Scarica la versione stampabile

Transcript

Scarica la versione stampabile
Notiziario settimanale n. 568 del 08/01/2016
versione stampa
Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
"Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e
stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho
Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati
e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro.
Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri"
don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù"
16/01/2016: Giornata mondiale delle migrazioni
"Se metti sui piatti della bilancia vantaggi e svantaggi, ti accorgi che è
molto meglio una pace ingiusta di una guerra giusta"
Erasmo da Rotterdam, Dulce bellum inexpertis
Gandhi rese impossibile agli inglesi continuare a governare l'India, ma
rese loro possibile andarsene evitando rancori e umiliazione.
Arnold Toynbee (1960)
Indice generale
Editoriale......................................................... 1
Venticinque anni dopo (di Peppe Sini)....................................................... 1
Pippo e Peppino sono vivi, i morti sono altri (di Alessio Di Florio)...........1
Evidenza...........................................................2
Appelli: Non inviare i soldati italiani alla diga di Mosul (di Centro di
ricerca per la pace e i diritti umani)............................................................ 2
L'argomento della settimana......................... 2
Il nocciolo della questione (di Peppe Sini)................................................. 2
Approfondimenti.............................................3
Armi italiane dalla Siria all’Africa ad amici e nemici (di don Renato
Sacco, Luigi Marachella)........................................................................... 3
Riflessioni sulla chiusura della Misna (di Frate Renato Kizito Sesana) ......4
Parte finalmente la sperimentazione dei Corpi civili di pace (di
Conferenza Nazionale Enti per il Servizio Civile) ..................................... 5
La "ricostruzione" italiana. Il modello e l'esempio di Alcide De Gasperi (di
Nunzio Galantino)...................................................................................... 5
Perché su Matteo Renzi gli intellettuali italiani stanno zitti? (di Marco
Damilano).................................................................................................. 9
Iniziativa congiunta delle religioni universali (di Enrico Peyretti) ...........10
Notizie dal mondo..........................................11
Vietato rompere il silenzio (di Michele Giorgio – Il Manifesto) ...............11
Gaza entra nel 10° anno di blocco israeliano (di infopal.it)......................11
Immagini di parole........................................12
Lo zampognaro (di Gianni Rodari).......................................................... 12
Editoriale
Venticinque anni dopo (di Peppe Sini)
Sono una delle persone che venticinque anni fa si opposero alla guerra del
Golfo che avviò la catastrofe che tuttora perdura e si estende (ne ricavai un
processo da cui uscii assolto - credo anche grazie alle innumerevoli
dichiarazioni di solidarietà che ricevetti, tra le quali quelle di maestri ed
amici ormai scomparsi ma indimenticabili come Ernesto Balducci,
Norberto Bobbio, Franco Fortini, Bianca Guidetti Serra, Alexander
Langer, Davide Melodia, Tullio Vinay...).
Sapendo che si preparano nei prossimi giorni in vari luoghi iniziative in
memoria di quella funesta vicenda e delle innumerevoli sue vittime, e
sperando che la memoria e la meditazione servano all'impegno attuale, mi
permetto di chiedere a chi queste iniziative promuove ed a chi ad esse si
appresta a partecipare di proseguire nell'impegno contro le guerre e tutte le
uccisioni, contro il razzismo e tutte le persecuzioni, contro il maschilismo
e tutte le oppressioni; in difesa della vita, della dignità e dei diritti di tutti
gli esseri umani; in difesa dell'unico mondo vivente casa comune
dell'umanità intera.
E mi permetto di aggiungere che questo necessario ed urgente impegno di
pace deve essere promosso, espresso e realizzato unicamente in forme e
con mezzi ad esso coerenti, concreti e adeguati: deve essere un impegno
nonviolento, rigorosamente nonviolento, esclusivamente nonviolento.
Solo la nonviolenza si oppone in modo nitido e intransigente a tutte le
violenze e le menzogne.
Solo la nonviolenza invera l'impegno fondamentale dell'umana civiltà:
salvare le vite.
Propongo infine che queste iniziative in Italia sostengano innanzitutto un
primario concreto obiettivo: che il governo receda immediatamente
dall'annunciata decisione di inviare centinaia di soldati italiani alla diga di
Mosul, una decisione insensata e illegale che può avere conseguenze
catastrofiche.
Salvare le vite è il primo dovere.
Pace, disarmo, smilitarizzazione.
Contro tutte le uccisioni.
Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignità, alla solidarietà.
Salvare le vite è il primo dovere di ogni persona decente, di ogni umana
associazione, di ogni civile istituto.
Ogni vittima ha il volto di Abele.
Solo la nonviolenza può salvare l'umanità.
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2431
Pippo e Peppino sono vivi, i morti sono altri (di
Alessio Di Florio)
Un 5 gennaio nasceva Peppino Impastato, un 5 gennaio la mafia
assassinava Pippo Fava. Anche quest’anno a Catania Pippo sarà ricordato
in un incontro pubblico dal significativo titolo “Ricordiamo Pippo Fava
lavorando”. Salvo Vitale, Umberto Santino e altri compagni di Peppino da
sempre lo ricordano denunciando mafie e connivenze, continuando a fare
nomi, cognomi, intrecci e affari. La “commemor-azione”, il ricordare
proseguendo sul cammino su cui ci hanno preceduto, è l’unica rispettosa e
degna. Oggi come tutto l’anno Peppino e Pippo non devono essere santi
per laici altari ma “fuoco che deve arderci dentro”.
In quello che probabilmente è il suo articolo più conosciuto Pippo Fava
esordì scrivendo “Io ho un concetto etico del giornalismo”. Anche soltanto
1
alcuni passaggi di quell’articolo probabilmente sintetizzano egregiamente
il “concetto etico” e la lezione, l’esempio da seguire di Pippo Fava.
Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe
essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della
società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena
la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili.
Pretende il funzionamento dei servizi sociali. Tiene continuamente allerta
le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone
ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa
carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero
potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali:
ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle
loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato,
ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più
tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o
calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che
avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. Le sopraffazioni. Le corruzioni, le
violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento!
Ecco lo spirito politico del Giornale del Sud è questo! La verità! Dove c’è
verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà! Se l’Europa degli
anni trenta-quaranta non avesse avuto paura di affrontare Hitler fin dalla
prima sfida di violenza, non ci sarebbe stata la strage della seconda
guerra mondiale, decine di milioni di uomini non sarebbero caduti per
riconquistare una libertà che altri, prima di loro, avevano ceduto per
vigliaccheria. E’ una regola morale che si applica alla vita dei popoli e a
quella degli individui. A coloro che stavano intanati, senza il coraggio di
impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: “Il giorno in cui
toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, né la vostra voce sarà così
alta che qualcuno possa venire a salvarvi!”
Sul film “I cento passi” ho sempre avuto un giudizio contrastato. Perché
diverse scelte del film, che come scrisse Salvo Vitale anni fa sono
“concessioni cinematografiche”, sinceramente non le ho mai capite. Nel
film non traspare minimamente, per esempio, il rivoluzionario Peppino
(anzi, in una delle scene più famose ed emozionanti vien fatto dire a
Peppino che la lotta politica e la coscienza di classe sono fesserie) così
come non si comprende l’esigenza scenica di far apparire l’occupazione
della radio come un atto solitario (che non fu) del solo Peppino. Eppure,
ogni volta che lo vedo mi commuovo e mi emoziono. Perché, nonostante
tutto, quel film trasmette e colpisce al cuore. E proprio con tre frasi del
film vorrei oggi commemorare Peppino, non so se realmente siano state
pronunciate (e se esattamente così) ma credo ben sintetizzino quel fuoco
che oggi dovrebbe arderci dentro. Perché ieri come oggi la “tentazione” di
ritirarsi a vita privata, di farsi gli “affari propri”, di voltarsi dall’altra parte
erode le coscienze civili, s’annida nei tessuti sociali. E alla fin fine il
fatalismo, il “non serve tanto non cambierà mai nulla”, “chi comanda fa
legge” et similia si diffonde. E i mafiosi, le clientele, le oppressioni e le
sopraffazioni sembrano normali, aii mafiosi e ai colletti bianchi, ai padroni
e agli eversivi “delle classi dirigenti” ci si abitua, ci si convive, non ci si
accorgerà più di niente. E avranno vinto loro. E Peppino e Pippo saranno
stati ancora uccisi.
“Ah, u’zu Tanu c’abita qua! Cento passi ci sono da casa nostra, cento
passi! Vivi nella stessa strada, prendi il caffè nello stesso bar, alla fine ti
sembrano come te! «Salutiamo zu’ Tanu!» «I miei ossequi, Peppino. I miei
ossequi, Giovanni». E invece sono loro i padroni di Cinisi! E mio padre,
Luigi Impastato, gli lecca il culo! Come tutti gli altri! Non è antico, è solo
un mafioso, uno dei tanti! […]Mio padre! La mia famiglia! Il mio paese!
Io voglio fottermene! Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di
merda! Io voglio urlare che mio padre è un leccaculo! Noi ci dobbiamo
ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce!
Prima di non accorgerci più di niente!”
“I balconcini, ‘a gente ci va a abitare e ci mette… le tendine, i gerani, la
televisione e dopo un po’ tutto fa parte del paesaggio, c’è, esiste, nessuno
si ricorda più di com’era prima, non ci vuole niente”
2
“Adesso fate una cosa: spegnetela questa radio, voltatevi pure dall’altra
parte, tanto si sa come vanno a finire queste cose, si sa che niente può
cambiare. Voi avete dalla vostra la forza del buonsenso, quella che non
aveva Peppino. Domani ci saranno i funerali. Voi non andateci,
lasciamolo solo. E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia
la vogliamo. Ma non perché ci fa paura, perché ci dà sicurezza, perché ci
identifica, perché ci piace. Noi siamo la mafia. E tu Peppino non sei stato
altro che un povero illuso, tu sei stato un ingenuo, sei stato un nuddu
miscato cu niente” (Salvo Vitale)
Alessio Di Florio
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2432
Evidenza
Appelli: Non inviare i soldati italiani alla diga di
Mosul (di Centro di ricerca per la pace e i diritti
umani)
Appelli: Non inviare i soldati italiani alla diga di Mosul (Centro di ricerca
per la pace e i diritti umani):


Lettera alla Ministra della difesa Roberta Pinotti
Lettera Al Presidente del Consiglio dei Ministri
L'argomento della settimana...
... Dopo Parigi ... l'alternativa possibile alla guerra
Il nocciolo della questione (di Peppe Sini)
Senza reticenze, senza ipocrisie, senza eufemismi, il nocciolo della
questione è questo: che l'invio di 450 soldati italiani alla diga di Mosul
verrà presentato dalla propaganda dell'Isis come "un'invasione crociata"
delle truppe di uno degli stati che dagli anni Novanta ha preso parte alla
guerra e alle stragi e successivamente all'occupazione militare
neocoloniale, devastatrice, rapinatrice, imperialista e razzista dell'Iraq.
E questa propaganda sarà ovviamente svolta - come è proprio della
strategia terroristica - attraverso sanguinosi attentati che potranno essere
diretti contro i soldati italiani, contro la diga, contro l'Italia.
Ogni persona ragionevole è in grado di prevederlo.
Così come ogni persona ragionevole sa che l'indispensabile prerequisito
per una adeguata operazione di polizia internazionale che contrasti
realmente l'Isis in modo appropriato ed efficace è la cessazione della
guerra e di tutti gli atti alla modalità della guerra riconducibili.
