Il testamento letterario di Corrado Govoni

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Il testamento letterario di Corrado Govoni
Rivista semestrale di cultura, informazione e attualità della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara
N. 15 - 12/2001
Il testamento letterario di Corrado Govoni
Scritto da Sergio Raimondi
Ovvero le "confessioni" scritte per i "cari gogliardi copparesi" nel 1958.
C'è stato chi, nel tentativo di definire Corrado Govoni, ha detto che ha colorato le sue parole nello
stesso modo in cui De Chirico ha dipinto i suoi sogni; per parte mia, non ritengo dover dare altra
definizione dell' "ars govoniana" al di là di quella che lo stesso poeta suggerisce, con brutale
sincerità, nel suo (forse unico) "testamento letterario".
Trattasi di un documento singolare e sostanzialmente inedito, che qui riporto non senza
commozione perché mi ricorda l'andata a Roma nel lontano giugno del 1958, in compagnia
dell'amico Alfredo Santini (attuale presidente della Cassa di Risparmio di Ferrara) e dell'amico Lino
Ricchieri (purtroppo da tempo venuto meno) per chiedere al poeta una collaborazione al giornalino
("Al Turron") che gli universitari copparesi stavano preparando per la fine dell'anno.
La visita al poeta, in quella palazzina immersa nell'ombra fitta e fresca (per la sorprendente
alberatura di quel rione di periferia), il suo appartamento dove però i tanti libri e i tanti oggettiricordo finivano per farlo farlo apparire una vera e propria biblioteca-sacrario, la cordialissima (per
non dire affettuosa) sua ospitalità per i tre giovani "compaesani" (anche se di Copparo e non di
Tamara), la conversazione intensa e piena di evocazioni, di nostalgia e di curiosità (sulle novità)
della sua lontana "bassa") e infine il commosso commiato dopo più di un'ora trascorsa insieme:
ecco, sono queste le cose che non posso non ricordare ogniqualvolta mi ritrovo fra le mani quei
fogli di quaderno armoniosamente vergati con tratto sicuro e uniforme.
Come d'accordo, li mandò per posta a Santini (l'artefice dell'incontro),
pochi giorni dopo, perché appunto li pubblicassimo nel nostro "numero unico". E così facemmo,
con orgoglio - che però rimase solo nostro - di aver reso un prezioso servizio alla letteratura e alla
cultura... Oggi, a oltre quarant'anni di distanza, non ho difficoltà ad ammettere che, al di là del loro
valore intrinseco, quel lontano incontro e la "confessione letteraria" che ne scaturì aiutarono me a
capire perché Corrado Govoni, trovandosi spesso a scrivere della sua terra, ha puntualmente
definito o dimostrato di sentire come "esilio infame" il suo non volontario vivere lontano da essa e
dalla sua gente (anche se quest'ultima, ci confessa, gli è sempre stata ingrata).
Il documento che segue, pubblicato nel 1958 in mille copie, e quindi ignorato dai più, offre
certamente motivi d'interesse e di riflessione: vuoi per i giudizi che il poeta dà sulla poesia e la
critica a lui contemporanee, vuoi per le inedite confidenze autobiografiche o vuoi per le finalità che
assegna alla poesia.
Storia della mia vita
Sono nato in un paesuccio del ferrarese, tra il Volano ed il Po, di meno di duemila anime, dal
poetico biblico nome di Tamara che significa palma: benché da taluni il nome di Tamara si voglia
far derivare da quello di tamerice, l'arbusto tenace sempreverde resistente al salino di cui si afferma
che tutta la zona fosse anticamente popolata, come lido marino che si estendeva dal luogo dove
sorge Ferrara fino all'estinta città etrusca di Spina, sopra Comacchio. Io vidi la luce il 29 ottobre del
1884, nella casa paterna contrassegnata col numero civico 37, in prossimità della maestra, nel punto
preciso del rosso paracarro dei chilometri che porta il numero 13. Con questo iettato 13 si possono
spiegare tante cose.
