le quali una pettorina munita di due galleggianti laterali).
Dopo il lavoro in acqua, c’è normalmente un intenso lavoro di mobility: una vera e propria palestra
fatta di percorsi particolarmente insoliti e difficili per il cane, i quali richiedono una grande
concentrazione e l’acquisizione di nuove competenze, chiamando in causa – ancora una volta - le
sue capacità cognitive e gli autocontrolli (psicologici e motori).
Aiutarlo a superare le difficoltà fortifica nel cane la sua fiducia nei miei confronti, ma nel momento
in cui sarà in grado di compierli in maniera autonoma vorrà dire che la sua autostima sarà cresciuta
ad un punto tale che l’aggressività – o la paura – saranno la risposta meno appropriata nei confronti
del mondo e degli stimoli avversi: il primo passo verso la riconsiderazione mentale nei confronti di
ciò che scatenava l’aggressività.
Se è vero che il benessere psichico corra parallelo a quello fisico, il programma di attività aerobiche
è sempre molto intenso ed in linea con le sue attitudini e con le sue più vere motivazioni.
Molto spesso si parla di questo tema (le motivazioni) in modo improprio quando si tratta di
interpretarlo secondo i dettami etologici, ed è proprio in questa fase che comincio a lavorare su
quello che viene definito processo di “estinzione del rinforzo”, cercando di riportare la parte più
vera ed elettiva del cane al suo punto centrale.
Nei vari tentativi degli educatori cinofili di recuperare il cane c’è stato spesso il cosiddetto luring
(utilizzo dei bocconcini o di un altro stimolo per adescare il cane ed indurlo a produrre un
determinato comportamento) che ha alterato – spostandole in un’altra area – le sue motivazioni.
A volte arrivano soggetti talmente attivati da questo procedimento addestrativo da non avere altri
interessi – meno che mai relazionali.
Il caso più eclatante fu quello di un border collie aggressivo, peraltro figlio di due soggetti in forza
ad un gruppo di sheepdog, che scelse i bocconcini di fronte alle pecore in movimento.
Ma che cosa è il rinforzo? E come viene generalmente utilizzato?
Per rinforzo, si intende “lo stimolo in grado di aumentare la probabilità della comparsa di
un’azione in occasione a successive esposizioni alla medesima situazione, un evento che aumenta
la probabilità che un certo comportamento sia eseguito (Pageat 1999 – O’Farrell 2001)”.
Diviso tra rinforzo positivo (stimoli scatenanti soddisfazioni dirette e ricompense) e rinforzo
negativo (evitamento di una situazione sgradevole - stimolo avversativo), viene a sua volta diviso in
due diverse metodologie applicative: il rinforzo continuo e quello intermittente.
Nel primo, il soggetto viene premiato ogni volta in cui mostra la risposta desiderata, mentre nel
secondo – quello intermittente – il premio viene concesso di tanto in tanto come operazione di
mantenimento del comportamento desiderato sul lungo termine.
Nel caso in cui la previsione di arrivo del premio sia costante, il rinforzo viene definito come
rapporto fisso, in caso contrario, variabile.
Spesso viene associato il rinforzo negativo al concetto di punizione (lo vedremo più avanti), ma è
inesatto quanto facilmente confuso, perché mentre nel primo caso sussiste la cessazione di un
determinato stimolo che aumenta la possibilità che un comportamento sia messo in atto, nella
punizione lo stimolo negativo sopraggiunge durante la risposta indesiderata; mentre l’azione è
quindi in fase di compimento.
L’uso costante di questo meccanismo di addestramento, che trova nel clicker training una delle sue
espressioni, pur essendo particolarmente efficace può produrre squilibri rilevanti ed alterare la
corretta percezione comunicativa interspecifica quando ne viene abusato.
Ma allora quali sono le vere motivazioni del cane?
Per amore della sintesi le elenco in ordine alfabetico:
01) Affiliativa (fare parte di un gruppo ristretto - l’ambiente familiare)
02) Cinestesica (fare movimento)
03) Collaborativa (concertazione - vedi capitolo IX)
04) Competitiva (il confronto, o lo scontro, con un conspecifico)
05) Comunicativa
06) Corteggiamento
07) Epimeletica (prendersi cura di un compagno)
08) Et-epimeletica (chiedere un aiuto o farsi curare)
09) Esplorativa (analizzare un oggetto/soggetto nei dettagli)
10) Perlustrativa (esplorare un ambiente e mapparlo)
11) Possessiva (mantenere il possesso di un oggetto)
12) Predatoria
13) Protettiva (difendere un affiliato)
14) Ricerca (ad esempio, oggetti)
15) Sillegica (raccogliere gli oggetti e/o portarli nella tana)
16) Sociale (partecipare alle attività di gruppo)
17) Somestesica (esplorare un territorio)
18) Territoriale (difendere il territorio)
Le motivazioni, oltre ad essere la forza che rappresenta l’entusiasmo verso un programma di
formazione (da qui il mio uso in addestramento), sono il carburante che definisce il carattere del
soggetto, indicando quindi le attività che è chiamato naturalmente a compiere.
