australia dreaming. l`epoca dei sogni degli aborigeni
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australia dreaming. l`epoca dei sogni degli aborigeni
In cammino su sentieri sterrati Australia Dreaming L’epoca dei sogni degli Aborigeni I miti della creazione e le speranze del futuro degli ultimi “custodi” della terra Sessantamila anni In copertina: aborigeno a Sydney oggi. A kato: immagini storiche. Dopo aver visto in sintesi alcuni capitoli principali della scoperta e colonizzazione europea dell’Ultimo Continente, la terra agli “antipodi” (http://www.geacoopsociale.eu/pdf/pop5graffiti/imp.australia.pdf), con tutte le atrocità e i crimini commessi contro il popolo aborigeno, vogliamo ora parlare dell’aspetto più luminoso di questa terra meravigliosa e della storia delle tribù che l’hanno abitata ininterrottamente per qualcosa come 60.000 anni. Probabilmente non esiste altro popolo che si sia adattato a vivere così a lungo in una varietà di ambienti diversi come quello aborigeno. Dai deserti, alle montagne, alle foreste tropicali, le tribù australiane hanno sviluppato sistemi per l’utilizzo ottimale delle risorse, riducendo tendenzialmente gli sprechi a zero. Ad una ricchissima cultura materiale, costituita da una miriade di strumenti per cacciare, pescare ed ottenere risorse dall’ambiente, si aggiunge un corpo di credenze altrettanto ricco, il cui fine è spiegare le origini del mondo e della vita, dando al tempo stesso un significato vivo e vitale al rapporto dell’uomo con i suoi simili e con l’ambiente. “The Dreaming”, l’epoca dei sogni La colonna portante delle credenze aborigene è il cosiddetto “Dreaming” (in inglese) o “Tjukurpa” (in lingua aborigena), il mito della creazione dell’universo e di tutte le cose. Pur nelle varianti locali delle tribù che vivono sparse per il continente, esiste la credenza in una “epoca dei sogni”, in cui il mondo era una massa informe, priva di caratteristiche riconoscibili. Gli Antenati (“Ancestors”), identificati con i totem delle tribù ma che sono al tempo stesso anche spiriti ed esseri umani primordiali, presero vita, o si svegliarono dal loro sonno, o emersero dalle profondità di questa materia, e si misero a viaggiare su tutta la terra, creandola al tempo stesso mentre la percorrevano e attraverso il potere del canto, con cui diedero nomi alle cose portando in vita il mondo intero. Nel fare ciò crearono anche gli uomini e le relazioni tra uomini e con tutte le cose esistenti. Una volta concluso il loro compito, questi esseri si ritirarono di nuovo nelle profondità della terra per riposare, oppure si mutarono nelle caratteristiche stesse del luogo, le montagne, gli alberi, gli specchi d’acqua, che infatti sono sacri agli aborigeni. E’ interessante notare come i canti siano ancora oggi una parte centrale del patrimonio della cultura dei nativi australiani. Si credeva infatti che gli esseri ancestrali, durante il loro viaggio sulla terra, avessero quasi “seminato” delle tracce musicali attorno alle proprie orme, e che da queste tracce si potesse ricostruire non solo il percorso sacro compiuto da questi esseri, ma la morfologia stessa del territorio attraverso il ritmo tranquillo o movimentato del suono e delle parole che accompagnavano la melodia. Considerati nella loro interezza, i viaggi di tutti gli esseri ancestrali all’inizio dei tempi restituivano qualcosa di molto simile ad una “mappa musicale” dell’intero continente australiano, una sorta di enorme griglia i cui punti d’intersezione corrispondevano ai confini territoriali di ogni tribù e potevano venir usati per orientarsi e trovare la direzione giusta, anche in pieno deserto. Considerato nell’ottica dell’utilità pratica per gruppi tribali nomadi, che erano obbligati a spostarsi su base stagionale per reperire le risorse di acqua e cibo essenziali alla sopravvivenza, poter disporre di uno strumento di questo tipo era d’importanza vitale… Il “Dreamtime” è una realtà sempre presente, fuori dallo scorrere del tempo, pertanto dà un significato profondo alla vita “qui e ora”, in