Discendo in ogni modo da un'agiata famiglia di mugnai e di agricoltori. Ed
anch'io, nella mia lontana giovinezza, mi dedicai con successo per qualche anno all'agricoltura dei
cinquanta ettari di mia proprietà, per il quale esercizio avevo una naturale spiccatissima
disposizione. E avessi perseverato in quel sano meraviglioso esercizio; ché ora, invece di vedermi
ridotto, alla mia età, a mendicare un po' di lavoro e di correre dietro ai premi letterari, possiederei
certamente migliaia di ettari di ottimo terreno e sarei facilmente miliardario e felice, con tutti i miei
bellissimi figli floridi e salvi.
Ma l'inclinazione per la poesia, che fu ed è ancora per me una vera dannazione, ebbe il sopravvento
su quella per l'agricoltura, giungendo a rappresentare così la mia rovina e quella della mia povera
famiglia. Le difficoltà economiche, le disgrazie e traversie familiari mi sbalestrarono, mentre
inseguivo gli ingannevoli traditori sogni della poesia, dal paese natìo a Ferrara, da Ferrara a Milano
ed alla Riviera Ligure, poi ancora a Ferrara, inguarito di nostalgia e di mal di paese, e finirono per
spingermi sventuratamente a Roma, dove pare che io abbia messo le mie definitive dolorose radici:
le sante umane radici dei miei poveri tragici morti.
Incominciai dunque da ragazzo ad innamorarmi della tremenda inesorabile poesia; e ne sono
purtroppo sempre innamorato, se pur odiandola a morte.
Il mio primo libro, "Le Fiale" (Firenze) è del 1903, il secondo "Armonia IN grigio et IN silenzio" è
sempre dello stesso anno. Tutt'e due possono considerarsi, per il loro contenuto, i primissimi
autentici breviari di quella nuova scuola poetica che doveva più tardi essere conosciuta ed
apprezzata sotto la definizione di crepuscolarismo. Il secondo libro è il primo audace compiuto
saggio del verso libero apparso in Italia.
Da allora ad oggi [1958] i miei libri di poesia non si contano più: almeno una
ventina, con molte migliaia di copie diffuse ed ora introvabili. Non entrano nel conto il libro ancora
inedito "Conchiglie sul quaderno" che vinse il primo premio del Lido di Roma nel 1948, e la
raccolta parimenti inedita "I canti del puro folle", alla quale appartiene la lirica "I campioni sbagliati
del vivente nulla", alla quale appartiene la lirica che qui si riproduce.
A questo proposito, considero una specie di poema in prosa la stessa trilogia del grosso romanzo
"Uomini sul Delta", di cui sta per uscire la prima parte che si svolge, come si legge dal titolo, nella
bassa ferrarese, ed ha per scena l'eterna accanita lotta tra capitale e lavoro, nel periodo che va dalla
prima grande guerra alla guerra partigiana di liberazione. Credo che pochi scrittori italiani siano
rimasti, come me, attaccati con fanatica fedeltà, in poesia e in prosa, agli interessi alle sollecitazioni
ed alle suggestioni della propria terra natìa: anche se dalla mia terra e dalla mia gente io non sono
mai stato ritenuto degno di un qualunque particolare riconoscimento anche semplicemente morale.
E che cosa penso, si può sapere, della mia poesia?
Devo dire che ne penso tutto il bene possibile ed immaginabile; perché mi pare che essa risponda
nel modo più perfetto ai due requisiti fondamentali che deve possedere ogni espressione artistica di
poesia: quello dell'ideale violento pugno nell'occhio, e quello del pugno nel cuore da togliere il
fiato. E non dico della forza del sogno, della suggestione della musica e della ricchissima originale
inesauribile fantasia.
A parte, s'intende, l'amarissima considerazione che sarebbe assai meglio
viverla e goderla egoisticamente in natura la poesia, invece di soffrirla attraverso il tormento
dell'arte, per il godimento degli altri, e tante volte, purtroppo, solo per l'indifferenza, l'ostilità, il
dileggio e persino l'odio degli altri. E si può sapere che cosa penso della poesia dei miei
contemporanei e dei viventi, dopo il Carducci il Pascoli il D'Annunzio ed il Gozzano, tutti più o
meno spregevoli poeti di coltivazione?
