Testo n. 1 Leopardi, dal Discorso di un italiano intorno alla poesia

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Testo n. 1 Leopardi, dal Discorso di un italiano intorno alla poesia
Testo n. 1
Leopardi, dal Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica
Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche
secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei
timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando
il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa
ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun
oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci
favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le
nuvole, e abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi beneficati
carezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio; quando la maraviglia tanto grata a noi che
spessissimo desideriamo di poter credere per poterci maravigliare, continuamente ci possedeva;
quando i colori delle cose quando la luce quando le stelle quando il fuoco quando il volo
degl’insetti quando il canto degli uccelli quando la chiarezza dei fonti tutto ci era nuovo o disusato,
nè trascuravamo nessun accidente come ordinario, nè sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo
fingevamo a talento nostro, e a talento nostro l’abbellivamo; quando le lagrime erano giornaliere, e
le passioni indomite e svegliatissime, nè si reprimevano forzatamente e prorompevano arditamente.
[…]
Non però va creduto, come pare che molti facciano, che col tempo sia scemata all’immaginazione la
forza, e venga scemando tuttavia secondoché s’aumenta il dominio dell’intelletto: non la forza ma
l’uso dell’immaginazione è scemato e scema; il quale e negli antichi nè per giovanezza nè per
maturità nè per vecchiezza s’allentava mai più che un poco, e in noi, come piglia piede la signoria
dell’intelletto, così va calando finattantoch’in ultimo quasi manca. Resta la forza ma oziosa, restano
i campi per li quali soleva esercitarsi la foga della fantasia, ma chiusi dai ripari dell’intelletto: a
volere che l’immaginazione faccia presentemente in noi quegli effetti che facea negli antichi, e fece
un tempo in noi stessi, bisogna sottrarla dall’oppressione dell’intelletto, bisogna sferrarla e
scarcerarla, bisogna rompere quei recinti: questo può fare il poeta, questo deve; non contenerla
dentro le stesse angustie e fra le stesse catene e nella stessa schiavitù, secondo la portentosa dottrina
romantica: e ogni volta che l’immaginativa è rimessa da un vero poeta nella condizione che ho
detto, chiamo il mondo in testimonio dell’attività ch’ella palesa in questo medesimo tempo nelle
medesime nostre menti.
[...]
Ora da tutto questo e dalle altre cose che si son dette, agevolmente si comprende che la poesia
dovette essere agli antichi oltremisura più facile e spontanea che non può essere presentemente a
nessuno, e che a’ tempi nostri per imitare poetando la natura vergine e primitiva, e parlare il
linguaggio della natura (lo dirò con dolore della condizione nostra, con disprezzo delle risa dei
romantici) è pressoché necessario lo studio lungo e profondo de’ poeti antichi.
[...]
Vogliamo che sieno essenzialmente comuni alla poesia greca e latina colla presente e con quella di
tutti i tempi, le cose naturali necessarie universali perpetue, non le passeggere, non le invenzioni
arbitrarie degli uomini, non le credenze non i costumi particolari di questo o di quel popolo, non i
caratteri non le forme speciali di questo o di quel poeta […]
[...]
L’osservanza cieca e servile delle regole e dei precetti, l’imitazione esangue e sofistica, in somma la
schiavitù e l’ignavia del poeta, sono queste le cose che noi vogliamo? sono queste le cose che si
vedono e s’ammirano in Dante nel Petrarca nell’Ariosto nel Tasso? dei quali, e massimamente dei
tre primi, è stato detto mille volte che sono e similissimi agli antichi, e diversissimi. Che secolo è
questo? a che si grida e si strepita? dove sono i nemici? chi loda più la Sofonisba del Trissino
perch’è modellata secondo le regole di Aristotele, e l’esempio dei tragici greci? chi legge
l’Avarchide dell’Alamanni perch’è un’immagine fedelissima dell’Iliade? Ma l’avere queste cose in
dispregio, e il ricercare quelle che ho dette più sopra, non ce l’hanno insegnato i romantici.
[…]
Venendo dunque da questi esempi al proposito mio, dico che gli effetti della sensibilità, come
gl’imitavano gli antichi naturalmente, così gl’imitano i romantici e i pari loro snaturatissimamente.
Imitavano gli antichi non altrimenti queste che le altre cose naturali, con una divina sprezzatura,
schiettamente e, possiamo dire, innocentemente, ingenuamente, scrivendo non come chi si
contempla e rivolge e tasta e fruga e spreme e penetra il cuore, ma come chi riceve il dettato di esso
cuore, e così lo pone in carta senza molto o punto considerarlo; di maniera che ne’ versi loro o non
parlava o non parea che parlasse l’uomo perito delle qualità e degli affetti e delle vicende comunque
oscure e segrete dell’animo nostro, non lo scienziato non il filosofo non il poeta, ma il cuore del
poeta, non il conoscitore della sensibilità, ma la sensibilità in persona; e quindi si mostravano come
inconsapevoli d’essere sensitivi e di parlare da sensitivi, e il sentimentale era appresso loro qual è il
verace e puro sentimentale, spontaneo modesto verecondo semplice ignaro di se medesimo: e in
questo modo gli antichi imitavano gli effetti della sensibilità con naturalezza. Che dirò dei romantici
e del gran nuvolo di scrittori sentimentali, ornamento e gloria de’ tempi nostri? Che altro occorre
dire se non che fanno tutto l’opposto delle cose specificate qui sopra? laonde appresso loro parla
instancabilmente il poeta, parla il filosofo, parla il conoscitore profondo e sottile dell’animo umano,
parla l’uomo che sa o crede per certo d’essere sensitivo, è manifesto il proposito d’apparir tale,
manifesto il proposito di descrivere, manifesto il congegnamento studiato di cose formanti il
composto sentimentale, e il prospetto e la situazione romantica, e che so io, manifesta la scienza,
manifestissima l’arte per cagione ch’è pochissima: e in questo modo che naturalezza può essere in
quelle imitazione dove il patetico non ha nessuna sembianza di casuale nè di negletto nè di
spontaneo, ma è nudo e palese l’intendimento risoluto dello scrittore, di fare un libro o una novella
o una canzone o un passo sentimentale: e ometto come il patetico sia sparso e gittato e versato per
tutto, entri o non entri, e fatti sensitivi, sto per dire, fino i cani o cose simili, con difetto non solo di
naturalezza nella maniera, ma di convenienza nelle cose, e di giudizio e di buon senno nello
scrittore.
