australia dreaming. l`epoca dei sogni degli aborigeni

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australia dreaming. l`epoca dei sogni degli aborigeni
In cammino su sentieri sterrati
Australia Dreaming
L’epoca dei sogni degli Aborigeni
I miti della
creazione e
le speranze
del futuro
degli ultimi
“custodi”
della terra
Sessantamila anni
In copertina: aborigeno a
Sydney oggi.
A kato: immagini storiche.
Dopo aver visto in sintesi alcuni capitoli principali della
scoperta e colonizzazione europea dell’Ultimo Continente, la
terra agli “antipodi”
(http://www.geacoopsociale.eu/pdf/pop5graffiti/imp.australia.pdf), con tutte le atrocità e i crimini
commessi contro il popolo aborigeno, vogliamo ora parlare
dell’aspetto più luminoso di questa terra meravigliosa e della
storia delle tribù che l’hanno abitata ininterrottamente per
qualcosa come 60.000 anni. Probabilmente non esiste altro
popolo che si sia adattato a vivere così a lungo in una varietà
di ambienti diversi come quello aborigeno. Dai deserti, alle
montagne, alle foreste tropicali, le tribù australiane hanno
sviluppato sistemi per l’utilizzo ottimale delle risorse,
riducendo tendenzialmente gli sprechi a zero. Ad una
ricchissima cultura materiale, costituita da una miriade di
strumenti per cacciare, pescare ed ottenere risorse
dall’ambiente, si aggiunge un corpo di credenze altrettanto
ricco, il cui fine è spiegare le origini del mondo e della vita,
dando al tempo stesso un significato vivo e vitale al rapporto
dell’uomo con i suoi simili e con l’ambiente.
“The Dreaming”, l’epoca dei sogni
La colonna portante delle credenze
aborigene è il cosiddetto “Dreaming” (in
inglese) o “Tjukurpa” (in lingua aborigena), il
mito della creazione dell’universo e di tutte
le cose. Pur nelle varianti locali delle tribù
che vivono sparse per il continente, esiste la
credenza in una “epoca dei sogni”, in cui il
mondo era una massa informe, priva di
caratteristiche riconoscibili. Gli Antenati
(“Ancestors”), identificati con i totem delle
tribù ma che sono al tempo stesso anche
spiriti ed esseri umani primordiali, presero
vita, o si svegliarono dal loro sonno, o
emersero dalle profondità di questa materia,
e si misero a viaggiare su tutta la terra,
creandola al tempo stesso mentre la
percorrevano e attraverso il potere del
canto, con cui diedero nomi alle cose
portando in vita il mondo intero. Nel fare ciò
crearono anche gli uomini e le relazioni tra
uomini e con tutte le cose esistenti. Una
volta concluso il loro compito, questi esseri si
ritirarono di nuovo nelle profondità della
terra per riposare, oppure si mutarono nelle
caratteristiche stesse del luogo, le
montagne, gli alberi, gli specchi d’acqua,
che infatti sono sacri agli aborigeni.
E’ interessante notare come i canti siano
ancora oggi una parte centrale del
patrimonio della cultura dei nativi
australiani. Si credeva infatti che gli esseri
ancestrali, durante il loro viaggio sulla terra,
avessero quasi “seminato” delle tracce
musicali attorno alle proprie orme, e che da
queste tracce si potesse ricostruire non solo
il percorso sacro compiuto da questi esseri,
ma la morfologia stessa del territorio
attraverso il ritmo tranquillo o movimentato
del suono e delle parole che
accompagnavano la melodia. Considerati
nella loro interezza, i viaggi di tutti gli
esseri ancestrali all’inizio dei tempi
restituivano qualcosa di molto simile ad una
“mappa musicale” dell’intero continente
australiano, una sorta di enorme griglia i cui
punti d’intersezione corrispondevano ai
confini territoriali di ogni tribù e potevano
venir usati per orientarsi e trovare la
direzione giusta, anche in pieno deserto.
Considerato nell’ottica dell’utilità pratica
per gruppi tribali nomadi, che erano
obbligati a spostarsi su base stagionale per
reperire le risorse di acqua e cibo essenziali
alla sopravvivenza, poter disporre di uno
strumento di questo tipo era d’importanza
vitale… Il “Dreamtime” è una realtà sempre
presente, fuori dallo scorrere del tempo,
pertanto dà un significato profondo alla vita
“qui e ora”, in armonia con un ambiente
naturale anch’esso considerato sacro.