armonia con un ambiente naturale anch’esso considerato sacro. Esistono numerose leggende e miti del Dreamtime, la cui proprietà è degli aborigeni. Alcune leggende, simili per certi aspetti alle nostre fiabe, sono accessibili ad un pubblico vasto. Altre invece, più serie, sono riservate ai soli iniziati. “Vedere com’eravamo all’inizio della nostra storia” L’apparente semplicità di queste credenze e di tante altre che raccontano viaggi e vicende degli Antenati, elaborate da un popolo generalmente considerato “primitivo” dalla cultura occidentale, non va confusa con la loro rilevanza ai fini dell’analisi di alcuni meccanismi alla base della cultura umana e dei sistemi di organizzazione sociale. Nel 1913 Sigmund Freud pubblicava una raccolta di quattro saggi intitolata “Totem e Tabù: somiglianze tra vita mentale dei selvaggi e dei nevrotici”, in cui applicava la psicanalisi all’ambito dell’archeologia, dell’antropologia e dello studio della religione. Alcuni degli esempi discussi dal fondatore della psicanalisi, relativi ai tabù nelle società totemiche, erano tratti da studi precedenti condotti sulle tribù aborigene dall’antropologo James Frazer. Alfred Reginal Radcliffe-Brown (1881-1955), considerato invece uno dei fondatori del funzionalismo in antropologia sociale e studioso britannico tra i più influenti del suo tempo, condusse diverse spedizioni in Australia proprio per studiare la cultura aborigena. Nel suo prestigioso curriculum compare tra l’altro la direzione dell’Istituto di antropologia dell’Università di Sydney. “Custodi” della terra Per gli aborigeni ogni uomo è legato ad un luogo particolare, dove l’antenato della sua tribù ha creato qualcosa, o ha lasciato segni del suo passaggio. E ogni uomo ha il dovere di “custodirlo”, di prendersene cura, compiendo i rituali come canti, danze, raffigurazioni dei viaggi dell’antenato, che rinnovano il rapporto con lo spirito ancestrale, il creatore del tempo delle origini. Il concetto di “custodianship” è centrale nella visione del mondo aborigena e del ruolo dell’essere umano in esso. Per i “figli del Dreamtime” non è pensabile combattere, oppure vendere, oppure sfruttare la terra come altri popoli hanno sempre fatto. Ogni tribù, e ogni membro all’interno di essa, detiene da tempo immemore una porzione di territorio, che non può essere scambiata con altre né alienata perché è quella che gli “Ancestors” hanno creato proprio per quella tribù all’inizio dei tempi. Ogni aborigeno ha il dovere di tutelare e proteggere l’animale sacro del suo gruppo (totem), considerato in alcuni casi l’incarnazione dello spirito ancestrale. Ha il dovere di compiere viaggi ai luoghi sacri della sua terra, dove gli esseri primordiali hanno riposto il proprio potere vivificante oppure si sono mutati nelle rocce e negli alberi. Mettersi in cammino per raggiungere questi luoghi ed entrare fisicamente in contatto con essi significa qualcosa di simile al “sintonizzarsi” con l’energia vitale che ha creato il mondo, rinnovando e ristabilendo un rapporto positivo con queste forze ancestrali considerate benefiche e protettrici, perché da loro è inizialmente sgorgata la vita. “La terra non appartiene all’uomo. E’ l’uomo che appartiene ad essa” Gli aborigeni credono che tutto l’esistente, uomini, animali, ma anche il paesaggio con tutto ciò che contiene, siano profondamente connessi tra loro perché condividono l’essenza primordiale che li ha creati. Nei nativi è fortissimo il senso di un legame con la terra. E il Dreamtime non ha solo creato l’universo, ma ha anche dato agli uomini precise regole di comportamento cui attenersi per vivere in armonia con la natura, normando ciò che si può o non si può fare. Questa disciplina è insegnata e tramandata dagli anziani della tribù, “custodi” della tradizione. “Il tuo Dreaming è qui. Devi prenderti cura di questo posto. Esiste dal primo totem della tribù. Mio padre veniva qui tutti gli anni con gli anziani. Facevano qualcosa qui, cantavano, compivano rituali, in modo che il totem tornasse in vita e la sua energia si spandesse di nuovo. – Ma che cosa c’è qui esattamente?