L'insediamento territoriale dell'Isis in una vasta area tra l'Iraq e la Siria è
principalmente la conseguenza delle guerre eseguite in proprio o
attraverso mandatari dalle potenze euroamericane che hanno provocato insieme alle stragi, le devastazioni, la disperazione e la barbarie che tutte
le guerre implicano e disseminano - la destrutturazione degli ordinamenti
giuridici in entrambi i paesi ed il riprodursi, l'imporsi e l'estendersi della
violenza terrorista e schiavista su scala sempre più ampia, in forme sempre
più pervasive.
Qualunque intervento militare europeo e americano nell'area in quanto
prosegue la guerra e le stragi segna ipso facto il trionfo dell'Isis, lo
rafforza nell'organizzazione e nell'ideologia, nella strategia e nella
propaganda, e ne moltiplicherà il reclutamento e gli attentati lì e in tutto il
mondo.
Per contrastare la barbarie dell'Isis lo strumento militare è peggio che
inadeguato, è del tutto controproducente; la presenza in loco di truppe
europee o americane, così come la prosecuzione dei bombardamenti che
provocano ulteriori stragi di civili, è il più grande aiuto che i governi
euroamericani forniscono all'Isis, la più sciagurata, infame e insensata
forma di complicità con il terrorismo.
La tragedia dell'Afghanistan dovrebbe pur aver insegnato qualcosa.
La tragedia della Libia dovrebbe pur aver insegnato qualcosa.
L'analisi razionale degli esiti dello scatenamento di tutte le guerre
dovrebbe pur aver insegnato qualcosa.
Il nocciolo della questione è questo: l'invio di soldati italiani alla diga di
Mosul è un ulteriore passo nell'escalation onnicida, è un ulteriore passo
verso l'estensione della catastrofe.
Occorre invece l'esatto contrario: immediate trattative di pace in Siria,
come auspicato dall'Onu; immediate azioni di disarmo e di
smilitarizzazione dei conflitti; avvio di un'operazione di polizia
internazionale che innanzitutto tagli i rifornimenti all'Isis; immediati
ingenti soccorsi umanitari alle popolazioni; azione diplomatica, politica,
economica; interventi di pace con mezzi di pace; ricostruzione delle
infrastrutture amministrative che forniscano i servizi essenziali alle
popolazioni vittime di guerre e dittature, vittime di devastazioni e violenze
inaudite, e vittime anche della cinica nostra politica.
Il terrorismo non si sconfigge con le armi; le armi sono già il terrorismo.
Il terrorismo non si contrasta con la guerra; la guerra è già il terrorismo.
L'organizzazione criminale dell'Isis va affrontata con gli interventi e gli
strumenti civili e di polizia appropriati: il popolo italiano lo sa, poiché
della violenza terroristica neofascista, della violenza terroristica nichilista,
della violenza terroristica mafiosa ha fatto dura esperienza nelle proprie
carni; sa che alla mafia non ci si oppone bombardando Palermo o Roma;
sa che al neofascismo non ci si oppone dispiegando truppe; sa che il primo
dovere di un ordinamento giuridico costituzionale democratico è operare
per salvare le vite. E per salvare le vite non atti di guerra occorrono, ma di
pace, di umanità, di civiltà.
Occorre convincere il governo a recedere immediatamente dall'annunciata
dissennata decisione di inviare 450 soldati a Mosul. Ed occorre che receda
subito perché nel perverso intreccio tra guerra asimmetrica, società dello
spettacolo, terrorismo come propaganda e globalizzazione dei massacri,
gli stessi proclami ad uso dei media, gli stessi annunci televisivi, generano
immediatamente effetti letali nella realtà: il semplice annuncio dell'invio
dei soldati può già scatenare un'escalation, può già provocare attentati, può
già portare a nuove stragi altrimenti evitabili.
Occorre convincere il governo a recedere immediatamente dall'annunciata
dissennata decisione di inviare 450 soldati a Mosul. Le stupefacenti
motivazioni dell'insensata e inammissibile decisione così come esposte dal
presidente delle Consiglio dei ministri e dalla ministra della Difesa
prostituiscono i soldati italiani (ripetiamolo: mettendo in gravissimo
pericolo le vite loro, di ogni cittadino italiano, e di innumerevoli persone
abitanti a valle della diga di Mosul) ad un'operazione di accaparramento di
una commessa da parte di un'impresa privata: e non è chi non veda la
flagrante illegalità, immoralità e follia di questa operazione in cui vite
umane vengono messe a rischio dallo stato italiano a mero vantaggio
dell'arricchimento di un soggetto privato.
Occorre convincere il governo a recedere immediatamente dall'annunciata
dissennata decisione di inviare 450 soldati a Mosul. Il governo deve
revocare una decisione che fin d'ora mette in pericolo innumerevoli vite:
in tanto un governo democratico in uno stato di diritto è legittimato a
governare in quanto la sua azione è intesa a rispettare, difendere e salvare
le vite; la decisione dell'invio dei soldati a Mosul è palesemente
fuorilegge, è palesemente scellerata, è palesemente assurda, è palesemente
in conflitto con il primo dovere del governo stesso: rispettare le leggi,
rispettare le vite.
Occorre convincere il governo a recedere immediatamente dall'annunciata
dissennata decisione di inviare 450 soldati a Mosul. Il resto è silenzio.
(fonte: Centro di ricerca per la pace e i diritti umani)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2425
Approfondimenti
Industria - commercio di armi, spese militari
Armi italiane dalla Siria all’Africa ad amici e nemici
(di don Renato Sacco, Luigi Marachella)
«Vendiamo armi a tutti, in special modo a quelli che sono considerati i
nostri nemici. Vendiamo armi anche all’Arabia Saudita che ha molti
“canali aperti” con i movimenti terroristici. Ma facciamo finta di non
vedere, in l’Italia e in Occidente. Anche dopo gli attentati di Parigi sono
documentati i carichi di armi che partono alla volta del Medioriente».
Sono parole amare quelle pronunciate da don Renato Sacco, presidente di
Pax Christi.
L’Europa, l’Italia e gli occidentali esportano armi e strumenti di
guerra a Stati amici e Stati “canaglia”. Armi che vanno nelle mani
anche dei terroristi per vie più o meno traverse...
«Papa Francesco è l’unico che condanna apertamente la vendita di armi.
Lo ha fatto in modo fortissimo nell’omelia del 12 settembre a Redipuglia e
in quella più recente del 19 novembre a Santa Marta. “Maledetti”, dice il
Papa. Per noi di Pax Christi è un aiutoformidabile. Per Francesco i
trafficanti di armi fanno “lavoro di morte”».
Come mai le grandi industrie belliche sono in genere statali o a
maggioranza statale?
«Non lo scopriamo certo ora che le guerre avvengono perché ci sono
enormi interessi economici collegati, legati anche all’industria bellica.
Oggi dobbiamo vigilare ancora di più il settore degli armamenti, con più
cognizione di causa. La tecnologia che gravita attorno al comparto bellico
ormai ha rivoluzionato il settore: si producono strumenti di morte e
distruzione con sistemi elettronici, laser, biotecnologici. Scordiamoci le
grandi fabbriche siderurgiche che fanno cannoni...».
Che ruolo ha l’Italia in fatto di produzione di armi?
«A Cameri, provincia di Novara, c’è un aeroporto militare dove l’Alenia,
in collaborazione con gli americani, produce i famosi F35. Un caccia da
guerra e da attacco che costa in media 130 milioni di euro: l’Italia ne ha
già acquistati 90. Siamo produttori di strumenti di morte e su questo
investiamo miliardi di euro. Beninteso: gli F35 sono aerei da attacco e non
da difesa. Hanno lunga autonomia, sono invisibili, fanno rifornimento in
volo... Con queste risorse quante altre cose potremmo fare? In Afghanistan
spendiamo due milioni al giorno per la nostra missione. Quante fognature,
ospedali, scuole potremmo costruire?».
Non condivide il fatto che uno Stato “sovrano” non possa prescindere
da una autonoma capacità militare e di difesa?
«Peccato che poi nel nostro Paese non abbiamo Canadair a sufficienza per
spegnere gli incendi d’estate. Inoltre il comparto bellico dei nostri tempi
non incide nemmeno più sull’occupazione, in proporzione di risorse
impiegate utilizza meno manodopera di altri settori industriali. Per
assemblare gli F35 non ci sono le catene di montaggio, non ci lavorano
centinaia di operai, ma solo pochissimi super tecnici specializzati. Il
settore bellico ormai super tecnologico è a bassa intensità di lavoro».
Se la grande industria bellica iper-tecnologica non ha nemmeno
grandi effetti positivi su lavoro,le industrie classiche di armi leggere
invece hanno notevole impatto nel nostro tessuto economico. La lobby
è forte...
«Il Papa è appena tornato dall’Africa: noi siamo i più grandi fornitori di
armi leggere all’Africa. L’altro giorno ascoltavo una suora missionaria in
3
zona di conflitto: mi raccontava che i “suoi” ragazzi usano tutti armi
italiane. Diciamocelo: noi vendiamo armi leggere che vengono usate
anche dai bambini per fare le sporche guerre in Africa».
malati, bisognosi di cure. E’ una situazione che continuerà per almeno un
decennio o due. Credo che per gli altri istituti la situazione non sia molto
diversa.
Diciamo che fa molto più scalpore vedere un terrorista dell’Isis che
usa un’arma italiana o europea che un bambino soldato in qualche
lontano conflitto dell’Africa nera...
Focalizzarci sul problema economico ci condurrebbe poi nella
direzione sbagliata. Quello della vecchiaia fisica dei membri degli istituti
missionari può sembrare un’osservazione marginale rispetto al dibattito
sulla sopravvivenza della MISNA. Eppure forse questa è la chiave per
andare alla radice del problema. L’invecchiamento degli istituti
missionari è una delle ragioni della loro progressiva e sempre più
grave incapacità di affrontare in modo adeguato le sfide della
comunicazione moderna. L’invecchiamento ci ha colti di sorpresa, anche
se poteva essere previsto! Solo 25 anni fa i Comboniani avevano una
visione globale ed una generazione di missionari giovani che li hanno resi
capaci di aprire nel giro di due anni, 1989 e 1990, tre riviste missionarie:
nelle Filippine, in Kenya e in Sudafrica. Queste riviste hanno dato un
contributo notevole alla crescita dello spirito missionario nei rispettivi
paesi, anche se magari oggi sono pure in affanno per carenza di personale,
sia religioso che laico, professionalmente preparato.
«Sono stato molte volte in Iraq: i “saggi” ci chiedono perché non
blocchiamo i “rubinetti” delle armi. In Iraq i soldati Usa, tanto per fare un
esempio, hanno tutti nella fodera una pistola di una nota marca italiana...».
(fonte: Rete Disarmo)
link: http://www.disarmo.org/rete/a/42473.html
Informazione
Riflessioni sulla chiusura della Misna (di Frate
Renato Kizito Sesana)
La chiusura della MISNA è una perdita per l’informazione sul Sud del
mondo specialmente sui temi legati a giustizia, diritti umani, pace e
missione. In tempi recentissimi in Italia hanno chiuso anche Popoli, edita
dai gesuiti, e Ad Gentes, un rivista di riflessione teologica che era nata nel
1997. In questi giorni è a rischio chiusura un’altra prestigiosa rivista di
informazione sulla vita della Chiesa, Il Regno, nata ai tempi del Concilio
Vaticano II e molto seguita negli ambienti missionari. E’ troppo facile
prevedere che altre chiusure di testate missionarie seguiranno a breve.
Ho letto diverse opinioni sulle ragioni per le quali MISNA ha chiuso.
