Benedetto Conforti Riflessioni sul diritto internazionale

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Benedetto Conforti Riflessioni sul diritto internazionale
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Benedetto Conforti
Riflessioni sul diritto internazionale contemporaneo
Non è facile descrivere sinteticamente i progressi che, pur tra non poche
ombre, sono stati compiuti dal diritto internazionale dalla fine della
seconda guerra mondiale ad oggi. Eppure, anche solo qualche riflessione al
riguardo può essere utile trattandosi di un diritto che negli ultimi tempi, a
differenza che in passato, viene sempre più evocato, talvolta non proprio a
proposito, dai politici, dai media ed anche dai comuni cittadini.
Nella mia esposizione muoverò da una divisione dell’argomento in
tre parti, utilizzando la classica distinzione che viene operata con riguardo
ad ogni ordinamento giuridico, e cioè la distinzione tra funzione
normativa, funzione giurisdizionale e funzione di attuazione coattiva delle
norme1.
1. Sulla funzione normativa, va premesso che gli strumenti attraverso
cui essa si attua (le fonti) sono, per quanto riguarda la comunità
internazionale nel suo complesso, non molto diversi che in passato. La
fonte principale del diritto internazionale resta il trattato, e dunque uno
strumento di carattere contrattuale. L’altra fonte è la consuetudine, che
secondo una parte della dottrina, peraltro abbastanza superata, non sarebbe
altro che un contratto tacito e che comunque nasce dal concorso dei
comportamenti dei singoli Stati. Una coso deve essere chiara. Tuttora non
esiste un legislatore nell’ambito della comunità internazionale. Non esiste
un legislatore tra gli organi dell’Onu. Tale non è l’Assemblea generale,
nella quale sono rappresentati tutti gli Stati ma che ha poteri esortativi e
non vincolanti nei confronti dei singoli Membri. Né lo è il Consiglio di
Sicurezza, le cui funzioni, come vedremo, vanno piuttosto inquadrate
nella funzione di attuazione coattiva del diritto internazionale. Di una
funzione legislativa può però parlarsi – ed è questo un primo segno di
progresso – nell’ambito di comunità regionali; di queste l’esempio più
significativo è dato dall’Unione Europea, anche se non mancano esempi in
altri continenti.
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Per i dettagli relativi ai punti principali di questa esposizione sia consentito rinviare al mio Diritto
internazionale, 8a ed,, Napoli, 2010, pp. 199-213, 376-401, 435-445.
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Ciò premesso, quando parlo di progressi del diritto internazionale
intendo soprattutto riferirmi alla quantità ed alla qualità delle sue norme. Il
numero di trattati che vengono stipulati e poi trasformati in diritto
nazionale nei singoli Paesi è davvero enorme. In Italia, secondo l’articolo
117 della Costituzione, così come modificato nel 2001, essi addirittura
prevalgono sulle leggi ordinarie di origine nazionale. Ma ciò che è
impressionante è la qualità, sia dei trattati sia delle stesse consuetudini
internazionali che si sono venute formando negli ultimi sessant’anni.
Impressionante è l’erosione di quello che gli internazionalisti
chiamano il dominio riservato (domaine réservé, domestic jurisdiction)
degli Stati.
Il dominio riservato, e cioè l’insieme dei rapporti gelosamente
riservati al diritto nazionale, era, ancora nell’immediato dopoguerra,
estremamente esteso. Si consideri in proposito il campo dei diritti umani,
esempio tipico di dominio riservato. Ancora fino alla metà del secolo
scorso nessuna norma internazionale tutelava l’individuo nei confronti
dello Stato di cui era cittadino. Lo Stato poteva maltrattarlo, torturarlo,
privarlo della libertà personale anche senza l’autorizzazione di un giudice
e cos’ di seguito. In una monografia sulla sudditanza, pubblicata nel 1936,
monografia di grande spessore scientifico per l’epoca, il mio compianto
Maestro Rolando Quadri, sosteneva che il cittadino fosse, per il diritto
internazionale, l’oggetto di un diritto reale del suo Stato nazionale, fosse,
in parole povere, una cosa2. Solo agli stranieri il diritto internazionale
riservava una certa tutela con riguardo alla loro persona ed ai loro beni. Ma
ciò non per un riguardo verso l’individuo in quanto tale bensì per il
rispetto dovuto alla proprietà altrui.