Dobbiamo perciò partire da un concetto di base: le motivazioni inducono emozioni positive nel
momento in cui l’attività proposta sia piacevole per il cane ed in linea con il suo carattere (consenso
motivazionale).
Le diverse razze si caratterizzano infatti proprio per la variabilità delle differenti motivazioni, non
solo sotto il profilo morfologico; e se un golden retriever – in sostanza - mostra motivazioni
sillegiche, epimeletiche e collaborative, un pastore maremmano abruzzese evidenzierà motivazioni
territoriali, possessive e protettive.
Vorrei ricordare che fino all’epoca Vittoriana, la differenza tra una razza e l’altra veniva definita
attraverso la selezione del comportamento dei vari soggetti, non sul loro aspetto estetico, ed il
tentativo di privilegiare un singolo fattore può produrre cani con caratteristiche imprevedibili o
addirittura indesiderabili.
Osservando i cosiddetti standard di razza in modo corretto possiamo già avere un’idea del soggetto
che andremmo a scegliere come compagno di vita, proprio perché all’interno di essi troveremo le
molle (stimoli) che lo indirizzeranno ad avere un determinato comportamento e a trovarne le sue più
elettive gratificazioni.
Lo standard non è il documento che ci dice se “un cane sia bello o brutto”, ma rappresenta la
descrizione di una variante genetica prodotta artificialmente dopo l’isolamento riproduttivo di una
piccola popolazione, la quale è stata definita proprio attraverso delle motivazioni e alcune
caratteristiche peculiari.
Le motivazioni rappresentano pertanto quello stimolo che guida il binomio ad apprendere e ad
acquisire i vari contenuti influenzando l’uso delle nuove conoscenze anche in assenza di rinforzo
specifico nei confronti del trasferimento delle competenze.
Quindi mi chiedo:-“Perché usare stimoli terzi dal momento che nell’animo del cane c’è già tutto;
soprattutto nell’ambito del recupero comportamentale?”
Le risposte sono abbastanza evidenti e le ho espresse varie volte nel corso del libro.
Resta il fatto che esiste una classificazione della FCI (Federazione Cinologica Internazionale) che
divide i lupoidi, dai braccoidi, dai molossoidi, ai graioidi, così come divide le razze in specializzate
e non specializzate a cui pochi cinofili moderni si attengono.
Prima di andare avanti, c’è un’altra definizione che vorrei dare visto che viene spesso confusa con
la motivazione: la vocazione.
Se le motivazioni rappresentano quello che l’individuo – per così dire – cerca nel mondo, quindi
ancorato ai retaggi filogenetici e ai valori adattativi deputati alla sopravvivenza della specie Canis
familiaris (ogni specie ha un retaggio motivazionale che gli permette di esprimere determinati
comportamenti), le vocazioni indicano lo spettro vocazionale del cane, cioè quella parte di
motivazioni enfatizzata e negletta nelle differenti razze.
Nelle razze specializzate il comportamento è modificato geneticamente, e proprio la
specializzazione rende impossibile – in ambito zootecnico – l’uso di un’altra razza per lo stesso
scopo.
Le specifiche abilità sono dettate dalla motivazione predatoria, la quale viene incentivata e
sottoposta a ritualizzazione, facendo quindi rientrare in questa categoria i pastori conduttori, i cani
da ferma, i retriever, i cani da slitta, i terrier ed i molossi.
Al contrario, le razze non specializzate – che derivano dai cani di villaggio – mettono a frutto
vocazioni già esercitate naturalmente (caccia e protezione); e si riconoscono in questa categoria i
guardiani, i cani da seguita, i levrieri ed i primitivi.
Credo sia utile una breve panoramica.
- Pastori conduttori:
sono soggetti che utilizzano l’occhio, il vocalizzo e la bocca per condurre il bestiame.
Posseggono una alta motivazione collaborativa, sociale interspecifica ed intraspecifica; alta
motivazione predatoria e territoriale.
Per contro, hanno una bassa motivazione difensiva.
Rientrano in questa categoria razze quali il Pastore Tedesco, il Pastore Australiano, il Bobtail, i
Collie.
- Pastori guardiani:
vengono generalmente inseriti nel bestiame quando hanno appena 3-4 settimane (vedi capitolo) in
modo da amlgamarsi con esso per il lungo termine. Seguono le greggi e gli armenti allertandolo e
difendendolo dagli intrusi o dai predatori, oassando prima per le varie fasi di minaccia.
Hanno una bassa motivazione collaborativa e predatoria, ma un’alta motivazione territoriale,
difensiva e possessiva (Pur nascendo guardiani, tra i monti dell’Abruzzo – per fare un esempio questi cani vengono abituati a non cadere nelle trappole dei predatori, i quali posseggono una
strategia molto raffinata per aggirarli e stanarli dal gregge).