Aggiungo la mia, solo perché fra le opinioni che mi è capitato di leggere –
e me ne potrebbero essere sfuggite molte dalla mia postazione che in
queste settimane è la periferia di Nairobi – non ho trovato ciò che sto per
scrivere.
E’ stato detto che è mancato coordinamento fra i diversi istituti, è
mancato il dialogo con i giornalisti della redazione, è mancata la ricerca
seria di soluzioni alternative, c’è stata immobilità imprenditoriale,
mancanza di visione, politiche miopi. Addirittura politiche suicide da parte
delle congregazioni missionarie. Difficile non essere d’accordo.
Si è anche detto che gli istituti avrebbero potuto intervenire vendendo
qualche proprietà immobiliare piuttosto che smantellare la MISNA, e che
gli istituti dovrebbero essere disposti a sostenere delle perdite economiche
a fronte dell’importanza dell’essere presente nel mondo dell’informazione.
Qui sono un po’ meno d’accordo. L’informazione dal Sud del mondo è
importante, ma ci deve essere una proporzione fra l’importanza che
una testata ha nel mondo dell’informazione e la perdita economica. Se
l’informazione prodotta da MISNA non riesce a sostenersi
economicamente, perché non ci sono abbastanza persone e istituzioni che
siano disposte ad abbonarvisi e le entrate non coprono neppure un terzo o
un quarto dei costi (non ho informazioni precise), ci si deve porre qualche
domanda. Forse questo tema rimanda al mancato aggiornamento delle
politiche editoriali, comunque un’azienda che produce informazione che
non copra almeno una parte ragionevole delle proprie spese dimostrando
di essere apprezzata dai fruitori, forse non merita di essere tenuta in vita, e
i fruitori non meritano l’informazione che ricevono. O la MISNA
dovrebbe essere tenuta in vita con le offerte generiche che i benefattori
danno pensando che siano destinate ai poveri del Sud del mondo? Sarebbe
un’operazione eticamente giustificabile?
Non possiamo neanche contare sulle presunte esagerate ricchezze
immobiliari degli istituti missionari, anche se si potrebbe aprire un
dibattito su come utilizzarle. In alcuni casi potrebbero essere solo
sufficienti a garantire vecchiaia e cure essenziali ai missionari anziani e
malati che tornano in patria dopo aver speso una vita al servizio della
Chiesa, della pace e della giustizia, dello sviluppo. I Comboniani, dei
quali faccio parte, hanno oggi in Italia oltre duecento missionari anziani,
4
In quei bei tempi andati si poteva improvvisare un direttore di una testata
prendendo un missionario con buona preparazione teologica,
un’esperienza sul campo di qualche anno, doti naturali di comunicatore, e
poteva funzionare. Ma ciò che allora era possibile fare armati da
entusiasmo per la missione e con la collaborazione di volontari, oggi non
lo è più.
I mass media sono in continua, rapida evoluzione in tutti gli angoli del
mondo – direi che in Kenya questa evoluzione è più rapida che in Italia –
e se non ci si rinnova si scompare.
Non è più un mondo per anziani in posti direttivi, e i superiori degli istituti
missionari sono sempre più anziani, o comunque in Italia devono tener
conto di una base composta da una stragrande maggioranza di anziani. Gli
anziani, lo so bene – io sono uno di loro – sono maestri nel rimandare,
dilazionare, temporeggiare, rispettare i protocolli e le gerarchie in attesa
che il temporale passi, o che arrivi la fine del mio mandato e la gatta da
pelare passi a qualcun altro. Così temporeggiare è diventato uno stile di
governo. Non si prendono decisioni. Si aspetta. Quando, dopo
innumerevoli incontri e confronti e dialoghi, una decisione viene
presa, è già superata dai nuovi cambiamenti. I mass media non
funzionano cosi. Il mondo moderno non funziona cosi, si viene
inesorabilmente superati, ed ogni anno che passa la situazione peggiora.
L’invecchiamento con la conseguente difficoltà nel rinnovarsi e cambiare
diventerà ancora più pronunciato, visto che le nuove leve in Italia non ci
sono più, e anche negli altri paesi scarseggiano. Si farà domani un
rinnovamento che non si riesce a fare oggi?
Allora il problema è ancora più serio che non la chiusura della
MISNA: non solo gli istituti missionari non riescono a produrre una
comunicazione al passo coi tempi, ma essi stessi non riescono ad essere
al passo coi tempi. La comunicazione è centrale alla missione. Che
missionario è quello che non sa comunicare? I missionari, e ne conosco
alcuni, comunicano anche se sono ciechi, muti, e vivono su una sedia a
rotelle. E’ impensabile che oggi i missionari si suicidino tagliandosi fuori
dai moderni mass media.
Oppure gli istituti missionari si sono rassegnati a diventare irrilevanti, a
scomparire lentamente per lasciar posto ad altre modalità che esprimano in
modo più adeguato ai tempi la missionarietà della Chiesa? Recentemente
ho sentito un anziano irlandese dire che “noi missionari siamo ormai
una nota a piè pagina, e una nota neanche tanto importante, nella
storia della Chiesa in Kenya”. Che altri prendano il nostro posto
dovrebbe rallegrarci, e certamente la missione nella Chiesa non finirà
anche se gli istituti missionari si estinguessero.
E’ un atteggiamento passivo, rinunciatario – quello di subire la storia
piuttosto che cercare di capirla e portare il lievito dal Vangelo – che non
condivido, ed è molto triste che si sviluppi proprio mentre abbiamo papa
Francesco, il papa che viene dalla fine del mondo e ci sprona tutti ad
andare verso la fine del mondo, le periferie, luogo privilegiato della
missione.
Personalmente continuo a sperare. Credo che i segni di fermenti nuovi
siano già visibili. Sta agli istituti missionari discernerli e ripartire. Bisogna
riconoscere i fermenti positivi e farli crescere. Non basta chiudere, e
chiudersi.
Sono stato più lungo e confuso di quanto pensassi quando ho cominciato a
scrivere, forse perché sono vecchio… forse perché i temi correlati alla
chiusura della MISNA sono tanti e complessi. La società è cambiata, la
chiesa è cambiata e sta cambiando più velocemente del solito con papa
Francesco alla guida, ed è ovviamente cambiata l’idea di missione. Le
vocazioni per gli istituti missionari diminuiscono drammaticamente in
Europa e quelle che arrivano dal Sud del mondo sono appena sufficienti a
tenerli in vita. In sintesi quello che volevo dire è che la chiusura della
MISNA è solo un episodio di quello che sembra un declino inarrestabile
degli istituti missionari, che in quanto istituti anche se ci sono singole
eccezzioni, hanno un atteggiamento passivo di fronte alle sfide del
mondo di oggi. E’ un sintomo di una malattia ben più grave.
Frate Renato Kizito Sesana
(fonte: Pressenza: international press agency)
link: http://www.pressenza.com/it/2015/12/riflessioni-sulla-chiusura-della-misna/
Nonviolenza
Parte finalmente la sperimentazione dei Corpi civili
di pace (di Conferenza Nazionale Enti per il Servizio
Civile)
Con due anni di ritardo, pubblicato il bando per 200 volontari civili.
CNESC: “E’ il primo passo per la difesa civile, non armata e nonviolenta”
Finalmente parte in Italia – nell’ambito del Servizio Civile Nazionale – la
sperimentazione dei Corpi Civili di Pace che dovrebbe porre le basi per
una futura proposta più ampia e strutturata di “difesa civile, non armata e
nonviolenta” in situazioni di conflitto all’estero e in Italia per emergenze
ambientali.
Con il deposito delle proposte progettuali, dopo la pubblicazione sul sito
del Dipartimento Gioventù e SCN dell’avviso relativo, a più di due anni
dall’approvazione della disposizione legislativa, si avvia questa nuova
dimostrazione della capacità del Servizio Civile Nazionale di “rendersi
utile al Paese”: un modo di concepire le “missioni di pace” alternativo
rispetto a quello militare.
Dopo la conferenza stampa dell’11 Novembre in cui la CNESC aveva
presentato 80 progetti di accoglienza dei migranti, con questa
sperimentazione avremo un’ulteriore concreta risposta del movimento
italiano per la pace, il disarmo e la nonviolenza, alla violenza del
terrorismo, ma anche a quella strutturale della guerra, con la promozione
dei diritti umani, della lotta alle ingiustizie, all’esclusione culturale e
educativa e per la difesa dell’ambiente.
Questi primi 200 volontari (su un totale di 500) rappresentano un impegno
diretto dei giovani e delle organizzazioni della società civile nella
prevenzione del conflitto armato e della ricostruzione culturale, sociale ed
economica post conflitti all’estero. Alcuni di essi saranno impegnati in
progetti rivolti alla prevenzione di emergenze ambientali all’estero e in
Italia, una vera aggressione al nostro territorio e alla nostra salute e
sicurezza.
Si tratta di un contributo concreto a favore della pace e delle persone, a
dimostrazione che la nonviolenza non è affidata solo alla buona volontà di
qualche singolo, ma rappresenta un progetto che deve vedere coinvolte
5
anche le istituzioni. La resistenza nonviolenta alle violazioni dei diritti
umani, alle ingiustizie commesse sui più vulnerabili, allo stravolgimento
dell’ambiente, alla esclusione culturale e educativa, è possibile e da
sempre praticata.
Molti dei progetti saranno realizzati in Paesi dell’Africa e dell’Asia dove i
giovani del SCN opereranno in sicurezza, a sostegno di quelle che sono le
prime vittime della guerra e del terrorismo fondamentalista, che colpisce
in quelle zone come nel cuore della nostra Europa, con la stessa logica
folle e la stessa ferocia.
Queste ambizioni, condivise dal Parlamento che ha approvato la norma
istitutiva in Legge di Stabilità, e – nonostante il ritardo nell’attuazione –
dallo stesso Governo con l’accordo fra i Ministri Gentiloni, Poletti, il
Sottosegretario Bobba e gli organi amministrativi competenti – che
ringraziamo per l’impegno profuso e il lavoro svolto anche con i nostri
contributi – rischiano però di essere sminuite perchè non sono previste
risorse a sostegno delle organizzazioni e degli organi chiamati a
implementare e monitorare questa sperimentazione.
Ci auspichiamo che in una fase successiva si possano rivedere alcuni
elementi organizzativi della sperimentazione rendendola più snella e
flessibile e quindi più adatta e rispondente alle reali necessità di pace delle
singole comunità e popolazioni anche adeguando alle capacità progettuali
degli organismi i singoli contingenti di volontari previsti per le diverse
aree d’intervento; meno schematica, burocratica e onerosa per le
organizzazioni stesse.
Maggiori risorse e investimento politico saranno necessari in futuro nella
prospettiva di rendere questa sperimentazione la base di un veloce
ampliamento che irrobustisca il ruolo internazionale dell’Italia quale
soggetto costruttore di pace, esempio e stimolo sia all’Unione Europea che
alle Nazioni Unite.
Fonte http://www.cnesc.it
(fonte: Azione Nonviolenta, rivista del Movimento Nonviolento)
link:
http://www.azionenonviolenta.it/parte-finalmente-la-sperimentazione-deicorpi-civili-di-pace/
Politica e democrazia
La "ricostruzione" italiana. Il modello e l'esempio di
Alcide De Gasperi (di Nunzio Galantino)
Porgo un saluto sincero a tutti voi, che avete voluto impreziosire
quest’appuntamento annuale con la vostra presenza: saluto i familiari di
Alcide De Gasperi, i numerosi cittadini, i rappresentanti delle Istituzioni –
le Amministrazioni, la Provincia di Trento e il Parlamento – e il caro
Arcivescovo di questa Chiesa.
