Leclerc-Siplec (con conclusioni dell`AG Jacobs), C

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Leclerc-Siplec (con conclusioni dell`AG Jacobs), C
Leclerc-Siplec
Causa 412/93, Société d'importation Edouard Leclerc-Siplec c. TF1 Publicité SA et M6
Publicité SA [1995] Racc. I-179
Conclusioni dell’Avvocato generale Jacobs
[note omesse]
[…]
c) Applicazione delle sentenze Keck e Mithouard nonché Huenermund e a. al divieto controverso
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Se non fosse stato per la giurisprudenza Huenermund, forse non sarebbe apparso chiaro
che la frase "disposizioni nazionali che limitino o vietino talune modalità di vendita" della
sentenza Keck e Mithouard includeva le norme sulla pubblicità. Per le ragioni esposte più
sopra, restrizioni alla pubblicità possono costituire una minaccia particolarmente seria per
l’integrazione dei mercati. E' possibile che nella causa Huenermund e a. la Corte sia stata
influenzata dalla rilevanza assai scarsa delle restrizioni litigiose e non abbia contemplato
l’applicabilità dello stesso criterio a restrizioni più serie. Se il criterio formulato nella
sentenza Keck e Mithouard dovesse essere applicato alle norme francesi controverse nel
caso di specie, occorrerà considerare se queste ultime "valgano nei confronti di tutti gli
operatori interessati che svolgano la propria attività sul territorio nazionale e (...) incidano in
egual misura, tanto sotto il profilo giuridico quanto sotto quello sostanziale, sullo smercio
dei prodotti sia nazionali sia provenienti da altri Stati membri". Ritengo che questo sia il
caso. In primo luogo, proprio come nella causa Keck e Mithouard il divieto di rivendita in
perdita si applicava a tutti i commercianti che rivendevano prodotti nello Stato in cui si
trovavano, così anche nel presente caso il divieto di pubblicità televisiva è una misura
generale applicabile all’insieme del settore della distribuzione. In secondo luogo, salvo che
in taluni casi specifici – non in questione nel presente caso – come quello di merci vendute
con la tecnica dello smercio televisivo diretto (v. più avanti, paragrafo 54), è probabile che il
divieto abbia il medesimo impatto sulle merci nazionali ed importate. Come verrà rilevato
più avanti, qualsiasi diminuzione delle vendite nel settore della distribuzione per effetto del
divieto interesserebbe allo stesso modo le merci nazionali ed importate. Concludo quindi
che, se deve applicarsi il criterio dettato nella sentenza Keck e Mithouard, il divieto esula in
via di principio dal campo di applicazione dell’art. 30.
d) Un approccio alternativo
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Tuttavia preferisco seguire un diverso approccio, anche se nel caso di specie esso può
condurre alla stessa conclusione. A mio parere il ragionamento della Corte – non però il
risultato – nella sentenza Keck e Mithouard è insoddisfacente per due ragioni. In primo
luogo, è improprio operare rigide distinzioni tra differenti categorie di norme e applicare
criteri diversi a seconda della categoria di appartenenza di ciascuna norma. La severità
delle restrizioni imposte da disposizioni diverse è meramente una questione di grado.
Misure riguardanti modalità di vendita possono causare ostacoli estremamente seri alle
importazioni. Per esempio, una disposizione che permettesse la vendita di certi prodotti
soltanto in pochi negozi di piccole dimensioni in uno Stato membro sarebbe perlomeno
altrettanto restrittiva del divieto assoluto di importazione e commercializzazione. Tale
aspetto è assai bene illustrato dalle restrizioni in materia di pubblicità: il tipo di restrizione
controversa nella causa Huenermund e a. può aver esercitato un modesto impatto sul
commercio tra Stati membri, ma è difficile sostenere che, ad esempio, un divieto assoluto di
far pubblicità ad uno specifico prodotto legalmente smerciabile possa esulare dall’art. 30.
Come spiegherò più avanti, sarebbe più appropriato valutare le restrizioni rispetto ad un
unico criterio formulato alla luce dell’obiettivo di cui all’art. 30.