Rientrano in questa categoria il Pastore Maremmano Abruzzese, il Pastore del Caucaso, il Pastore
Bergamasco ed il Terranova.
- Retriever:
questi cani attendono l’abbattimento del selvatico passando per sequenze precise (cerca, cattura e
riporto) chiudendo la fase con il recupero della preda (dall’inglese “recuperare” – “to retrieve”).
Posseggono un’alta motivazione predatoria, esplorativa, sociale (intraspecifica ed interspecifica) e
possessiva, ed una bassa motivazione territoriale e difensiva.
- Cani da seguita:
cercano, scovano, inseguono, catturano e uccidono la preda lavorando in muta.
Questo fattore li porta a non essere competitivi.
Hanno una alta motivazione predatoria, esplorativa e sociale (sia intraspecifica che interspecifica)
ed una bassa motivazione territoriale, difensiva e collaborativa.
- Cani da ferma:
scovano il selvatico assumendo la postura tipica (ferma e punta).
Questo comportamento di aggressione predatoria è stato modificato attraverso la selezione e diviso
in tre fasi (ferma, punta e riporto), e si tratta di un comportamento innato che non deve essere
insegnato.
Hanno un’alta motivazione predatoria, esplorativa e sociale, ed una bassa motivazione difensiva,
territoriale, collaborativa (ci sono sotto questo profilo le varianti tra una razza e l’altra).
- Molossi:
questi cani derivano dai pastori guardiani e dai segugi. Hanno una alta motivazione territoriale,
difensiva, competitiva e possessiva, ma una bassa motivazione collaborativa e sociale
(intraspecifica ed interspecifica).
Tra questi cani troviamo il cane corso, il Dogue de Bordeaux, il Rottweiler ed il Dogo Argentino.
Il termine “molossi” – secondo gli storici – deriverebbe da “mansata” (appartenente alla casa).
- Terrier:
sono cani che inseguono il selvatico fin dentro la tana – anche sottoterra – arrivando ad afferrarlo
per stanarlo
Derivano dai segugi e dai cani da caccia usati contro i nocivi, ed hanno un’ alta motivazione
predatoria, esplorativa e possessiva, ma una bassa motivazione collaborativa, difensiva e sociale
(anche in questo caso sussistono le variabili delle varie razze).
Vengono annoverati tra questi il Jack Russel, il Bull Terrier, lo Yorkshire.
Anche se queste descrizioni sono di carattere generale, non si può certo fare a meno di notare
quanto la selezione – e quindi le motivazioni ad essa riconducibili – sia di carattere antropocentrico;
fenomeno a cui concorre peraltro la domesticazione (e di cui poche scuole cinofile moderne non
tengono conto).
Le varie attitudini al lavoro, le caratteristiche fenotipiche e morfologiche sono – di fatto –
un’operazione umana su ogni fronte portata avanti per secoli, non certo una questione estinta o da
tenere in subordine.
Proprio nell’ambito del recupero comportamentale il mio lavoro viene orientato – almeno nelle
prime istanze - su questo fronte, quindi attraverso il ripristino delle motivazioni e delle vocazioni di
base dei singoli soggetti, e nel momento in cui mi trovassi di fronte ad un simpatico meticcetto
adottato in canile, bastano generalmente dei test – unitamente all’osservazione dei caratteri
neotenici – per arrivare ad alcune conclusioni che possano indicare le molle giuste su cui poter
cominciare un eventuale lavoro.
Le motivazioni – così come del resto le vocazioni – non sono altro che la tendenza ad esprimere
particolari comportamenti che affondano le loro radici nel retaggio filogenetico e nel valore
adattativo.
Tanto più, infatti, un certo comportamento sarà innato (specificato geneticamente), minore sarà lo
spazio lasciato all’apprendimento (ontogenesi), e questo termine tornerà a rappresentarsi nella sua
veste più aderente e reale: come un collegamento – una configurazione – nella relazione
interspecifica, non vista certo come il riempimento di uno spazio vuoto. Questa è la profonda
differenza!
Conoscere le vere motivazioni del cane significa facilitare il suo percorso educativo, perché il loro
allenamento si tradurrà in un effetto disciplinante dentro al quale verranno messe in atto tutti quei
valori condivisi – e condivisibili – che sul medio e lungo termine si tradurranno in un’unica
soluzione: un binomio sereno e consapevole.
Al contrario, frustrare le motivazioni (mi vengono in mente i “Retriever da salotto”, i “Border
Collie da divano”, i “Jack Russel da cuscino”) porta alla naturale conseguenza del degrado psichico
con effetti devastanti sia da un punto di vista comunicativo che relazionale.
La mente del cane ha forti capacità di memorizzazione e di elaborazione delle informazioni
provenienti dall’ambiente (oltre che dall’organismo) e questo significa che ogni sua esperienza sia
in grado di forgiare le capacità mentali creando un ponte di collegamento tra ciò che accade, ciò che
viene percepito attraverso il suo sistema sensoriale, ciò che proviene dalle emozioni per quanto il
soggetto ricerchi sulla base delle motivazioni.
