la cover c`est moi

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la cover c`est moi
MobyDICK
spettacoli
Pop
Macy come Nina:
la cover c’est moi
L
a stiamo perdendo, ragionavo fra me e me osservandola sul palcoscenico del Teatro Ariston, al
Festival di Sanremo. Intonava
alla bell’e meglio, infagottata e
un po’ intronata, The Flame:
versione inglese dell’indimenticabile Almeno tu nell’universo
di Mia Martini. Reggeva il moccolo, non s’è mai scoperto se
più fumata o più bevuta, a Gigi
D’Alessio e a Loredana Bertè.
La quale Bertè, al confronto, è
sembrata una ragazzina.
Ahi ahi, Macy Gray. Che figuraccia, pensavo mentre la ripensavo al debutto, la cantante
dell’Ohio dalla voce acidula e
screpolata capace di mescolare
soul, jazz e urban contemporary. Gran bell’album On How
Life Is del 1999: sette milioni di
copie vendute e almeno un paio
di pezzi, I Try e Do Something,
a far da traino. Notevole The Id
del 2001 con Sexual Revolution
e Sweet Baby, in coabitazione
con Erykah Badu.
Pareva non doversi fermare
mai, Macy: caracollava da una
collaborazione alll’altra (Fatboy Slim, Carlos Santana, Justin Timberlake, Natalie Cole,
Fergie dei Black Eyed Peas, i
rapper will.i.am e Nas) e intanto metteva a segno The Trouble
With Being Myself (2003) e Big
(2007), temperamentosi e lunatici quanto lei, e poi The Sellout (2010): enciclopedicamente soul, divertente, rilassato. E
adesso cosa ti combina, per
tentare di riscattarsi dal flop
sanremese? Quello che fanno
tutti, quando l’ispirazione latita e la carriera langue: un bel
Teatro
S
12 maggio 2012 • pagina 15
di Stefano Bianchi
disco di cover. Ci siamo, bye
bye Macy Gray. Prima di cestinarlo, però, leggo per curiosità
chi lo produce. È Hal Willner,
l’artefice dei memorabili tributi jazz & rock a Thelonious
Monk, Cole Porter e Nino Rota,
nonché del discusso e geniale
Lulu firmato Lou Reed & Metallica. Praticamente una garanzia. Poi scorro i titoli in scaletta, quasi tutte canzoni tratte
dal repertorio indie-rock dell’ultimo decennio, e mi rendo
conto che Macy non sta bluffando. Anzi: si merita ancora
una chance, a maggior ragione
dopo aver scoperto che s’è ispirata alle cover di Nina Simone,
straordinaria voce jazz e suo
mito in assoluto, dichiarando:
«Lei non si è mai preoccupata
di ciò che i critici avrebbero
pensato o come l’avrebbero
confrontata con altri. Ogni volta che Nina prendeva una canzone la faceva sua, diventava
sua. Nel mio piccolo, ho cercato di fare altrettanto». E c’è
davvero riuscita, a cominciare
da Here Comes The Rain Again
degli Eurythmics vissuta quasi
sottovoce con l’elettronica a
farle da contrappunto, proseguendo con CreepSmoke Two
Joints, del gruppo reggae The
Toyes, rivisitata in stile Red
Hot Chili Peppers e Teenagers
dei My Chemical Romance,
giocosa con quel pianoforte a
farle compagnia, il retrogusto
rhythm & blues e un coro di
bimbi in sottofondo. Azzeccatissimi, poi, il restyling di
Nothing Else Matters dei Metallica fra epiche orchestrazioni e un salubre respiro da ballata; l’atmosfera folk-blues di
Sail, dal repertorio dei misconosciuti Awolnation; il passo
sempre più spinto, a un’incollatura dal punk, di Maps degli
Yeah Yeah Yeahs; i guizzi creativi del medley fra Lovelockdown di Kanye West e Buck di
Nina Simone; le morbide evanescenze di Bubbly, della cantautrice statunitense Colbie
Caillat; l’energia tribale e i vezzi calypso di Wake Up, iconico
brano degli Arcade Fire. Ideona: fra una cover e l’altra, si intromettono dialoghi radiofonici, libere improvvisazioni, campionamenti elettronici e rap
assortiti. Tanto di cappello,
rediviva Macy Gray.