Esistono numerose leggende e miti del
Dreamtime, la cui proprietà è degli
aborigeni. Alcune leggende, simili per certi
aspetti alle nostre fiabe, sono accessibili ad
un pubblico vasto.
Altre invece, più serie, sono riservate ai soli
iniziati.
“Vedere com’eravamo
all’inizio della nostra storia”
L’apparente semplicità di queste credenze e di tante altre che raccontano viaggi e vicende
degli Antenati, elaborate da un popolo generalmente considerato “primitivo” dalla cultura
occidentale, non va confusa con la loro rilevanza ai fini dell’analisi di alcuni meccanismi alla
base della cultura umana e dei sistemi di organizzazione sociale. Nel 1913 Sigmund Freud
pubblicava una raccolta di quattro saggi intitolata “Totem e Tabù: somiglianze tra vita
mentale dei selvaggi e dei nevrotici”, in cui applicava la psicanalisi all’ambito
dell’archeologia, dell’antropologia e dello studio della religione. Alcuni degli esempi discussi
dal fondatore della psicanalisi, relativi ai tabù nelle società totemiche, erano tratti da studi
precedenti condotti sulle tribù aborigene dall’antropologo James Frazer. Alfred Reginal
Radcliffe-Brown (1881-1955), considerato invece uno dei fondatori del funzionalismo in
antropologia sociale e studioso britannico tra i più influenti del suo tempo, condusse diverse
spedizioni in Australia proprio per studiare la cultura aborigena. Nel suo prestigioso curriculum
compare tra l’altro la direzione dell’Istituto di antropologia dell’Università di Sydney.
“Custodi” della terra
Per gli aborigeni ogni uomo è legato ad un
luogo particolare, dove l’antenato della sua
tribù ha creato qualcosa, o ha lasciato segni
del suo passaggio. E ogni uomo ha il dovere
di “custodirlo”, di prendersene cura,
compiendo i rituali come canti, danze,
raffigurazioni dei viaggi dell’antenato, che
rinnovano il rapporto con lo spirito
ancestrale, il creatore del tempo delle
origini. Il concetto di “custodianship” è
centrale nella visione del mondo aborigena
e del ruolo dell’essere umano in esso. Per i
“figli del Dreamtime” non è pensabile
combattere, oppure vendere, oppure
sfruttare la terra come altri popoli hanno
sempre fatto. Ogni tribù, e ogni membro
all’interno di essa, detiene da tempo
immemore una porzione di territorio, che
non può essere scambiata con altre né
alienata perché è quella che gli “Ancestors”
hanno creato proprio per quella tribù
all’inizio dei tempi. Ogni aborigeno ha il
dovere di tutelare e proteggere l’animale
sacro del suo gruppo (totem), considerato in
alcuni casi l’incarnazione dello spirito
ancestrale.
Ha il dovere di compiere viaggi ai luoghi
sacri della sua terra, dove gli esseri
primordiali hanno riposto il proprio potere
vivificante oppure si sono mutati nelle rocce
e negli alberi.
Mettersi in cammino per raggiungere questi
luoghi ed entrare fisicamente in contatto
con essi significa qualcosa di simile al
“sintonizzarsi” con l’energia vitale che ha
creato il mondo, rinnovando e ristabilendo
un rapporto positivo con queste forze
ancestrali considerate benefiche e
protettrici, perché da loro è inizialmente
sgorgata la vita.
“La terra non appartiene all’uomo. E’ l’uomo che
appartiene ad essa”
Gli aborigeni credono che tutto l’esistente, uomini, animali, ma anche il paesaggio con tutto ciò
che contiene, siano profondamente connessi tra loro perché condividono l’essenza primordiale
che li ha creati. Nei nativi è fortissimo il senso di un legame con la terra. E il Dreamtime non ha
solo creato l’universo, ma ha anche dato agli uomini precise regole di comportamento cui
attenersi per vivere in armonia con la natura, normando ciò che si può o non si può fare.
Questa disciplina è insegnata e tramandata dagli anziani della tribù, “custodi” della tradizione.
“Il tuo Dreaming è qui. Devi prenderti cura di questo posto. Esiste dal primo totem della tribù.