[…]
Altro splendidissimo esempio di quella immortale naturalezza è Virgilio, nel qual poeta fu per certo
una sensibilità così viva e bella quanto presentemente in pochissimi. De’ cui molti e divini luoghi
sentimentali non posso fare ch’io non ricordi la favola d’Orfeo ch’è nel fine delle Georgiche, e di
questa non reciti quella similitudine:
Qualis populea maerens Philomela sub umbra
Amissos queritur foetus, quos durus arator
Observans, nido implumes detraxit: at illa
Flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
Integrat, et moestis late loca questibus implet.
[...]
Dunque le cetre dei poeti avranno per l’avvenire una corda sola? e ciaschedun poema assolutamente
e tutti rispettivamente saranno unisoni? dunque non ci saranno epopee, non canzoni trionfali, non
inni non odi non canti di nessuna sorta se non patetici? non parlo del quanto è da stimare che
accresceremo il diletto della poesia, togliendole tanta parte di quella varietà senza la quale, si può
dir tutte le cose di questo mondo, non che la, vengono in fastidio così per poco. Ma che diremo dei
cantori passati? Dunque Virgilio non fu poeta fuorché nel quarto dell’Eneide, e nell’episodio di
Niso ed Eurialo, e che so io? Dunque il Petrarca dove non parlò d’amore non fu poeta? dunque
Pindaro, perché non fu sentimentale, non fu poeta? dunque Omero non fu poeta?
Leopardi, dallo Zibaldone
Testo n. 2
[340]In somma considerate gli antichi e i moderni: vedrete evidentemente una gradazione
incontrastabile e notabilissima di grandezza, sempre in ragion diretta dell'antichità. Cominciando
dagli uomini di Omero, un palmo più alti dei moderni [...] e dalle piramidi di Egitto ec. discendete
alle imprese nobilissime e grandiosissime, ai lavori immensi, alle fabbriche, alla solidità delle loro
costruzioni fatte per l'eternità (cosa propria anche de' tempi bassi, e fino al cinque o seicento), alla
profondissima impronta delle monete, all'eroismo, e a tutti gli altri generi di grandezza che
distinguono i greci, i romani ec. E poi venendo ai tempi bassi e gradatamente ai moderni, vedete
come l'uomo si vada sensibilmente impiccolendo, finchè giunge a quest'ultimo grado di piccolezza
generale e individuale, e d'impotenza in cui lo vediamo oggidì. In maniera che l'eterna fonte del
grande (come del bello) sono gli scrittori, le opere d'ogni sorta, gli esempi, i costumi, i sentimenti
degli antichi; e degli antichi si pasce ogni anima straordinaria de' nostri tempi.[20 novembre 1820]
Testo n. 3
Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l'immaginativa è capace dell'infinito,
o di concepire infinitamente, ma solo dell'indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci
diletta perchè l'anima non vedendo i confini, riceve l'impressione di una specie d'infinità, e
confonde l'indefinito coll'infinito; non però comprende nè concepisce effettivamente nessuna
infinità. Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli,
l'anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente,
un'impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua [473]immaginazione, o concezione o
idea. La quale perciò, sebbene la riempia e diletti e soddisfaccia più di qualunque altra cosa
possibile in questa terra, non però la riempie effettivamente, nè la soddisfa, e nel partire non la
lascia mai contenta, perchè l'anima sente e conosce o le pare, di non averla concepita e veduta tutta
intiera, o che creda di non aver potuto, o di non aver saputo, e si persuada che sarebbe stato in suo
potere di farlo, e quindi provi un certo pentimento, nel che ha torto in realtà, non essendo colpevole.
[4 gennaio 1821]
Testo n. 4
La poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo, come la vera e
semplice (voglio dire non mista) poesia immaginativa fu unicamente ed esclusivamente propria de'
secoli Omerici, o simili a quelli in altre nazioni. Dal che si può ben concludere che la poesia non è
quasi propria de' nostri tempi, e non farsi maraviglia, s'ella ora langue come vediamo, e se è così
raro non dico un vero poeta, ma una vera poesia. Giacchè il sentimentale è fondato e sgorga dalla
filosofia, dall'esperienza, dalla cognizione [735]dell'uomo e delle cose, in somma dal vero, laddove
era della primitiva essenza della poesia l'essere ispirata dal falso. E considerando la poesia in quel
senso nel quale da prima si usurpava, appena si può dire che la sentimentale sia poesia, ma piuttosto
una filosofia, un'eloquenza, se non quanto è più splendida, più ornata della filosofia ed eloquenza
della prosa. Può anche esser più sublime e più bella, ma non per altro mezzo che d'illusioni, alle
quali non è dubbio che anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere, e più di quello
che facciano gli stranieri.
