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gola e fame
La gola e la fame
di Gianfranco Ravasi su La Domenica del Sole 24 ore
Lo scorso novembre un vescovo francese – a Roma per la cosiddetta visita ad limina coi suoi colleghi dal
Papa – mi ha raccontato questo episodio. Invitato in una scuola durante una serie di presentazioni delle
varie religioni, aveva aperto il suo intervento con una domanda rivolta ai ragazzi: «Che cos'è la
Quaresima?» (era marzo e la domenica prima era iniziato appunto questo periodo liturgico che prepara alla
Pasqua, la solennità centrale dell'anno cristiano). Si leva un mormorio tra gli alunni a prevalenza francese,
ma con presenze di altre etnie. Alla fine un francese si fa coraggio e spiega: «È il Ramadan dei cristiani!».
L'episodio è emblematico di un'evoluzione socio-culturale: il paradigma di riferimento, in questa Europa
snervata e smemorata, diventa esterno ed estrinseco, la comparazione che decifra la realtà non è più
autoctona ma allogena. Proprio per questo, dato che i calendari rubricano ancora il prossimo 13 febbraio
come il giorno delle Ceneri, l'inizio della Quaresima, vorrei proporre una libera considerazione non tanto su
questo severo tempo liturgico prepasquale di quaranta giorni («quaresima» deriva dal latino quadragesima,
«quarantesima»), ma su un aspetto che in passato ne era una componente significativa e, come vedremo,
fa parte di un retaggio quasi universale, indipendentemente dalle specifiche confessioni religiose.
Intendiamo riferirci al digiuno, un vocabolo di matrice latina, jejunus, «affamato», dal quale deriva anche il
suo antipodo «desinare» che è appunto disjejunare (si pensi al francese déjeuner, «far colazione»), cioè
«rompere il digiuno». Nei Vangeli si ricorda che, alla vigilia dell'entrata in scena per il suo ministero
pubblico, Gesù «digiuna quaranta giorni e quaranta notti» (Matteo 4,2), vivendo quindi una sua quaresima.
Il verbo greco usato è nestéuein che ricorre 20 volte nel Nuovo Testamento, accanto a due sostantivi
derivati, nestéia e néstis, presenti rispettivamente 5 e 2 volte. Nell'altra lingua biblica, l'ebraico, si usa
invece la radice tzum che, come verbo e sostantivo, ricorre nell'Antico Testamento 47 volte e che è passata
anche nell'arabo e all'etiopico come termine di uso solo religioso. Ma passiamo ora al merito del tema.
«Abbà Eulogio diceva al suo discepolo: Figlio, poco alla volta, esercitati a restringere il tuo ventre, grazie al
digiuno. Infatti, come un otre disteso diventa più sottile, così ugualmente il ventre quando riceve molto
cibo. Ma se ne riceve poco, si riduce ed esige sempre poco». Questa parabola dei Padri del deserto egiziano
illustra in modo pittoresco la genesi ascetica del digiuno. Da questa che, come dicevamo, è una prassi
universale si è ramificata una scelta religiosa che ha i suoi vertici sia nel Kippur ebraico, la grande giornata
penitenziale dell'Espiazione, comprendente una totale astensione alimentare, sessuale e lavorativa, sia nel
Ramadan islamico, uno dei «cinque pilastri» della fede musulmana, sia nell'interrotta tradizione cristiana.
La secolarizzazione moderna ha ridotto questo atto spirituale (prima ancora che corporale) alla dieta o,
purtroppo, al dramma dell'anoressia. In realtà, tutte le grandi religioni sono fermamente convinte che
digiunare è un atto di sua natura simbolico, nel senso più genuino del termine. Pensiamo solo alla lapidaria
e incisiva dichiarazione del profeta Isaia: «È questo il digiuno che il Signore vuole: sciogliere le catene
inique, togliere i legami dal giogo, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo, dividere il pane con
l'affamato, introdurre in casa i miseri, i senza tetto, vestire uno che vedi nudo, non distogliere gli occhi da
quelli
della
tua
carne»
(58,6-7).
Oppure si pensi all'ironia di Gesù nei confronti di un'astinenza meramente ritualistica che ti fa «assumere
un'aria malinconica, sfigurare la faccia». Ad essa egli oppone paradossalmente «il profumarsi la testa e il
lavarsi il viso» (Matteo 6, 16-17), perché il digiuno non sia farsa, ma decisione intima che esprime
autodisciplina, liberazione dal consumismo, dall'egoismo, dalla logica del possesso, dalle false necessità, ma
anche purificazione dello spirito, controllo di sé, dominio dei sensi. Gli stessi Padri del deserto non
esitavano a dichiarare che «è meglio bere vino con umiltà che bere acqua con orgoglio».
Anche l'Islam, con la voce di uno dei suoi grandi maestri mistici, al-Ghazali (1058- 1111), ammoniva che il
vero digiuno è astenersi dai peccati della lingua e degli altri membri, anzi è liberarsi da «tutto ciò che non è
Dio». Persino la tradizione indù con Gandhi – che aveva dimostrato anche l'efficacia "politica" del digiuno –
si muoveva in questa linea: «Il digiuno non ha senso se non educa alla sobrietà e se non è accompagnato da
un costante desiderio di autodisciplina. Colui che ha soggiogato i sensi è il primo e più importante tra gli
uomini.
Tutte
le
virtù
risiedono
in
lui».
Come corollario, si dovrebbe rispolverare quella quarta virtù «cardinale» che è la temperanza: è
interessante notare che nella tradizione cristiana (ma già nell'etica stoica si registrava un'analoga scelta)
questa virtù era chiamata enkráteia, cioè «dominio di sé, autocontrollo», oppure sophrosýne, «saggezza,
moderazione», esercizio corretto dei pensieri e delle passioni. La perversione del corretto uso del cibo è,
comunque, la connotazione più popolare della temperanza. Il pensiero corre a quel film potente e funereo
che Marco Ferreri ha girato nel 1973, La grande abbuffata, riedizione più pesante della cena di Trimalcione
del Satyricon di Petronio. Quattro amici si avviano verso un cupo suicidio attraverso un'orgia di cibo e di
sesso, consumata in una sorta di "ritiro" (non certo spirituale) in una vecchia villa parigina. Moriranno
affogati da carni, dolci e vini uno dopo l'altro (gli attori Tognazzi, Mastroianni, Piccoli, Noiret) in un macabro
rituale officiato dalla "sacerdotessa" Andréa Ferréol.