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In secondo luogo, l’esclusione dal campo di applicazione dell’art. 30 di misure che "incidano
in egual misura, tanto sotto il profilo giuridico quanto sotto quello sostanziale, sullo smercio
dei prodotti sia nazionali sia provenienti da altri Stati membri" equivale ad introdurre, circa
le restrizioni alle modalità di vendita, un criterio di discriminazione. Tuttavia tale criterio
sembra inappropriato. La preoccupazione fondamentale delle disposizioni del Trattato sulla
libera circolazione delle merci è quella di evitare ostacoli ingiustificati al commercio tra Stati
membri. Se esiste un ostacolo agli scambi fra Stati, esso non può cessare di esistere
semplicemente perché un ostacolo identico colpisce il commercio nazionale. Mi è difficile
accettare l’asserzione che uno Stato membro possa arbitrariamente limitare lo smercio dei
prodotti provenienti da un altro Stato membro, purché imponga la stessa limitazione
arbitraria allo smercio di prodotti nazionali. Se uno Stato membro alza una sostanziale
barriera all’ingresso nel mercato di determinati prodotti, prevedendo, ad esempio, che essi
possano vendersi solo in pochi esercizi commerciali, ed un fabbricante di quei prodotti in un
altro Stato soffre una perdita economica per effetto di tale limitazione, egli trarrà poco
sollievo dal fatto di sapere che i suoi concorrenti siti nello Stato membro autore della
restrizione in parola subiscono un’analoga perdita .
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Allo stesso modo, nell’ottica dell’intento del Trattato di istituire un mercato unico, il criterio
della discriminazione non è di aiuto: da tale punto di vista, il fatto che uno Stato membro
imponga restrizioni analoghe allo smercio di prodotti nazionali è semplicemente irrilevante.
Non si attenua affatto l’effetto negativo sul mercato comunitario e neppure l’effetto negativo
sulle economie degli altri Stati membri nonché sull’economia comunitaria. L'applicazione
del criterio di discriminazione condurrebbe invero alla segmentazione del mercato
comunitario, dal momento che gli operatori economici dovrebbero accettare qualsiasi
restrizione alle modalità di vendita eventualmente vigente in qualunque Stato membro
nonché adattare di conseguenza le rispettive modalità in ogni Stato. Le restrizioni al
commercio non dovrebbero valutarsi in rapporto alla situazione locale esistente in ogni
Stato membro, ma rispetto all’obiettivo dell’accesso all’intero mercato comunitario. Il criterio
della discriminazione è pertanto incompatibile per principio con gli obiettivi del Trattato.
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Trattasi allora di sapere quale criterio vada applicato per determinare se una misura rientri
nel campo di applicazione dell’art. 30. Vi è un principio direttivo che sembra fornire un
criterio appropriato: secondo tale principio tutte le imprese impegnate in un'attività
economica legale in uno Stato membro dovrebbero accedere senza restrizioni all'intero
mercato comunitario, a meno che non sussista una valida ragione per negare loro il pieno
accesso ad una parte di tale mercato. Malgrado occasionali contraddizioni nella
motivazione di talune sentenze, questo sembra essere il principio alla base dell’approccio
della Corte dalla sentenza Dassonville, passando attraverso la giurisprudenza "Cassis de
Dijon", sino alla sentenza Keck e Mithouard. Praticamente tutte le sentenze sono conformi,
quanto alla conseguenza che ne deriva, al principio in parola, anche se talune sembrano
fondate su una motivazione diversa.
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Se il principio implica che tutte le imprese dovrebbero accedere senza limitazioni all’intero
mercato comunitario, allora il criterio appropriato è, a mio parere, quello di sapere se vige
una sostanziale restrizione a tale accesso. Ciò equivarrebbe beninteso ad introdurre un
criterio de minimis nell’art. 30. Una volta riconosciuta la necessità di limitare la portata
dell’art. 30 al fine di impedire un’eccessiva interferenza nei poteri regolamentari degli Stati
membri, un criterio fondato sull’entità dell’ostacolo al commercio tra Stati membri che causa
una misura di limitazione dell’accesso al mercato sembra essere la soluzione più ovvia. In
verità può forse sorprendere che, alla luce dell’obiettivo dichiarato di impedire l’eccessivo
ricorso dell’art. 30, la Corte non abbia optato per tale soluzione nella sentenza Keck e
Mithouard. Forse la ragione è data dal fatto che la Corte temeva che un criterio de minimis,
qualora applicato a tutte le misure interessanti gli scambi di merci, avrebbe potuto indurre i
giudici nazionali, responsabili in primo luogo per l’applicazione dell’art. 30, ad escludere
troppe misure dal campo d’applicazione del divieto stabilito da tale disposizione. Occorre
quindi essere prudenti e se si dovesse adottare un criterio de minimis sarà necessario
definire con precisione le circostanze in cui esso dovrà essere applicato.