Testo n. 5
[1798]Le parole notte notturno ec. le descrizioni della notte ec. sono poeticissime, perchè la notte
confondendo gli oggetti, l'animo non ne concepisce che un'immagine vaga, indistinta, incompleta, sì
di essa, che quanto ella contiene. Così oscurità, profondo. ec. ec. [28 settembre 1821]
Testo n. 6
Gridano che la poesia debba esserci contemporanea, cioè adoperare il linguaggio e le idee e
dipingere i costumi, e fors'anche gli accidenti de' nostri tempi. Onde condannano l'uso delle antiche
finzioni, opinioni, costumi, avvenimenti. Puoi vedere la p.3152. Ma io dico che tutt'altro potrà esser
contemporaneo a questo secolo fuorchè la poesia. Come può il poeta adoperare il linguaggio e
seguir le idee e mostrare i costumi d'una generazione d'uomini per cui la gloria è un fantasma, la
libertà la patria l'amor patrio non esistono, l'amor vero è una [2945]fanciullaggine, e insomma le
illusioni son tutte svanite, le passioni, non solo grandi e nobili e belle, ma tutte le passioni estinte?
Come può, dico, ciò fare, ed esser poeta? Un poeta, una poesia, senza illusioni senza passioni, sono
termini che reggano in logica? Un poeta in quanto poeta può egli essere egoista e metafisico? e il
nostro secolo non è tale caratteristicamente? come dunque può il poeta essere caratteristicamente
contemporaneo in quanto poeta?
Osservisi che gli antichi poetavano al popolo, o almeno a gente per la più parte non dotta, non
filosofa. I moderni all'opposto; perchè i poeti oggidì non hanno altri lettori che la gente colta e
istruita, e al linguaggio e all'idee di questa gente vuolsi che il poeta si conformi, quando si dice ch'ei
debba esser contemporaneo; non già al linguaggio e alle idee del popolo presente, il quale delle
presenti nè delle antiche poesie non sa nulla nè partecipa in conto alcuno. Ora ogni uomo colto e
istruito oggidì, è immancabilmente egoista e filosofo, privo d'ogni notabile illusione, spoglio di vive
passioni; e ogni donna altresì. Come può il poeta essere per [2946]carattere e per ispirito,
contemporaneo e conforme a tali persone in quanto poeta? che v'ha di poetico in esse, nel loro
linguaggio, pensieri, opinioni, inclinazioni, affezioni, costumi, usi e fatti? che ha o ebbe o potrà mai
aver di comune la poesia con esso loro?
Perdóno dunque se il poeta moderno segue le cose antiche, se adopra il linguaggio e lo stile e la
maniera antica, se usa eziandio le antiche favole ec., se mostra di accostarsi alle antiche opinioni, se
preferisce gli antichi costumi, usi, avvenimenti, se imprime alla sua poesia un carattere d'altro
secolo, se cerca in somma o di essere, quanto allo spirito e all'indole, o di parere antico. Perdóno se
il poeta, se la poesia moderna non si mostrano, non sono contemporanei a questo secolo, poichè
esser contemporaneo a questo secolo, è, o inchiude essenzialmente, non esser poeta, non esser
poesia. Ed ei non si può essere insieme e non essere. [...] E non è conveniente a filosofi e ad un
secolo filosofo il richieder cosa impossibile di natura sua, e contraddittoria in se stessa e ne' suoi
propri termini.
[11-12 luglio 1823]
Testo n. 7
Poco ai tempi d'Omero valeva ed operava quello che negli uomini si chiama cuore, moltissimo
l'immaginazione. Oggi per lo contrario (e così a' tempi di Virgilio) l'immaginazione [3155]è
generalmente sopita, agghiacciata, intorpidita, estinta; difficilissimo è ravvivarla anche al gran
poeta, il quale altresì difficilmente può esser oggi gagliardamente ispirato dalla immaginativa, ed
esser grande per quella parte che propriamente spetta all'immaginazione e per ciò che da lei deriva,
come furono Omero e Dante. Se l'animo degli uomini colti è ancor capace d'alcuna impressione,
d'alcun sentimento vivo, sublime e poetico, questo appartien propriamente al cuore. Ed infatti
oggidì appresso gli altri poeti di verso e di prosa, il cuore è sottentrato universalmente e quasi del
tutto all'immaginazione, quello gl'ispira, quello essi mirano a commuovere, e su quello realmente
operano sempre ch'ei sono atti a riuscire nel loro intento. I poeti d'immaginazione oggidì,
manifestano sempre lo stento e lo sforzo e la ricerca, e siccome non fu la immaginazione che li
mosse a poetare, ma essi che si espressero dal cervello e dall'ingegno, [3156]e si crearono e
fabbricarono una immaginazione artefatta, così di rado o non mai riescono a risuscitare e
riaccendere la vera immaginazione, già morta, nell'animo de' lettori, e non fanno alcun buono
effetto. [agosto 1823]
Testo n. 8
[3976] Non è propria de' tempi nostri altra poesia che la malinconica, nè altro tuono di poesia che
questo, sopra qualunque subbietto ella possa essere. Se v'ha oggi qualche vero poeta, se questo
sente mai veramente qualche ispirazione di poesia, e va poetando seco stesso, o prende a scrivere
sopra qualunque soggetto, da qualunque causa nasca detta ispirazione, essa è certamente
malinconica, e il tuono che il poeta piglia naturalmente o seco stesso o con gli altri nel seguir questa
inspirazione (e senza inspirazione non v'è poesia degna di questo nome) è il malinconico.