Mio padre veniva qui tutti gli anni con gli anziani. Facevano qualcosa qui, cantavano,
compivano rituali, in modo che il totem tornasse in vita e la sua energia si spandesse di nuovo. –
Ma che cosa c’è qui esattamente?- Non lo sappiamo. C’è qualcosa. Come uno spirito, o un
motore, o un potere. Qualcosa che pulsa, che è per sempre vivo” (passo tratto da W.E.H. Stanner,
Religione, Totemismo e Simbolismo, in R.M. Berndt e C.H. Berndt, L’uomo aborigeno in Australia, Angus e Robertson,
Sydney 1965)
Montagne sacre “The Olgas”,
nell’outback.
“Il Serpente Arcobaleno è il creatore di tutte le
cose: mostrategli rispetto.”
Questa scritta accompagna un murales
disegnato su un edificio della città di Sydney,
la capitale economica del paese. Il riferimento
è ad un animale mitologico, un serpente di
dimensioni colossali, associato all’acqua,
presente praticamente in tutte le leggende
aborigene del “Dreamtime” o dei periodi
immediatamente successivi a quello iniziale
della creazione. Gli aborigeni credono che
questo essere amministri e dispensi le
risorse di “oro blu” e viva nelle
“waterholes”, le pozze d’acqua permanenti
che si trovano sparse nel paesaggio.
Strisciando sulla terra subito dopo il
“Dreamtime”, il serpente ha creato le
montagne, le rocce, le grandi gole dei canyon
dell’outback riempiendole poi di corsi d’acqua
e consentendo quindi agli esseri umani di
raccogliere questa risorsa essenziale alla vita.
Si dice che il Serpente Arcobaleno abbia
vagato sulla terra finché non ha infine trovato
la sua dimora ultima, in un luogo segreto
che nessuno conosce. I nativi credono che
questo essere ancestrale viva per sempre,
“osservando con interesse e
preoccupazione ciò che succede a tutte le
donne e gli uomini aborigeni, in tutti i luoghi
e in tutti i tempi”. Trovano conferma
dell’esistenza di un’entità superiore
osservando le meraviglie del creato, in
particolare appunto l’arcobaleno, che nei
suoi colori e nella sua forma riflette lo
splendore del grande essere delle origini.
“L’arcobaleno è inoltre considerato un
segno visibile che il Serpente Arcobaleno
esisterà per sempre come uno spirito di
protezione e di conforto del suo popolo.
Ancora oggi, si continua a parlare di questa
creatura mitologica, così potente e dal
fascino suggestivo, con grande deferenza e
rispetto” (passo tratto da The Dreaming of Aboriginal
Australia, Kaliarna Productions Pty Ltd).
“Dalla cultura può nascere un nuovo futuro per gli
Aborigeni”
A colloquio con Philip Jones, curatore della Galleria degli Aborigeni al South Australian
Museum, la collezione più importante del mondo dedicata alla cultura aborigena. Il South
Australian Museum di Adelaide vanta la più grande e significativa collezione al mondo di
manufatti appartenenti alla cultura materiale aborigena, con più di 3.000 oggetti in
esposizione. La Galleria occupa due piani che espongono documenti relativi sia alla vita e
all’organizzazione sociale dei nativi prima e dopo il contatto con gli europei, sia alle
tradizioni delle varie tribù su base regionale. I materiali raccolti permettono di farsi un’idea
dell’estremo grado di conoscenza dell’ambiente e delle tecniche per estrarne risorse vitali,
che gli aborigeni avevano sviluppato nel corso della loro lunga storia.
Il prof. Philip
Jones durante
l’intervista.
Una Galleria unica al mondo
“L’importanza della Galleria risiede nel fatto che illustra la cultura materiale delle tribù
coprendo l’intero continente, spiega Philip Jones, curatore dell’esposizione e tra i massimi
specialisti al mondo della materia. I manufatti, unici nel loro genere, sono stati collezionati
grazie al lavoro e allo sforzo di generazioni di antropologi, esploratori, missionari, funzionari
delle stazioni postali o di polizia, tutti uomini che vivevano in prima persona la vita di
frontiera. Erano quindi più in contatto con le tribù aborigene che ancora vivevano nel “bush”,
e non nelle fattorie o in contesti urbani, dove le antiche tradizioni sopravvivevano soltanto in
forme diluite”.
Qui a lato, una guida
aborigena ad Ayers
Rock.