Lavorare sull’educazione del cane significa quindi dare una cornice all’espressione delle
motivazioni e fare in modo che vengano poste in atto nei giusti contesti, creando un registro di
espressione motivazionale fondato sulla collaborazione in grado di promuovere un vissuto fatto di
esperienze positive, e che abbia al contempo il giusto peso nella rappresentazione mentale del cane
nei confronti del mondo che lo circonda.
Ogni funzione cognitiva – infatti – non è altro che il risultato dell’attivazione di un effetto domino
della rete sinaptica, e se è vero che i neuroni e le sinapsi hanno un potenziale di sopravvivenza e
funzionalità direttamente proporzionale al numero di volte in cui vengono attivati, ciò significa che
il set neuronale verrà rafforzato tanto più questo verrà esercitato.
Le motivazioni, le emozioni e lo stato di attivazione (arousal) sono componenti fondamentali di cui
bisogna assolutamente tenere conto durante i processi di apprendimento; soprattutto nell’ambito
delle attività di recupero comportamentale visto che – nella maggior parte dei casi – si tratta di
“restituire un maltolto”, e non di aggiungere qualcosa (quindi proponendosi anche come una nuova
forma/visione di apprendimento).
Unitamente a questo, bisogna anche avere l’accortezza di mettere in equilibrio le varie cose affinché
non ci siano sbilanciamenti – per esempio - tra la motivazione e l’apparato emozionale del cane.
Volendomi soffermare per un attimo sul tema dell’arousal (attivazione emozionale), leggo da più
parti di uno strumento che secondo alcune scuole cinofile sarebbe deputato ad abbassare la tensione
emotiva, quando non addirittura anche in grado di recuperare un soggetto afflitto da alcune
patologie comportamentali: il “kong”.
Inserire foto di un kong
Così come un cane particolarmente agitato non troverebbe certo in una passeggiata lunga due ore
un’efficace medicina sul lungo termine, il contenimento degli spazi, la coercizione o l’isolamento
non producono altro che l’aggravarsi della situazione.
Il kong è uno strumento di gomma piuttosto resistente e a forma leggermente conica ideato
nell’ambito dell’attivazione mentale ai suoi primi livelli.
Ripieno di cibo, veniva usato una volta per spostare il cane da una parte all’altra della casa (ad
esempio, quando veniva passato lo straccio) e poterlo quindi lasciare solo per un tempo abbastanza
breve, ma oggi viene addirittura associato da più parti ad un vero e proprio strumento per la
risoluzioni di problemi più o meno gravi.
Giusto per sgombrare ogni dubbio, posso solo dire che se avessi - anche solo una volta - tentato di
recuperare un caso attraverso il kong, probabilmente non avrei più le mani per scrivere queste
pagine o, nella migliore delle ipotesi, avrei qualche vistosa cicatrice sul corpo o qualche
menomazione.
Per come lo vedo io (ma soprattutto in considerazione dell’attuale momento storico), questo
strumento è diseducativo in prima istanza per i proprietari di cani, i quali lo trovano un’ottima
variabile per lasciarlo da solo per ore ed ore in perfetto stile antropocentrico (il cane non è un
bambino, ma un cane, e vuole partecipare alle attività del gruppo sociale; non divertirsi da solo con
il Lego), ed in seconda battuta perché è sovradimensionato nel suo aspetto educativo.
Ho spesso – e più realisticamente - associato questo strumento al chewing gum, visto che appartiene
a quella categoria di giochi definiti “solitari”, e che quindi non sia affatto ascrivibile agli strumenti
deputati alla risoluzione di problemi comportamentali, ma ad un più semplice e piccolo passatempo.
Da lì a parlare a parlare dell’acquisizione di “nuove competenze” da parte del cane – come spesso è
stato detto riferendosi a questo strumento - ce ne passa.
E’ vero che le attività a basso contenuto di arousal (soprattutto se prolungate) fortifichino i circuiti
neuronali della calma –ed il kong rappresenta una di queste - ma è altrettanto vero che tutto ciò non
sia sufficiente.
Per quanto mi riguarda, ritengo che ogni tipo di attività prolungata vada fatta attraverso una visione
cooperativa a cui il proprietario deve partecipare – anche in modo passivo, come nel caso dei giochi
di attivazione mentale - e questo già esclude il kong – almeno sotto il profilo del recupero
comportamentale – tra gli strumenti idonei.
Le motivazioni quindi, sono un qualcosa di molto meno banale rispetto a quanto si possa credere,
ma rappresentano il fondamento di una relazione propositiva sui due fronti (valori reciproci, valori
condivisi) sostenuta dal desiderio del cane di fare una attività per cui è particolarmente adatto e
trarne conseguentemente gratificazione.