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E' ovvio che non sarebbe appropriato applicare un criterio de minimis alle misure che
discriminano apertamente le merci provenienti da altri Stati membri. Tali misure sono
vietate dall’art. 30 (a meno che non risultino giustificate ai sensi dell’art. 36), anche se il loro
impatto sugli scambi commerciali all’interno della Comunità è esiguo: le misure
apertamente discriminatorie sono vietate in quanto tali.
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Solo riguardo a misure applicabili senza distinzione a merci nazionali ed a merci provenienti
da altri Stati membri occorrerebbe esigere la condizione che la restrizione, attuale o
potenziale, all'accesso al mercato debba essere sostanziale. L'impatto sull'accesso al
mercato di misure applicabili indistintamente può variare in modo rilevante a seconda della
natura della misura di cui si tratta. Se tale misura vieta la vendita di merci legalmente poste
in vendita in un altro Stato membro (come nella giurisprudenza "Cassis de Dijon"), è
possibile supporre che essa abbia un forte impatto sull’accesso al mercato, dal momento
che alle merci è precluso totalmente l’accesso oppure questo può aver luogo soltanto dopo
che le merci stesse abbiano subito determinate modifiche; la necessità di modificare i
prodotti è di per se stessa un ostacolo sostanziale per l’accesso al mercato.
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D’altro canto, qualora una misura applicabile senza distinzione limiti solo determinate
modalità di vendita, stabilendo quando, dove, come, da chi ed a quale prezzo le merci
possono essere vendute, il suo impatto dipenderà da un certo numero di fattori, ad esempio
se tale misura si applichi a talune merci (come nella causa Blesgen, Buet e EBS o
Quietlynn e Richards) o alla maggior parte di esse (come nella causa Torfaen) o a tutte le
merci (come nella causa Keck e Mithouard), nonché dalla possibilità di ricorrere ad altre
modalità di vendita e dall’effetto della misura, diretto o indiretto, immediato o lontano,
ovvero puramente ipotetico ed aleatorio. Pertanto l’entità dell’ostacolo, relativo all’accesso
al mercato, può variare enormemente: essa può spaziare da un’incidenza insignificante ad
un risultato che corrisponde praticamente ad un divieto. E' chiaro che questo è il caso in cui
il criterio de minimis può svolgere un’utile funzione. La distinzione ammessa nella sentenza
Keck e Mithouard tra un divieto del tipo in discussione nella giurisprudenza "Cassis de
Dijon" ed una mera restrizione a talune modalità di vendita è quindi preziosa: il primo crea
inevitabilmente un ostacolo sostanziale al commercio tra Stati membri, mentre la seconda
può dar luogo ad un siffatto ostacolo. Ma non è sostenibile che il secondo tipo di misura
non possa pregiudicare, in assenza di discriminazione, il commercio in modo contrario
all’art. 30. Si dovrebbe quindi dichiarare che tali misure, a meno che non siano apertamente
discriminatorie, non sono automaticamente comprese nell’art. 30, come lo sono invece
quelle del tipo in discussione nella sentenza "Cassis de Dijon", ma possono rientrarvi se è
sostanziale la restrizione che, a causa di dette misure, si ripercuote sull’accesso al mercato.
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Si può obiettare che l’orientamento qui sopra sostenuto è contrario a varie sentenze in cui
la Corte ha respinto expressis verbis l’idea che una misura vada esclusa dal campo di
applicazione dell’art. 30 perché il suo impatto sulle importazioni è minimo. Tuttavia, nella
maggior parte di quei casi, la misura controversa era manifestamente discriminatoria, come
nelle cause Prantl, Commissione/Francia e Commissione/Italia; inoltre, in quest’ultimo caso,
si era comunque dichiarato sostanziale l’effetto della misura. Vero è che nelle sentenze Van
de Haar e Kaveka de Meern, la Corte ha respinto un criterio de minimis riguardo ad una
misura applicabile senza distinzione (segnatamente una normativa in materia di prezzi);
tuttavia, essa l’ha fatto meramente in astratto dichiarando, nella medesima sentenza, che
una normativa in materia di fissazione dei prezzi è contraria all’art. 30 solo se i prezzi
vengono stabiliti ad un livello tale da impedire alle merci importate di essere smerciate con
profitto o da eliminare il vantaggio concorrenziale goduto dal fabbricante dei prodotti
importati. In pratica, ciò equivale quasi ad affermare che l’art. 30 entra in gioco solo qualora
sussista un ostacolo sostanziale per accedere al mercato.