Oggi, come non solo gli internazionalisti sono soliti constatare, la
tutela dei diritti umani, riconosciuta a tutti gli individui, costituisce uno dei
tratti salienti del diritto internazionale. La Dichiarazione universale del
1948, atto rivoluzionario – tanto rivoluzionario che anche taluni tra gli
Stati che lo votarono si affrettarono a sottolinearne la natura non
vincolante, essendo esso emanato dall’Assemblea generale delle Nazioni
Unite3 – aprì la strada a tutta una serie di trattati internazionali sia a
carattere universale (come i Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili e
politici, le convenzioni sulla tortura, sui diritti delle donne, sui diritti del
fanciullo e tanti altri) sia a carattere regionale (come la Convenzione
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R Quadri, La sudditanza nel diritto internazionale, Padova, 1936, cap. III.
V. B. Conforti e C. Focarelli, Le Nazioni Unite, 8a ed., Padova, 2010, p. 417 s.
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europea, la Convenzione interamericana ed altre). Le norme internazionale
sui diritti umani sono considerate così importanti da far ritenere che gli
obblighi che da esse discendono appartengano ormai per consuetudine alla
categoria degli obblighi erga omnes, categoria alla quale ha dedicato
approfondite indagini il nostro consocio Paolo Picone e che consiste negli
obblighi i quali vigono nei confronti della comunità internazionale nel suo
complesso4.
A parte i diritto umani, il diritto internazionale interferisce ormai in
ogni settore della vita sociale ed economica delle comunità statali. É
questo il fenomeno che va sotto l’abusato termine di globalizzazione, ma
che, dal punto di vista strettamente giuridico e sempre per la mancanza di
una vera e propria autorità internazionale, va più propriamente indicato
come internazionalizzazione.
Non solo nella disciplina dei rapporti interni alle varie comunità
statali, ma anche in quella dei rapporti esterni il diritto internazionale ha
fatto notevoli progressi. Tutti i tentativi operati nel periodo tra le due
guerre mondiali e diretti a mettere fuori legge la guerra, fallirono. Ancora
negli anni del dopoguerra vi era chi sosteneva che la guerra fosse lecita.
Anzi, secondo un altro Maestro, il compianto prof. Gaetano Morelli, socio
di questa Accademia, sosteneva che la guerra appartenesse alla fisiologia
del diritto internazionale, assicurando il ricambio delle norme cadute in
desuetudine5. Oggi lo Statuto delle Nazioni Unite, trattato internazionale
che vincola tutti gli Stati, sancisce, all’art. 2, par. 4, il divieto dell’uso della
forza nei rapporti internazionali, salvo il caso di legittima difesa necessaria
per respingere un attacco armato, caso previsto dall’art. 51. Il divieto
dell’uso della forza è peraltro strettamente connesso alle competenze del
Consiglio di sicurezza e quindi tornerò sull’argomento nel trattare
dell’attuazione coattiva del diritto internazionale.
2. Progressi sono registrabili, sia pure in misura minore, nel campo
della giurisdizione internazionale. In passato i tribunali internazionali
avevano pressoché tutti natura arbitrale, e quindi necessitavano
dell’accordo di tutti gli Stati tra i quali era insorta una controversia per
poter emettere la loro sentenza. Oggi, anche se l’arbitrato resta praticato in
più o meno larga misura, e se esso caratterizza finanche la Corte
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V.P. Picone, Comunità internazionale e obblighi “erga omnes”(raccolta di vari scritti sul tema , a
partire dal 1983), Padova, 2006.
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L’opinione è mantenuta dall’Autore ancora nella 7° edizione delle sue Nozioni di diritto
internazionale, Padova 1965, p. 51.