- Non lo sappiamo. C’è qualcosa. Come uno spirito, o un motore, o un potere. Qualcosa che pulsa, che è per sempre vivo” (passo tratto da W.E.H. Stanner, Religione, Totemismo e Simbolismo, in R.M. Berndt e C.H. Berndt, L’uomo aborigeno in Australia, Angus e Robertson, Sydney 1965) Montagne sacre “The Olgas”, nell’outback. “Il Serpente Arcobaleno è il creatore di tutte le cose: mostrategli rispetto.” Questa scritta accompagna un murales disegnato su un edificio della città di Sydney, la capitale economica del paese. Il riferimento è ad un animale mitologico, un serpente di dimensioni colossali, associato all’acqua, presente praticamente in tutte le leggende aborigene del “Dreamtime” o dei periodi immediatamente successivi a quello iniziale della creazione. Gli aborigeni credono che questo essere amministri e dispensi le risorse di “oro blu” e viva nelle “waterholes”, le pozze d’acqua permanenti che si trovano sparse nel paesaggio. Strisciando sulla terra subito dopo il “Dreamtime”, il serpente ha creato le montagne, le rocce, le grandi gole dei canyon dell’outback riempiendole poi di corsi d’acqua e consentendo quindi agli esseri umani di raccogliere questa risorsa essenziale alla vita. Si dice che il Serpente Arcobaleno abbia vagato sulla terra finché non ha infine trovato la sua dimora ultima, in un luogo segreto che nessuno conosce. I nativi credono che questo essere ancestrale viva per sempre, “osservando con interesse e preoccupazione ciò che succede a tutte le donne e gli uomini aborigeni, in tutti i luoghi e in tutti i tempi”. Trovano conferma dell’esistenza di un’entità superiore osservando le meraviglie del creato, in particolare appunto l’arcobaleno, che nei suoi colori e nella sua forma riflette lo splendore del grande essere delle origini. “L’arcobaleno è inoltre considerato un segno visibile che il Serpente Arcobaleno esisterà per sempre come uno spirito di protezione e di conforto del suo popolo. Ancora oggi, si continua a parlare di questa creatura mitologica, così potente e dal fascino suggestivo, con grande deferenza e rispetto” (passo tratto da The Dreaming of Aboriginal Australia, Kaliarna Productions Pty Ltd). “Dalla cultura può nascere un nuovo futuro per gli Aborigeni” A colloquio con Philip Jones, curatore della Galleria degli Aborigeni al South Australian Museum, la collezione più importante del mondo dedicata alla cultura aborigena. Il South Australian Museum di Adelaide vanta la più grande e significativa collezione al mondo di manufatti appartenenti alla cultura materiale aborigena, con più di 3.000 oggetti in esposizione. La Galleria occupa due piani che espongono documenti relativi sia alla vita e all’organizzazione sociale dei nativi prima e dopo il contatto con gli europei, sia alle tradizioni delle varie tribù su base regionale. I materiali raccolti permettono di farsi un’idea dell’estremo grado di conoscenza dell’ambiente e delle tecniche per estrarne risorse vitali, che gli aborigeni avevano sviluppato nel corso della loro lunga storia. Il prof. Philip Jones durante l’intervista. Una Galleria unica al mondo “L’importanza della Galleria risiede nel fatto che illustra la cultura materiale delle tribù coprendo l’intero continente, spiega Philip Jones, curatore dell’esposizione e tra i massimi specialisti al mondo della materia. I manufatti, unici nel loro genere, sono stati collezionati grazie al lavoro e allo sforzo di generazioni di antropologi, esploratori, missionari, funzionari delle stazioni postali o di polizia, tutti uomini che vivevano in prima persona la vita di frontiera. Erano quindi più in contatto con le tribù aborigene che ancora vivevano nel “bush”, e non nelle fattorie o in contesti urbani, dove le antiche tradizioni sopravvivevano soltanto in forme diluite”. Qui a lato, una guida aborigena ad Ayers Rock. Il contributo di Edward Stirling e Norman Tindale L’impulso determinante per attivare questo network di persone fu di Sir Edward Charles Stirling (1848-1919), antropologo e direttore dello