Qualunque sia l'abito, la natura, le circostanze ec. del poeta, pur ch'ei sia di nazione civile, così gli
accade, e come a lui così a un altro che non avrà di comune con lui se non questo solo. ec. Fra gli
antichi avveniva tutto il contrario. Il tuono naturale che rendeva la loro cetra era quello della gioia o
della forza della solennità ec. La poesia loro era tutta vestita a festa, anche, in certo modo, quando il
subbietto l'obbligava ad esser trista. Che vuol dir ciò? O che gli antichi avevano meno sventure reali
di noi, (e questo non è forse vero), o che meno le sentivano e meno le conoscevano, il che viene a
esser lo stesso, e a dare il medesimo risultato, cioè che gli antichi erano dunque meno infelici de'
moderni. E tra gli antichi metto anche, proporzionatamente, l'Ariosto ec. [12 dicembre1823]
Testo n. 9
Bisogna distinguere tra il fine della natura generale e quello della umana, il fine dell'esistenza
universale, e quello della esistenza umana, o per meglio dire, il fine naturale dell'uomo, e quello
della sua esistenza. Il fine naturale dell'uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza
sentita, non è nè può essere altro che la felicità, e quindi il piacere, suo proprio; e questo è anche il
fine unico del vivente in quanto a tutta la somma della sua vita, azione, pensiero. Ma il fine della
sua esistenza, o vogliamo dire il fine della natura nel dargliela e nel modificargliela, come anche nel
modificare l'esistenza degli altri enti, e in somma il fine dell'esistenza generale, e di quell'ordine e
modo di essere che hanno le cose e per se, e nel loro rapporto alle altre, non è certamente in niun
modo la felicità nè il piacere dei viventi, non solo perchè questa felicità è impossibile (teoria del
piacere), ma anche perchè sebbene la natura nella modificazione di ciascuno animale e delle altre
cose per rapporto a loro, ha provveduto e forse avuto la mira ad alcuni piaceri di essi animali, queste
cose sono un nulla rispetto a quelle nelle quali il modo di essere di ciascun vivente, e delle altre
cose rispetto a loro, risultano necessariamente e costantemente in loro dispiacere; sicchè e la somma
e la intensità del dispiacere nella vita intera di ogni animale, passa senza comparazione [4129]la
somma e intensità del suo piacere. Dunque la natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il
piacere nè la felicità degli animali; piuttosto al contrario; ma ciò non toglie che ogni animale abbia
di sua natura per necessario, perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la sua felicità, e così ciascuna
specie presa insieme, e così la università dei viventi. Contraddizione evidente e innegabile
nell'ordine delle cose e nel modo della esistenza, contraddizione spaventevole; ma non perciò men
vera: misterio grande, da non potersi mai spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni
verità o falsità assoluta, e rinunziando in certo modo anche al principio di cognizione, non potest
idem simul esse et non esse. [5-6 aprile 1825]
Testo n. 10
[4418] All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di
continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi
una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso
coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo
genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita
comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli
occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. [30 novembre 1828]
Testo n. 11
[4426] Un oggetto qualunque, p.e. un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta
alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto
qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale
e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perchè il presente, qual ch'egli sia, non
può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano,
nell'indefinito, nel vago. [14 dicembre 1828]
Testo n. 12
[4475] Ma tali memorie, leggende e canti, non possono trovarsi se non in popoli che abbiano
attualmente una vita e un interesse nazionale; dico vita e interesse che risieda veramente nel popolo:
e però non possono trovarsi se non che in istati democratici, o in istati di monarchie popolari o
semipopolari, (come le antiche e del medio evo), o in istati di lotta nazionale con gente forestiera
odiata popolarmente (come, al tempo del Cid, degli spagnuoli cogli arabi), o finalmente in istati di
tirannie combattute al di dentro (come nella Grecia moderna, e in più provincie ed epoche della
Grecia antica e sue colonie). Ma nello stato in cui le nazioni d'Europa sono ridotte dalla fine del 18°
secolo, stato di tranquilla monarchia assoluta, i popoli (fuorchè il greco) non hanno potuto nè
possono avere di tali tradizioni e poesie. Le nazioni non hanno eroi; se ne avessero, questi non
interesserebbero il popolo; e gli antichi che si avevano, sono stati dimenticati da' popoli, da che
questi, divenendo stranieri alla cosa pubblica, sono anche divenuti stranieri alla propria storia. Se
però si può chiamare lor propria una storia che non è di popolo ma di principi. In fatti nessuna
rimembranza eroica, nessuna affezione, perfetta ignoranza della storia nazionale, sì antica, sì ancora
recentissima, ne' popoli della moderna Europa. In siffatti stati, gli eroi delle leggende popolari non
sono altri che Santi o innamorati: argomenti, al più, di novelle, non di poemi o canti eroici, nè di
tragedie eroiche.
Quindi apparisce che il poema epico, anzi ancora il dramma nazionale eroico, di qualunque sorta,
e sia classico o romantico, è quasi impossibile alle letterature moderne. Il vizio notato da Niebuhr
nell'Eneide, è comune alle moderne epopee, al Goffredo particolarmente. Meglio, per questo capo, i
Lusiadi; i cui fatti anco, benchè recentissimi, abbondavano di poetico popolare, per la gran
lontananza, ch'equivale [4476]all'antichità, massime trattandosi di regioni oscure, e diversisime
dalle nostrali. Meglio ancora l'Enriade, il cui protagonista vivea nella memoria del popolo, non
veramente come eroe, ma come principe popolare.