Quando, a nome della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, il
prof. Giuseppe Tognon mi ha proposto la Lectio su De Gasperi sono subito
stato tentato di rispondere di no; mi ha trattenuto dal rifiutare il pensiero
che non è mai giusto sprecare occasioni di confronto e di riflessione,
specie in un tempo come il nostro, tutt’altro che incline al confronto e alla
riflessione; non mi dispiaceva nemmeno il desiderio di poter rendere
onore, come figlio di un antico militante democristiano nella terra di
Giuseppe Di Vittorio e come Vescovo, a un cristiano così libero e
coraggioso come è stato Alcide De Gasperi.
Se potete dunque perdonare la mia audacia, a maggior ragione vi
chiedo di accogliere con benevolenza, sotto il nome di De Gasperi, le cose
che porto nel cuore e che spero possano aiutarci a recuperare fiducia nella
fede e nella politica, che è quello di cui parlerò oggi. Abbiamo bisogno di
entrambe, sempre di più. Senza politica si muore. Le società si
disgregherebbero e la prepotenza umana dilagherebbe. Nessuno ha
inventato ancora un sostituto delle istituzioni politiche, del diritto, della
democrazia. Le società hanno bisogno di essere governate; da cristiani e
da cittadini consapevoli, dobbiamo aggiungere che dovrebbero essere
governate prima di tutto secondo giustizia.
1. Le virtù personali e le virtù politiche di De Gasperi
L’esempio di De Gasperi è sotto quest’aspetto unico, dalle radici
profonde. Sulla sua spiritualità ho letto nel testo di Maurizio Gentilini
l’ampio saggio di don Giulio Delugan, storico direttore di Vita trentina,
che fu legato allo Statista da uno stretto e duraturo rapporto di amicizia.
Emerge, in seguito all’avvento del fascismo, il lungo “periodo di
umiliazione e di tribolazione” a cui De Gasperi fu costretto, periodo che
“in certi momenti raggiunse dei toni veramente drammatici”. Proprio di
quel periodo Delugan può scrivere: “Ho sempre trovato e ammirato in De
Gasperi – e lo dico non per sciocca adulazione postuma, ma per rendere
omaggio alla pura verità oggettiva – il cattolico guidato da una fede
granitica, coerente, cristallina, di una condotta pratica esemplare e a volte
veramente ammirabile”. E ancora: “Non ho mai notato neppure l’ombra
del così detto sdoppiamento di coscienza, per cui nella vita privata si
seguono certe norme di condotta e nella vita pubblica se ne seguono
altre…”. A ben vedere, ogni commento è superfluo… Si capisce, invece,
come De Gasperi abbia potuto attraversare alcuni tra i più difficili
passaggi della storia contemporanea conservando una straordinaria
serenità d’animo. Le sue virtù personali sono state anche le sue virtù
politiche. Ha avuto il dono di una coerenza invidiabile: “La fede e la
condotta religiosa di De Gasperi – è ancora Delugan che scrive – non è
stata una bella facciata, che nasconde il vuoto come certe facciate di
palazzi in città bombardate durante la guerra; non è stata un abito da
cerimonia per certe solenni occasioni, o una luce tardiva sorta nel suo
spirito solo negli ultimi anni, ma qualche cosa di intimo, di profondo, di
incarnato nella sua anima, di sostanziale e di genuino, che ha informato,
plasmato e guidato il suo spirito fin dai suoi giovani anni e l’ha poi
accompagnato ispirandone parole e azioni per tutta la vita”.
La professione politica ha quindi condotto De Gasperi là dove
non avrebbe mai pensato di arrivare. Prima suddito ai margini di un
Impero, poi di un Regno che lo ha imprigionato e quindi finalmente
cittadino di una Repubblica che egli ha contribuito in maniera decisiva a
costruire e che, invece, non ne ha sempre riconosciuto i meriti.
2. La “Ricostruzione italiana”: la complessa esperienza degasperiana
De Gasperi non è solo un esempio, ma è un modello che merita
di essere studiato come elemento centrale di una storia collettiva
esemplare. L’esperienza degasperiana della Ricostruzione italiana è una
cosa diversa e ben più complessa della formula del Centrismo con cui gli
storici definiscono gli anni dal 1948 al 1954. Essa è un’esperienza
popolare che va oltre le vicende politiche nazionali: è una forma alta di
partecipazione e insieme una dimostrazione di ciò che si può realizzare
quando la si assume davvero come una missione di servizio. Si può
discutere se la Ricostruzione sia stata il compimento del Risorgimento -,
ma non si può negare che ha costituito il passaggio storico in cui le donne
e gli uomini italiani, popolo e Chiesa, hanno dimostrato una straordinaria
capacità di resilienza, una autentica conversione alla forma democratica, a
dimostrazione che la democrazia richiede sempre anche virtù eroiche
perché non è mai un regime di comodo.
Durante la seconda guerra mondiale, la Chiesa, soprattutto il
basso clero, ebbe la forza di schierarsi dalla parte del popolo e riuscì a non
pagare prezzi troppo alti alla sua compromissione con il regime fascista.
In cambio di questa benevolenza popolare (una fiducia antica che come
Chiesa dobbiamo sempre nuovamente meritare) ha potuto chiamare alla
politica un’intera generazione di giovani, la generazione di Moro e di
Fanfani, e tenere unito il mondo cattolico. Ma questa nuova leva di
deputati e senatori e quest’unità politica che abbracciava sindacati,
associazionismo, organizzazioni religiose, e che qualcuno nella Chiesa
pensava di poter manovrare a piacimento, non avrebbero avuto il loro
successo se non avessero incontrato un capo come De Gasperi, uomo
dell’Ottocento, certo, ma un maestro, esigente, lungimirante, libero. Nel
1954 il ventre della DC e i giovani leoni, impazienti, vollero scrollarsi di
dosso l’ingombrante leader: credettero di poter fare meglio e in alcuni
6
casi, forse, vi riuscirono, ma con la fine politica di De Gasperi si chiuse
davvero un’epoca che ritorna attuale oggi.
Noi siamo in pieno nel passaggio verso una nuova intelligenza
civile: il mondo è cambiato, nulla sembra uguale a prima, e la memoria di
maestri come De Gasperi diventa ancora più attuale. Egli non volle mai
essere seguace di dottrine sterili o antiliberali ed ebbe sempre la
preoccupazione che i cattolici non apparissero coloro che operavano per la
conservazione di una struttura sociale e statale non voluta, solo ereditata, e
in molte parti ormai marcia.
I dieci anni che vanno dalla Liberazione alla morte dello statista,
nel 1954, sono stati il decennio più eroico della storia politica italiana. Un
decennio non idilliaco, pieno di problemi, di opere incompiute e anche di
cose storte. La strategia politica degasperiana può apparire a qualcuno
quasi scontata, vista la divisione del mondo in blocchi, ma non si tiene
conto che nulla allora per l’Italia era scontato, che il Paese era
radicalmente ignorante di democrazia e, soprattutto, che il blocco
moderato era profondamente conservatore. Portare i cattolici verso una
democrazia governante in una alleanza strategica tra classe operaia e ceto
medio è stato per De Gasperi come una traversata del deserto o del Mar
Rosso. Fu un decennio di scelte decisive, sbagliando le quali si sarebbe
potuto rovinare tutto.
L’Italia che era entrata in guerra non esisteva più. L’Italia che
avrebbe dovuto essere, nessuno ne conosceva con esattezza l’identità: il
fascismo aveva in qualche modo corrotto l’anima di un intero Paese e le
classi dirigenti antifasciste erano state messe all’angolo, se non al confino.
Dal 1946 si navigò invece in mare aperto, con grandi partiti di massa che
erano come delle grandi navi, potenti ma zavorrate da tante attese e da
correnti, e che per entrare nel porto della democrazia domandavano piloti
abili e coraggiosi.
3. I cardini della “Ricostruzione” degasperiana
La Ricostruzione degasperiana rimane un modello perché De
Gasperi l’ha ancorata intorno a tre cardini, che restano solidi e che hanno
consentito che si aprisse la porta ad una nuova Italia.
3.1. Rispetto delle istituzioni ed esercizio di democrazia
Il primo cardine è il rispetto delle Istituzioni e, in particolare, del
Parlamento. Basterebbe riprendere in mano quanto disse in questa stessa
circostanza ormai dieci anni fa Leopoldo Elia, intervenendo su Alcide De
Gasperi e l’Assemblea Costituente, per trovarvi spunti ed elementi al
riguardo. De Gasperi fu segretario di partito e poi presidente del Consiglio
per otto anni, ma tutte le scelte fondamentali della sua politica interna e
internazionale sono state elaborate dai partiti all’interno del Parlamento,
nel rispetto più assoluto delle regole e con un faticoso quanto meticoloso
lavoro politico svolto in profondità. Ciò ha comportato non poche
difficoltà nel gestire sia le coalizioni di governo sia le diverse e vitali
correnti di partito, ma mai De Gasperi ha ceduto alla tentazione di coartare
il Parlamento, che era la sede in cui egli pretendeva il rispetto e in cui
poteva riconoscere alle opposizioni il ruolo che meritavano. Quando nel
1953, preoccupato degli scricchiolii della propria maggioranza, propose
una nuova legge elettorale maggioritaria, contro cui si scatenò una pesante
campagna denigratoria, il suo premio di maggioranza sarebbe comunque
scattato solo se la coalizione avesse raggiunto la maggioranza dei voti, il
50%!
Il Parlamento era la sede della legittimazione della volontà
popolare, il luogo nel quale, soprattutto, si costruivano le riforme sociali,
l’anima autentica di ogni democrazia, che non può ridursi a semplice
politica fiscale e tanto meno a una politica economica meccanica. De
Gasperi aveva ben chiaro che una crisi come quella del secondo
dopoguerra non poteva essere vinta con la leva dei soli strumenti
economici: era necessario che una rigorosa politica di bilancio fosse
inserita in una visione politica internazionale ed europea e venisse
sostenuta – vorrei dire incarnata – da una ferrea tempra morale. Nella
relazione politica al Congresso nazionale della DC del novembre 1952 De
Gasperi disse: “Lo Stato democratico deve essere forte. La forza è prima
interiore, nella giustizia della legge, e poi esteriore e strumentale,
nell’autorità di imporre la legge e di punire i trasgressori. La forza dello
Stato è nel suo diritto, nella legittimità del potere, nella razionalità delle
disposizioni, nella precisione dell’ordine. Lo Stato è forte se il legislativo
è illuminato e se è stabile e forte l’esecutivo, anche per realizzare una
politica di riforme sociali”.
Questo terzo «ordine della carità» non è effimero o invisibile
perché anima ogni fibra del creato. E la politica può esserne la più alta
traduzione nelle cose degli uomini. La politica come ordine supremo della
carità: questa io credo dovrebbe essere la grande avventura per chi ne
sente la missione. A questo penso si riferisse Paolo VI quando parlava
della politica come della “forma più alta della carità”.
Oggi siamo più vicini di quanto crediamo alle sfide che De
Gasperi dovette affrontare, anche se esse a molti non appaiono oggi così
drammatiche. Siamo di fronte alla necessità non solo di una nuova forma
di convivenza fra i popoli, ma anche di un nuovo modello macroeconomico, di una nuova politica industriale, di una politica dei diritti
sociali più completa. Chi pensa, chi adotta, chi realizza queste riforme?