stesso South Australian Museum nel 1884-1885, che contribuì in larga misura a raccogliere le collezioni oggi esposte. Altro personaggio il cui lavoro sul campo è stato fondamentale per la conoscenza della cultura aborigena è Norman Tindale (19001993), autore della “Mappa Tindale”, pubblicata nel 1974, un enorme lavoro di ricostruzione dei confini territoriali tradizionali dei vari gruppi aborigeni di tutta l’Australia sulla base di diverse fonti storiche, che mostra le complesse interazioni a livello politico-sociale tra le tribù e richiese più di 50 anni per essere completata. “La Galleria espone collezioni sulle armi tradizionali per la caccia o per la guerra, prosegue Jones, strumenti per la raccolta di bacche, la pesca, l’estrazione di acqua dalle riserve sotterranee del deserto, l’accensione e la conservazione del fuoco, la medicina naturale, gli strumenti in pietra e tutta una serie di oggetti cerimoniali, sculture sacre, maschere e altro ancora, oltre ovviamente ai famosi boomerang”. E’ interessante notare come praticamente tutti i materiali siano riconducibili, in forme più o meno dirette, ai miti e alle leggende del “Dreamtime”, a insegnamenti degli anziani dei clan in nome del “si è sempre fatto così fin dall’inizio dei tempi”. Secondo la tradizione, i figli del Dreaming hanno imparato dagli esseri ancestrali ingegnose tecniche di richiamo e cattura degli animali, insieme ai “tricks” (astuzie, trabocchetti) per sopravvivere negli ambienti più diversi che l’enorme continente australiano offriva loro. Cicatrici rituali in un giovane aborigeno. Foto storica. Per sempre arcaici? “Tuttavia, prosegue il professore, è innegabile che le tribù aborigene fossero rimaste indietro rispetto al processo evolutivo conosciuto in Europa. Possiamo dire che vivevano ancora nell’età della pietra quando i primi esploratori bianchi arrivarono qui. Questa valutazione non vuole in alcun modo esprimere un giudizio morale o stabilire un criterio di ‘inferiorità’ rispetto ad altri popoli, ma solo considerare i fatti e invitare a riflettere sulle condizioni che hanno reso possibile il cosiddetto ‘progresso’ inteso alla maniera occidentale. A mio personale giudizio, in Australia non esistevano nemmeno i meccanismi che invece altrove avevano fatto scattare la molla dell’evoluzione della società, ovvero l’agricoltura e l’utilizzo della ruota o degli animali da traino, con tutte le applicazioni per la produzione di beni e di cibo e quindi per la transizione della società umana da nomade (cacciatori-raccoglitori) a stanziale (agricoltoriallevatori). Condivido perciò, nella sostanza, quello che sosteneva per esempio Freud: studiare la cultura aborigena è importante perché consente di capire come era l’uomo nelle fasi iniziali della sua storia. E’ quasi come vedere a ritroso nel nostro passato”. Dalla conoscenza nasce il rispetto Oggi gli aborigeni sono ancora per lo più relegati ai margini della società australiana, nel loro stesso paese. Ricevono in molti casi un vitalizio da parte del governo, che non li stimola a lavorare. Fanno spesso notizia sui giornali per i motivi sbagliati, e probabilmente si possono considerare un popolo “distrutto” dall’azione corrosiva della colonizzazione. Sono inoltre scarsamente integrati nel circuito turistico e pare che l’ubriachezza sia entrata a far parte del loro modo quotidiano di vivere. All’interno di uno scenario desolante come questo, può la cultura essere una risorsa per favorire in primo luogo la comprensione, e quindi rilanciare l’immagine di un popolo aprendo nuove prospettive di integrazione? E’ vero che l’arte figurativa aborigena riscuote un buon successo nelle gallerie di tutto il mondo e viene esibita ad esempio negli States e in generale nei posti che contano, ma spesso gli artisti restano pressoché sconosciuti. La stessa cultura tradizionale dei popoli nativi, nei suoi aspetti meno “commercializzabili”, è ancora largamente ignorata. “Dalla conoscenza nasce il rispetto, prosegue il professor Jones. Molto del sapere accumulato dal popolo aborigeno nel