Oltracciò quelle tradizioni di cui parla Niebuhr, dubito che possano aver luogo se non in tempi di
civiltà men che mezzana (come gli omerici, quei de' romani sotto i re, de' bardi, il medio evo); nei
quali hanno credito i racconti maravigliosi che corrono dell'antichità, e il moderno diviene antico in
poco tempo. Ma in giorni di civiltà provetta, come quei di Virgilio e i nostri, l'antico, per lo
contrario, divien come moderno; ed anche tra il popolo non corrono altre leggende che quelle che
narransi ai fanciulli, gli uomini non ne hanno più, non pur dell'eroiche, ma di sorta alcuna; e non
v'hanno luogo altre poesie fondate in narrative popolari, se non del genere del Malmantile. 1
Da queste osservazioni risulterebbe che dei 3 generi principali di poesia, il solo che veramente
resti ai moderni, fosse il lirico; (e forse il fatto e l'esperienza de' poeti moderni lo proverebbe);
genere, siccome primo di tempo, così eterno ed universale, cioè proprio dell'uomo perpetuamente in
ogni tempo ed in ogni luogo, come la poesia; la quale consistè da principio in questo genere solo, e
la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed è il più
veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son liriche.
- Ed anco [4477]in questa circostanza di non aver poesia se non lirica, l'età nostra si riavvicina alla
primitiva. - Del resto quel che della poesia epica e drammatica, è anche della storia. Che
importerebbe, che impressione, che effetto farebbe al popolo di Milano, di Firenze o di Roma, se
oggi un nuovo Erodoto venisse a leggergli la storia d'Italia? [29-30 marzo 1829]
1 Malmantile riconquistato di Lorenzo Lippi.
Testo n. 13
La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale
dell'universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica [4486]mortale
di tutti gl'individui d'ogni genere e specie, ch'ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto
medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell'ordine attuale delle cose,
non dà una grande idea dell'intelletto di chi è o fu autore di tale ordine. [11 aprile 1829]
Testo n. 14
Leopardi, da Operette morali, Dialogo della Natura e di un Islandese
Natura. [...] Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime,
sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi
offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte:
come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi,
quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi
avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei. [...]Tu mostri non aver posto
mente che la vita di quest'universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate
ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del
mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per
tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce;
e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che
nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo,
conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?
Testo n. 15
Leopardi, dai Paralipomeni della Batracomiomachia, canto I, ottave 34 - 41
34
Era nel campo il conte Leccafondi,
Signor di Pesafumo e Stacciavento;
Topo raro a' suoi dì, che di profondi
Pensieri e di dottrina era un portento:
Leggi e stati sapea d'entrambi i mondi,
E giornali leggea più di dugento;
Al cui studio in sua patria aveva eretto,
Siccom'oggi diciamo, un gabinetto.
35
Gabinetto di pubblica lettura,
Con legge tal, che da giornali in fuore,
Libro non s'accogliesse in quelle mura,
Che di due fogli al più fosse maggiore;
Perché credea che sopra tal misura
Stender non si potesse uno scrittore
Appropriato ai bisogni universali
Politici, economici e morali.
36
Pur dagli amici in parte, e dalle stesse
Proprie avvertenze a poco a poco indotto,
Anche al romanzo storico concesse
Albergar coi giornali, e che per otto
Volumi o dieci camminar potesse;
E in fin, come dimostro è da quel dotto
Scrittor che sopra in testimonio invoco,2
Alla tedesca poesia diè loco.
37
La qual d'antichità supera alquanto
Le semitiche varie e la sanscrita,3
E parve al conte aver per proprio vanto
Sola il buon gusto ricondurre in vita,
Contro il fallace oraziano canto,
A studio, per uscir della via trita,
Dando tonni al poder, montoni al mare;
Gran fatica, e di menti al mondo rare.
2 Il “tedesco filologo” della strofa 16
3 Probabile ironia sulle tesi di J. W. Kuithan e E. Jaekel
38
D'arti tedesche ancor fu innamorato,
E chiamavale a se con gran mercede:
Perché, giusta l'autor sopra citato,
Non eran gli obelischi ancora in piede,
Né piramide il capo avea levato,
Quando l'arti in Germania avean lor sede,
Ove il senso del bello esser più fino
Veggiam, che fu nel Greco o nel Latino.
39
La biblioteca ch'ebbe, era guernita
Di libri di bellissima sembianza,
Legati a foggia varia, e sì squisita,
Con oro, nastri ed ogni circostanza,
Ch'a saldar della veste la partita
Quattro corpi non erano abbastanza.
Ed era ben ragion, che in quella parte
Stava l'utilità, non nelle carte.
40
Lascio il museo, l'archivio, e delle fiere
Il serbatoio, e l'orto delle piante,
E il portico, nel quale era a vedere,
Con baffi enormi e coda di gigante,
La statua colossal di Lucerniere,
Antico topolin filosofante,
E dello stesso una pittura a fresco,
Pur di scalpello e di pennel tedesco.
41
Fu di sua specie il conte assai pensoso,
Filosofo morale, e filotopo;
E natura lodò che il suo famoso
Poter mostri quaggiù formando il topo;
Di cui l'opre, l'ingegno e il glorioso
Stato ammirava; e predicea che dopo
Non molto lunga età, saria matura
L'alta sorte che a lui dava natura.