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internazionale di giustizia, organo delle Nazioni Unite, si vanno
moltiplicando le istanze la cui giurisdizione è obbligatoria. Trattasi di
giudici istituiti per singole materie sia a livello universale (come ad
esempio l’Organo di appello della Organizzazione mondiale del
commercio, la cui giurisdizione copre il vasto campo degli accordi sulla
liberalizzazione del commercio internazionale, noti come accordi GATT)
sia a livello regionale (come la Corte di giustizia dell’Unione europea e le
Corti europea, interamericana ed africana dei diritti dell’uomo). Dette
Corti possono essere adite unilateralmente dagli Stati e, nel caso delle
Corti dei diritti dell’uomo, anche dagli individui, contro uno Stato
colpevole di aver violato le norme che regolano la materia di loro
competenza.
3. Passo infine ai meccanismi di carattere coercitivo che a livello
internazionale sono destinati ad assicurare il rispetto delle norme ed a
sanzionarne la violazione. Occorre riconoscere che qui siamo ancora
abbastanza indietro. La materia è complessa e si ispira tuttora in larga
misura al principio del farsi giustizia da se. Mi limiterò qui a trattare
l’argomento che più di ogni altro ha sempre interessato e continua ad
interessare l’opinione pubblica, quello dei mezzi di cui il diritto
internazionale dispone per interdire il ricorso alla guerra, ossia per rendere
effettivo quel divieto dell’uso della forza che abbiamo visto essere sancito
dall’art. 2, par.4 della Carta delle Nazioni Unite. A mio avviso, tale divieto
è strettamente connesso con le competenze che, agli articoli 39 ss., la Carta
attribuisce al Consiglio di Sicurezza in tema di mantenimento della pace. Il
divieto, insomma, costituisce un pendant delle competenze consiliari.
In sintesi, dette competenze sono le seguenti.
Quando il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia
o una rottura della pace, esso può decidere, contro lo Stato al quale si deve
la minaccia o la rottura, sia misure non implicanti l’uso della forza (tipico
l’embargo su alcune o anche su tutte le merci dirette allo Stato,
l’interruzione di ogni forma di comunicazione e simili) sia misure
implicanti l’uso della violenza di tipo bellico, mediante forze aeree
terrestri e/o navali e/o aeree. Sebbene non manchi qualche esempio
relativo a guerre internazionali (come nel caso dell’aggressione dell’Iraq
al, e conseguente occupazione del, Kuwait nel 1990-91), la maggior parte
dei casi in cui il Consiglio ha deciso di intervenire (a partire dall’intervento
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nel Congo nel 1960) riguardano guerre civili, e particolarmente situazioni
di gravi violazioni dei diritti umani.
Per quanto riguarda le operazioni militari, il Consiglio, secondo la
Carta (art. 42 ss.), dovrebbe condurle direttamente, ovvero utilizzando
forze messe permanentemente a sua disposizione dagli Stati e comandate
da un Comitato di stato maggiore alle sue dipendenze. Diciamo
“dovrebbe” perché, dal 1945 ad oggi, gli art. 42 ss. della Carta non hanno
mai trovato attuazione. Gli accordi con cui gli Stato avrebbero dovuto
mettere a disposizione del Consiglio forze militari, si da costituire un
corpo permanente di polizia internazionale, non sono stati mai conclusi; né
il Comitato di stato maggiore ha mai funzionato. Il Consiglio ha invece
proceduto volta per volta, incaricando il Segretario generale dell’ONU a
reclutare forze e condurre operazioni militari. Ma anche ciò è avvenuto
raramente. Nella maggior parte dei casi si è preferito delegare l’uso della
forza agli Stati, singolarmente o in quanto membri di organizzazioni
regionali (l’ultimo di una lunga serie di interventi di tal genere è quello
relativo alla Libia nel corrente 2011). E’ chiaro che così facendo,
sottraendo al Consiglio la condotta delle operazioni, vengono meno o sono
assai affievoliti quei caratteri di obbiettività e imparzialità dell’azione di
polizia internazionale che i fondatori delle Nazioni Unite avevano
concepita.
Occorre poi riconoscere che vi sono tanti casi in cui il Consiglio non
riesce ad attivarsi a causa dell’esercizio del diritto di veto da parte di una o
più delle cinque Potenze (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina e
Russia) che ne hanno la titolarità. Avviene inoltre che, anche quando il
Consiglio si attiva, le sue decisioni, essendo frutto di compromessi, sono
talmente ambigue da lasciare gli Stati liberi di interpretarle come meglio
credono.