Devo dire sinceramente come se mi confessassi col cuore in mano, in punto di morte, che non nutro
nessunissima stima dei sedicenti poeti italiani di oggi, superiori all'età dei quarant'anni (P.B. Shelley
fu ben più difficile di me, quando affermò che, a venticinque anni, chi non ha ancora scritto le sue
più belle poesie non speri di poterle mai scrivere!). E se per qualcuno di essi io ho pronunciato una
parola di lode, dettata dall'amicizia e dalla compassione, la ritiro senz'altro, amaramente pentito e
disgustato della mia debolezza e sciocca imperdonabile bontà.
Li disprezzo profondamente tutti, dal primo all'ultimo, senza alcuna eccezione, e li
giudico mediocrissimi scialbi freddi versaioli, costituzionalmente impotenti come creatori, vere e
proprie spaventose nullità marci putrefatti di letteratura, privi nel modo più assoluto di una sola
scintilla di fantasia originale e di ispirazione, che non si possono nemmeno chiamare discreti
verseggiatori, né in metrica tradizionale né in metrica libera.
Non importa se, con l'aiuto della mala genìa dei loro amici critici in malafede, scolastici, di nessuna
sensibilità moderna, e finora ignari delle più ardite affermazioni e conquiste della poesia mondiale
di oggi, siano riusciti ad ingannare e ad inebetire, se non proprio a convincere il pubblico dei lettori
italiani, così scarso, ignorante, male informato o tardo, per innato cattivo gusto ed odiosa pigrizia
mentale, in materia d'arte; facendosi passare nientemeno per i legittimi successori e continuatori
della più qualificata poesia francese (e qui non parlo della loro mostruosa oscena vanteria di aver
fatto tesoro della lezione di un Petrarca e di un Leopardi), di cui essi non riuscirono mai a
rimasticare ed a ruminare faticosamente che gli ultimi insignificanti rimasugli e sottoprodotti.
Perché, anche a voler mettere insieme ed a condensare tutti i loro ponzatissimi
libri di sedicente poesia, utilizzando persino le melassate gocce di spremitura della cellulosa vergine
dei margini di incredibili dimensioni, non si riuscirebbe per questo nemmeno lontanamente a
mettere insieme una sola discreta e moderna vibrazione lirica capace, non dico di sfatare e smentire
il giudizio paurosamente negativo che ne diedero Benedetto Croce ed André Gide, ma appena
degna di vantare sia pure la più esangue ed annacquata parentela con quei puri capolavori di poesia
che si chiamano "L'aprés-midi d'un faune", "Le Bateau ivre", "La jeune Parque", rispettivamente di
un Mallarmé, di un Rimbaud, di un Valéry.
Secondo me la vera essenza della poesia di tutti i tempi e di tutti i paesi si può racchiudere e
contenere nei seguenti lineamenti.
La poesia è l'arte o facoltà di trasferire sopra un piano di trasfigurazione ideale la rappresentazione
di fatti umani e di aspetti naturali con folgorante chiarezza ed immediatezza, con irresistibile
efficacia emotiva e comunicativa, per mezzo della più straordinaria forza dinamica possibile, di
rottura e di penetrazione dell'espressione.
Sono convinto che tale arte o facoltà (originalità e novità di fantasia,
potenza di immaginazione, ricchezza suggestiva, fuoco di sentimento) sia di assoluta natura
ereditaria e trasmessa al poeta come qualsiasi altra dote di ordine e carattere intellettuale fisico e
meccanico, anche se essa si presenta sempre suscettiva di miglioramento, di raffinazione e
potenziamento, attraverso l'occasione, l'esercizio, l'allenamento e la nutrizione.
L'apparecchio ricevente e trasmittente uomo poeta, dunque, quando risulti costituzionalmente in
perfetto stato, per tutto il periodo della propria efficiente attività, non potrà mai produrre
naturalmente una espressione debole, delicata, o fortissima e prepotente, che non sia sempre
adeguata e corrispondente alle doti native dell'apparecchio stesso, appropriata ed intonata alla sua
voce caratteristica ed alla sua particolarissima anima e distinta qualità.
Considero perciò il vero poeta come il felice o lo sciagurato corriere e portatore tra gli uomini del
messaggio di pura bellezza, di bontà, di amore o di dolore e di disperazione, affidatagli da
misteriose mani le quali, prima ancora del cervello, gli toccano e riscaldano il cuore.