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Va infine rilevato che diverso è l’orientamento della Corte nell’ipotesi del divieto di tasse
aventi effetto equivalente ai dazi doganali ai sensi degli artt. 12 e 16 del Trattato. La Corte
ha dichiarato a giusto titolo che il divieto si applica a tutte le tasse, pur se minime. La
portata del divieto in parola è però ben più specifica di quella dell’art. 30; inoltre le tasse in
questione, per quanto siano modeste, comportano necessariamente un impedimento al
flusso delle merci a causa del fatto che queste attraversano una frontiera, proprio mentre
tali disposizioni del Trattato sono intese all’eliminazione delle frontiere in parola. Tale
ragionamento non si applica con la stessa forza al divieto di misure aventi effetto
equivalente ai sensi dell’art. 30.
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La conclusione della stessa sentenza Keck e Mithouard è compatibile con l'approccio
esposto più sopra. E' improbabile che una normativa facente divieto a tutti i commercianti al
minuto di qualsiasi merce di rivendere merci in perdita abbia un impatto significativo sullo
smercio dei prodotti importati. Essa non ha alcun effetto rilevante sul volume globale delle
importazioni e non impedisce ad un commerciante in un altro Stato membro il pieno
accesso al mercato. Questo varrà di norma anche per quelle disposizioni che limitano
l’orario di apertura dei negozi, sempreché le stesse siano generalmente applicate e non
riducano in modo arbitrario le possibilità di smercio per una gamma definita di prodotti. Una
siffatta normativa può condurre ad una leggera riduzione del totale delle vendite, incluse le
merci di importazione, ma è poco probabile che essa restringa sostanzialmente l’accesso al
mercato di prodotti di un particolare commerciante, poiché il suo impatto si distribuirà
sull’intera gamma dei prodotti.
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Concludo pertanto nel senso che l’art. 30 dovrebbe essere applicato alle misure non
discriminatorie idonee a limitare sostanzialmente l’accesso al mercato.
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Come si deve applicare tale criterio alle restrizioni che colpiscono la pubblicità? Come ho
già suggerito, data l’importanza della libertà di espressione pubblicitaria, un divieto assoluto
di fare la pubblicità di un prodotto che può essere legalmente venduto nello Stato membro
ove il divieto è imposto ed in altri Stati membri non può esulare dal campo di applicazione
dell’art. 30. Un divieto siffatto avrebbe come conseguenza che i fabbricanti di altri Stati
membri si troverebbero praticamente nell’impossibilità di penetrare nel mercato soggetto al
divieto se i loro prodotti non fossero già noti ai consumatori in quel paese. Una misura che
pone in essere un tale ostacolo all’ingresso delle merci equivale senz’altro, infatti, ad una
restrizione quantitativa agli scambi fra Stati membri. Anche se si applicasse il criterio della
discriminazione formulato nella sentenza Keck e Mithouard, si perverrebbe alla medesima
conclusione: un divieto di fare pubblicità, lungi dall’essere neutro quanto ai suoi effetti, ha
tendenza a colpire soprattutto le merci importate.
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La misura direttamente in causa nel caso di specie è il divieto di fare pubblicità televisiva al
settore della distribuzione imposto dalla normativa francese. Ma l’ostacolo alle importazioni
che può rappresentare anche un divieto parziale di fare pubblicità a specifici prodotti può
venir illustrato con l’esempio di un altro divieto tratto dalla stessa normativa. In Francia è
contrario alla legge fare pubblicità televisiva a bevande con gradazione alcolica superiore a
1,2 gradi. Una misura siffatta può rivelarsi giustificata ai sensi dell’art. 36 del Trattato, ma
non è possibile sostenere che la stessa esuli dal campo di applicazione dell’art. 30. Qualora
un birraio tedesco che non ha mai venduto le proprie birre in Francia decidesse di metter
piede sul mercato francese, difficilmente riuscirebbe a penetrarvi in modo significativo se
non potesse fare pubblicità ai propri prodotti. La televisione è considerata come uno
strumento particolarmente efficace di pubblicità, specialmente per quanto riguarda il
consumo di massa. Se il birraio tedesco non può fare pubblicità televisiva, troverà più
difficile penetrare nel mercato francese, che continuerebbe ad essere dominato dalle
marche nazionali solidamente impiantate.
