Speciale Catechesi 223 - Unita` Pastorale di Santa Croce e Stroppari

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Speciale Catechesi 223 - Unita` Pastorale di Santa Croce e Stroppari
COLLEGAMENTO
PASTORALE
Poste Italiane s.p.a. – Spedizione in a.p. – D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n° 46) art.1, comma 2, DCB Vicenza
Vicenza, 12 dicembre 2011 Anno XLIII n. 17
Periodico mensile degli uffici pastorali diocesani
– Autorizzazione trib. di Vicenza n. 237 del
12/03/1969 – Senza pubblicità – Direttore
respons. Bernardo Pornaro – Ciclostilato in
proprio – Via Vescovado, 1 – Vicenza – Tiratura
inferiore
alle
20.000
copie.
SOMMARIO
p. 2
PRESENTAZIONE
p. 4
RELAZIONE BIBLICA (Prof.ssa A. ANGHIGNONI)
p. 12 INTERVENTO TEOLOGICO (Mons. L. BORDIGNON)
p. 20 INCONTRO PER CAP, GRUPPI BIBLICI…
p. 21 INCONTRO DI CATECHESI FAMILIARE
p. 22 CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI
Speciale Catechesi 1
Presentazione…
di don A. Bollin
Vi consegno, care/i catechiste/i e operatori pastorali, gli Atti del nostro 35° Convegno diocesano.
Ringrazio fraternamente la parrocchia di Sandrigo che nei giorni 9-10-11 settembre u.s. ci ha accolto, come
pure tutte/i le/i catechiste/i del Vicariato e i relatori e gli animatori dei laboratori del sabato pomeriggio.
Esprimo una viva riconoscenza alla Caritas diocesana, a don Giovanni Sandonà e a don Giovanni
Cecchetto con cui abbiamo fatto un buon cammino assieme e organizzato il Convegno. Sono grato a quante
hanno dedicato tempo e passione per rivedere gli interventi e i materiali. Faccio mie le parole dell’apostolo di
Tarso ai cristiani di Filippi: “Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando prego
per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo … Sono persuaso che colui
il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù”(Fil 1,3-6).
 Il TEMA DEL CONVEGNO IN CONTINUITA’ CON QUELLO DEL 2010
Il tema del nostro Convegno si colloca nel solco e nell’orizzonte della scelta dell’educare, espressa dagli
Orientamenti pastorali CEI 2010-2020 e si pone in continuità con la tematica sviluppata nel 2010:
“Educazione ed evangelizzazione: un binomio chiave per la proposta del Vangelo oggi” [Cf. Educazione e
catechesi, in “Catechesi” 80(2010-2011)4, 10-65].
Il Convegno dei catechisti dello scorso anno ci ha offerto una linea interpretativa per comprenderli e
avviarne una applicazione catechistica: tutto si gioca sul binomio evangelizzazione ed educazione, per cui si
è concluso - con una felice sintesi del DGC n° 147 - che si evangelizza educando e si educa
evangelizzando. Solo mettendo insieme le forze di chi o tra chi ha la passione e compiti educativi si può
vincere la sfida educativa e trasformarla in “avventura”; e la catechesi si conferma il cuore della missione
educativa della Chiesa.
Nel decennio dedicato al rilancio dell’educazione, dopo una visione d’insieme, l’attenzione si è volutamente
posata sulle persone con disabilità e le loro famiglie: sono gli ultimi del Vangelo, i primi agli occhi del
Signore, chi incontra e serve loro serve e ama il Signore (cf. Mt 25,31-46); una Chiesa che li accoglie e li
ama è veramente evangelica. Gli Orientamenti pastorali “Educare alla vita buona del Vangelo” portano
l’attenzione su di loro in almeno tre passaggi (cf. nn° 36-38-54), invitando le comunità cristiane a prendersi
cura di loro, ad essere vicine alle famiglie segnate da disabilità, ad accompagnarli nei cammini di iniziazione
alla vita cristiana: esse/i sono nel cuore e al centro della Chiesa.