Il contributo di Edward Stirling e Norman Tindale
L’impulso determinante per attivare questo
network di persone fu di Sir Edward Charles
Stirling (1848-1919), antropologo e direttore
dello stesso South Australian Museum nel
1884-1885, che contribuì in larga misura a
raccogliere le collezioni oggi esposte. Altro
personaggio il cui lavoro sul campo è stato
fondamentale per la conoscenza della
cultura aborigena è Norman Tindale (19001993), autore della “Mappa Tindale”,
pubblicata nel 1974, un enorme lavoro di
ricostruzione dei confini territoriali
tradizionali dei vari gruppi aborigeni di tutta
l’Australia sulla base di diverse fonti
storiche, che mostra le complesse interazioni
a livello politico-sociale tra le tribù e richiese
più di 50 anni per essere completata. “La
Galleria espone collezioni sulle armi
tradizionali per la caccia o per la guerra,
prosegue Jones, strumenti per la raccolta di
bacche, la pesca, l’estrazione di acqua dalle
riserve sotterranee del deserto, l’accensione
e la conservazione del fuoco, la medicina
naturale, gli strumenti in pietra e tutta una
serie di oggetti cerimoniali, sculture sacre,
maschere e altro ancora, oltre ovviamente
ai famosi boomerang”. E’ interessante
notare come praticamente tutti i materiali
siano riconducibili, in forme più o meno
dirette, ai miti e alle leggende del
“Dreamtime”, a insegnamenti degli anziani
dei clan in nome del “si è sempre fatto così
fin dall’inizio dei tempi”. Secondo la
tradizione, i figli del Dreaming hanno
imparato dagli esseri ancestrali ingegnose
tecniche di richiamo e cattura degli animali,
insieme ai “tricks” (astuzie, trabocchetti)
per sopravvivere negli ambienti più diversi
che l’enorme continente australiano offriva
loro.
Cicatrici rituali in un giovane
aborigeno. Foto storica.
Per sempre arcaici?
“Tuttavia, prosegue il professore, è innegabile che le tribù aborigene fossero
rimaste indietro rispetto al processo evolutivo conosciuto in Europa. Possiamo
dire che vivevano ancora nell’età della pietra quando i primi esploratori bianchi
arrivarono qui. Questa valutazione non vuole in alcun modo esprimere un
giudizio morale o stabilire un criterio di ‘inferiorità’ rispetto ad altri popoli, ma
solo considerare i fatti e invitare a riflettere sulle condizioni che hanno reso
possibile il cosiddetto ‘progresso’ inteso alla maniera occidentale. A mio
personale giudizio, in Australia non esistevano nemmeno i meccanismi che
invece altrove avevano fatto scattare la molla dell’evoluzione della società,
ovvero l’agricoltura e l’utilizzo della ruota o degli animali da traino, con tutte le
applicazioni per la produzione di beni e di cibo e quindi per la transizione della
società umana da nomade (cacciatori-raccoglitori) a stanziale (agricoltoriallevatori). Condivido perciò, nella sostanza, quello che sosteneva per esempio
Freud: studiare la cultura aborigena è importante perché consente di capire
come era l’uomo nelle fasi iniziali della sua storia. E’ quasi come vedere a
ritroso nel nostro passato”.
Dalla conoscenza nasce il rispetto
Oggi gli aborigeni sono ancora per lo più relegati ai margini della società
australiana, nel loro stesso paese. Ricevono in molti casi un vitalizio da parte del
governo, che non li stimola a lavorare. Fanno spesso notizia sui giornali per i
motivi sbagliati, e probabilmente si possono considerare un popolo “distrutto”
dall’azione corrosiva della colonizzazione. Sono inoltre scarsamente integrati
nel circuito turistico e pare che l’ubriachezza sia entrata a far parte del loro
modo quotidiano di vivere. All’interno di uno scenario desolante come questo,
può la cultura essere una risorsa per favorire in primo luogo la comprensione, e
quindi rilanciare l’immagine di un popolo aprendo nuove prospettive di
integrazione? E’ vero che l’arte figurativa aborigena riscuote un buon successo
nelle gallerie di tutto il mondo e viene esibita ad esempio negli States e in
generale nei posti che contano, ma spesso gli artisti restano pressoché
sconosciuti. La stessa cultura tradizionale dei popoli nativi, nei suoi aspetti
meno “commercializzabili”, è ancora largamente ignorata. “Dalla conoscenza
nasce il rispetto, prosegue il professor Jones. Molto del sapere accumulato dal
popolo aborigeno nel corso dei millenni è, in fondo, alla base della società
umana, perché senza l’armonia con la natura e una conoscenza approfondita
delle sue risorse non si costruisce nulla di duraturo. Anzi, oggi l’uomo è
obbligato a rendere più sostenibile il proprio modo di vivere se vuole andare
avanti”.