Paralipomeni della Batracomiomachia, canto IV, ottave 1 – 28 canto I
1
Maraviglia talor per avventura,
Leggitori onorandi e leggitrici,
Cagionato v'avrà questa lettura.
E come son degli uomini i giudici
Facili per usanza e per natura,
Forse, benché benevoli ed amici,
Più d'un pensiero in mente avrete accolto,
Ch'essere io deggia o menzognero o stolto,
2
Perché le cose del topesco regno,
Che son per vetustà da noi lontane
Tanto che come appar da più d'un segno,
Agguaglian le antichissime indiane,
I costumi, il parlar, l'opre, l'ingegno,
E l'infime faccende e le sovrane,
Quasi ieri o l'altr'ier fossero state,
Simili a queste nostre ho figurate.
3
Ma con la maraviglia ogni sospetto
Come una nebbia vi torrà di mente
Il legger, s'anco non avete letto,
Quel che i savi han trovato ultimamente,
Speculando col semplice intelletto
Sopra la sorte dell'umana gente,
Che d'Europa il civil presente stato
Debbe ancor primitivo esser chiamato.
4
E che quei che selvaggi il volgo appella
Che nei più caldi e nei più freddi liti
Ignudi al sole, al vento, alla procella,
E sol di tetto natural forniti,
Contenti son da poi che la mammella
Lasciàr, d'erbe e di vermi esser nutriti,
Temon l'aure, le frondi, e che disciolta
Dal Sol non caggia la celeste volta;
5
Non vita naturale e primitiva
Menan, come fin qui furon creduti,
Ma per corruzion sì difettiva,
Da una perfetta civiltà caduti,
Nella qual come in propria ed in nativa
I padri de' lor padri eran vissuti:
Perché stato sì reo, come il selvaggio,
Estimar natural non è da saggio:
6
Non potendo mai star che la natura,
Che al ben degli animali è sempre intenta,
E più dell'uom che principal fattura
Esser di quella par che si consenta
Da tutti noi, sì povera e sì dura
Vita ove pur pensando ei si sgomenta,
Come propria e richiesta e conformata
Abbia al genere uman determinata.
7
Né manco sembra che possibil sia
Che lo stato dell'uom vero e perfetto
Sia posto in capo di sì lunga via
Quanta a farsi civile appar costretto
Il gener nostro a misurare in pria,
U' son cent'anni un dì quanto all'effetto:
Sì lento è il suo cammin per quelle strade
Che il conducon dal bosco a civiltade.
8
Perché ingiusto e crudel sarebbe stato,
Né per modo nessun conveniente,
Che all'infelicità predestinato,
Non per suo vizio o colpa anzi innocente,
Per ordin primo e natural suo fato
Fosse un numero tal d'umana gente,
Quanta nascer convenne, e che morisse
Prima che a civiltà si pervenisse.
9
Resta che il viver zotico e ferino
Corruzion si creda e non natura,
E che ingiuria facendo al suo destino
Caggia quivi il mortal da grande altura,
Dico dal civil grado, ove il divino
Senno avea di locarlo avuto cura:
Perché se al ciel non vogliam fare oltraggio,
Civile ei nasce, e poi divien selvaggio.
10
Questa conclusion che ancor che bella
Parravvi alquanto inusitata e strana,
Non d'altronde provien se non da quella
Forma di ragionar diritta e sana
Ch'a priori in iscola ancora s'appella,
Appo cui ciascun'altra oggi par vana,
La qual per certo alcun principio pone,
E tutto l'altro a quel piega e compone.
11
Per certo si suppon che intenta sia
Natura sempre al ben degli animali,
E che gli ami di cor come la pia
Chioccia fa del pulcin che ha sotto l'ali:
E vedendosi al tutto acerba e ria
La vita esser che al bosco hanno i mortali,
Per forza si conchiude in buon latino
Che la città fu pria del cittadino.
12
Se libere le menti e preparate
Fossero a ciò che i fatti e la ragione
Sapessero insegnar, non inchinate
A questa più che a quella opinione,
Se natura chiamar d'ogni pietate
E di qual s'è cortese affezione
Sapesser priva, e de' suoi figli antica
E capital carnefice e nemica;
13
O se piuttosto ad ogni fin rivolta,
Che al nostro che diciamo o bene o male;
E confessar che de' suoi fini è tolta
La vista al riguardar nostro mortale,
Anzi il saper se non da fini sciolta
Sia veramente, e se ben v'abbia, e quale;
Diremmo ancor con ciascun'altra etade
Che il cittadin fu pria della cittade.
14
Non è filosofia se non un'arte
La qual di ciò che l'uomo è risoluto
Di creder circa a qualsivoglia parte,
Come meglio alla fin l'è conceduto,
Le ragioni assegnando empie le carte
O le orecchie talor per instituto,
Con più d'ingegno o men, giusta il potere
Che il maestro o l'autor si trova avere.
15
Quella filosofia dico che impera
Nel secol nostro senza guerra alcuna,
E che con guerra più o men leggera
Ebbe negli altri non minor fortuna,
Fuor nel prossimo a questo, ove se intera
La mia mente oso dir, portò ciascuna
Facoltà nostra a quelle cime il passo
Onde tosto inchinar l'è forza al basso.
16
In quell'età, d'un'aspra guerra in onta,
Altra filosofia regnar fu vista,
A cui dinanzi valorosa e pronta
L'età nostra arretrossi appena avvista
Di ciò che più le spiace e che più monta,
Esser quella in sostanza amara e trista;
Non che i principii in lei né le premesse
Mostrar false da se ben ben sapesse.