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Non occorre però che la Corte si pronunci su tale divieto. Non è neppure necessario
esaminare se esso determini un impatto sostanziale sull’accesso al mercato per quanto
riguarda le altre categorie di prodotti escluse dalla pubblicità televisiva, cioè l’editoria
letteraria, i giornali e le riviste. Nel presente caso la questione è diretta ad accertare se un
divieto parziale di pubblicità in un dato settore dell’economia, nella fattispecie un divieto di
pubblicità televisiva per il settore della distribuzione, esuli dal campo di applicazione dell’art.
30. Penso che la soluzione alla questione dipenderà dagli effetti del divieto parziale. Se
esso crea un ostacolo sostanziale all’ingresso delle merci fabbricate in un altro Stato
membro, allora è incompatibile con l’art. 30, a meno che non sia giustificato per ragioni
ammesse dal diritto comunitario. Se d’altro canto un parziale divieto di pubblicità non ha
un’incidenza sostanziale sugli scambi intracomunitari e non costituisce un ostacolo alla
penetrazione sul mercato dei prodotti importati, niente impedisce di escluderlo dal campo di
applicazione dell’art. 30.
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Gli effetti del divieto di pubblicità televisiva nel settore della distribuzione sembrano più
marginali di quelli del divieto relativo alla pubblicità di bevande alcoliche. Come ho
sottolineato, esso si applica a tutti i prodotti e non presta quindi il fianco all’obiezione che si
prendono di mira abitualmente determinate categorie di prodotti. Se si impedisce a taluni
negozi di fare pubblicità alla televisione, l’impatto sul commercio si realizzerà
prevalentemente – ma non esclusivamente – all’interno dello Stato membro in questione.
Possono contemplarsi vari possibili effetti: per esempio, vi può essere un trasferimento di
entrate pubblicitarie da imprese che gestiscono stazioni televisive ad imprese che mettono
a disposizione alternative pubblicitarie, ivi compresi i proprietari di giornali (sia nazionali sia
regionali); i più grossi commercianti al dettaglio, in particolare i proprietari di catene di
supermercati, i quali sono in pratica, verosimilmente, i maggiori utilizzatori della pubblicità
televisiva, possono trovare che il loro vantaggio concorrenziale rispetto ai piccoli
commercianti risulta minore di quello che sarebbe stato altrimenti; ed il volume complessivo
delle vendite di merci in generale, incluse le importazioni, può leggermente diminuire se ai
distributori non è consentito di promuovere le vendite grazie alla pubblicità televisiva.
Tuttavia nessuno di questi effetti si traduce in un impatto sostanziale sul commercio tra
Stati membri idoneo a mettere in gioco l’art. 30.
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Tuttavia, benché gli effetti di una restrizione applicabile esclusivamente al settore della
distribuzione si producano generalmente all’interno dello Stato membro interessato, si
possono immaginare situazioni in cui può sorgere un vero e proprio ostacolo alle
importazioni. Un esempio è dato dal metodo di smercio diretto attraverso la televisione che
è divenuto sempre più comune in Europa negli ultimi anni. Un distributore pubblicizza
determinati prodotti alla televisione e diffonde quindi i numeri di telefono cui si possono
ordinare i prodotti nei vari paesi ove viene ricevuto il canale televisivo. Se un sistema
siffatto fosse vietato in Francia, sarebbe difficile considerare irrilevante l’ostacolo al
commercio che ne deriverebbe. Tale tipo di ostacolo è inoltre contrario al concetto stesso di
mercato unico, in quanto esso impedisce ai distributori di sviluppare una strategia globale di
mercato. In un caso simile un distributore stabilito in uno Stato membro potrebbe,
richiamandosi al Trattato, intentare un’azione sulla base dell’art. 30 o dell’art. 59. Ancora, si
può ipotizzare che un’impresa di un altro Stato membro cerchi di impiantare una catena di
supermercati in Francia; in tal caso, il divieto di pubblicità televisiva nel settore della
distribuzione potrebbe essere impugnato ai sensi dell’art. 52 del Trattato.