Un nuovo futuro: “la saggezza delle origini”
“Credo che il futuro degli aborigeni dipenda non solo da loro, prosegue Jones,
che sono chiamati a integrarsi maggiormente nel tessuto sociale ed economico
del paese, ma anche dalla considerazione che di essi ha la parte bianca della
popolazione australiana. Finora è mancato un sostanziale ‘ottimismo’, una
propensione a considerare in modo favorevole i nativi di queste terre e le
potenzialità che sono in grado di esprimere. Dobbiamo in sostanza lavorare
anche su noi stessi, modificando la nostra attitudine verso di loro. Dobbiamo
rovesciare la prospettiva dominante e chiamarli a noi per imparare – o reimparare – ciò che definirei ‘la saggezza delle origini’, che è poi strettamente
legata alla nozione stessa di un futuro sostenibile”. Non dimentichiamoci infatti
che proprio oggi, nella dimensione del ‘qui e ora’, l’uomo cosiddetto ‘moderno’,
figlio della società civile, sta lavorando per ritrovare – anche con l’ausilio delle
più avanzate tecnologie - una dimensione di equilibrio con l’ecosistema, per
gestire le risorse in modo più efficiente e ridurre al minimo gli sprechi. Tutto ciò,
conclude il professore con un sorriso, non ci ricorda forse qualcosa?”
La “rivincita” degli aborigeni?
Il boomerang nell’immaginario europeo
Vogliamo concludere questo contributo sulla
terra d’Australia e sulla sua cultura straordinaria
con quella che è forse l’immagine simbolo più
potente dell’intero continente: il boomerang.
Se esiste un oggetto che ha letteralmente
“catturato” la curiosità e l’immaginazione
occidentale fin dalle origini, così come si cattura
una preda nel deserto, questo è proprio l’oggetto
che in virtù di peculiari proprietà aerodinamiche
può essere lanciato con precisione micidiale, per
uccidere o stordire la preda fino a circa 200 metri
di distanza, e poi tornare come per magia nelle
mani del cacciatore che lo ha lanciato. Il boomerang
non è un’invenzione unicamente australiana.
Al contrario, ne sono stati trovati esemplari in
ritrovamenti archeologici di numerose civiltà
antiche un po’ in tutto il mondo: dall’Egitto
all’Africa, dall’America alle regioni polari, dall’India
alle isole del Pacifico meridionale, fino a vari paesi
europei. Peculiare però solo dell’Australia è un
utilizzo così prolungato nel tempo di questo
strumento. L’associazione tra uomo e boomerang è
talmente forte nella cultura tradizionale aborigena
che nei miti del Dreamtime si narra di esseri
ancestrali che crearono il paesaggio scagliando i
loro wirlki contro le montagne all’inizio dei tempi,
oppure di anziani in lotta tra loro che furono colpiti
dai boomerang e si trasformarono in uccelli
meravigliosi, in eterno volo sopra le loro terre.
“Pochi manufatti meccanici mostrano una
padronanza di così tante leggi scientifiche da parte
dei suoi inventori, spiega il professor Jones nel suo
libro Boomerang. Behind an Australian Icon –
Boomerang. Dietro un’icona australiana. Il
boomerang che ritorna nelle mani di chi lo ha
lanciato condivide i suoi principi di volo con un disco
volante, un aeroplano, un’elica, un elicottero e un
giroscopio.
Le
leggi fisiche alla base del suo funzionamento sono il
principio di Bernoulli sul differenziale di pressione
dell’aria, e le leggi di Newton, tra le altre…”.
Il volo del boomerang si spiega con diversi principi
dell’aerodinamica, ma un ruolo fondamentale è svolto
dalla differenza di pressione dell’aria che si crea tra la
parte superiore (convessa) dello strumento e la faccia
piatta.