Non è stato difficile - allora - individuare il tema e trovare lo slogan per il 35° Convegno catechistico: “Non
posso dire Gesù, ma lo amo!” Le persone con disabilità e l’annuncio del Vangelo. Si è valorizzata una
espressione forte e incisiva di Jean Vanier ( canadese, classe 1928, fondatore della comunità dell’Arca).
Il convegno di quest’anno ha avuto poi una forte valenza unitiva. Attualmente nelle nostre parrocchie si
segue una pluralità di modelli di catechesi, di sussidi vari e di metodi spesso così differenti che si fatica
anche tra catechiste della stessa zona pastorale trovare momenti comuni, di incontro e di condivisione.
Occorre individuare un tema unificatore dell’esperienza catechistica. Ebbene, il convegno e la tematica di
quest’anno hanno svolto e svolgono questa funzione unitiva: in esso tutti possono convergere e si può
manifestare la comunione tra coloro che condividono la passione per l’annuncio del Vangelo.
 LE GIORNATE DEL CONVEGNO NEGLI ATTI
Venerdì ci si è mossi dal fondamento biblico (con la prof.ssa A. Anghignoni): cosa dice e insegna la Bibbia a
proposito delle persone con disabilità, della sofferenza umana … come si è comportato Gesù, come li ha
avvicinati, cosa ha fatto per loro?
Gesù – secondo l’evangelo di Giovanni – con i miracoli, i segni dà una duplice guarigione: fisica e interiore,
nell’umanità e nella luce del credere. Poi Gesù vive la domanda sul perché della sofferenza, carica su di sé
tutte le sofferenze, perché nessuno sulla terra possa sentirsi solo quando soffre: Egli è il Dio con noi.
Mentre nella serata il film di Pupi Avati “una sconfinata giovinezza” (del 2010) ci ha fatto pensare – sotto la
guida esperta del prof. O. Brugnoli – soprattutto con la figura del cane che si chiamava “perché”.
La mattinata di sabato è stata aperta con la riflessione teologica di don L. Bordignon: Quale comunità
ecclesiale? Cosa significa comunità “grembo”? Come la Chiesa vede – accoglie – accompagna questi fratelli
e sorelle? Cosa dovrebbe fare per dirsi comunità evangelica? E’ seguita la forte e commovente testimonianza
della dott.ssa R. Sartori sul tema “Nella comunità il limite diventa ricchezza”. Infine, tramite i laboratori di
sabato pomeriggio (diretti da Francesca Gasparotto e Silva Stefanutti), in cui è stato dato spazio alla
dimensione metodologica, ci è stato indicato – seguendo le diverse disabilità – come approcciarsi e
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proporre il Vangelo e fare sentire parte viva della Chiesa chi è disabile. E a conclusione del Convegno la
commissione per la catechesi ha pensato e preparato un decalogo per incoraggiare i catechisti a proseguire il
cammino; la cartolina è stata donata a tutti al termine della S. Messa di domenica presieduta dal Vescovo
Beniamino: “Il decalogo del catechista … per una diaconia del cuore”.
Tutto questo viene raccolto negli Atti (di cui si pubblica la 1a parte).
 LE/I CATECHISTE/I, UNA “PRESENZA ACCANTO”
Le/i catechiste/i - ne sono certo e il convegno 2011 ci ha offerto sollecitazioni, proposte, orientamenti
condivisi – vogliono e si impegnano ad essere sempre di più una “presenza accanto” alle persone , ai
ragazzi con disabilità e alle loro famiglie: una presenza discreta e amica, una presenza credente e
convinta, una presenza d’amore e fraterna, una presenza condivisa con la Caritas, per manifestare il vero
volto della Chiesa oggi.
Si racconta che Rabbi Abraham Yeshaya Karelitz si alzava sempre solennemente in piedi in presenza di una
persona affetta da sindrome di Down: “Se l’Eterno aveva privato costui della capacità di studiare a fondo la
Torah – diceva – il motivo è che egli è già abbastanza perfetto ai suoi occhi” [F. Hadjadj, Mistica della carne,
2009].
Buona lettura.