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Nella fattispecie non viene sollevato nessuno di questi problemi. Come ho sottolineato, gli
effetti di una restrizione applicabile al settore della distribuzione, come quelli di cui si
discute in questa sede, sono innanzi tutto interni. La restrizione colpisce una sola forma di
pubblicità, anche se la più efficace trattandosi di prodotti di largo consumo, e la pubblicità
dei prodotti in quanto tali è pregiudicata solo indirettamente. Come nel caso della normativa
che limita l’orario di apertura dei negozi, menzionata più sopra, la misura può tradursi in
una leggera riduzione del volume totale delle vendite di merci, incluse le importazioni. Ma
non si può affermare che la stessa abbia un impatto sostanziale sull’accesso al mercato.
Pertanto essa esula a mio parere dalla sfera di applicazione dell’art. 30.
[…]
Decisione della Corte di Giustizia
[...]
1
Con ordinanza 27 settembre 1993, pervenuta in cancelleria il 4 ottobre seguente, il Tribunal
de commerce di Parigi ha sottoposto alla Corte, ai sensi dell’art. 177 del Trattato CEE, una
questione pregiudiziale sull’interpretazione degli artt. 30, 85, 86, 5 e 3, lett. f), del Trattato
CEE nonché della direttiva del Consiglio 3 ottobre 1989, 89/552/CEE, relativa al
coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli
Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive (GU L 298, pag. 23, in
prosieguo: la "direttiva").
2
Tale questione è stata sollevata nell’ambito di una controversia sorta tra la Société
d’importation Édouard Leclerc-Siplec (in prosieguo: la "Leclerc-Siplec") e le società TF1
Publicité (in prosieguo: la "TF1") e M6 Publicité (in prosieguo: la "M6") in ordine al rifiuto di
queste ultime due società di diffondere un messaggio pubblicitario riguardante la
distribuzione di carburante nei supermercati Leclerc, in quanto l’art. 8 del decreto 27 marzo
1992, n. 92-280, emanato in attuazione dell’art. 27, punto 1, della legge 30 settembre 1986,
che concerne la libertà di comunicazione e stabilisce i principi generali riguardanti il regime
applicabile alla pubblicità e alla sponsorizzazione (JORF del 28 marzo 1992, pag. 4313, in
prosieguo: il "decreto"), esclude dalla pubblicità televisiva il settore della distribuzione.
3
La Leclerc-Siplec, avendo citato la TF1 e la M6 dinanzi al Tribunal de commerce di Parigi e
considerando che l’art. 8 del decreto violi varie disposizioni del Trattato e della direttiva, ha
proposto al suddetto Tribunale di sottoporre alla Corte tale questione. La TF1 e la M6,
benché convenute, hanno sostenuto una tesi identica a quella della Leclerc-Siplec. Inoltre,
la TF1 ha affermato che la pronuncia della Corte di giustizia dovrebbe avere carattere
generale e riguardare non soltanto la distribuzione, ma tutti i settori esclusi dalla pubblicità
televisiva in forza del decreto.
4
Il giudice a quo, dopo aver constatato che vari organismi consultati, come il secrétariat
d’État à la Communication, il Conseil supérieur de l’audiovisuel (in prosieguo: il "CSA") e il
Bureau de vérification de la publicité, confermavano l’interpretazione della TF1 e della M6,
secondo la quale il messaggio di cui trattasi ricadeva nel divieto di cui all’art. 8 del decreto,
ha deciso di sospendere il procedimento e ha sottoposto alla Corte la seguente questione
pregiudiziale:
"Se gli artt. 30, 85, 86, 5 e 3, lett. f), del Trattato CEE nonché la direttiva del Consiglio 3
ottobre 1989, 89/552/CEE, debbano essere interpretati nel senso che ostano a che uno
Stato membro, in via legislativa o di regolamento, escluda dall’accesso alla pubblicità
televisiva settori dell’attività economica, tra cui in particolare quello della distribuzione, e più
in generale se l’art. 8 del decreto 27 marzo 1992 possa ritenersi compatibile con le suddette
norme".
5
Ai sensi dell’art. 8 del decreto, è vietata "la pubblicità riguardante, da un lato, i prodotti la cui
pubblicità televisiva è oggetto di un divieto legislativo e, dall’altro, i seguenti prodotti e
settori economici:
° bevande con gradazione alcolica superiore a 1,2 gradi;
° editoria letteraria;
° cinema;
° stampa;
° distribuzione, salvo che nei dipartimenti e territori d’oltremare e nelle collettività territoriali
di Mayotte e di Saint-Pierre-et-Miquelon".
6
L’art. 21 del decreto dispone che il controllo della sua osservanza è esercitato dal CSA.