La prima superficie è leggermente curva, e ciò
significa che l’aria deve scivolare più rapidamente su
di essa rispetto che sulla superficie piatta, a parità di
tempo. Questo crea una differenza di pressione che
permette al boomerang di librarsi in aria. Lo stesso
principio viene sfruttato anche per il volo degli aerei.
Altre leggi fisiche consentono la rotazione in aria del
boomerang e la sua traiettoria circolare, che ne fa
appunto una strumento di “ritorno”, almeno nella sua
variante più conosciuta. Altri tipi con caratteristiche
differenti, invece, non erano progettati con questa
particolare caratteristica ma come armi da lancio per
altre situazioni o come oggetti cerimoniali.
E’ straordinaria la varietà d’impieghi che il boomerang da caccia trovò nella
cultura aborigena. Il boomerang di ritorno veniva solitamente usato per
uccidere i possum, marsupiali australiani che vivono sugli alberi, simulando
attacchi aerei di uccelli predatori. L’effetto che si otteneva era di impaurire
l’animale e costringerlo a fuggire, abbandonando l’albero. A terra però il suo
destino era segnato, ed il possum diventava facile preda dei cacciatori. Il
boomerang di ritorno veniva anche utilizzato per cacciare gli uccelli o
disturbarne il volo, disorientando gli animali che venivano poi colpiti anche con
altre armi. Esistevano inoltre boomerang per la pesca, usati per stordire o
uccidere i pesci nel loro elemento. Le caratteristiche di questo strumento,
dall’aspetto così semplice ma dotato di poteri quasi “magici”, ne fecero un
oggetto di culto per gli occidentali. Moda, design, marchi di fabbrica, slogan
pubblicitari, spesso associati anche con l’immagine del canguro, l’hanno reso
celebre in tutto il mondo pur avendo origini “umili”, nato da bisogni
elementari. L’idea del ritorno, nel senso commerciale ampio dell’affidabilità e
sicurezza, è stata sviluppata molto in ambito pubblicitario e
delle strategie di comunicazione di numerose aziende, le quali ne hanno fatto
una sorta di metafora delle qualità dei propri prodotti (che non tradiscono e
tornano sempre al servizio del cliente), per non parlare della sterminata
produzione di oggettistica e gadget che si richiamano in vario modo al
boomerang. Intere compagnie hanno fondato su quest’icona dell’ “autentica”
Australia le loro speranze di fortuna commerciale e di successo economico. Il
lungo volo del boomerang, che ha percorso ormai tutti i continenti di un
mondo sempre più globalizzato, troverà infine la strada del ritorno nella terra
degli aborigeni, portando con sé una nuova consapevolezza per la storia ed il
futuro di questo popolo, restituendo ciò che è stato loro sottratto in secoli di
sfruttamento e massacri? Di sicuro, e qui sta forse un amaro paradosso della
storia, gli stessi aborigeni non avrebbero mai pensato che il boomerang potesse
contribuire con il solo potere evocativo della sua immagine, al successo
turistico e allo sfruttamento commerciale della loro terra. Una terra della
quale, forse ancora oggi, continuano a sentirsi custodi e guardiani…
Un murales nel quartiere di Redfern a Sydney.