Ma allora, posto che le competenze consiliari costituiscono un
pendant del divieto dell’uso della forza, che ne è di tale divieto quando, di
fronte ad una crisi internazionale o interna il Consiglio di Sicurezza non
riesce ad agire o agisce in modo incompleto o inefficace. La mia opinione
– ma si tratta di un’opinione molto criticata in dottrina – è che, quando una
guerra, internazionale o civile è scatenata, e l’ONU non riesce ad
intervenire, non c’è che da prendere atto che il diritto internazionale ha
esaurito la sua funzione. La guerra non può allora essere valutata
giuridicamente ma solo politicamente e moralmente Politicamente e
moralmente essa può essere giustificata o condannata a seconda dei valori
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che persegue e dal suo eventuale presentarsi come il male minore. Ma dal
punto di vista del diritto internazionale essa non è né lecita né illecita; è
indifferente. Insomma è questo un caso che dimostra che un ordinamento
giuridico può avere delle lacune e che non è vero che esista sempre una
norma di chiusura dell’ordinamento per cui ciò che non è vietato è
permesso.
4. La descrizione degli strumenti diretti ad assicurare l’efficacia del
diritto internazionale non sarebbe però completa se non si tenesse conto di
un altro elemento, e cioè del supporto che, per così dire, i diritti nazionali,
e per quel che ci riguarda il diritto italiano, forniscono al diritto
internazionale. Si è già avuto occasione di ricordare che, in Italia, l’art. 117
della Costituzione assegna ai trattati di cui il nostro Paese è parte una forza
superiore a quella della legge ordinaria. Aggiungo che per l’art. 10 della
stessa Costituzione le consuetudini internazionali hanno addirittura rango
costituzionale. Norme simili le troviamo nelle costituzioni, scritte o non, in
tutti i Paesi. Ebbene, io ho sempre sostenuto che, per la presenza di queste
norme, il diritto internazionale debba essere in tutto e per tutto trattato
come il diritto nazionale. I giudici, in particolare, devono applicarlo e farlo
rispettare, con la conseguenza che le sanzioni che garantiscono detto
rispetto valgono per il diritto internazionale così come valgono per il
diritto interno. È questa una tesi che ormai trova riscontro nella
giurisprudenza italiana. Oggi la nostra giurisprudenza è una delle più
ricche e più progressiste tra le giurisprudenze nazionali, come è
universalmente riconosciuto all’estero6. Ma abbiamo dovuto a lungo
combattere per superare diffidenze ed anche insufficiente preparazione dei
nostri giudici, insufficienza alimentata fino ad alcuni decenni fa
dall’atteggiamento di vari, pedanti cultori di altre materie giuridiche,
secondo cui il diritto internazionale sarebbe materia “culturale”.
Anche il divieto dell’uso della forza, a parte quanto si è detto circa la
sua connessione con le competenze del Consiglio di Sicurezza, può trovare
il suo supporto nelle norme interne simili a quella dell’art. 11 della nostra
Costituzione, per cui l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa
alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali.
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Le sentenze italiane più significative sono pubblicate in un Annuario italiano in lingua inglese
ormai alla sua XX annata (il The Italian Yearbook of International Law) e quindi accessibili agli
stranieri.
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5. Se mettiamo da parte l’indispensabile funzione che, ai fini di
assicurare il rispetto del diritto internazionale, svolgono gli operatori
giuridici interni ed in primo luogo – lo ribadisco – i giudici nazionali, se
torniamo al diritto internazionale in quanto tale, quale è in definitiva il
quadro che emerge da quanto ho detto circa le tre funzioni in cui è
scomponibile l’ordinamento internazionale ? In proposito è il caso di
partire da un vecchio e scettico detto secondo cui nel diritto internazionale
non vi sarebbero ni lois, ni juges, ni gendarmes. Oggi si può ritenere che le
leggi, sia pure sotto forma di trattati, esistono in grande copia, che i giudici
si vanno moltiplicando e sempre più spesso non necessitano dell’accordo
di tutte le parti in causa per poter giudicare, ma che purtroppo i gendarmi,
quando ci sono, sono poco efficaci.
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