Macy Gray
Covered
429 Records
Universal Music
14,99 euro
Fenomenologia (romana) del Living Theatre
i è da poco conclusa Il geroglifico
di un soffio in cui sono stati mostrati - in prima mondiale - i percorsi paralleli di costruzione e
memoria di Serge Ouaknine e Ferruccio
Marotti, ispirati al lavoro teatrale del regista polacco Jertzy Grotowski, e subito
ecco affacciarsi un altro mito del teatro
del Novecento: il Living Theatre. Siamo
nel 1943: dall’incontro tra Julian Beck,
fino ad allora fondamentalmente artista
visivo, e Judith Malina, allieva di Piscator, prende forma l’idea che si concretizzerà solo quattro anni dopo, di un gruppo di artisti riconoscibili con il nome di
Living Theatre. La loro prima produzione risale al 1951. Dieci anni dopo lo stesso Beck così stigmatizza la sua prioritaria motivazione di esprimersi attraverso
il mezzo teatrale: «Un luogo di esperienze intense, metà sogno, metà rituale, nel
quale lo spettatore si avvicini a una sorta di visione della comprensione di se
stesso che superi il livello della coscienza per arrivare all’inconscio, a una consapevolezza della natura di tutte le cose». In netta contrapposizione con il tea-
di Enrica Rosso
tro ricco ma morto delle mega produzioni commerciali di Broadway, la peculiarità del Living consisterà nell’essere un
gruppo aperto, in continua mutazione.
Provocatori, fortemente innovatori ed
estremi rispetto all’epoca, anarchici, pacifisti e sognatori, fautori di happening
in cui il pubblico veniva chiamato a partecipare in modo determinante, useranno il mezzo teatrale per dare voce alle
loro convinzioni politico-culturali.
La mostra che si è inaugurata ieri a Roma, alla Casa dei teatri Villa Doria
Un bozzetto di Julian Beck
esposto alla mostra di Roma
Pamphilij - Villino Corsini, presenta
una serie di materiali di varia natura disegni, fotografie, video, suoni, incontri - legati ai sette anni «italiani» di
Beck: molti spesi in tournée (scandite
da lunghe permanenze a Cosenza e a
Torino), fino all’approdo nel ‘75 alla
Biennale Teatro di Venezia con il controverso Sette meditazioni sul sadomasochismo politico, Sei atti pubblici,
La torre del denaro. Un itinerario sensoriale ricco che si sviluppa nelle quattro sale del Villino con un avvicinamento graduale. La prima sala accoglie immagini statiche: locandine e articoli
d’epoca tra cui svettano, per la prima
volta in mostra, i bozzetti dei costumi
che Julian Beck disegnò per il suo penultimo spettacolo The Yellow Methusalem. Nella seconda ci confrontiamo
con quattro monitor che restituiscono
vita, prove e spezzoni di spettacoli del
Living. La terza sala è dedicata alle
suggestioni beckiane, per concludere il
percorso nella quarta sala, con le foto e
i testi rivelatori di quella sensibilità artistica e poetica mista a un profondo
senso di appartenenza a un’epoca che
hanno prodotto una realtà talmente radicata che tutt’oggi, ventisette anni dopo la scomparsa di Julian Beck, il Living prosegue ancora la sua ricerca
sotto la direzione artistica di Judith
Malina e Hanon Reznikov.
Inoltre oggi pomeriggio alle 15 sarà possibile incontrare Catherine Marchand,
un pilastro del Living e il gruppo degli
italiani Motus, mentre domani alle 11,30
il professore di Storia del teatro Franco
Ruffini incontrerà il pubblico a proposito di Paradise Now!, storica produzione
del gruppo cosmopolita. E ancora, a cura della Biblioteca della Casa dei Teatri,
a richiesta, durante tutto il periodo della
mostra sarà possibile visionare ulteriori
documenti e video.
Immagini del Living Theatre - il segno
di Julian Beck a Roma, Casa dei teatri
Villa Doria Pamphilij - Villino Corsini, fino al 24 giugno, Info: www.casadeiteatri.culturaroma.it - tel. 06 45460693