Antonio Bollin
Direttore
A tutte/i le/i catechiste/i e a quanti in vario modo sono impegnati
nell’annuncio del Vangelo, presento – a nome mio, di Igino e di Paola, dei
Collaboratori dell’Ufficio e del gruppo redazionale – l’augurio di un Santo
Natale e di Buon Anno Nuovo con un pensiero di Papa Paolo VI:
“Cercate e trovate nel vangelo, nella buona novella annunciata per il
Natale, ciò che è indispensabile alla prosperità e alla pace dell’umanità”
(dal Messaggio natalizio del 1965).
Estendete questo fraterno augurio alle vostre famiglie e ai ragazzi che
accompagnate nel cammino di fede.
Vi ricordo nella preghiera e invoco su tutte/i voi la benedizione
del Bambino Gesù.
Don Antonio Bollin
In copertina: Domenico Ghirlandaio, Natività, 1485
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RELAZIONE BIBLICA
RELAZIONE 1a parte: CUSTODITI DAL SIGNORE COME SUA PUPILLA (Dt 32,10)
Porgi l’orecchio al mio insegnamento
Il catechista è colui che deve insegnare le cose di Dio. Vediamo, allora, prima di tutto come Dio insegna
al suo popolo.
“Porgi l’orecchio al mio insegnamento” (Sal 78,1).
Vogliamo guardare insieme come Dio educa il suo
Salmi storici
popolo: la nostra è una tensione verso di lui.
Cominciamo con il salmo 78, dove c’è la storia
Il Sal 78 è la voce di un maestro: esso è in larga
d’Israele che ogni catechista dovrebbe conoscere.
parte in stile narrativo, il racconto della storia
Infatti Gesù ha scelto quel popolo, si è incarnato in
di come il Signore si è comportato con Israele.
quel popolo, con quella lingua e in quella terra. Quindi
Da questo punto di vista somiglia ai Salmi 105,
non possiamo spiegare Gesù se non conosciamo il
106 e 136, un gruppo che è spesso classificato
suo popolo, se non conosciamo la sua mamma, che
con l’etichetta “Salmi storici”.
era ebrea. Il salmo è la preghiera d’Israele di ieri ed è
Questi salmi recitano tutti una versione della
la preghiera della Chiesa di oggi, ma è stata anche la
preghiera di Gesù. Il salmo è la preghiera per
storia che narra le origini più remote d’Israele,
eccellenza, la preghiera universale. Sono parole
quella che si legge nella Bibbia dal Libro della
antiche, parole difficili: è Dio che ti insegna come
Genesi ai Libri di Samuele, cioè da Abramo a
parlare con lui, come chiedergli le cose. È vero che ci
Davide. Tuttavia ciascuna versione si dimostra
sono anche salmi addirittura imprecatori, che non sono
selettiva e distintiva.
inseriti nel salterio perché sono violenti. Ora si è capito
La peculiarità di ciascuna versione deriva dallo
lo scopo di questo tipo di salmi: colui che li pronuncia
scopo del suo racconto specifico. Ogni
si sfoga così con Dio e non si ammala, perché
racconto è composto per trarre una lezione
consiglia a Dio come vendicarlo. E Dio si vendica, ma
dalla tradizione. Questi salmi sono didascalici
a modo suo. Dio ci chiede un orecchio attento (Shema
nel senso più ampio del termine.
Israel, Ascolta Israele!).
Lo stile scelto da ciascuno per presentare la
Questo salmo incomincia proprio così: “Porgi
propria storia può variare dalla Torah all’inno
l’orecchio, popolo mio, porgi l’orecchio al mio
alla preghiera, fermo restando lo scopo
insegnamento, ascolta le parole della mia bocca”. Noi
centrale: informare, correggere, alimentare la
abbiamo bisogno di ascoltare con l’orecchio e sentire
fede della comunità in seno alla quale
la Parola di Dio. Per gli ebrei l’ascolto è un sentire e
ciascuno veniva eseguito.
buttare nella pancia, è un comprendere. Oggi il termine
più vicino è empatia. Dio non ti chiede solo di sentire, ti
Questi salmi sono interessati al passato e alla
chiede di ascoltare, che è molto più impegnativo. Se
sua attinenza con il presente e il futuro. Il
ascoltiamo veramente una persona, ci stanchiamo
passato è quello ricordato, non quello
molto, perché veniamo coinvolti emotivamente. Colui
ricercato, cioè come il Gesù dei vangeli che è il
che ti parla, infatti, ti consegna la sua vita e la sua
Gesù ricordato, non quello ricercato. Eventi
sofferenza. E questo tipo di ascolto stanca molto.
vissuti concretamente e raccontati come
“Aprirò la mia bocca in parabole,
interazioni del Dio d’Israele con la volontà e il
rievocherò gli arcani dei tempi antichi.
comportamento d’Israele.