corso dei millenni è, in fondo, alla base della società umana, perché senza l’armonia con la natura e una conoscenza approfondita delle sue risorse non si costruisce nulla di duraturo. Anzi, oggi l’uomo è obbligato a rendere più sostenibile il proprio modo di vivere se vuole andare avanti”. Un nuovo futuro: “la saggezza delle origini” “Credo che il futuro degli aborigeni dipenda non solo da loro, prosegue Jones, che sono chiamati a integrarsi maggiormente nel tessuto sociale ed economico del paese, ma anche dalla considerazione che di essi ha la parte bianca della popolazione australiana. Finora è mancato un sostanziale ‘ottimismo’, una propensione a considerare in modo favorevole i nativi di queste terre e le potenzialità che sono in grado di esprimere. Dobbiamo in sostanza lavorare anche su noi stessi, modificando la nostra attitudine verso di loro. Dobbiamo rovesciare la prospettiva dominante e chiamarli a noi per imparare – o reimparare – ciò che definirei ‘la saggezza delle origini’, che è poi strettamente legata alla nozione stessa di un futuro sostenibile”. Non dimentichiamoci infatti che proprio oggi, nella dimensione del ‘qui e ora’, l’uomo cosiddetto ‘moderno’, figlio della società civile, sta lavorando per ritrovare – anche con l’ausilio delle più avanzate tecnologie - una dimensione di equilibrio con l’ecosistema, per gestire le risorse in modo più efficiente e ridurre al minimo gli sprechi. Tutto ciò, conclude il professore con un sorriso, non ci ricorda forse qualcosa?” La “rivincita” degli aborigeni? Il boomerang nell’immaginario europeo Vogliamo concludere questo contributo sulla terra d’Australia e sulla sua cultura straordinaria con quella che è forse l’immagine simbolo più potente dell’intero continente: il boomerang. Se esiste un oggetto che ha letteralmente “catturato” la curiosità e l’immaginazione occidentale fin dalle origini, così come si cattura una preda nel deserto, questo è proprio l’oggetto che in virtù di peculiari proprietà aerodinamiche può essere lanciato con precisione micidiale, per uccidere o stordire la preda fino a circa 200 metri di distanza, e poi tornare come per magia nelle mani del cacciatore che lo ha lanciato. Il boomerang non è un’invenzione unicamente australiana. Al contrario, ne sono stati trovati esemplari in ritrovamenti archeologici di numerose civiltà antiche un po’ in tutto il mondo: dall’Egitto all’Africa, dall’America alle regioni polari, dall’India alle isole del Pacifico meridionale, fino a vari paesi europei. Peculiare però solo dell’Australia è un utilizzo così prolungato nel tempo di questo strumento. L’associazione tra uomo e boomerang è talmente forte nella cultura tradizionale aborigena che nei miti del Dreamtime si narra di esseri ancestrali che crearono il paesaggio scagliando i loro wirlki contro le montagne all’inizio dei tempi, oppure di anziani in lotta tra loro che furono colpiti dai boomerang e si trasformarono in uccelli meravigliosi, in eterno volo sopra le loro terre. “Pochi manufatti meccanici mostrano una padronanza di così tante leggi scientifiche da parte dei suoi inventori, spiega il professor Jones nel suo libro Boomerang. Behind an Australian Icon – Boomerang. Dietro un’icona australiana. Il boomerang che ritorna nelle mani di chi lo ha lanciato condivide i suoi principi di volo con un disco volante, un aeroplano, un’elica, un elicottero e un giroscopio. Le leggi fisiche alla base del suo funzionamento sono il principio di Bernoulli sul differenziale di pressione dell’aria, e le leggi di Newton, tra le altre…”. Il volo del boomerang si spiega con diversi principi dell’aerodinamica, ma un ruolo fondamentale è svolto dalla differenza di pressione dell’aria che si crea tra la parte superiore (convessa) dello strumento e la faccia piatta. La prima superficie è leggermente curva, e ciò significa che l’aria deve scivolare più rapidamente su di essa rispetto che sulla superficie piatta, a parità di tempo. Questo crea una differenza di pressione che permette al boomerang di librarsi in aria. Lo stesso principio