Esse richiedono una democrazia costruita con un di più di ascolto, un di
più di precisione e di attenzione ai dettagli, per adattare i grandi principi
dell’uguaglianza e della solidarietà a regole sempre nuove di giustizia, che
non può rimanere una questione confinata nelle aule dei tribunali.
Credetemi, è questo che mi ha spinto a essere fin troppo chiaro
(qualcuno ha scritto “rude”) negli interventi di questi ultimi giorni –
almeno quelli non inventati - sui drammi dei profughi e dei rifugiati:
nessun politico dovrebbe mai cercare voti sulla pelle degli altri e nessun
problema sociale di mancanza di lavoro e di paura per il futuro può far
venir meno la pietà, la carità e la pazienza. L’Europa che De Gasperi ha
contribuito a fondare era più generosa di quella di oggi e i suoi capi
politici farebbero bene a ricordarsi da dove gli europei sono venuti e dopo
quali terribili prove. L’Europa non può diventare una maledizione; è un
progetto politico indispensabile per il mondo, a cui la Chiesa guarda con
trepidazione, come un esempio, un dono del Signore.
De Gasperi è un modello. I modelli di un sarto o i prototipi di
un’officina sono i materiali più preziosi di ogni impresa, sono semi
d’intelligenza e d’esperienza, ed è su di essi che si fonda l’innovazione.
Una politica senza memoria, che pretenda di ricominciare da zero, non ha
futuro e rischia, nel migliore dei casi, di essere velleitaria. La politica,
come le Istituzioni che ne sono il fondamento, ha bisogno di tempi e di
spazi di manovra, soprattutto in democrazia, dove l’equilibrio tra i poteri
non può ridursi al rispetto formale di regole. La democrazia non eè
soltanto una forma di governo, ma la condizione necessaria per esercitare
in positivo le libertà individuali, civili e sociali. La democrazia è un
metodo di vita, un’aspirazione al riconoscimento della dignità delle
persone e dei popoli.
3.2. Il bene comune : ispirazione della politica e della religione
Il secondo cardine della Ricostruzione degasperiana è quello
dell’ispirazione ideale della politica e della religione al bene comune.
Oggi ci appare una cosa lontana, ma la politica che De Gasperi ha
praticato era ben lontana dalla presunzione che la politica fosse tutto e che
ad essa potesse essere chiesto ciò che invece non può dare: forza interiore,
resistenza al male, disposizione interiore alla solidarietà. “Dirsi cristiani
nel settore dell’attività politica – disse De Gasperi nel 1950 – non significa
aver diritto di menar vanto di privilegi in confronto di altri, ma implica il
dovere di sentirsi vincolati in modo più particolare da un profondo senso
di fraternità civica, di moralità e di giustizia verso i deboli e i più poveri”.
Il progetto attuale di un umanesimo autosufficiente e di una
società senza regole e senza limiti non appartiene alla visione
degasperiana. L’umanesimo presuntuoso e insieme superficiale che ben
conosciamo è fallito o, meglio, sopravvive in una meccanica politica che
non si preoccupa di distinguere tra ciò che ha un’anima e ciò che non ce
l’ha e non sa riconoscere dove c’è ancora vitalità. Certo, non è ancora
tempo di cure palliative - l’uomo e il creato non sono moribondi - ma
nemmeno è tempo di cullarsi in false illusioni.
Recuperare la passione per la Ricostruzione di un popolo e di un
mondo non è impresa facile, anche se necessaria. Pascal – ma lo farà in
maniera illuminata anche Rosmini - in uno dei suoi frammenti più belli ha
descritto un terzo ordine della realtà, quello della carità, che rispetto a
quello dell’intelletto e delle cose materiali o dei corpi, ha una potenza
soprannaturale che non conosce eguali.
“Gesù Cristo – scrisse Pascal – senza ricchezza e senza nessuna
ostentazione esteriore di scienza, sta nel proprio ordine di santità. Non ha
fatto invenzioni, non ha regnato; ma è stato umile, paziente, santo a Dio,
terribile per i demoni, senza alcun peccato. […] Tutti i corpi insieme e
tutti gli spiriti insieme, tutte le loro produzioni, non valgono il minimo
moto di carità. Questo è un ordine infinitamente più elevato. Da tutti i
corpi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: ciò è
impossibile, è di un altro ordine. Da tutti i corpi e gli spiriti insieme, non
sarebbe possibile trarre un moto di vera carità: ciò è impossibile perché è
di un altro ordine, di un ordine soprannaturale”.
7
Rispetto all’ordine politico della carità o, se volete, del bene
comune, è chiaro che il riformismo – di cui tanto si parla anche in questo
tempo – non basta, o, almeno, non può essere fine a se stesso, quasi
potesse risolversi in un esempio di movimento per il movimento. Esso è
sempre necessario, è cura del quotidiano o pena per il presente, ma
appartiene, come categoria, a una stagione della politica che è ormai
superata, nella quale si avevano troppe speranze di progresso e si dava
importanza ai ruoli, anche tra il clero.
Ricostruire, invece, è cosa diversa. E’ un evento che si realizza
sulla spinta di una concentrazione di virtù, di passioni e di intelligenza che
va preparata e che si manifesta solo a certe condizioni. Soprattutto è un
passaggio che richiede sempre grandi uomini, figure capaci di interpretare
il proprio tempo con quella tenacia che non proviene dall’aver frequentato
le migliori scuole, le migliori sagrestie o dall’aver imparato tutte le astuzie
della politica nelle segreterie dei partiti. Ci vuole altro… La politica come
ordine della carità è un’impresa difficile eppure necessaria, un’esperienza
del limite che il cristiano può comprendere come anticamera della
salvezza. Ho letto nel testamento spirituale di uno storico importante,
Pietro Scoppola, il primo dei miei illustri predecessori in questa tribuna
degasperiana, una definizione della politica che a mio parere è molto
degasperiana: “La politica mi ha appassionato, non strumentalmente come
mezzo per un fine diverso dalla politica stessa, ma come politica in sé,
come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile, e
come sofferenza per l’impossibile, come chiamata ideale dei cittadini a
nuovi traguardi, come aspirazione a un’uguaglianza irrealizzabile che è
tuttavia il tormento della storia umana. Mi ha interessato la politica per
quello che non riesce a essere molto di più che per quello che è”.
3.3. Una sana laicità… oltre il fanatismo e lo smarrimento dei valori
Il terzo cardine della ricostruzione degasperiana è quello della
laicità, tema che ancora infiamma il dibattito in Europa e nei Paesi
democratici, alle prese da un lato con fenomeni terribili di fanatismo e
d’intolleranza – ne sono stato testimone diretto nei giorni scorsi, durante
una visita compiuta in alcuni campi di profughi iracheni – e, dall’altro,
con uno smarrimento generale di valori, una mancanza di virtù che è più
insidiosa di ogni laicismo.
L’Italia degasperiana è stata un’Italia diversa anche sul piano
dell’esperienza religiosa. De Gasperi ha dato una dignità diversa al laicato
cattolico – lo ha reso adulto, protagonista – e, pur rispettando la Chiesa e il
papato, ha capito di che cosa era capace il popolo italiano e in particolare i
laici cattolici. «Il credente - disse il 20 marzo 1954 - agisce come cittadino
nello spirito e nella lettera della Costituzione e impegna se stesso, la sua
categoria, la sua classe, il suo partito, non la chiesa». Pio XII fu molto
scontento di quel discorso e ordinò alla «Civiltà cattolica» di criticare e
correggere De Gasperi, che per l’ennesima volta soffrì in silenzio. D’altra
parte due anni prima Nenni aveva annotato nel diario queste parole di De
Gasperi: «Sono il Primo Presidente del Consiglio cattolico. Credo di aver
fatto verso la chiesa tutto il mio dovere. Eppure sono appena tollerato».
E’ giusto dire ad alta voce, almeno oggi, come è stato fatto con
Rosmini, che De Gasperi non è stato del tutto compreso dalla Chiesa e che
ha patito più di quanto avrebbe dovuto. Nessuno è profeta in patria, e a De
Gasperi, che tra i politici cattolici dell’Occidente è stato forse il più
capace, ma che ha dovuto subire il condizionamento pesante da parte dei
conservatorismi politici ed ecclesiastici, è toccato il destino di aver
ragione anche davanti al sospetto e, per certi versi, alla resistenza di Papa
Pio XII e di molti suoi consiglieri. Aveva ragione De Gasperi. La sua
pazienza e il suo coraggio nella ricostruzione politica, economica e civile
dell’Italia sconfitta fu il miglior regalo alla storia del cattolicesimo politico
italiano: portare la Chiesa a confrontarsi con la democrazia e fare dei
cattolici italiani il pilastro di quest’ultima. L’Italia, con De Gasperi, passò
da essere «il giardino del papa» a uno dei Paesi fondatori dell’Europa
unita. Non è poco, anche se a noi oggi appare quasi scontato.
4. De Gasperi: punti fermi contro altari vuoti e poteri assoluti
De Gasperi veniva da lontano. Aveva vissuto in prima linea il
risveglio del cattolicesimo sociale e la stagione delle opere. Veniva da un
Trentino che era stato un laboratorio per l’intera Europa di operosità
cattolica, ma anche del rinnovamento della coscienza cattolica che, come
in De Gasperi, si costruì intorno a pochi punti fermi: la preghiera
personale, la Bibbia, la comunità. De Gasperi fu un uomo dai rapporti
umani corti, cioè vicini alla realtà quotidiana, ma dai rapporti politici
lunghi, proiettati su una scala e su un tempo che appartengono alla grande
Storia. Realismo e prossimità da un lato, visione e disegno cristiani
dall’altro. Al centro un’interiorità solida e fiduciosa. La laicità non è
libertà individuale di fare ciò che si vuole, non concerne leggi che devono
assecondare i desideri di ciascuno, e non è nemmeno una semplice morale
laica, da piccoli borghesi garantiti dal benessere: in positivo, la laicità è un
progetto di vita fondato sul rispetto della complessità dell’uomo, sulla
tradizione storica e sulla fiducia nella capacità della politica di trovare un
punto di mediazione che non sia la rinuncia a ciò che si crede. La laicità
della politica è anche saper perdere con dignità per preparare tempi
migliori; è anche comprendere che è sempre meglio lottare per convincere
che protestare per sdegnarsi; da cristiano e da vescovo dico che laicità è
anche fare chiarezza in mezzo al popolo e poi rispettarne la volontà. Gli
esempi, legati alla cronaca di questa stagione, non mancano.
De Gasperi è un trentino come lo è stato Antonio Rosmini, che
amo e che ho studiato con passione. I due personaggi hanno molto in
comune: sono stati dei riformatori della società e della Chiesa, ciascuno
nel proprio ambito, ed hanno patito entrambi l’ostracismo di tutti coloro
che non concepivano che la storia fosse importante e decisiva anche nella
Chiesa, perché solo la realtà vivente è capace di lottare contro altari vuoti
e poteri assoluti. La storia non è monarchica o teocratica, come non può
esserlo la coscienza, che è quell’abito interiore che ci richiama sempre alla
nudità e alla mendicanza davanti al Signore, ma anche davanti ai fratelli,
ai compagni del genere umano.
Va anche aggiunto che, grazie a De Gasperi e alla Democrazia
cristiana, i cattolici italiani hanno avuto anche il merito storico di
riconciliare la fede con la storia – uno degli esiti più alti del Concilio
Vaticano II, che De Gasperi avrebbe vissuto certamente con grande gioia e
trepidazione accanto a Montini, il futuro papa che gli era stato amico e
consigliere e che in qualche modo ne prese l’eredità dopo la sua morte.