17
Ma false o vere, ma disformi o belle
Esser queste si fosse o no mostrato,
Le conseguenze lor non eran quelle
Che l'uom d'aver per ferme ha decretato,
E che per ferme avrà fin che le stelle
D'orto in occaso andran pel cerchio usato:
Perché tal fede in tali o veri o sogni
Per sua quiete par che gli bisogni.
18
Ed ancor più, perché da lunga pezza
È la sua mente a cotal fede usata,
Ed ogni fede a che sia quella avvezza
Prodotta par da coscienza innata:
Che come suol con grande agevolezza
l'usanza con natura esser cangiata,
Così vien facilmente alle persone
Presa l'usanza lor per la ragione.
19
Ed imparar cred'io che le più volte
Altro non sia, se ben vi si guardasse,
Che un avvedersi di credenze stolte
Che per lungo portar l'alma contrasse,
E del fanciullo racquistar con molte
Cure il saper ch'a noi l'età sottrasse;
Il qual già più di noi non sa né vede,
Ma di veder né di saper non crede.
20
Ma noi, s'è fuor dell'uso, ogni pensiero
Assurdo giudichiam tosto in effetto,
Né pensiam ch'un assurdo il mondo e il vero
Esser potrebbe al fral nostro intelletto:
E mistero gridiam, perch'a mistero
Riesce ancor qualunque uman concetto,
Ma i misteri e gli assurdi entro il cervello
Vogliam foggiarci come a noi par bello.
21
Or, leggitori miei, scendendo al punto
Al qual per lunga e tortuosa via
Sempre pure intendendo, ecco son giunto,
Potete ormai veder che non per mia
Frode o sciocchezza avvien che tali appunto
Si pingan nella vostra fantasia
De' topi gli antichissimi parenti
Quali i popoli son che abbiam presenti:
22
Ma procede da ciò, che il nostro stato
Antico è veramente e primitivo
Non degli uomini sol, ma in ogni lato
D'ogni animal che in aria o in terra è vivo.
Perché ingiusto saria che condannato
Fosse di sua natura a un viver privo
Quasi d'ogni contento e pien di mali
L'interminato stuol degli animali.
23
Per tanto in civiltà, data secondo
Il grado naturale a ciascheduna,
Tutte le specie lor vennero al mondo,
E tutte poscia da cotal fortuna
Per lor proprio fallir caddero in fondo,
E infelici son or; né causa alcuna
Ha il ciel però dell'esser lor sì tristo
Il qual bene al bisogno avea provvisto.
24
E se colma d'angoscia e di paura
Del topolin la vita ci apparisce,
Il qual mirando mai non s'assicura,
Fugge e per ogni crollo inorridisce,
Corruzion si creda e non natura
La miseria che il topo oggi patisce,
A cui forse il menàr quei casi in parte
Che seguitando narran queste carte.
25
E la dispersion della sua schiatta
Ebbe forse d'allor cominciamento,
La qual raminga in su la terra è fatta.
Perduto il primo e proprio alloggiamento.
Come il popol giudeo, che mal s'adatta
Esule, sparso, a cento sedi, e cento,
E di Solima il tempio e le campagne
Di Palestina si rammenta e piagne.
26
Ma il novello signor giurato ch'ebbe
Servar esso e gli eredi eterno il patto,
Incoronato fu come si debbe,
E il manto si vestì di pel di gatto,
E lo scettro impugnò, che d'auro crebbe,
Nella cui punta il mondo era ritratto,
Perché credeva allor del mondo intero
La specie soricina aver l'impero.
27
Dato alla plebe fu cacio con polta,
E vin vecchio gittàr molte fontane,
Gridando ella per tutto allegra e folta
Viva la carta e viva Rodipane,
Tal ch'eccheggiando quell'alpestre volta
Carta per tutto ripeteva e pane,
Cose al governo delle culte genti,
Chi le sa ministrar, sufficienti.
28
Re de' topi costui con nuovo nome,
O suo trovato fosse o de' soggetti.
S'intitolò, non di Topaia, come
Propriamente in addietro s'eran detti
I portatori di quell'auree some.
Cosa molto a notar, che negli effetti
Differisce d'assai, benché non paia,
S'alcun sia re de' topi o di Topaia.
Paralipomeni della Batracomiomachia, canto VIII, ottave 7 – 25
7
Tacito discendeva in compagnia
Di molte larve i sotterranei fondi.
Senza precipitar quivi la via
Mena ai più ciechi abissi e più profondi.
Can Cerbero latrar non vi s'udia,
Sferze fischiar né rettili iracondi,
Non si vedevan barche e non paludi,
Né spiriti aspettar sull'erba ignudi.
8
Senza custode alcuno era l'entrata
Ed aperta la via perpetuamente,
Che da persone vive esser tentata
La non può mai che malagevolmente,
E per l'uso de' morti apparecchiata
Fu dal principio suo naturalmente,
Onde non è ragion farvisi altrui
Ostacolò al calar ne' regni bui.
9
E dell'uscir di là nessun desio
Provano i morti, se ben hanno il come;
Che spiccato che fu de' topi l'io,
Non si rappicca alle corporee some,
E ritornando dall'eterno obblio,
Sanno ben che rizzar farian le chiome;
E fuggiti da ognuno e maledetti
Sarian per giunta da' parenti stretti.
