Copione - Centro Teatrale Rinaldini
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Copione - Centro Teatrale Rinaldini
PATROCLO O DEL DESTINO Scendeva sulla pianura la notte, o piuttosto una luce madreperlacea: sarebbe stato difficile dire in che direzione si dirigesse il crepuscolo. Le torri parevano rocce, ai piedi di montagne che parevano torri. Cassandra urlava sulle mura, in preda all'orribile travaglio di far nascere l'avvenire. Il sangue si coagulava, come un belletto, sulle guance irriconoscibili dei cadaveri; Elena si passava su quella bocca da vampiro un rossetto che ricordava il sangue. Da anni si erano stabiliti laggiù in una specie di consuetudine rossa in cui la pace si mescolava alla guerra come la terra all'acqua delle fetide regioni paludose. La prima generazione di eroi che avevano accolto la guerra come un privilegio, quasi come un'investitura, mietuta dalle falci dei carri fu sostituita da un contingente di soldati che l'accettarono come un dovere, poi la subirono come un sacrificio. L'invenzione dei carri armati aprì enormi brecce in quei corpi che non esistevano più che come baluardi; una terza ondata di assalitori si precipitò contro la morte; questi giocatori che a ogni colpo puntavano la loro vita caddero alla fine come ci si suicida, colpiti dalla pallina in piena casella rossa del cuore. Finito ormai il tempo di quelle eroiche tenerezze in cui l'avversario era il fosco rovescio dell'amico. Ifigenia era morta, fucilata su ordine di Agamennone, colpevole di essersi immischiata nell'ammutinamento degli equipaggi del Mar Nero; Paride era stato sfigurato dallo scoppio di una granata; Polissena era stata appena stroncata dal tifo all'ospedale di Troia; le Oceanidi inginocchiate sulla spiaggia non tentavano più di scacciare le mosche azzurre dal cadavere di Patroclo. Dal giorno della morte di quell'amico che aveva riempito il mondo e insieme lo aveva sostituito, Achille non lasciava più la sua tenda ammantata di ombre: nudo, sdraiato rasoterra come se si sforzasse di imitarne il cadavere, si lasciava rodere dai vermi dei suoi ricordi. La morte gli appariva sempre più come un rito consacratorio di cui sono degni soltanto i più puri: molti uomini si sbriciolano pochi muoiono. Tutti i particolari significativi di cui si ricordava pensando a Patroclo: il suo pallore, quelle spalle rigide, appena appena risalenti, quelle mani sempre un po' fredde, il peso del corpo che piombava nel sonno con la densità di una pietra acquistavano ora la pienezza del loro senso di 1 attributi postumi, quasi che Patroclo, vivo, non fosse stato che un progetto di cadavere. L'odio inconfessato che dorme sul fondo dell'amore predisponeva Achille a una mansione di scultore: invidiava Ettore per aver completato un simile capolavoro; lui soltanto avrebbe dovuto strappare gli ultimi veli che il pensiero, il gesto, il fatto stesso di essere in vita interponevano fra di loro, per scoprire Patroclo nella sua sublime nudità di morto. Invano i capi troiani facevano dar fiato alle trombe per annunciare abili corpo a corpo, privi ormai dell'ingenuità dei primi anni di guerra: vedovo di quel compagno che meritava di essere un nemico, Achille non uccideva più, per non suscitare a Patroclo rivali d'oltretomba. Ogni tanto echeggiavano grida: ombre con l'elmo passavano sul muro rosso: da quando Achille si richiudeva in quel morto i vivi non gli si manifestavano che in forma di fantasmi. Un'umidità infida saliva dal nudo terreno; il passo di armate in marcia faceva tremare la tenda; i pali oscillavano in quella terra che non offriva più presa; i due campi riconciliati lottavano contro il fiume che si sforzava di annegare l'uomo: pallido, Achille entrò in quella notte da cui non sarebbe sorto nessun sole. Lungi dal vedere nei vivi i precari superstiti di un fatale maremoto ancora minaccioso, adesso erano i morti ad apparirgli sommersi dall'immondo diluvio dei vivi. All'acqua instabile, animata, informe, Achille contendeva le pietre e il cemento che servono a fare tombe. Quando l'incendio serpeggiante giù dalle foreste dell'Ida giunse fino al porto a leccare il ventre delle navi, Achille contro i tronchi, le vele, gli alberi stranamente fragili scelse il partito del fuoco che non teme di abbracciare i morti sui letti di legna dei roghi. Turbe bizzarre sbucavano dall'Asia come fiumi: preso dalla follia di Aiace, Achille sgozzava quella mandria senza nemmeno riscontrarvi dei lineamenti umani. Quei branchi destinati alle cacce dell'altro mondo, lui li mandava a Patroclo, Comparvero le Amazzoni; un'inondazione di seni ricoprì le colline del fiume; l'armata fremeva a quell'odore di velli nudi. Per tutta la sua vita le donne avevano rappresentato per Achille la parte istintiva della sciagura, quella di cui lui non aveva scelto