Il tema di cui abbiamo cercato di parlare in questi contributi ha affascinato eminenti intellettuali nel corso della storia, e
appassionato generazioni di viaggiatori ed entusiasti. Oltre ai nomi già ricordati, molti dei quali hanno avuto influenze
decisive nella storia dell’antropologia e della psicoanalisi, più in generale nel campo della cultura occidentale, sembra
doveroso ricordare anche altri, forse meno noti ma non per questo anche meno importanti nello studio delle culture
arcaiche dell’Australia. Uno dei nomi che ricorre più di frequente a chi cerchi di approfondire la materia è quello di Ted
Strehlow (1908-1978). Genio linguistico nato nei Territori del Nord Australia, in una missione tedesca a Hermannsburg,
trilingue fin da bambino, crebbe con una tata aborigena della tribù degli Arrernte. Strehlow spese in sostanza tutta la vita a
documentare la cultura aborigena, svolgendo un lavoro sul campo tra i più intensi che siano mai stati fatti e battendosi per
migliorare le condizioni di vita degli aborigeni. Grazie al sostegno dell’Università di Adelaide condusse numerose
spedizioni nei territori dell’Australia centrale, arrivando a guadagnarsi la fiducia degli anziani delle tribù, che gli affidarono
i propri oggetti rituali, e a partecipare ai riti sacri. La documentazione che realizzò raggiunse dimensioni impressionanti:
circa 4.500 canti aborigeni registrati su supporto magnetico, più di 100 miti (tutti annotati nei suoi diari in lingua originale),
800 cerimonie registrate in 26 ore di film, mappe di centinaia di luoghi sacri, 8.000 fotografie, 150 linee genealogiche
ricostruite in dettaglio e 1.200 manufatti sacri. Un volume in particolare, tra i molti contributi, è considerato il suo
capolavoro: “Songs of Central Australia” (Canzoni dell’Australia centrale), opera monumentale che sfiora le 1.000 pagine,
in cui Strehlow tenta anche parallelismi con la cultura greca e norvegese. La vita di questo personaggio straordinario e
tormentato, che finì per considerarsi egli stesso – a torto o a ragione - un iniziato ai misteri più profondi del “Dreaming”,
ossessionato dai suoi studi e dal fascino arcaico di culture le cui origini sono forse impenetrabili nei recessi più nascosti
della psiche umana, si concluse in modo tragico lasciando strascichi controversi. Comunque sia, oggi esiste in Alice
Springs lo “Strehlow Research Centre”, che possiede una delle collezioni più significative di documenti e oggetti della vita
cerimoniale aborigena.
Chatwin
Scrittore-viaggiatore, Bruce Chatwin (1940-1989) si recò in Australia anch’egli attratto dal fascino della cultura aborigena,
con il desiderio di approfondirla e di conoscerne i testimoni. Nel 1987 pubblicò “The Songlines” (Le vie dei canti), denso di
suggestioni e riflessioni che si alternano a pagine più descrittive nello stile del diario di viaggio. Nonostante, anche nel suo
caso, l’opera abbia suscitato discussioni e pareri discordi, ci sembra utile riportare alcuni passi a illustrazione del punto di
vista di uno scrittore britannico.
“Il mio scopo nel venire qui in Australia era di cercare di apprendere in prima persona, e non da ciò che altri avevano scritto,
cosa sia una Songline e come questa funzioni”.
“… Poi Arkady continuò, spiegando che ogni essere totemico ancestrale, durante il suo viaggio sulla terra, si credeva
avesse sparso una scia di parole e note musicali lungo il contorno delle sue orme, e che queste tracce dell’epoca del
Dreaming restassero posate sulla terra e venissero usate dalle tribù più lontane come modi per comunicare. Una canzone
era sia una mappa geografica che un sistema per trovare la giusta direzione. Ammesso che si conosca la canzone, si potrà
sempre trovare la propria strada, anche in mezzo al deserto. E finché si rimane sulla traccia fornita dalla canzone, si
potranno sempre trovare persone che condividono lo stesso Dreaming o che sono, di fatto, come ‘fratelli’ di chi viaggia”.
“Sembra che la melodia di una canzone descriva la natura del paesaggio sul quale la canzone stessa passa… Certe
espressioni, certe combinazioni di note musicali, si pensa che descrivano proprio l’azione dei piedi dell’essere ancestrale…
Un esperto conoscitore delle canzoni, solo sentendo l’ordine di successione dei suoni, potrebbe risalire al numero di volte
in cui il suo eroe attraversò un fiume o scalò una cresta, e calcolare anche dove e quanto distante da lui la Songline passi”.
“L’Australia nella sua interezza può quindi essere ‘letta’ come uno spartito musicale. A stento vi era una roccia o un ruscello
in tutto il paese che non potesse essere, o non sia stato, cantato”.
“Attraverso il potere del canto che fa nascere il mondo, gli esseri ancestrali sono stati poeti nel senso originale della parola
poesis, che significa ‘creazione’. Nessun aborigeno potrebbe concepire il mondo come qualcosa di imperfetto. La vita
religiosa di ogni persona ha pertanto un unico scopo: quello di conservare la terra nel modo in cui era e che dovrebbe
essere… L’uomo che lasciò la fattoria e se ne andò in giro [riferimento a un personaggio del libro] stava compiendo un
viaggio rituale. Ripercorse le orme del suo Antenato. Cantò le melodie dell’essere ancestrale senza cambiare una sola
parola o nota – e così ricreò la Creazione”.
Testo e foto: Michele Mornese