La ricostruzione italiana, compreso il capolavoro degasperiano e
togliattiano di concedere al Concordato del 1921 di essere riconosciuto
nella nuova Carta costituzionale, va ben oltre la riaffermazione del potere
temporale della Chiesa. Con i Patti lateranensi la «questione romana» si
era chiusa ancora all’insegna del potere temporale del papato e se non ci
fossero stati uomini come Sturzo e De Gasperi, con i molti loro amici, per
il cattolicesimo italiano le cose avrebbero potuto mettersi molto male.
Invece, la lotta politica e la libertà di giudizio di laici come De Gasperi
hanno fatto in modo che non fosse quello il piccolo Stato a cui guardare,
lo Stato oltre Tevere, ma piuttosto la Repubblica degli italiani, uno Stato
democratico nuovo, costituzionale, di pace, di sviluppo. L’Italia
repubblicana è stata davvero un caso di successo a livello mondiale: lo era
8
stata già al momento dell’unificazione cento anni prima che De Gasperi
fondasse la Democrazia cristiana, ma con la Costituzione e con la
Ricostruzione degasperiane, lo divenne su scala europea ed entrò così, con
la sua grandezza e i suoi limiti, tra le nazioni a cui guardare con rispetto ed
interesse.
Su questo principio della laicità e della religiosità della politica
De Gasperi ha molto da insegnarci. La sua santità sta nella fecondità di ciò
che ha fatto in una lunga e operosa vita politica. E a noi oggi appare più
chiaro ciò che voleva dirci. Lo Stato vaticano dovrebbe essere come
un’oasi, di pace e di accoglienza, dove tutti coloro che hanno problemi
possano venire per farsi ascoltare e confortare. La Chiesa cattolica non ha
bisogno di mura respingenti, di eserciti agguerriti o di burocrazie
mortificanti. La Chiesa ha bisogno di donne e uomini agili e curiosi, rapidi
nel comprendere e nel dimenticare le offese, forti nell’amare, ambiziosi
nell’intelletto, coraggiosi nello sperare. Pensiamo spesso che il buon
cattolico sia un uomo a metà, una via di mezzo tra gli ambiziosi e i
disperati e non è vero. Pensiamo che un cattolico sia un uomo con il freno
a mano, che non possa godere del successo della scienza o dei frutti della
ricchezza, ma sono bestemmie perché non c’è nessun motivo che ci spinga
a rinunciare ad offrire al Signore il meglio dell’intelligenza e dello
sviluppo economico e tecnologico. Il cristiano è solamente colui che,
anche in questi campi, mette tutto se stesso al servizio degli altri e nelle
mani del Signore. E De Gasperi ha avuto il dono di comprendere che nella
società contemporanea non c‘era e non c’è nulla di altrettanto potente e
forte di una politica ispirata da valori universali, da cui dipendiamo tutti e
a cui tutti dobbiamo rispetto. Certo, la politica non è forse quella che
siamo stati abituati a vedere oggi, vale a dire un puzzle di ambizioni
personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi. La politica
è ben altro, ma per comprenderlo è inutile prodursi in interminabili analisi
sociologiche o in lamentazioni, quando è possibile guardare a esempi
come quello degasperiano. I veri politici segnano la storia ed è con la
storia che vanno giudicati, perché solo da quella prospettiva che non è mai
comoda, si possono percepire grandezze e miserie dell’umanità. Il Signore
è risorto in terra di Israele, tra il suo popolo, ma per l’intera umanità.
La Chiesa inoltre non ha bisogno di grandi organizzazioni
materiali perché ha a disposizione la parola di Dio e l’intera fraternità
umana; non ha bisogno di diplomazie esclusive, ma di uno spirito
evangelico, come papa Francesco non si stanca di ricordarci.
Ma ciò che forse può valere per la Chiesa, seme nel mondo, non
può valere per le società contemporanee che hanno sempre più bisogno di
competenze politiche e d’intelligenze morali. Che cosa saremmo noi
vescovi italiani senza l’Italia? La nostra missione non può essere disgiunta
dal destino di questo nostro Paese, a cui siamo non solo fedeli, ma
servitori.
Ciò significa allora che il papa, i vescovi e i presbiteri hanno
bisogno di essere inseriti a loro volta in una comunità impegnata e solida
che li ascolti, certo, ma anche che li aiuti e li sostenga.
5. Una eredità … oltre gli individui
“Chi sono oggi gli eredi di De Gasperi?”. Un anno fa, a Trento
per ricevere il premio internazionale De Gasperi, Romano Prodi rispose in
questo modo che faccio mio: “La risposta non va cercata solo in un
singolo individuo – disse – ma nella forza delle idee. Alle quali si deve
aggiungere la particolare capacità che un politico per essere qualificato
come statista deve possedere: dire la verità alla propria gente; avere una
visione coerente e competente della realtà; avere il senso supremo della
responsabilità, al di là della propria convenienza di parte e della propria
prospettiva personale; non vivere per se stesso, ma per una prospettiva
comune».
Un popolo non è soltanto un gregge, da guidare e da tosare: il
popolo è il soggetto più nobile della democrazia e va servito con
intelligenza e impegno, perché ha bisogno di riconoscersi in una guida. Da
solo sbanda e i populismi sono un crimine di lesa maestà di pochi capi
spregiudicati nei confronti di un popolo che freme e che chiede di essere
portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia. Il
significato della guida in politica non è tramontato dietro la cortina
fumogena di leadership mediatiche o dietro le oligarchie segrete dei soliti
poteri. La politica ha bisogno di capi, così come la Chiesa ha bisogno di
vescovi che, come ha detto Papa Giovanni siano «una fontana pubblica, a
cui tutti possono dissetarsi». Tra le luci della ribalta e il buio delle mafie e
delle camorre non c’è solo il deserto: la nostra terra di mezzo è un’alta vita
civile, che è la nostra patria di uomini liberi e che, come tale, attende il
nostro contributo appassionato e solidale.
(Pieve Tesino, 18 agosto 2015)
Nunzio Galantino
Vescovo emerito di Cassano all’Jonio
Segretario generale della CEI
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2418
Perché su Matteo Renzi gli intellettuali italiani
stanno zitti? (di Marco Damilano)
In prima linea contro il berlusconismo, oggi gli intellettuali tacciono
imbarazzati di fronte al giovane premier. E lasciano il monopolio della
critica alla generazione dei “vecchi”
Parlo all’Italia riformista. Perché stiamo perdonando a Matteo Renzi
quello che non perdonavamo a Silvio Berlusconi? Che cosa ci sta
portando a fermarci?». La voce di Roberto Saviano su repubblica.it
risuonava su smartphone e tablet nel pomeriggio di venerdì 11 dicembre a
Firenze nella grande ex stazione Leopolda che si preparava ad accogliere
il popolo renziano per il raduno annuale.
Lo scrittore attaccava «una struttura politica che ha compiuto l’ennesimo
atto autoritario», il «conflitto di interessi» del ministro Maria Elena
Boschi, figlia dell’ex vice-presidente della Banca Etruria oggetto di un
decreto del governo.
Un crescendo che, il giorno dopo, arrivava a definire la Leopolda
«un’accolita che difende i malversatori». Ma esaurita l’indignazione di
giornata del cerchio magico del premier contro le parole dello scrittore,
bisogna riprendere il j’accuse di Saviano che va ben al di là della singola
questione, chiama in causa il diritto di critica, «che non può essere
considerato un impiccio», e il rapporto degli intellettuali con il nuovo
principe venuto da Rignano.
Scrittori, registi, sceneggiatori, opinionisti solitamente impegnati. In prima
fila nella firma di appelli e manifesti. Pronti a ingaggiare il corpo a corpo
delle idee. Sul palco, in piazza, sui giornali. Con parole e opere: romanzi,
film, canzoni, articoli. E ora, invece, stretti tra due accuse. Quella di Renzi
e dei suoi laudatori, secondo cui le voci di dissenso sarebbero in blocco
«professoroni, gufi, professionisti della rassegnazione». «Un giorno si
parlerà finalmente delle responsabilità delle élite culturali nella crisi
italiana: professori, editorialisti, opinionisti non sono senza colpe», disse il
premier a “Repubblica” dopo pochi mesi di governo, il 4 agosto 2014.
«Siamo gli unici che vogliono bene all’Italia, contro il disfattismo e il
nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche», ha
replicato, senza nominarlo, a Saviano dal palco della Leopolda.
E c’è, sul versante opposto, la seconda accusa, non meno bruciante, quella
avanzata dall’autore di “Gomorra”. La timidezza verso il nuovo potere
renziano nell’ambiente culturale «riformista». Gli intellettuali di sinistra
che furono in prima fila negli anni del berlusconismo. E che ora appaiono
svogliati. Ritrosi a schierarsi. Ritirati nei propri quartieri. Taciturni. In
silenzio. Forse imbarazzati, di certo confusi. Per loro stessa ammissione.
«Renzi è di sinistra? Diciamo che, come Margherita dice in “Mia madre”,
anch’io sono confuso in questa fase e preferisco tacere, piuttosto che dire
cose generiche o banali… Sono contento se il governo è di centrosinistra,
9
facendo però davvero riforme di centrosinistra. Ma ripeto: in questo
periodo sono confuso e preferisco non dire cose a caso». Nanni Moretti ha
interrotto di recente con un’intervista a “Oggi” e poi a “Le Monde” la sua
distanza dalla politica. Per testimoniare, però, che in questa fase è meglio
restare zitti piuttosto che parlare per non dire nulla.
Eppure per decenni Moretti ha portato sul grande schermo la crisi del Pci
e della sinistra, da “Palombella Rossa” a “Aprile”, gli psicodrammi di
militanti, dirigenti, semplici elettori, con le lettere mai spedite ai leader di
partito. L’interpretazione del ministro socialista Botero in “Il portaborse”
di Daniele Luchetti all’inizio degli anni ’90 anticipò Tangentopoli. E poi
“Il Caimano” (2006) su Berlusconi e il conformismo di stampa e
televisioni. E soprattutto la stagione dei girotondi, tra il 2002 e il 2003,
quando il regista accettò di guidare un movimento e finì per assumere la
leadership dell’anti-berlusconismo in un momento di debolezza politica
dei partiti di centro-sinistra.
Ora è un altro momento. Di confusione. E perfino, per i cinquantennisessantenni coetanei di Moretti, di un sottile senso di colpa. «A me Renzi
sta antipatico, non mi sento contiguo alla Leopolda, ma mi sono
supremamente rotto le scatole di quello che ha fatto la mia generazione in
politica», ha detto la settimana scorsa Michele Serra in tv a “Otto e
mezzo”. In continuità con quanto l’ex direttore di “Cuore” aveva scritto su
“l’Espresso” (11 maggio 2015): «Non esisterebbe Renzi se non fosse
esistita, prima, una lunga stagione di impotenza. Matteo Renzi è il figlio
più rappresentativo della crisi della democrazia italiana e più ancora della
paralisi della società italiana. Chi lo critica ha quasi sempre ragione, ma
alle spalle di quasi ogni critica c’è il sospetto inevitabile della
conservazione. E se Renzi è quello che è, la colpa non è tutta sua».
De te fabula narratur: non è colpa di Matteo, e forse neppure del tutto
merito suo, se con facilità impressionante ha conquistato il potere, scalato
la sinistra, polverizzato i riferimenti culturali del passato, sgretolato il
pantheon dei miti fondativi. Colpa di chi l’ha preceduto, dei dirigenti
antichi e inamovibili, dei padri nobili che in ogni cambiamento hanno
avvertito, sospettosi, l’ombra della fuoriuscita dal patto costituzionale su
cui si è costruita la Repubblica e sono cresciute le culture politiche dei
partiti, più forti e resistenti delle ideologie.