Nel momento in cui il cane dovesse trovarne all’interno di un’unica fonte motivazionale sarà
addirittura probabile – e di casi ne vedo purtroppo tantissimi – che nelle diverse situazioni, e nelle
diverse fluttuazioni delle condizioni, il nostro amico a quattro zampe potrebbe rischiare la
frustrazione.
Bisogna quindi cercare di allargare l’orizzonte motivazionale – partendo però sempre da quelle
genetiche – affinché si possa disporre di una più vasta gamma degli aspetti di gratificazione, e se
esistono alcune motivazioni che non siano compatibili con l’integrazione del nostro cane nella
società umana (mi viene in mente la motivazione predatoria) dobbiamo disciplinarla definendone i
target ed i contesti in cui si potrà svilupparle.
Nel lavoro di recupero comportamentale vengono svolte esercitazioni continue sugli autocontrolli,
sui segnali di partenza e di arresto che lentamente si restingeranno secondo un ottica di ricerca
dell’equilibrio, finalizzati proprio a trasformare una vocazione generica ed incompetente in una
vocazione che sia in grado di inserirsi nuovamente nella società, oltre che nella relazione con il
proprietario.
D’altra parte dobbiamo accettare il fatto che esistano dei comportamenti di cui il cane non può fare
a meno, e l’unica cosa che possiamo fare è quella di redirigerli e di contestualizzarli, non di inibirli.
Questo processo – l’inibizione – è qualcosa che nell’immaginario collettivo viene legato al concetto
di distruzione, ma questo termine – ancora una volta – è abbastanza confuso ed utilizzato in modo
improprio.
Quando la madre “inibisce” il morso del cucciolo non significa che lo stia eliminando dai suoi
comportamenti, ma più semplicemente “organizzando” nelle sue varie scansioni: gli insegna – in
sostanza - ad usarlo nei differenti contesti.
E’ ancora una volta il termine umano – purtroppo - a volerla fare da padrone nel panorama cinofilo;
esattamente come il concetto di punizione (sanzione), la quale è sempre intesa come una variante
antropomorfa da redirigere sul cane (modi e soprattutto tempi).
Chi non è mai stato consigliato di strofinare il muso del cane nelle sue deiezioni nel momento in cui
le lasciasse in bella vista sul costosissimo tappeto persiano?
Punire un cane non significa fare chissà quali torture a distanza di ore, ma dargli uno stimolo
negativo efficace - che non sia oltretutto ansiogeno – durante la risposta che vogliamo punire; non
diluito nel tempo quando non potrebbe ricollegarlo al fatto.
La prima regola da dover tenere presente è proprio quella relativa alla simultaneità
dell’azione/punizione; quindi da mettere in atto già nel primo step della sequenza comportamentale
indesiderata.
Punire il cucciolo che sta già urinando sul tappeto significa poco per lui, mentre sarà decisamente
efficace – ed immediatamente compresibile – se lo faremo nel momento in cui ci darà quei segnali
di avviso antecedenti all’azione (annusare, girare su se stesso, accovacciarsi).
Altra regola fondamentale relativa alla punizione è quella che si riferisce alla “permanenza” (P.
Pageat) la quale stabilisce che “ gli apprendimenti determinati da punizione permangono fino a
quando la punizione continua ad essere potenzialmente presente”.
A tale proposito mi viene in mente un cliente di alcuni anni fa che a cui era stato consigliato l’uso
del collare elettrico per eliminare un problema di carattere intraspecifico: nel momento in cui lo
strumento veniva tolto, il soggetto ricominciava a lanciarsi contro i cani della vicina.
Un’altra – per così dire – “variante” che attualmente viene disprezzata da molti educatori cinofili è
l’uso del “no” in ambito educativo.
I portatori di questa strana teoria sostengono peraltro che – vedi pagine precedenti - una negazione
(in quanto tale) non abbia mai risvolti gratificanti e che sia quindi disdicevole sotto il profilo etico
ed etologico.
Escludendo immediatamente l’aspetto etologico della questione (concetto di “sanzioni”) colgo
l’occasione per riportare un semplice esempio personale per controargomentare la faccenda dal
punto di vista squisitamente etico.
Per uno dei miei cani – con pochissimo fiuto a causa di un brutto incidente – il “no” rappresenta
uno degli strumenti di comunicazione interspecifica che utilizzo per farlo cercare a vista un oggetto.
Dopo averlo messo in posizione di “resta”, tiro una pallina ad una distanza tale che il suo apparato
visivo non possa essere in grado di intercettarla con la dovuta precisione, e lo invio sul bersaglio.
Comincicerò quindi a guidarlo con dei comandi che gli ho insegnato: “walk on” (per mandarlo nella
direzione giusta), “look back” (nel caso avesse superato l’oggetto”), “no” – nel caso prendesse la
direzione sbagliata”.
Una volta trovata la pallina, il “no” ha quindi assunto un valore altamente cooperativo (dove non
arrivo io, arrivi tu) trasformandosi in un normale strumento di guida in grado di fargli trovare
l’oggetto e la conseguente gratificazione.