viene sfruttato anche per il volo degli aerei. Altre leggi fisiche consentono la rotazione in aria del boomerang e la sua traiettoria circolare, che ne fa appunto una strumento di “ritorno”, almeno nella sua variante più conosciuta. Altri tipi con caratteristiche differenti, invece, non erano progettati con questa particolare caratteristica ma come armi da lancio per altre situazioni o come oggetti cerimoniali. E’ straordinaria la varietà d’impieghi che il boomerang da caccia trovò nella cultura aborigena. Il boomerang di ritorno veniva solitamente usato per uccidere i possum, marsupiali australiani che vivono sugli alberi, simulando attacchi aerei di uccelli predatori. L’effetto che si otteneva era di impaurire l’animale e costringerlo a fuggire, abbandonando l’albero. A terra però il suo destino era segnato, ed il possum diventava facile preda dei cacciatori. Il boomerang di ritorno veniva anche utilizzato per cacciare gli uccelli o disturbarne il volo, disorientando gli animali che venivano poi colpiti anche con altre armi. Esistevano inoltre boomerang per la pesca, usati per stordire o uccidere i pesci nel loro elemento. Le caratteristiche di questo strumento, dall’aspetto così semplice ma dotato di poteri quasi “magici”, ne fecero un oggetto di culto per gli occidentali. Moda, design, marchi di fabbrica, slogan pubblicitari, spesso associati anche con l’immagine del canguro, l’hanno reso celebre in tutto il mondo pur avendo origini “umili”, nato da bisogni elementari. L’idea del ritorno, nel senso commerciale ampio dell’affidabilità e sicurezza, è stata sviluppata molto in ambito pubblicitario e delle strategie di comunicazione di numerose aziende, le quali ne hanno fatto una sorta di metafora delle qualità dei propri prodotti (che non tradiscono e tornano sempre al servizio del cliente), per non parlare della sterminata produzione di oggettistica e gadget che si richiamano in vario modo al boomerang. Intere compagnie hanno fondato su quest’icona dell’ “autentica” Australia le loro speranze di fortuna commerciale e di successo economico. Il lungo volo del boomerang, che ha percorso ormai tutti i continenti di un mondo sempre più globalizzato, troverà infine la strada del ritorno nella terra degli aborigeni, portando con sé una nuova consapevolezza per la storia ed il futuro di questo popolo, restituendo ciò che è stato loro sottratto in secoli di sfruttamento e massacri? Di sicuro, e qui sta forse un amaro paradosso della storia, gli stessi aborigeni non avrebbero mai pensato che il boomerang potesse contribuire con il solo potere evocativo della sua immagine, al successo turistico e allo sfruttamento commerciale della loro terra. Una terra della quale, forse ancora oggi, continuano a sentirsi custodi e guardiani… Un murales nel quartiere di Redfern a Sydney. Il tema di cui abbiamo cercato di parlare in questi contributi ha affascinato eminenti intellettuali nel corso della storia, e appassionato generazioni di viaggiatori ed entusiasti. Oltre ai nomi già ricordati, molti dei quali hanno avuto influenze decisive nella storia dell’antropologia e della psicoanalisi, più in generale nel campo della cultura occidentale, sembra doveroso ricordare anche altri, forse meno noti ma non per questo anche meno importanti nello studio delle culture arcaiche dell’Australia. Uno dei nomi che ricorre più di frequente a chi cerchi di approfondire la materia è quello di Ted Strehlow (1908-1978). Genio linguistico nato nei Territori del Nord Australia, in una missione tedesca a Hermannsburg, trilingue fin da bambino, crebbe con una tata aborigena della tribù degli Arrernte. Strehlow spese in sostanza tutta la vita a documentare la cultura aborigena, svolgendo un lavoro sul campo tra i più intensi che siano mai stati fatti e battendosi per migliorare le condizioni di vita degli aborigeni. Grazie al sostegno dell’Università di Adelaide condusse numerose spedizioni nei territori dell’Australia centrale, arrivando a guadagnarsi la fiducia degli anziani delle tribù, che gli affidarono i propri