la forma, che doveva subire, che non poteva accettare. Rimproverava a sua madre di aver fatto di lui un meticcio a metà strada fra il dio e l'uomo, togliendogli così la metà del 2 merito che gli uomini hanno nel farsi dei. Provava rancore nei suoi confronti per averlo portato da bambino ai bagni dello Stige per immunizzarlo contro la paura, come se l'eroismo non consistesse appunto nell'essere vulnerabile. Era amareggiato con le figlie di Licomede per non essersi accorte che il suo travestimento era il contrario di una mascherata. Non perdonava a Briseide l'umiliazione di averla amata. La sua spada affondò in quella gelatina rosa, tagliò nodi gordiani di viscere; le donne urlanti, partorendo la morte per la breccia delle ferite, s'impigliavano come cavalli da corrida nel groviglio delle loro stesse interiora. Pentesilea si svincolò da quell'ammasso di donne calpestate, duro nocciolo di quella polpa nuda. Aveva abbassato la visiera perché nessuno si commuovesse guardandole gli occhi: lei soltanto osava rinunciare all'astuzia di essere senza veli. Con la corazza, l'elmo in capo e la maschera d'oro, quella Furia minerale non conservava d'umano che i capelli e la voce, ma i capelli erano d'oro, e di oro risuonava la sua voce pura. Sola fra le sue compagne, aveva consentito a farsi tagliare un seno, ma tale mutilazione era appena visibile su quel petto divino. Trascinarono fuori dall'arena le donne morte afferrandole per i capelli; i soldati si disposero a quadrato, trasformando in campo chiuso il campo di battaglia, spingendo Achille al centro di un cerchio dove la carneficina era per lui l'unica via di scampo. Su quello sfondo color kaki, feldgrau, blu orizzonte, l'armatura dell'Amazzone variava la sua forma con i secoli, le sue tinte secondo i proiettori. Con quella slava che di ogni finta faceva un passo di danza, il corpo a corpo diventava torneo, poi balletto russo. Achille avanzava, poi indietreggiava inchiodato a quel metallo che conteneva un'ostia, invaso da quell'amore che si ritrova in fondo all'odio. Con tutta la sua forza lanciò la spada, come per spezzare un incantesimo, spaccò l'esile corazza che interponeva fra lui e quella donna chissà che puro soldato. Pentesilea cadde come se cedesse, incapace di resistere a quello stupro di ferro. Infermieri si precipitarono; si udì crepitare la mitraglia delle riprese cinematografiche; mani impazienti scorticavano quel cadavere d'oro. Alzata, la visiera scoprì, anziché un viso, una maschera dagli occhi ciechi che i baci non raggiungevano più. Achille singhiozzava, sosteneva il capo di quella vittima 3 degna di essere un amico. Era l'unico essere al mondo che somigliasse a Patroclo. ANTIGONE O DELLA SCELTA Che cosa manifesta il profondo del mezzogiorno? L'odio incombe su Tebe come un sole atroce. Dal tempo della morte della Sfinge, l'ignobile città è priva di segreti: tutto viene alla luce. L'ombra striscia lungo il basamento delle case, ai piedi degli alberi, come l'acqua dolciastra in fondo alle cisterne: le camere non sono più pozzi d'oscurità, magazzini di frescura. I passanti sembrano sonnambuli di un'interminabile notte bianca. Giocasta si è strangolata per non vedere più il sole. Si dorme in piena luce; si ama in piena luce. I dormienti sdraiati all'aperto hanno un aspetto da suicidi; gli amanti sono cani che si avvinghiano nel sole. I cuori sono aridi come i campi; il cuore del nuovo re è arido come la roccia. Tanta aridità chiama il sangue. Antigone sta abbandonando questa cittadina d'argilla cotta i cui visi induriti sono fatti con la terra delle tombe; accompagna Edipo fuori delle porte spalancate che sembrano vomitarlo. Guida lungo le vie dell'esilio quel padre che è insieme il suo tragico fratello maggiore: lui benedice il felice errore che l'ha buttato su Giocasta, come se l'incesto con la madre non fosse stato per lui che un mezzo per generarsi una sorella. Non avrà tregua finché non l'avrà visto riposare in una notte più definitiva della cecità umana, steso nel letto delle Furie che di colpo si trasformano in dee protettrici, dal momento che ogni dolore al quale ci si abbandona si muta in serenità. Lei rifiuta l'elemosina di Teseo che le offre abiti, biancheria fresca, un posto nella vettura pubblica per tornare a Tebe: ritorna a piedi nella città che trasforma in delitto ciò che è soltanto un disastro, in esilio ciò che è soltanto una partenza, in castigo ciò che è soltanto una fatalità. Spettinata, sudata, oggetto di derisione per gli stolti, oggetto di scandalo per i saggi, eccola che segue nella nuda campagna la pista delle armate segnata da bottiglie vuote, scarpe sfondate, malati abbandonati che gli uccelli da preda scambiano già per morti. Rientra per una porticina nascosta all'interno dei bastioni sormontati da teste tagliate