A questo modo d’agire concorre peraltro un notevole passo avanti sul fronte cognitivo ed una nuova
rappresentazione mentale associata alla negazione, ritenendolo oltretutto un valido strumento anche
nell’ambito della rieducazione (differente dal recupero comportamentale).
L’uso smodato – ed improprio – della parola “no”, con i suoi toni rabbiosi e sempre così pieni di
ogni “mal di Dio, è uno degli aspetti più comuni che riscontro nei cani che passano per
l’Experience.
All’inizio del capitolo ho fatto una distinzione tra la rieducazione dei cani ed il lavoro di recupero
comportamentale, riferendomi anche a due temi piuttosto comuni nelle terminologie cinofile: il
controcondizionamento e la desinsibilizzazione.
Per controcondizionamento si intende quel lavoro volto a far reagire il cane in un modo diverso nei
confronti di un determinato stimolo, insegnandogli a mettere in atto un comportamento più adatto,
quando non addirittura diverso.
Come per tutti gli strumenti a disposizione dell’etologia, anche questo non rappresenta l’unico
modo per “sopprimere” – citando Pageat – le reazioni indesiderate scatenate da uno stimolo
sensibilizzante, ma più semplicemente, una delle infinite possibilità.
Per chiarire il concetto, approfittando di un esempio peraltro già descritto, potrei rilegarmi alla
metodologia che ho usato per eliminare la coprofagia ad un cane nei suoi primi step: il soggetto
mise in atto un comportamento diverso di fronte ad uno stimolo arrivando poi a prendere un
indirizzo completamente diverso, quanto funzionale al binomio.
In realtà, l’esempio non è molto calzante, ma la sostanza dei primi pattern comportamentali ottenuti
in risposta si.
Prendiamo quindi un esempio più classico: il citofono di casa tanto odiato dai postini.
Lo stimolo sensibilizzante è rappresentato dal suono, e la risposta indesiderata dall’abbaio del cane.
Come usare il controcondizionamento in questo caso?
Il modo più semplice sarebbe quello di fargli associare il suono del citofono al recupero di una
pallina o di un qualunque oggetto affinché – appunto – interrompa il comportamento indesiderato
per favorirne uno accettabile, ed una volta che il cane mostrerà di aver capito il concetto potrà
subentrare la tecnica dell’abituazione (che ha lo scopo di diminuire in modo graduale la risposta ad
esso associata).
Mi è capitato recentemente – tra le altre cose – di usare il controcondizionamento per recuperare un
Bull Terrier mordace posto sotto sequestro Giudiziario che non aveva mai mostrato alcun
comportamento riconducibile all’ansia di separazione durante la sua permanenza in canile.
Nella struttura dell’epoca venne messo in una camera dotata di ogni comfort e dopo averlo
recuperato dall’aggressività saltò fuori – e solo per un caso – una delle sue tante patologie latenti.
Questo povero cane aveva subito un abbandono devastante tra le mura domestiche (quindi nel suo
home range), ma non fu il senso di solitudine a fargli venire questa patologia, quanto la fame, la
sete e la ritualizzazione che l’abbandono portò in se.
I vecchi proprietari, nel fuggire, spostarono i mobili dell’appartamento con la fretta tipica di questi
atti criminali, lasciando il cane senza cibo, né acqua per circa quindici giorni.
Quando le Guardie Zoofile della L.I.D.A. (Lega Diritti Degli Animali) lo trovarono, il cane era
ovviamente impaurito e ridotto pelle e ossa.
In canile – nonostante le amorevoli cure – mostrò dei comportamenti piuttosto normali all’inizio e
fu quindi adottato da una persona che successivamente lo dovette riportare dai volontari per motivi
di lavoro.
Secondo abbandono, ma questa volta senza che il cane dovesse subire altri problemi.
“Bruto” – così si chiamava – cominciò a mostrare però velocemente dei comportamenti aggressivi e
fu così che il mio carissimo amico/collega Davide Cardia mi contattò per chiedermi di occuparmi
del caso.
Dopo un certo periodo di lavoro con questo Bull Terrier – lavoro peraltro svolto prevalentemente
secondo i metodi descritti in precedenza (acqua, mobility, etc.) alla mia collaboratrice più stretta
venne in mente di gettare via alcuni mobili vecchi che erano attigui alla camera dove stazionava
“Bruto”.
Il solo spostamento dei mobili - in perfetto stile trasloco - fu devastante per il cane, il quale
cominciò a latrare in preda al panico sfondando ben due porte di legno.
Lo stimolo negativo era rappresentato dai mobili spostati, l’associazione lo ricollegava
all’abbandono e tutto questo era riuscito a scatenare in lui – per circa quaranta minuti (!) - la
risposta peggiore alla quale avessi mai assistito in vita mia.
Il lavoro di controcondizionamento fu messo in atto dopo pochi giorni, ma ci volle circa un mese
per stabilizzare definitivamente la situazione.