Il grande silenzio, come si intitolava il libro-intervista sugli intellettuali di
Alberto Asor Rosa con Simonetta Fiori (Laterza, 2010), sembra essere la
reazione di una certa generazione e di una certa cultura: quella che ha
combattuto da sinistra negli anni Ottanta la modernizzazione di Bettino
Craxi, il rampantismo socialista e poi, naturalmente, il berlusconismo
trionfante. E che ora, dopo tante battaglie e molte sconfitte, non se la sente
più di intrecciare un conflitto anche con il premier rottamatore. Anche
perché, come dice Serra, «Renzi non è come Berlusconi».
C’è chi questo passaggio l’ha fatto con agilità e senza farsi troppi
problemi: ad esempio Francesco Piccolo, sceneggiatore di Moretti, con “Il
desiderio di essere come tutti” (Einaudi, 2013), vincitore del premio
Strega, uscito nei mesi in cui Renzi dava l’assalto al vertice del Pd e poi a
Palazzo Chigi, aveva già ben rappresentato la felicità di un intellettuale di
sinistra pronto a tuffarsi nella nuova epoca.
Sul versante opposto, quello della critica, si schierano intellettuali di altre
generazioni e di altri filoni culturali, più azionisti che ex Pci. Sono loro i
«famigerati professoroni». Giuristi come Stefano Rodotà o come Gustavo
Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, che denuncia nel
suo ultimo libro “Moscacieca” (Laterza, 2015) «l’allergia per il pensiero
non allineato» e si spinge a comporre l’elogio del pessimismo contro la
«leggera, fatua, insulsa allegrezza che fluttua qua e là senza alcun costante
e maturo impegno per un’opera degna della parola politica».
Professori come Asor Rosa che attacca «la mutazione genetica» del Pd. E
storici come Marco Revelli: erano in tanti il 3 dicembre a discutere nella
sede romana della casa editrice Laterza il suo ultimo libro “Dentro e
contro”, una delle più compiute requisitorie contro il sistema renziano.
Seminario ad alta tensione, con uno scontro senza ipocrisie tra l’autore e il
giurista Sabino Cassese, ex giudice della Corte costituzionale, difensore
delle riforme del governo Renzi.
Perché in questi mondi l’atteggiamento da tenere nei confronti del premier
spacca, divide. Renzi, nelle pagine di Revelli, è descritto come Callicle,
piccolo filosofo ateniese del V secolo a.C., «archetipo di quel disprezzo
per la conoscenza e per i sapienti che ritornerà infinite volte nelle zone
grigie della storia». Un modello di potere post-democratico nell’Europa
attraversata dai populisti: «L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un
funambolo che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso
in aria, a gridare di accelerare».
Tutti chi? Inutile cercare pensatori vecchio stile tra gli intervenuti
all’ultima edizione della Leopolda. Nelle precedenti kermesse aveva
colpito e affascinato la platea lo scrittore Alessandro Baricco, con la sua
narrazione popolata di spazi bianchi da riempire, pezzi sulla scacchiera da
muovere per primi, navi da bruciare alle spalle.
Ma questa volta non si è fatto vedere, né lui né altri artigiani
dell’immaginario. E non si trovano citazione di contemporanei nel
discorso finale di Renzi, con l’eccezione di Paolo Sorrentino, fresco
vincitore degli Efa di Berlino, l’Oscar europeo, il regista prediletto dal
premier. Forse perché almeno gli ultimi due titoli, “La Grande Bellezza” e
“Youth - La giovinezza”, sono involontariamente, inconsciamente
renziani. O forse perché, semplicemente, Sorrentino è un outsider che
vince, come sempre si rappresenta l’ex ragazzo di Rignano.
Nell’ultima edizione è stato lanciato il think tank che avrà il compito di
formare la classe dirigente di domani. A dirigere “Volta” sarà Giuliano Da
Empoli, presidente del Gabinetto Viesseux, già assessore alla Cultura con
Renzi sindaco, ritornato nell’orbita di Matteo dopo qualche dissidio. Il suo
“La prova del potere” (Mondadori, 2015) è il manifesto dei nati tra la fine
degli anni Sessanta e i Settanta del secolo scorso, «vaso di coccio tra due
generazioni di ferro, i nativi dell’ideologia e i nativi della tecnologia», i
quarantenni che traggono da questa debolezza la loro forza: i Sorrentino, i
Renzi e i Saviano, e già, c’è anche lui, l’irregolare scrittore diventato il
nemico del popolo nel raduno dell’ex stazione fiorentina.
La generazione Renzi raccolta da Christian Rocca, direttore di “IL”, il
mensile del “Sole 24-Ore” in “Non si può tornare indietro” (Marsilio,
2015), in cui si ritrovano toni forse perfino più renziani dell’originale che
ha in odio qualsiasi ideologia, compresa eventualmente la sua.
C’è anche questo, la difficoltà per gli intellettuali di professione di
interloquire con un leader pragmatico, compiutamente post, impossibile da
incasellare in una definizione. Che per di più si agita su un terreno di
gioco, il confine della politica nazionale, con sempre minore significato.
In Francia gli intellettuali litigano e si dividono tra mondialisti e identitari.
In Italia il balcone è vuoto, come nell’ultima scena di “Habemus papam”.
Forse per questo Moretti è confuso. E anche gli altri non stanno tanto
bene.
(fonte: Espresso - segnalato da: Libera festa Solaio)
link:
http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2015/12/18/news/perche-sumatteo-renzi-gli-intellettuali-italiani-stanno-zitti-1.244012
Religioni
Iniziativa congiunta delle religioni universali (di
Enrico Peyretti)
Venerdì 4 dicembre, manif. di musulmani e cristiani a Torino dalla
parrocchia di via Chatillon alla moschea di via Sesia e circolo Banfo per
una cena a couscous e dolci. Numerosa. Corteo con distribuzione di tante
bandiere della pace del Sermig (diversa, separata, da quella comune a tutto
il mondo, di sette colori).
Discorsi giusti, sinceri, appassionati. Preghiere nelle due religioni. I
10
musulmani ripetono una sura (stasera la 5, su Abele e Caino), con poche
loro parole spontanee. I cristiani leggono un brano di vangelo (Mt 5,
amore dei nemici) e aggiungono più parole proprie. Interventi vari nel
cortile della moschea, anche di rappresentanti civili. Manifestaz. trasmessa
dal TG3, a differenza di altre altrettanto belle, ignorate.
Giustificata in un intervento femminile musulmano la guerra di difesa (che
è nel Corano 2,191 e altrove), ma è sempre meno giustificata nel
cristianesimo attento alla nonviolenza (pur con tutta la pesante tradizione
antievangelica della "guerra giusta" alle spalle).
La nonviolenza attiva è, sì, difesa (che è un dovere) ma con mezzi diversi
e più profondi delle armi, che sono sempre un'illusione e
controproducenti.
Impressione che i diversi gruppi musulmani, come le diverse iniziative
cristiane, impegnate a mettere pace in questo momento, e a distinguere
islam da fanatismo terrorista, siano diverse tra loro, non ben comunicanti,
per diverse scelte di metodo, ma anche - pare - di posizioni e vicinanze
politiche nel quadro italiano attuale.
Va bene, purché si pensi e si lavori su vie di pace. Pace anzitutto profonda,
tra le culture e religioni.
In ciò non bastano più buone maniere e amicizie. Le religioni, per salvarsi
dalla loro versione violenta (conquiste, crociate, colonialismi cristiani;
guerre islamiche; guerre feroci di religione interne agli uni e agli altri),
devono deporre la loro sicurezza, il credere di poter far da sé nella ricerca
di Dio, di avere già tutta la verità, di essere superiori agli altri (anche se ci
degniamo di trattarli bene). Un po' di silenzio buddhista su Dio farebbe
molto bene alle religioni teologiche.
Ogni religione si relativizzi (non è scetticismo, ma è "non senza gli altri",
sempre in relazione, nessuna autosufficienza). Imparare dagli altri, perché
dialogo vuol dire "io non so tutto e imparo da te".
E' ben comprensibile che i musulmani, in minoranza e accusati di
vicinanza ai violenti dalla barbarissima ignorantissima islamofobia, si
difendano (ancor più e meglio che dopo Charlie Hebdo).
Ma, perché il mondo si salvi, occorre che le religioni (queste due, ma
tutte), si parlino con umiltà, sempre, e non solo dopo casi di violenza
"religiosa". Le religioni sono le "culture profonde" dell' umanità.
Nonostante la secolarizzazione europea, contano ancora molto
nell'orientare la vita.
Ma le religioni devono spogliarsi molto anche di se stesse: culti, testi,
tradizioni, strutture, regole sociali, autorità e maestri: tutte cose utili, non
perfette, ma non sono l'essenziale. L'essenziale è l'intima ricerca del bene
entro il cuore di ogni persona, è l'aiuto al vicino bisognoso, è il perdono e
la pace a chi ti ha fatto del male. Andiamo verso religioni della coscienza
intima e seria, uscendo dalle religioni dei costumi, tradizioni, folklore,
dogmi, strutture costrittive, persino abiti speciali.
La diversità è un bene, se le diversità si riconoscono in una unità
universale più grande di ogni singola religione, della propria amata (o
sopportata a fatica) religione.
Questa maledetta "violenza religiosa" (non solo sotto il nome di Allah, ma
anche del Dio cristiano) può essere una malattia dalla quale le religioni
possono uscire più sane, più pure, più spirituali, più aperte, più costruttrici
di pace profonda. Ma è un lavoro lungo, faticoso, difficile, paziente.
Dio è più grande di tutte le religioni, dei nomi che noi gli diamo, delle
dottrine che facciamo su di lui, dei comandi che diamo a nome suo. Chi
cerca Dio non lo possiede, e chi crede di possederlo lo riduce a un idolo,
lo bestemmia. Dio ci aiuti tutti.
Enrico (vedete sorella Maria, qui allegato. Credo che dica una bella verità)
**
1928 e 1932 Sorella Maria a Gandhi: l'invisibile chiesa. Sorella Maria,
dell'eremo di Campello (1875-1961) scriveva a Gandhi: "Io sono creatura
selvatica e libera in Cristo, e voglio con Lui, con te, con voi, con ogni
fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità" (24
agosto1928). "Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della
mia nascita e della mia famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l'invisibile
chiesa che sale alle stelle. Che non è divisa da diversità di culti, ma è
formata da tutti i cercatori della verità" (11 luglio 1932). Gandhi, per lei è
"pietra miliare verso la vastità del Regno".
(Frammenti di un'amicizia senza confini. Gandhi e Sorella Maria, promanuscripto, Eremo di Campello sul Clitunno, 1991, p. 15 e 22. Si vedano
anche, per conoscere questa cristiana, la sua corrispondenza con Primo
Mazzolari e quella con Giovanni Vannucci, nelle edizioni Qiqaion della
Comunità di Bose. Mio articolo in Lo Straniero n. 105, marzo 2009)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2416
Notizie dal mondo
Palestina e Israele
Vietato rompere il silenzio (di Michele Giorgio – Il
Manifesto)
Proseguono, più forti e più intensi, gli attacchi al dissenso. Dopo i centri
per i diritti umani ora nel mirino della destra ultranazionalista e religiosa
al potere c’è “Breaking the Silence”. Ong che raccoglie le testimonianze
di militari israeliani su crimini di guerra e abusi a danno dei palestinesi
sotto occupazione.