come nelle città cinesi; sguscia per le strade 4 svuotate dalle peste dell'odio, scosse fino alle fondamenta dal transito dei carri d'assalto; si arrampica fino alle piattaforme dove le donne e le ragazze ululano di gioia per ogni proiettile che non colpisca i loro cari; il suo viso esangue fra le lunghe trecce nere si allinea fra i merli negli interstizi delle teste tagliate. Non fa maggiore distinzione tra i suoi due fratelli nemici che fra il petto squarciato e le mani gocciolanti dell'uomo che si suicida: i gemelli non sono per lei che una sola stretta di dolore, come all'origine non erano stati che un unico sussulto di gioia nel ventre di Giocasta. Attende la disfatta per votarsi al vincitore, come se la sciagura fosse un Giudizio Divino. Ridiscende, attratta dal peso del suo cuore verso i bassifondi del campo di battaglia; cammina sui morti come Gesù sulle onde. Fra quegli uomini livellati da un inizio di decomposizione, riconosce Polinice da quella sua nullità sinistramente esibita come un nulla da dichiarare, da quella sua solitudine che lo circonda come un picchetto d'onore. Volge la schiena alla volgare innocenza che consiste nel punire. Benché vivo, il cadavere ufficiale di Eteocle, raggelato dal successo, si trova già mummificato nella menzogna della gloria. Benché morto, Polinice esiste come il dolore. Non rischia più di finire cieco come Edipo, di vincere come Eteocle, di regnare come Creonte: non può irrigidirsi; può soltanto imputridire. Vinto, spogliato, morto, ha toccato il fondo della miseria umana: nulla s'interpone fra di loro, nemmeno una virtù, nemmeno un punto d'onore. Innocenti delle leggi, scandalosi fin dalla nascita, avviluppati nel delitto come in una stessa membrana, hanno in comune l'orribile verginità che consiste nel non appartenere a questo mondo: le loro due solitudini si incontrano esattamente come due bocche nel bacio. Si curva su di lui come il cielo sulla terra, ricreando così nella sua integrità l'universo di Antigone: un oscuro istinto di possesso l'inclina verso quel colpevole che non le verrà conteso. Quel morto è l'urna vuota in cui versare d'un solo colpo tutto il vino di un grande amore. Le sue esili braccia sollevano a fatica quel corpo che contenderanno gli avvoltoi: porta la sua creatura crocefissa come si porterebbe una croce. Dall'alto dei bastioni, Creonte vede venire quel morto sostenuto dalla sua anima immortale. Dai pretoriani si precipitano, trascinano fuori del cimitero quella 5 baccante della Resurrezione: le loro mani strappano forse sulla spalla di Antigone una tunica senza cuciture, s'impadroniscono del cadavere che già si dissolve, sfuma come un ricordo. Alleggerita del suo morto, quella ragazza dal viso abbassato sembra sopportare Dio. Creonte vede rosso guardandola, come se quei suoi stracci coperti di sangue fossero una bandiera. La città spietata ignora i crepuscoli: il giorno si abbruna di colpo, come se il re alzasse gli occhi, i lampioni di Tebe ora gli nasconderebbero le leggi scritte nel cielo. Gli uomini sono privi di destino se il mondo è privo di astri. La sola Antigone, vittima del diritto divino, ha ricevuto come appannaggio l'obbligo di perire, e questo privilegio può spiegare il loro odio. Eccola procedere in quella notte fucilata dai fari: i suoi capelli da pazza, i suoi cenci da mendicante, le sue unghie da scassinatrice mostrano fin dove deve giungere la carità di una sorella. In pieno sole, lei era l'acqua pura sulle mani insozzate, l'ombra nell'incavo dell'elmo, il fazzoletto sulla bocca dei trapassati. A notte piena, diventa una lampada. La sua devozione agli occhi di Edipo rifulge su milioni di ciechi; la sua passione per il fratello putrefatto rianima oltre il tempo miriadi di morti. Non si uccide la luce; si può soltanto soffocarla: si mette sotto il moggio l'agonia di Antigone. Creonte la rigetta nelle fogne, nelle catacombe. Lei se ne ritorna al paese delle sorgenti, dei tesori, dei germogli. Respinge Ismene che è soltanto una sorella carnale; evita in Emone il rischio orribile di generare dei vincitori. Parte alla ricerca della sua stella situata agli antipodi della ragione umana, e che non può raggiungere se non attraverso la tomba. Emone convertito al dolore si precipita sui suoi passi per corridoi neri: quel figlio di uomo cieco è il terzo aspetto del suo tragico amore. Egli giunge in tempo per vederla che appresta un complicato sistema di sciarpe e pulegge che le permetterà di evadere verso Dio. Il profondo meriggio parlava di furore: la profonda mezzanotte parla di disperazione. Il tempo non esiste più in quella Tebe priva d'astri; i dormienti stesi nel nero assoluto non vedono più la loro stessa coscienza. Creonte, coricato nel letto di Edipo, riposa sul duro cuscino della Ragione di Stato. Dei contestatori