In quel caso – non potendogli far recuperare le palline – scelsi come strumento controcondizionante
la cosa che gli sarebbe mancata di più dopo il primo abbandono: il cibo.
Muovendo i mobili – in sostanza – gli facevo arrivare attraverso una porta laterale la ciotola con il
cibo, facendo così diventare l’azione una vera e propria ritualizzazione che, attraverso la tecnica
della desensibilizzazione e dell’abituazione, spense il comportamento negativo sul lungo termine.
Quello che un giorno si chiamava “Bruto”, diventò quindi il mio “Raùl” – in onore del mio
percussionista preferito Raùl Rekow – il quale si distinse come un abilissimo “cane tutor” e venne
messo sotto contratto da una produzione cinematografica per interpretare la parte in un film.
Inserire foto di Raùl
La desensibilizzazione è stata in questo caso affiancata al controcondizionamento perché – per
definizione - consiste nell’applicare lo stimolo secondo un grado di intensità progressivamente
crescente in modo da ottenere la diminuzione delle reazioni allo stimolo stesso.
Il rumore dei mobili, nel caso specifico, venne fatto a step progressivi: la prima volta un piccolo
spostamento (ed il cibo in risposta), il secondo spostamento leggermente più consistente, e così via.
Per evitare la tecnica del flooding (un metodo secondo il quale l’esposizione forzata e continua ad
uno stimolo si propone di far abituare il cane allo stimolo stesso; metodologia quindi molto carica
di stress), la quale non è certo consigliabile su un caso di aggressività quale era Raùl, tentai ogni
strada alternativa facendo – per così dire – ogni volta due passi in avanti e cinque indietro.
Se c’è una cosa che non deve mai mancare ad un cinofilo – meno che mai a chi si occupa di
recuperare il comportamento di un cane – è proprio la pazienza.
Quel caso mi insegnò molto, mettendo a dura prova la mia capacità di agire sui vari fronti. La
compilation di problemi – anche clinici – che aveva Raùl era da manuale e l’imperativo –
soprattutto dopo che decisi di adottarlo – fu uno solo: non mollare; anche quando non si riuscivano
a trovare vie d’uscita.
Sempre in merito alla desensibilizzazione, vorrei aprire una breve parentesi per riferirmi ad un
fenomeno annuale che attanaglia la maggior parte dei proprietari di cani: i botti di capodanno.
Anche in questo caso potrei portare un’esperienza personale che fece il giro della rete internet.
Il cane raffigurato con me in copertina fu oggetto di un atto decisamente crudele nella notte del 31
dicembre 2011.
Gli venne lanciato un petardo da alcuni adolescenti – più simile ad una vera e propria bomba - ad
una distanza di circa sessanta metri, facendogli subire uno shock così violento che dovette
portarselo dietro per diversi giorni.
Va considerato peraltro che questo cane – proprio per il lavoro di attore che esercita fin da piccolo –
è abituato a situazioni che potrebbero apparire “limite” anche per un essere umano, e questo può
dare un’idea abbastanza precisa del trauma subito quella notte.
Nei precedenti capitoli ho descritto come Schnaps sia stato capace di avvertire – anticipandolo - uno
sciame sismico durante i soccorsi in Abruzzo, definendo così la sensibilità dei canali percettivi a
disposizione dei cani.
Se questo fattore mi portava già di per se ad essere molto scettico nei confronti di alcuni strumenti
di desensibilizzazione, quali i CD audio in cui sono riprodotti suoni di temporali, scoppi e
quant’altro, quella fu l’occasione giusta per verificarlo di persona.
Ogni scoppio esterno all’abitazione, protrattosi fino all’Epifania, lo portava ad una crisi che poteva
durare ore (con soglie di stress altissime), non mostrando – però – alcun atteggiamento particolare
nel momento in cui il cane veniva inondato (flooding) dagli stessi suoni riprodotti dalle casse stereo
(che sono le stesse usate nelle sale di registrazione musicali, quindi ad altissima definizione).
Approfittando degli strumenti cinematografici di post produzione decisi quindi di fare una piccola
ricerca sul fronte acustico facendomi aiutare da un amico che lavora nel settore audio e, registrando
con le giuste apparecchiature le fonti sonore dei petardi reali, feci una comparazione tra queste e
quelle riprodotte nei vari CD.
Il risultato fu abbastanza sorprendente, e vennero evidenziate una vasta gamma di “fonti parallele”
(rumori di fondo inaspettati, corredi sonori di anticipo all’esplosione) che definivano un quadro
molto diverso da quello a noi percettibile, e decisamente più vasto.
Espandendo alcuni rumori nascosti ed osservandoli in modo sincronizzato con le risposte del cane,
vennero portate in luce le diverse scansioni dei comportamenti di risposta conseguenti ai segnali di
anticipo che mi fanno intuire una certa capacità di previsione da parte del cane rispetto a ciò che
potrebbe succedere da lì a poco.