“Il mondo intero è contro di noi”. Era questo il titolo di un brano molto
popolare in Israele negli anni ’70, scritto da Yoram Taharlev nel 1969, un
oscuro autore che andava ripetendo che «molti Paesi inspiegabilmente
stanno dalla parte dei nostri nemici». Non era un capolavoro. Un testo
semplice e diretto accompagnato da una musichetta senza pretese. «Il
mondo intero è contro di noi/è un vecchio motivo/ che ci insegnarono i
nostri Padri/a cantarlo e anche a ballarlo». Tirava forte in quegli anni ma
ancora oggi quel messaggio riaffiora in Israele ad ogni occasione.
D’altronde un sondaggio d’opinione dello scorso anno vedeva il 63%
degli israeliani d’accordo con il testo di quel brano. Così ogni critica alle
politiche di occupazione, alle offensive militari contro Gaza, alla
violazione di diritti umani, alla libertà negata ai palestinesi, viene descritta
oggi persino più di allora come un attacco all’esistenza di Israele, se non
addirittura una espressione di antisemitismo esplicito o sottotraccia. È il
cavallo di battaglia della destra al governo e degli ultranazionalisti
religiosi, sempre più forti ed influenti in politica e nella società. Non è
detto però che i nemici siano sempre gli occidentali «amici degli arabi»,
secondo una definizione cara all’agenzia di stampa dei coloni israeliani
Arutz Sheva, o Barack Obama che «finalmente» nel 2016 uscirà di scena e
l’Unione Europea che considera illegali gli insediamenti colonici. E
neppure i “terroristi” palestinesi di Hamas, Fatah, il Fplp, i comitati
popolari contro il Muro, i giovani della nuova Intifada (ieri ne è stato
ucciso un altro, accusato di aver tentato di investire un soldato con l’auto),
il leader dell’Anp Abu Mazen e quello islamista Ismail Haniyeh. O i
palestinesi con cittadinanza israeliana, la “quinta colonna” infiltrata nel
cuore del Paese.
La lotta della destra israeliana (e non solo) contro il “nemico” è anche una
battaglia contro altri ebrei, quelli che lavorano in Ong e associazioni
impegnate in difesa dei diritti umani, che denunciano le conseguenze
devastanti delle offensive militari contro Gaza, che promuovono
l’uguaglianza tra tutti i cittadini, contro i medici che si oppongono
all’alimentazione forzata di detenuti in sciopero della fame e affermano
che i “terroristi feriti” vanno curati e salvati come le loro vittime. E contro
chi chiede che gli assassini del piccolo palestinese Ali Dawasha, arso vivo,
siano giudicati e condannati per questo crimine mentre il ministro della
difesa Moshe Yaalon afferma «che sono stati arrestati e interrogati ma
contro di loro non ci sono prove sufficienti». Garantismo che, sottolinea
qualcuno, non viene certo applicato nei confronti dei palestinesi.
È un’offensiva sempre più incisiva, ampia e senza riguardi, che si svolge
nelle strade come nell’aula della Knesset. Il dissenso interno è il nuovo
nemico, quasi uguale ai palestinesi, simile al BDS contro il quale è in
corso una controffensiva internazionale finanziata in buona parte dai fondi
raccolti da Sheldon Adelson, il milionario israelo-americano, re della case
da gioco negli Usa e proprietario del quotidiano più diffuso di Israele,
Yisrael HaYom, megafono del premier Benyamin Netanyahu.
11
Nessuno è risparmiato, neppure il capo dello stato Reuven Rivlin, peraltro
esponente del partito di maggioranza relativa Likud, finito sui carboni
ardenti per aver accettato di prendere parte a una conferenza che vedeva
tra i presenti alcuni rappresentanti di “Breaking the Silence” (Bts), l’Ong
che raccoglie le testimonianze di ufficiali e soldati israeliani su violazioni
e abusi a danno dei palestinesi. Il suo ultimo rapporto, diffuso prima
dell’estate, include dozzine di dichiarazioni e rivelazioni su crimini di
guerra commessi a Gaza durante l’offensiva “Margine Protettivo”
dell’estate del 2014. Materiali che potrebbero essere usati dalla Corte
penale internazionale per rinviare a giudizio comandanti militari e leader
politici israeliani protagonisti di quella offensiva.
Proprio contro i soldati che rompono il silenzio si è scatenata un’offensiva
a tutti i livelli nel nome della difesa ad ogni costo dell’azione delle Forze
Armate. Il ministro Yaalon ha vietato ai militari di rilasciare testimonianze
agli attivisti di “Breaking the Silence”. L’associazione giovanile di
estrema destra, Im Tirzu, sostiene di avere le prove che “questi nemici di
Israele” sono finanziati anche dai palestinesi. L’Associazione dei “Soldati
Caduti in Combattimento” ha chiesto con forza che l’Ong sia dichiarata
subito fuorilegge. Più di tutto è intervento il premier Netanyahu che alla
Knesset ha pronunciato una difesa a voce alta dell’Esercito e del suo
operato, mettendo a tacere chi come il leader laburista Herzog
proclamava, tiepidamente, il diritto al dissenso. «Ciò che le destre al
potere intendono ottenere è far tacere chiunque sia contro l’occupazione
dei territori palestinesi» spiega al manifesto Avihai Stoller, un portavoce di
Bts, «e agiscono attraverso le leggi, l’istigazione nelle strade, diffondendo
bugie sul nostro conto». Dopo quasi 50 anni di occupazione militare,
aggiunge Stoller, «durante i quali abbiamo negato i diritti dei palestinesi,
non dobbiamo meravigliarci che questa violazione avvenga anche
all’interno della società israeliana. Era solo questione di tempo». Stoller si
dice sicuro «che questo attacco al dissenso proseguirà e si intensificherà»,
tuttavia, conlcude, «confido nella nostra determinazione e faremo sentire
in ogni caso la nostra voce».
Nena News
(fonte: Nena News - agenzia stampa vicino oriente)
link: http://nena-news.it/israele-vietato-rompere-il-silenzio/
Gaza entra nel 10° anno di blocco israeliano (di
infopal.it)
L’inizio del 2016 vede i Palestinesi della Striscia di Gaza entrare nel 10°
anno di blocco israeliano del territorio, che si è aggravato col supporto
egiziano. Il blocco è iniziato dopo le elezioni palestinesi del 2006, quando
il Movimento di resistenza islamica palestinese, Hamas, vinse con una
maggioranza schiacciante.
Organismi di controllo locali e internazionali descrissero le elezioni
palestinesi come tra le più trasparenti mai registrate. In Palestina, però,
sono ricordate con tristezza come le elezioni che hanno segnato la
spaccatura politica interna e l’inizio dell’assedio di Gaza.
Le autorità israeliane hanno chiuso tutti i valichi sul territorio,
mantenendo aperto solo il valico di Erez (Beit Hanoun) per il traffico
pedonale occasionale (ed è stato usato per intrappolare persone che
cercano di attraversarlo), e Karem Abu Salam per alcune merci classificate
e altamente regolamentate. L’Egitto ha mantenuto chiuso il valico di
Rafah per la maggior parte del tempo. Nel 2015, è rimasto aperto solo 21
giorni; appena 10 mila Palestinesi sono stati autorizzati ad attraversarlo,
tra i quali pellegrini, malati e studenti.
Le autorità israeliane hanno imposto severe restrizioni sui malati e sui loro
compagni di viaggio attraverso Erez. Gruppi per i diritti umani hanno
registrato l’arresto di molti pazienti o dei loro accompagnatori durante
l’ingresso in Israele. Gli israeliani hanno tentato di ricattare le persone e
farle diventare delatori in cambio del permesso di passaggio.
Quds Press ha riferito la carenza cronica di medicinali e di prodotti
ospedalieri monouso. Il portavoce del ministero della Salute palestinese a
Gaza, Ashraf al-Qidra, ha affermato che gli scaffali sono vuoti a causa
delle restrizioni imposte dagli israeliani sulle persone e sulle merci che
entrano e escono dall’enclave costiera.
Il deputato indipendente, Jamal Al-Khodari, che è a capo di un comitato
popolare che lavora per porre fine all’assedio, ha detto a Quds Press che
Israele ha cercato di “legalizzare” il blocco e farlo durare più a lungo
possibile, utilizzando tutti i mezzi possibili.
La situazione dei Palestinesi di Gaza ha suscitato un ampio sostegno
popolare in tutto il mondo e sono stati fatti molti tentativi per rompere
l’assedio via mare. Anche se alcune piccole imbarcazioni hanno fatto il
viaggio nei primi anni, più tardi tentativi più ambiziosi sono stati fermati
in acque internazionali dalla marina militare israeliana, spesso
violentemente. Nel maggio del 2010, ad esempio, un commando israeliano
ha intercettato la Freedom Flotilla. Nove cittadini turchi sono stati uccisi
durante l’assalto ed altri sono stati feriti; uno è morto nel 2014 a causa
delle ferite riportate. Le navi sono state trainate nel porto di Ashdod, in
Israele, e tutti a bordo sono stati arrestati.
Durante l’assedio, Israele ha lanciato quattro grandi offensive militari
contro la popolazione di Gaza, nel 2006, 2008/9, 2012 e 2014;
quest’ultimo è stato il più distruttivo. E’ durato 51 giorni e intere zone di
Gaza sono state rase al suolo dalle bombe israeliane; decine di migliaia di
persone sono state sfollate.
La stretta dell’assedio e le guerre hanno distrutto l’economia palestinese a
Gaza, ha detto a Quds Press il commentatore economico Maher Al-Tabaa.
“Il tasso di disoccupazione a Gaza è del 42 per cento, con il blocco che
aggrava la crisi economica”, ha spiegato. Secondo il Fondo Monetario
Internazionale, il tasso di disoccupazione a Gaza è il più alto del mondo e
ci sono più di 200 mila persone disoccupate a Gaza.
Al-Tabaa ha avvertito che se l’assedio di Gaza continua, la vita normale
non sarà praticabile nel territorio nel 2016. Molte organizzazioni
internazionali hanno formulato avvertimenti simili a causa degli effetti
delle oppressive misure israeliane, che sono considerate come una
punizione collettiva e sono illegali secondo il diritto internazionale.
Traduzione di Edy Meroli
© Agenzia stampa Infopal
E’ permessa la riproduzione previa citazione della fonte “Agenzia stampa
Infopal – www.infopal.it”
(fonte: infopal.it - segnalato da: Bocche scucite)
link: http://www.infopal.it/gaza-entra-nel-10-anno-di-blocco-israeliano/
Immagini di parole
Poesie
Lo zampognaro (di Gianni Rodari)
Se comandasse lo zampognaro
che scende per il viale,
sai che cosa direbbe
il giorno di Natale?
« Voglio che in ogni casa
spunti dal pavimento
un albero fiorito
di stelle d’oro e d’argento».
Se comandasse il passero
che sulla neve zampetta
sai che cosa direbbe
con la voce che cinguetta?
«Voglio che i bimbi trovino,
quando il lume sarà acceso,
tutti i doni sognati,
più uno, per buon peso».
Se comandasse il pastore
dal presepe di cartone
sai che legge farebbe
firmandola col lungo bastone?
«Voglio che oggi non pianga
12
nel mondo un solo bambino,
che abbiano lo stesso sorriso,
il bianco, il moro, il giallino».
Sapete che cosa vi dico
io che non comando niente?
Tutte queste belle cose
accadranno facilmente:
se ci diamo la mano
i miracoli si faranno
e il giorno di Natale
durerà tutto l’anno.
(fonte: ComboniFem - Newsletter Suore Comboniane)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2424