sparpagliati nelle strade, degli ubriachi della giustizia, inciampano su un po' di notte e si stravaccano contro i paracarri. Di colpo, nell'istupidito silenzio della città che 6 smaltisce il suo delitto, un battito sale dalle profondità della terra, si precisa, cresce, s'impone all'insonnia di Creonte, diventa il suo incubo. Creonte si alza, cammina a tastoni, trova la porta dei sotterranei di cui lui solo conosce l'esistenza, scopre nell'argilla del sottosuolo i passi del suo primogenito. Una vaga fosforescenza che emana da Antigone gli permette di riconoscere Emone appeso al collo dell'immensa suicida, preso nell'oscillazione di quel pendolo che sembra misurare l'ampiezza della morte. Legati l'uno all'altro come per aggravare il loro peso, il loro lento andirivieni li spinge ogni volta un po' più dentro alla tomba, e quel peso palpitante rimette in moto il meccanismo degli astri. Quel rumore rivelatore attraversa i lastricati, i marmi, i muri d'argilla secca, riempie di un pulsare d'arterie l'aria inaridita. I divinatori si inginocchiano con l'orecchio contro il suolo, auscultano come dottori il petto della terra caduta in letargo. Il tempo riprende il suo corso al rumore dell'orologio di Dio. Il pendolo del mondo è il cuore di Antigone. FEDONE O DELLA VERTIGINE Conosco dell'amore quel poco che mi hanno insegnato gli occhi che mi hanno saputo amare. Un tempo, nell'Elide, circondato da un brusio di gloria, ho valutato i progressi della mia adolescenza sui sorrisi sempre più tremuli che mi palpitavano accanto. Steso sul passato della mia razza come su una terra feconda, ero rivestito della mia ricchezza come di un manto d'oro. Ebbro di vita, titubante di speranza, mi aggrappavo per non cadere alle spalle lisce e dolci di compagni di gioco che passavano lì per caso: cadevamo insieme; ed è questa mischia che noi chiamavamo amore. Partii per Olimpia sotto la custodia di un pedagogo cieco: vinsi il premio alla gara dei ragazzi: i fili d'oro dei nastri rituali, improvvisamente invisibili, si persero tra i miei capelli. Il mio pugno sollevava il disco il cui slancio disegnava fra il mio bersaglio e me la curva pura di un'ala; diecimila petti umani ansavano al gesto del mio braccio nudo. La notte, steso sul tetto della casa paterna, contemplavo gli astri dirare in uno 7 stadio olimpico coperto di sabbia buia, ma non cercavo di calcolare il io avvenire. All'improvviso scoppiarono clamori sotto le mura della mia città natale; un velo di fumo coprì la faccia del cielo. Colonne di fuoco si sostituirono alle colonne di pietra. Il rumore dei piatti rovesciati con fracasso coprì in cucina il grido delle serve violentate; una lira spezzata gemette come una vergine fra le braccia di un ubriaco. I miei genitori scomparvero fra le rovine imbrattate di sangue. Tutto vacillò, tutto cadde, tutto du annientato senza che io sapessi se si trattava di un vero assedio, di un reale incendio, di un cero massacro, o se quei nemici non erano che amanti, e quello che s'incendiava non fosse altro che il mio cuore. Pallido, nudo, intento a specchiare la mia vergogna in scudi d'oro, ero grato a quei begli avversari di calpestarmi il passato. Tutto finì con staffilate e scene di schiavitù: e anche questa è una delle conseguenze dell'amore. La speranza del guadagno aveva attirato i mercanti nella città assediata; io ero in piedi sulla piazza pubblica: il mondo con le sue pianure, le sue colline dove i miei cani non inseguivano più i cervi, i suoi orti pieni di frutti di cui non disponevo più, le sue onde dove il mio riposo non avrebbe più languidamente vogato sulla seta violetta, mi giravano intorno come una ruota gigantesca di cui io fossi il suppliziato. Lo spiazzo polveroso del mercato non era che un'unica accozzaglia di braccia, di gambe, di seni perquisiti dal ferro delle lance; il sudore e il sangue mi rigavano il viso che sembrava sorridere soltanto perché il sole mi ispirava delle smorfie. Un braccio mi passò intorno alle spalle, per sostenermi, non per carezzarmi; i legacci delle mie gambe caddero: ubriaco di sete e di sole, seguii quello sconosciuto fuori del carnaio dove sarebbero morti quelli che la vergogna stessa non aveva accettati. L'uomo che mi aveva comprato mi sostenne il capo per farmi bere l'unica sorsata d'acqua che l'otre conteneva ancora. Sulle prime pensai che si trattasse di amore: ma le sue mani non indugiavano sul mio corpo che per medicarmi. Il mio salvatore era un mercante di schiavi; piangeva perché le mie cicatrici gli avrebbero impedito di rivendermi al più alto prezzo nei bordelli. Quell'uomo mi portò ad Atene: sdraiata come una fanciulla, la città si adagiava 8 pudicamente fra il mare e noi. Il tempio sulla collina dormiva come un dio rosato, le strade puzzavano di orina, di olio rancido e di polvere