Se però nel caso dei temporali c’è – di fatto – un cambiamento graduale delle condizioni ambientali
che permette agli animali di reagire progressivamente all’evento, nel caso dei petardi le
combinazioni sono decisamente più sottili e troppo veloci per farvi fronte, peraltro svincolate dai
fattori naturali, e quindi dalle strategie di risposta selezionate sotto il profilo genetico.
Nel caso specifico decisi quindi di adottare una strategia diversa per far uscire il mio Schnaps da
quel tipo di impasse; un meccanismo che trovava proprio nelle sue motivazioni più vere – e
geneticamente selezionate - un formidabile alleato: le pecore.
Spostai quindi il contesto dell’evento, portandolo in un’area di reale gratificazione sfruttando al
massimo la sua formidabile tempra.
Questo spunto mi venne in mente proprio osservando il lavoro dei border collie in Scozia, i quali
non abbassavano mai la loro concentrazione dalla guida del gregge nonostante i violenti temporali
improvvisi in cui peraltro si presentavano occasionalmente fulmini relativamente vicini.
I fattori elettrostatici – avvertiti certamente con largo anticipo dai cani – influivano in minima parte
sul loro lavoro di conduzione e ciò che feci con il mio Schnaps fu proprio inserire, in modo
graduale, lo stimolo traumatico dentro un contesto di altissima gratificazione e fortemente
cooperativo.
La commistione quindi tra le varie tecniche di desensibilizzazione, controcondizionamento e
abituazione, modulate però attraverso la sue motivazioni e vocazioni (senza le quali non avrei
ottenuto sicuramente lo stesso risultato), furono la chiave di volta per restituirgli progressivamente
serenità, facendogli riconsiderare le rappresentazioni mentali dell’evento con un più adeguato treno
di risposte.
La cosiddetta “prova del nove” arrivò la sera del 15 agosto successivo, in occasione dei
festeggiamenti di Ferragosto: stesso home range, stessi stimoli, stesso contesto, ma risposte molto
differenti che mettevano decisamente la parola “fine” al problema.
Le esperienze che ho appena descritto, se da una parte mi auguro possano essere utili a qualche
proprietario o cinofilo, dall’altra sollevano però una questione spinosa che ha a che vedere con la
legittimità della professione cinofila e con i vari studi che girano intorno alla questione “recupero
comportamentale”.
Se per gli Atenei – e quindi anche per i medici veterinari ed i ricercatori – esiste una certificazione
delle loro attività e dei protocolli di lavoro che gli permettono di fare tanti piccoli passi avanti sul
fronte benessere animale, la cinofilia italiana risente purtroppo della mancanza Legislativa che sia
capace di indicare e definire una strada costruttiva da seguire.
L’invito che pertanto rivolgo ai giovani cinofili è quello di approfondire, di studiare, di iscriversi –
per quanto possibile - ai vari corsi di Laurea disponibili, parallelamente alle attività sul campo di
addestramento/educazione, lasciando da parte le scuole autoreferenziate o i vari club e associazioni
che saranno sempre purtroppo considerate “unofficial” dal mondo della ricerca e della scienza.
Anche una pur piccola esperienza può essere utile a tutto il mondo dei cani, ma va portata avanti
con criterio e metodo nell’unico interesse comune: il benessere crescente dei cani.
Ritengo al contempo che vada istituita una formazione su più fronti che affronti i vari aspetti della
relazione uomo-cane, non tanto costruita attorno ai valori filosofici, ma rivolta agli aspetti clinici,
tecnici e pratici.
Pochi cinofili sanno come comportarsi in piena sicurezza di fronte ad un cane particolarmente
aggressivo, ed ancora meno conoscono i movimenti di difesa che possano salvare gli arti – quando
non addirittura la vita stessa – in situazioni limite, e credo fermamente che tutto questo – oggi - non
sia accettabile per chi vuole fare di una passione una vera e propria professione.
Definire una diagnosi sul comportamento dei cani richiede studio, pratica e conoscenze
approfondite, le quali non sono svincolabili dalle indagini mediche sostenute dai veterinari, ed è
proprio in questa luce che ritengo si debba vedere il futuro della cinofilia italiana sul fronte
comportamento.
Le due attività – cinofila e medica - devono sposarsi reciprocamente nell’interesse sovrano del
benessere animale, ma tutto questo sarà possibile solo nel momento in cui venisse auspicabilmente
disciplinato l’intero settore, visto che oggi è lasciato un po’ tutto al buon senso o all’etica personale.
Credo che il numero crescente delle famiglie proprietarie di animali d’affezione rappresentino non
solo una enorme domanda di mercato, ma gruppi sociali che abbiano dei precisi diritti di assistenza
da parte di personale specializzato ed in linea con le moderne metodologie di lavoro, i quali
dovrebbero svolgere anche tutte quelle attività di prevenzione che possano ridurre fenomeni
negativi di cui si sente troppo spesso parlare.
Consapevolezza e cultura cinofila si; ma applicata con rigore, metodo e attraverso regole precise
valide per tutti: i cani ringrazierebbero sentitamente.