10
Premii né pene non trovò nel regno
De' morti il conte, ovver di ciò non danno
Le sue storie antichissime alcun segno,
E maraviglia in questo a me non fanno,
Che i morti aver quel ch'alla vita è degno,
Piacere eterno ovvero eterno affanno,
Tacque, anzi mai non seppe, a dire il vero,
Non che il prisco Israele, il dotto Omero.
11
Sapete che se in lui fu lungamente
Creduta ritrovar questa dottrina,
Avvenne ciò perché l'umana mente,
Quei dogmi ond'ella si nutrì bambina
Veri non crede sol ma d'ogni gente
Natii, quantunque antica o pellegrina.
Dianzi in Omero errar di ciò la fama
Scoprimmo: ed imparar questo si chiama.
12
Né mai selvaggio alcun di premii o pene
Destinate agli spenti ebbe sentore,
Né già dopo il morir delle terrene
Membra l'alme credé viver di fuore.
Ma palpitare ancor le fredde vene,
E in somma non morir colui che more.
Perch'un rozzo del tutto e quasi infante
La morte a concepir non è bastante.
13
Però questa caduca e corporale
Vita, non altra, e il breve uman viaggio
In modi e luoghi incogniti immortale
Dopo il fato durar crede il selvaggio
E lo stato i sepolti anco aver tale,
Qual ebber quei di sopra al lor passaggio,
Tali i bisogni e non in parte alcuna
Gli esercizi mutati o la fortuna.
14
Ond'ei sotterra con l'esangue spoglia
Ripon cibi e ricchezze e vestimenti,
Chiude le donne e i servi acciò non toglia
Il sepolcro al defunto i suoi contenti,
Cani, frecce ed arnesi a qualsivoglia
Arte ch'egli adoprasse appartenenti,
Massime se il destin gli avea prescritto
Che con la man si procacciasse il vitto.
15
E questo è quello universal consenso
Che in testimon della futura vita
Con eloquenza e con sapere immenso
Da dottori gravissimi si cita,
D'ogni popol più rozzo e più milenso,
D'ogni mente infingarda e inerudita:
Il non poter nell'orba fantasia
La morte immaginar che cosa sia.
16
Son laggiù nel profondo immense file
Di seggi ove non può lima o scarpello,
Seggono i morti in ciaschedun sedile
Con le mani appoggiate a un bastoncello,
Confusi insiem l'ignobile e il gentile
Come di mano in man gli ebbe l'avello.
Poi ch'una fila è piena, immantinente
Da più novi occupata è la seguente.
17
Nessun guarda il vicino o gli fa motto.
Se visto avete mai qualche pittura
Di quelle usate farsi innanzi a Giotto,
O statua antica in qualche sepoltura
Gotica, come dice il volgo indotto,
Di quelle che a mirar fanno paura,
Con le facce allungate e sonnolenti
E l'altre membra pendule e cadenti,
18
Pensate che tal forma han per l'appunto
L'anime colaggiù nell'altro mondo,
E tali le trovò poi che fu giunto
Il topo nostro eroe nel più profondo.
Tremato sempre avea fino a quel punto
Per la discesa, il ver non vi nascondo,
Ma come vide quel funereo coro
Per poco non restò morto con loro.
19
Forse con tal, non già con tanto orrore
Visto avete in sua carne ed in suoi panni
Federico secondo imperatore
In Palermo giacer da secent'anni
Senza naso né labbra, e di colore
Quale il tempo può far con lunghi danni,
Ma col brando alla cinta e incoronato,
E con l'imago della terra allato.
20
Poscia che dal terror con gran fatica
A poco a poco ritornato il conte
Oso fu di mirar la schiera antica
Negli occhi mezzo chiusi e nella fronte,
Cercando se fra lor persona amica
Riconoscesse alle fattezze conte,
Gran tempo andò con le pupille errando
Di contanti nessun raffigurando.
21
Sì mutato d'ognuno era il sembiante,
E sì tra lor conformi apparian tutti,
Che a gran pena gli venne in sul davante
Riconosciuto in fin Mangiaprosciutti,
Rubatocchi e poche altre anime sante
Di cari amici suoi testè distrutti:
A cui principalmente il sermon volto
Narrò perché a cercarli avesse tolto.
22
Ma gli convenne incominciar dal primo
Assalto che dai granchi ebbero i suoi,
Novo agli scesi anzi quel tempo all'imo
Essendo quel che occorso era da poi.
Ben ciascun giorno dal terrestre limo
Discendon topi al mondo degli eroi,
Ma non fan motto, che alla gente morta
Questa vita di qua niente importa.
23
Narrato ch'ebbe alla distesa il tutto,
La tregua, il novo prence e lo statuto,
Il brutto inganno dei nemici, e il brutto
Galoppar dell'esercito barbuto,
Addimandò se la vergogna e il lutto
Ove il popol de' topi era caduto
Sgombro sarebbe per la man de' molti
Collegati da lui testè raccolti.
24
Non è l'estinto un animal risivo,
Anzi negata gli è per legge eterna
La virtù per la quale è dato al vivo
Che una sciocchezza insolita discerna,
Sfogar con un sonoro e convulsivo
Atto un prurito della parte interna.
Però, del conte la dimanda udita,
Non risero i passati all'altra vita.
25
Ma primamente allor su per la notte
Perpetua si diffuse un suon giocondo,
Che di secolo in secolo alle grotte
Più remote pervenne insino al fondo.
I destini tremàr non forse rotte
Fosser le leggi imposte all'altro mondo,
E non potente l'accigliato Eliso,
Udito il conte, a ritenere il riso.