divulgata dal vento. I muri delle case mi nascondevano il Partenone. Una lanterna ardeva sulla soglioa di una casa di donne: tutte le camere traboccavano di tappeti e di specchi d'argento. Il lusso della mia prigione mi fece temere che sarei stato costretto a starci sempre. Sgusciai per danzare nella saletta rotonda ammobiliata a tavolini bassi, più emozionato di quanto fossi la mattina della gara nella pista d'Olimpia. Una sera, un uomo alle labbra bionde venne a sedersi a un tavolo posto in piena luce. Per tutta la notte quel giovane un po' ubriaco mi guardò danzare. Ritornò il giorno dopo, ma non era solo. Il piccolo vecchio panciuto che l'accompagnava assomigliava a uno di quei pupazzi che una base di piombo tiene diritti nonostante gli assalti dei bambini per farli cadere. Si intuiva che quell'astuta palla d'uomo aveva un suo centro di gravità, il suo asse, una sua densità specifica che nessuno sforzo dei suoi contraddittori poteva modificare. Seguii il mio nuovo padrone, Socrate, nella sua casetta dove una donna trasandata lo aspettava con la bocca gonfia d'ingiurie; dei ragazzetti spettinati strillavano in cucina; i pidocchi invadevano i letti. Sentiva pesare su di sé la bassezza degli affetti familiari, che per lo più non sono che mancanza di rispetto. Ma invece di liberarsi a forza di rinunzie, quell'uomo aveva capito che il destino non è che un calco vuoto in cui noi versiamo la nostra anima, e che la cita e la morte ci adoperano come scultori. La sua saggezza multipla come gli aspetti delle cose compensava per lui i piaceri del lussurioso, i trionfi dell'atleta, i rischi eccitanti dell'avventuriero sul mare del caso. Povero, godeva delle ricchezze che avrebbe potuto possedere se non si fosse votato a profitti invisibili; casto, gustava ogni sera il sapore della dissolutezza che avrebbe potuto offrirsi se l'avesse giudicata utile per Socrate; brutto, godeva in tutta purezza della giusta beltà che la Sorte felice aveva conferito a Carmide, così che il corpo pressoché grottesco in cui il destino aveva allogato la sua anima non era più che una delle forme, non più preziosa, di Socrate infinito. Ho seguito di mattina lungo i campi di lavanda quel sublime mezzano che ogni 9 giorno presentava alla giovinezza di Atene qualche nuova verità nuda. L'ho scortato lungo il portico Regale dove la morte ululava per lui come una civetta sotto le spoglie di Anito. La cicuta era cresciuta in qualche posto nella campagna arida: le calunnie avevano avuto il tempo di maturare al sole del Disprezzo. Quel vegliardo che per tutta la sua vita aveva barattato una verità chiara contro una verità ancora più smagliante, un bel viso amato per un altro più bello, trovava ora il modo di cambiare la morte banale e lenta che le sue arterie gli andavano interiormente preparando per una morte più utile, più giusta, generata dai suoi stessi atti, nata da lui come una figlia devota che venisse a rimboccarlo nel letto al cadere del giorno. Quella morte abbastanza solida da durare qualche secolo intorno al suo ricordo s'inseriva nella serie di atti buoni che avevano costruito la sua vita, e prolungava il suo cammino verso una vita eterna. Era giusto che Atene innalzasse sul duro tufo delle Leggi quei templi ogni giorno più orgogliosi a divinità di ora in ora più perfette; ed era giusto che lui, lo spregiatore, seduto sotto quei portiti meno belli di un puro pensiero, insegnasse ai giovani a non fidarsi se non della loro anima. Era giusto che un servitore vestito a lutto venisse per ordine di Eliaste a tendergli quella coppa piena di un liquore amaro; ed era altresì giusto che quella morte serena aprisse una macchia in tanto azzurro e tuttavia non servisse che a farlo sembrare più blu. Una barca rientrava nel porto, ripiegando le sue due ali, bianca come il cigno del dio che i pellegrini erano andati a pregare. La cella era scavata nel fianco d'una roccia; la porta aperta lasciava entrare la brezza e il grido dei portatori d'acqua; dal fondo della prigione simile a una caverna, il Tempio di un pallido viola si rivelava a noi come un'Idea divina. Ma già le parole non sgorgavano che a fatica da quella bocca rasserenata: certamente quel saggio capiva che la sola ragione d'essere dei viali del Discorso, che lui aveva instancabilmente percorsi per tutta la vita, è di condurre a quella riva del silenzio dove batte il cuore degli dèi. Giunge sempre un momento in cui s'impara a tacere, forse perché si è finalmente degni di ascoltare, il momento in cui si cessa d'agire, perché si è imparato a guardare fissamente qualche cosa d'immobile, e questa serenità 10 deve essere quella dei morti. Stavo in ginocchio accanto al letto, il Maestro posò la mano sulla mia chioma svolazzante. Sapevo che la sua esistenza votata a uno scacco sublime traeva le