oggetti rituali, e a partecipare ai riti sacri. La documentazione che realizzò raggiunse dimensioni impressionanti: circa 4.500 canti aborigeni registrati su supporto magnetico, più di 100 miti (tutti annotati nei suoi diari in lingua originale), 800 cerimonie registrate in 26 ore di film, mappe di centinaia di luoghi sacri, 8.000 fotografie, 150 linee genealogiche ricostruite in dettaglio e 1.200 manufatti sacri. Un volume in particolare, tra i molti contributi, è considerato il suo capolavoro: “Songs of Central Australia” (Canzoni dell’Australia centrale), opera monumentale che sfiora le 1.000 pagine, in cui Strehlow tenta anche parallelismi con la cultura greca e norvegese. La vita di questo personaggio straordinario e tormentato, che finì per considerarsi egli stesso – a torto o a ragione - un iniziato ai misteri più profondi del “Dreaming”, ossessionato dai suoi studi e dal fascino arcaico di culture le cui origini sono forse impenetrabili nei recessi più nascosti della psiche umana, si concluse in modo tragico lasciando strascichi controversi. Comunque sia, oggi esiste in Alice Springs lo “Strehlow Research Centre”, che possiede una delle collezioni più significative di documenti e oggetti della vita cerimoniale aborigena. Chatwin Scrittore-viaggiatore, Bruce Chatwin (1940-1989) si recò in Australia anch’egli attratto dal fascino della cultura aborigena, con il desiderio di approfondirla e di conoscerne i testimoni. Nel 1987 pubblicò “The Songlines” (Le vie dei canti), denso di suggestioni e riflessioni che si alternano a pagine più descrittive nello stile del diario di viaggio. Nonostante, anche nel suo caso, l’opera abbia suscitato discussioni e pareri discordi, ci sembra utile riportare alcuni passi a illustrazione del punto di vista di uno scrittore britannico. “Il mio scopo nel venire qui in Australia era di cercare di apprendere in prima persona, e non da ciò che altri avevano scritto, cosa sia una Songline e come questa funzioni”. “… Poi Arkady continuò, spiegando che ogni essere totemico ancestrale, durante il suo viaggio sulla terra, si credeva avesse sparso una scia di parole e note musicali lungo il contorno delle sue orme, e che queste tracce dell’epoca del Dreaming restassero posate sulla terra e venissero usate dalle tribù più lontane come modi per comunicare. Una canzone era sia una mappa geografica che un sistema per trovare la giusta direzione. Ammesso che si conosca la canzone, si potrà sempre trovare la propria strada, anche in mezzo al deserto. E finché si rimane sulla traccia fornita dalla canzone, si potranno sempre trovare persone che condividono lo stesso Dreaming o che sono, di fatto, come ‘fratelli’ di chi viaggia”. “Sembra che la melodia di una canzone descriva la natura del paesaggio sul quale la canzone stessa passa… Certe espressioni, certe combinazioni di note musicali, si pensa che descrivano proprio l’azione dei piedi dell’essere ancestrale… Un esperto conoscitore delle canzoni, solo sentendo l’ordine di successione dei suoni, potrebbe risalire al numero di volte in cui il suo eroe attraversò un fiume o scalò una cresta, e calcolare anche dove e quanto distante da lui la Songline passi”. “L’Australia nella sua interezza può quindi essere ‘letta’ come uno spartito musicale. A stento vi era una roccia o un ruscello in tutto il paese che non potesse essere, o non sia stato, cantato”. “Attraverso il potere del canto che fa nascere il mondo, gli esseri ancestrali sono stati poeti nel senso originale della parola poesis, che significa ‘creazione’. Nessun aborigeno potrebbe concepire il mondo come qualcosa di imperfetto. La vita religiosa di ogni persona ha pertanto un unico scopo: quello di conservare la terra nel modo in cui era e che dovrebbe essere… L’uomo che lasciò la fattoria e se ne andò in giro [riferimento a un personaggio del libro] stava compiendo un viaggio rituale. Ripercorse le orme del suo Antenato. Cantò le melodie dell’essere ancestrale senza cambiare una sola parola o nota – e così ricreò la Creazione”. Testo e foto: Michele Mornese