7
Dalle decisioni del CSA emerge che i messaggi pubblicitari dei "produttori distributori", ai
quali non si applica il divieto di pubblicità televisiva per il settore economico della
distribuzione, non devono far riferimento ai circuiti distributivi dei prodotti.
Sulla competenza della Corte
[…]
Sull’interpretazione delle disposizioni di cui alla questione pregiudiziale
17
La questione posta, così circoscritta, si limita a chiedere se, rispettivamente, l’art. 30 del
Trattato, il combinato disposto degli artt. 85, 86, 3, lett. f), e 5 del Trattato e la direttiva
vadano interpretati nel senso che essi ostano a che uno Stato membro, in via legislativa o
di regolamento, vieti la diffusione di messaggi pubblicitari a favore del settore economico
della distribuzione da parte delle emittenti televisive stabilite nel suo territorio.
Sull’art. 30 del Trattato
18
Secondo la costante giurisprudenza della Corte, costituisce una misura di effetto
equivalente ad una restrizione quantitativa qualsiasi misura che possa ostacolare,
direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari (sentenza 11
luglio 1974, causa 8/74, Dassonville, Racc. pag. 837, punto 5).
19
Un provvedimento legislativo o regolamentare, come quello di cui trattasi nella causa
principale, il quale vieta la pubblicità televisiva nel settore della distribuzione, non mira a
disciplinare gli scambi di merci fra gli Stati membri. Peraltro, questo divieto non pregiudica
la possibilità per i distributori di usare altre forme di pubblicità.
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E’ pur vero che tale divieto è atto a restringere il volume delle vendite e, di conseguenza, il
volume delle vendite dei prodotti provenienti da altri Stati membri, in quanto priva i
distributori di una determinata forma di promozione dei prodotti distribuiti. Ci si deve tuttavia
domandare se tale eventualità sia sufficiente per qualificare il divieto di cui trattasi come
misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all’importazione ai sensi dell’art.
30 del Trattato.
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A questo proposito, si deve ricordare che non può costituire ostacolo diretto o indiretto, in
atto o in potenza, agli scambi commerciali fra Stati membri, ai sensi della citata
giurisprudenza Dassonville, l’assoggettamento di prodotti provenienti da altri Stati membri a
disposizioni nazionali che limitino o vietino talune modalità di vendita, sempreché tali
disposizioni valgano nei confronti di tutti gli operatori interessati che svolgono la propria
attività sul territorio nazionale e sempreché incidano in egual misura, tanto sotto il profilo
giuridico quanto sotto quello sostanziale, sullo smercio dei prodotti sia nazionali sia
provenienti da altri Stati membri. Ove tali requisiti siano soddisfatti, l’applicazione di
normative di tal genere alla vendita di prodotti provenienti da un altro Stato membro e
rispondenti alle norme stabilite da tale Stato non costituisce elemento atto ad impedire
l’accesso di tali prodotti al mercato o ad ostacolarlo in misura maggiore rispetto all’ostacolo
rappresentato per i prodotti nazionali. Normative siffatte esulano, quindi, dalla sfera di
applicazione dell’art. 30 del Trattato (v. sentenze 24 novembre 1993, cause riunite C267/91 e C-268/91, Keck e Mithouard, Racc. pag. I-6097, punti 16 e 17, e 15 dicembre
1993, causa C-292/92, Huenermund e a., Racc. pag. I-6787, punto 21).
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Orbene, per quanto riguarda una disposizione come quella di cui trattasi nella causa
principale, si deve rilevare che essa riguarda modalità di vendita in quanto vieta una
determinata forma di promozione (pubblicità televisiva) di un determinato metodo di
smercio (distribuzione) di prodotti.
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Inoltre, queste disposizioni, che si applicano, senza distinzioni a seconda dei prodotti, a tutti
gli operatori economici nel settore della distribuzione, anche se costoro sono, allo stesso
tempo, produttori e distributori, non influiscono sulla vendita dei prodotti provenienti dagli
altri Stati membri in modo diverso da quello in cui operano sulle vendite dei prodotti
nazionali.
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Pertanto, la questione va risolta dichiarando che l’art. 30 del Trattato deve essere
interpretato nel senso che esso non trova applicazione nel caso in cui uno Stato membro, in
via legislativa o di regolamento, vieti la diffusione di messaggi pubblicitari televisivi in favore
del settore economico della distribuzione.
[…]