sue principali virtù dai prestigi amorosi che pretendeva di raggiungere soltanto per andar oltre. A quel vecchio che non conosceva del mondo che i sobborghi di Atene, alcuni corpi amati non avevano soltanto insegnato l'Assoluto, ma altresì l'Universo. Il carceriere entrò, portando la coppa piena del succo fatale dell'innocente pianta; il mio Maestro la vuotò; gli tolsero i ferri; io massaggiai dolcemente le sue gambe congestionate dalla stanchezza, e la sua ultima frase fu che la voluttà è identica a sua sorella la pena. Io piansi ascoltando quelle parole che giustificavano la mia vita. Quando si fu coricato, io lo aiutai a coprirsi il volto con le pieghe del suo vecchio mantello. Sentii per l'ultima volta pesarmi sul viso il benevolo sguardo miope di quegli occhioni da cane triste. Fu allora che ci ordinò di sacrificare un gallo alla Medicina: se ne andò portandosi dietro il segreto di quella suprema malizia. Ma io ho creduto di capire che quell'uomo stanco di mezzo secolo di saggezza voleva farsi un buon sonno prima d'incorrere nella possibilità della Resurrezione; incerto sull'avvenire, dopo tutto soddisfatto di essere nato Socrate, gli piaceva l'idea di torcere il collo al messaggero dell'eterno mattino. Il sole tramontò; il gelo raggiunse quel cuore: diventare freddo è la vera morte del Saggio. Noi, i discepoli, sul punto di separarci per non rivederci mai più, non provavamo che indifferenza reciproca, irritazione e forse rancore: non eravamo già più che le membra sparse del Filosofo spento. Tutti svilupparono rapidamente quei germi di morte che la loro vita conteneva. Io solo, fatto invisibile a forza di velocità, continuo ad allacciare intorno ad alcune tombe la mia immensa parabola. Danzare sulla saggezza significa danzare sulla sabbia. Già la mia danza oltrepassa i bastioni delle città, i terrapieni delle Acropoli, e il mio corpo volteggiante come il fuso delle Parche svolge la sua propria morte. I miei piedi coperti di schiuma si posano ancora sulla cresta continuamente distrutta dalle onde, ma la mia fronte tocca gli astri. e il vento degli spazi mi strappa via quei 11 rari ricordi che m'impediscono di essere nudo. La chioma di Fedone spicca sulla notte dell'universo come una meteora triste. CLITENNESTRA O DEL CRIMINE Ora vi spiegherò tutto, Signori della Corte... Mi vedo davanti innumerevoli orbite di occhi, linee circolari di mani appoggiate alle ginocchia, di piedi nudi posati sulla pietra, di pupille fisse da cui sgorga lo sguardo, di bocche chiuse dove il silenzio sta maturando un giudizio. Mi vedo davanti delle assisi di pietra. Ho ucciso quell'uomo con un coltello, in una vasca da bagno, con l'aiuto di quel poveraccio del mio amante che non riusciva nemmeno a tenergli fermi i piedi. Conoscete la mia storia: non c'è uno fra di voi che non l'abbia ripetuta venti volte alla fine di qualche lungo pranzo, e non c'è una fra le vostre donne che per una notte non abbia sognato di essere Clitennestra. I vostri delittuosi pensieri, le vostre smanie inconfessabili affluiscono giù dai gradini e vengono a riversarsi in me, e così una specie di orribile andirivieni fa di voi la mia coscienza e di me il vostro grido. Io ho aspettato quell'uomo prima che avesse un nome, un viso, quando non era ancora per me che una sciagura lontana. È per lui che la mia nutrice mi ha fasciata quando uscivo da mia madre; è per tenere i conti della sua casa di uomo ricco che ho imparato il calcolo sulla lavagna della scuola. Per pavesare la strada dove si sarebbe forse posato il piede di quello sconosciuto che avrebbe fatto di me la sua serva, ho tessuto lenzuola e stendardi d'oro. Per troppa applicazione ho lasciato cadere qua e là sul morbido tessuto qualche goccia del mio sangue. La scelta è stata dei miei genitori: e anche se rapita da lui all'insaputa della mia famiglia, avrei comunque obbedito al desiderio di mio padre e di mia madre dal momento che da loro vengono i nostri gusti, e che l'uomo che noi amiamo è sempre quello che le nostre bisavole hanno sognato. Ho lasciato che sacrificasse l'avvenire dei nostri figli alle sue ambizioni di uomo: non ho nemmeno pianto quando mia figlia è morta per questo. Ho accettato di fondermi nel suo destino come un frutto in una bocca, per non dargli che una 12 sensazione di dolcezza. Signori della Corte, voi non l'avete conosciuto che appesantito dalla gloria, invecchiato da dieci anni di guerra, una specie di enorme idolo consumato dalle carezze delle donne asiatiche, schizzato dal fango delle trincee. Io sola gli sono stata vicina quand'era un dio. Ma gli uomini non sono fatti per passare l'intera vita a scaldarsi le mani alla fiamma di un unico focolare: eccolo partire verso nuove conquiste, lasciandomi dov'ero, come una grande casa vuota che echeggi del battito di un'inutile pendola. Dei soldati in licenza che si erano ubriacati mi raccontavano la sua vita negli accampamenti di retroguardia: l'amata d'Oriente era infestata di donne: ebree di Salonicco, armene di Tiflis i cui occhi blu sotto cupe palpebre facevano pensare a sorgenti sul fondo di una grotta buia, e turche pesanti e dolci come quella loro pasticceria fatta con il miele. Ricevevo delle lettere per i miei compleanni; passavo la vita a spiare sulla strada il passo claudicante del postino. Lottavo di giorno contro l'angoscia, di notte contro il desiderio, sempre contro il vuoto, questa forma codarda della sciagura. Gli anni si susseguivano lungo le strade deserte come una processione di vedove; la piazza del villaggio era nera di donne in lutto. Invidiavo quelle infelici che per rivale avevano soltanto la terra, sicure almeno che il loro uomo dormisse da solo. Egisto galoppava accanto a me per i campi abbandonati; la sua adolescenza coincideva con il mio periodo di vedovanza; mi riportava al tempo dei baci scambiati nei boschi con i cugini durante le vacanze d'estate. Non lo vedevo tanto come un amante quanto come un figlio che mi fosse nato dall'assenza; gli pagavo i conti del sellaio e dei mercanti di cavalli. Infedele a quell'uomo, continuavo ad imitarlo: Egisto non era per me che l'equivalente delle donne asiatiche. Signori della Corte, esiste un solo uomo al mondo: il resto, per ogni donna, non è che un errore o un malinconico surrogato. E l'adulterio non è sovente che una forma disperata di fedeltà. Se qualcuno io ho tradito, si tratta certamente di quel povero Egisto. Avevo bisogno di lui per sapere fino a che punto fosse insostituibile colui che amavo. Stanca di carezzarlo, salivo a condividere sulla torre l'insonnia della vedetta. Una notte, l'orizzonte 13 orientale s'infiammò tre ore prima dell'aurora. Troia bruciava: il vento proveniente dall'Asia trasportava sul mare faville e nuvole di cenere; i fuochi d'allegrezza delle sentinelle si accesero sulle cime: il Monte Athos e l'Olimpo, il Pindo e l'Erimanto fiammeggiavano come roghi; l'ultima lingua di fiamma si posava dinnanzi a me sul piccolo colle che da venticinque anni mi sbarrava l'orizzonte. Scendendo dalla torre, io mi munii di un coltello. Volevo uccidere Egisto, far lavare il legno del letto e il pavimento della camera, tirar fuori dal fondo di un baule il vestito che indossavo al momento di quella partenza, cancellare insomma quei dieci anni come un semplice zero nella somma dei miei giorni. Passando davanti allo specchio mi fermai per sorridere: di colpo, mi vidi; e questa vista mi ricordò che avevo i capelli grigi. Signori della Corte, dieci anni contano qualcosa: sono più lunghi della distanza tra la città di Troia e il castello di Micene; quell'angolo di passato è oltretutto assai più alto del luogo in cui ci troviamo, giacché il Tempo lo possiamo discendere e non risalire. Come negli incubi: ogni passo che facciamo ci allontana dalla meta invece di avvicinarla. Al posto della sua giovane moglie, il re avrebbe trovato sulla soglia una specie di cuoca obesa; l'avrebbe complimentata per l'ottimo stato dei cortili e delle cantine: non potevo più aspettarmi che qualche freddo bacio. Se ne avessi avuto il coraggio, mi sarei uccisa prima del momento del suo ritorno, per non leggergli sul viso la delusione di ritrovarmi sfiorita. Ma volevo almeno rivederlo prima di morire. Egisto piangeva nel mio letto, spaventato come un bambino colpevole che senta arrivare la punizione del padre; gli andai vicino; scelsi la mia voce più dolce e bugiarda per dirgli che nulla si era intuito dei nostri appuntamenti notturni, e che suo zio non aveva ragione alcuna per smettere di volergli bene. Invece speravo che lui sapesse già tutto, e che l'ira e il gusto della vendetta mi restituissero così un posto nei suoi pensieri. Per maggior sicurezza, feci unire alla posta destinata a lui sulla nave una lettera anonima che esagerava le mie colpe: stavo affilando il coltello che doveva aprirmi il cuore. Contavo che per strangolarmi usasse quelle sue mani così spesso baciate: sarei almeno morta in quella specie di abbraccio. Venne il giorno in cui la nave da guerra attraccò finalmente nel porto di Nauplia in un gran 14 chiasso di evviva e di fanfare. Ero in attesa sotto la Porta dei Leoni. Le ruote della vettura scricchiolavano sull'irta salita. Alla svolta della strada potei finalmente intravedere la carrozza, e mi accorsi che il mio uomo non era solo. Gli stava accanto quella specie di maga turca che si era scelta come parte del bottino. Era quasi una bambina; aveva dei begli occhi cupi in un viso giallo tatuato di ferite; lui le accarezzava il braccio per impedirle di piangere. L'aiutò a scendere dalla carrozza; mi abbracciò freddamente, mi disse che contava sulla mia generosità per far buona accoglienza a quella ragazza orfana di padre e di madre; strinse la mano a Egisto. Era cambiato, anche lui. Camminando aveva il fiato grosso; il suo collo enorme e rubicondo traboccava dal collo della camicia; la sua barba tinta di rosso si perdeva nelle pieghe del suo petto. Tuttavia era bello, ma bello come un toro invece di esserlo come un dio. Salì con noi i gradini del vestibolo che io avevo fatto tappezzare di porpora, come il giorno del mio matrimonio, perché il mio sangue non vi si vedesse. Lui mi guardava appena; a pranzo non si accorse che avevo fatto preparare tutti i suoi piatti favoriti; bevve due bicchieri, tre bicchieri di alcool; la busta strappata della lettera anonima gli usciva da una delle tasche: strizzava l'occhio dalla parte di Egisto; alla frutta farfugliò certe facezie da ubriaco sulle mogli che si fanno consolare. La serata insopportabilmente lunga si trascinò sulla terrazza infestata di zanzare: parlava turco con la sua compagna; lei era, pare, figlia di un capo tribù; da un movimento che fece, mi accorsi che aspettava un figlio. Forse era di lui, o di uno dei soldati che ridendo l'aveva snidata dal recinto paterno, spingendola a colpi di staffile verso le nostre trincee. Pare che avesse il dono di leggere il futuro: per distrarci, ci lesse la mano. Allora impallidì e si mise a battere i denti. Anch'io, Signori della Corte, conoscevo il futuro. Tutte le donne lo sanno: si aspettano sempre che tutto finisca male. Lui aveva l'abitudine di fare un bagno caldo prima di andare a letto. Io salii per preparare l'occorrente: il rumore dell'acqua che scendeva mi permetteva di singhiozzare senza ritegno. Il bagno si riscaldava con la legna. Una scure che serviva a spaccare i ciocchi era posata sul pavimento; non so perché, la nascosi dietro la gruccia degli asciugamani. Per un attimo ebbi voglia di mettere in 15 scena un incidente destinato a non lasciare tracce, dato che la sola colpevole sarebbe stata la lampada a petrolio. Ma volevo almeno obbligarlo in punto di morte a guardarmi in faccia: soltanto per questo lo ammazzavo, per costringerlo a rendersi conto che io non ero una cosa senza importanza che si può lasciar cadere o cedere al primo venuto. Chiamai a bassa voce Egisto; gli ordinai di aspettarmi sul pianerottolo. L'altro saliva pesantemente i gradini; si sfilò la camicia; la sua pelle nell'acqua calda si fece tutta viola. Gli stavo insaponando la nuca: tremavo così forte che il sapone mi scivolava continuamente dalle mani. Lui si sentiva mancare il fiato; mi ordinò duramente di aprire la finestra che era troppo alta per me; io diedi una voce a Egisto perché venisse ad aiutarmi. Appena fu entrato, io chiusi la porta a chiave. L'altro non se ne accorse, perché ci girava le spalle. Io gli assestai maldestramente un primo colpo che fu solo buono a scalfirgli le spalle; si alzò tutto in piedi; il suo viso gonfio si marezzava di chiazze nere; mugghiava come un bue; Egisto atterrito gli afferrò le ginocchia, forse per chiedere perdono. Lui perse l'equilibrio sul fondo scivoloso della vasca e cadde, con il viso nell'acqua, con un gorgoglio che sembrava un rantolo. Fu allora che io gli assestai il secondo colpo, spaccandogli la fronte. Ma credo proprio che fosse già morto: non era più che uno straccio molle e caldo. Si è parlato di un mare di sangue: in realtà ha sanguinato pochissimo. Ho sanguinato più io dando alla luce suo figlio. Dopo di lui, abbiamo ucciso la sua amante: era più generoso, se lo amava. La gente del villaggio si è messa dalla nostra parte; ha taciuto. Mio figlio era troppo giovane per dare libero corso al suo odio per Egisto. Passarono alcune settimane: avrei dovuto sentirmi calma, ma come voi sapete, Signori della Corte, non se ne esce mai del tutto, tutto ricomincia. Mi sono messa ad aspettarlo: è ritornato. Non scuotete la testa: vi dico che è ritornato. Lui che durante dieci anni non ha fatto lo sforzo di prendersi un congedo di otto giorni per ritornare da Troia, lui è ritornato dalla morte. È strano, Signori della Corte: si direbbe perfino che voi mi abbiate già giudicata sovente. Ma lo so, io, che i morti non se ne stanno in riposo: io mi rialzerò, trascinandomi dietro Egisto come un triste levriero. Quell'uomo io lo ritroverò in 16 qualche angolo del mio inferno. Poi mi abbandonerà: andrà a conquistare la provincia della Morte. Se il Tempo è il sangue dei vivi, l'Eternità dev'essere il sangue delle ombre. L'eternità che mi riguarda si consumerà nell'attesa del suo ritorno, e così ben presto io sarò la più sfinita di tutte le ombre. Allora lui ritornerà, per beffarsi di me, per accarezzare davanti a me la sua gialla strega turca abituata a giocare con le ossa delle tombe. Che cosa fare? Non si può proprio uccidere un morto. 17