Ciò che abbiamo udito e conosciuto
Per questi salmisti l’azione e la volontà di Dio
e i nostri padri ci hanno raccontato,
sono elementi essenziali della realtà. Qualsiasi
non lo terremo nascosto ai loro figli;
racconto
dell’esperienza
passata
che
diremo alla generazione futura
escludesse Dio quale protagonista sarebbe
le lodi del Signore, la sua potenza
stato riduttivo e irrilevante.
e le meraviglie che egli ha compiuto”. (Sal 78,2-4)
Basterebbe questo versetto per dire chi dovrebbe
essere il catechista e in realtà ogni cristiano.
IL RACCONTARE… Il racconto è fondamentale nella Bibbia: il verbo raccontare attraversa l’Antico e il
Nuovo Testamento. Come Gesù anche i rabbini insegnavano con le parabole, che sono racconti. Le
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parabole di Gesù, come le parabole dell’Antico Testamento, sono vere ieri, oggi e domani, perché
superano il dato storico per assumere una valenza superiore: la valenza esemplificativa.
Per esempio nella parabola del seminatore non si parla di questo e quel seminatore, ma
dell’atteggiamento che tutti i seminatori di ogni epoca hanno nell’azione del seminatore. Le parabole
valgono per tutti gli uomini e per tutti i tempi.
Le parabole sono un tipo di racconto e Gesù raccontava le parabole, raccontava e spiegava la Sacra
Scrittura. Ad Emmaus, per esempio, ha spiegato ai discepoli tutti i passi delle Scritture che lo
riguardavano, mostrando così che la Parola di Dio si era realizzata. Questo è un messaggio di speranza.
Anche la Nuova Evangelizzazione va fatta con lo stesso stile, cioè narrando alle persone le meraviglie di
Dio, in questo modo esse superano lo scoraggiamento, oggi così pregnante e si aprono alla Speranza.
Lodare il Signore per le sue meraviglie diventa così balsamo, potenza d’amore, forza fisica per la nostra
anima.
RACCONTARE PER NON DIMENTICARE LE MERAVIGLIE DI DIO
“Ha stabilito una testimonianza in Giacobbe,
ha posto una legge in Israele:
ha comandato ai nostri padri
di farle conoscere ai loro figli,
perché le sappia la generazione futura,
i figli che nasceranno.
Anch’essi sorgeranno a raccontarlo ai loro figli
perché ripongano in Dio la loro fiducia
e non dimentichino le opere di Dio,
ma osservino i suoi comandi.
Non siano come i loro padri,
generazione ribelle e ostinata,
generazione dal cuore incostante
e dallo spirito infedele a Dio.”(78,5-8)
Leggendo queste pagine noi diciamo che nel mondo ebreo c’era tanta violenza e che gli ebrei erano
incostanti e infedeli. Però, dobbiamo stare attenti a giudicare, perché anche noi siamo uomini con i nostri
difetti.
“Non siano come i loro padri
generazione ribelle e ostinata,
generazione dal cuore incostante
e dallo spirito infedele a Dio.
I figli di Efraim, valenti tiratori d’arco,
voltarono le spalle nel giorno della lotta,
non osservarono l’alleanza di Dio,
rifiutando di seguire la sua legge.
Dimenticarono le sue opere,
le meraviglie che aveva loro mostrato.
Aveva fatto prodigi davanti ai loro padri,
nel paese d’Egitto, nei campi di Tanis.
Divise il mare e li fece passare
e fermò le acque come un argine.
Li guidò con una nube di giorno
e tutta la notte con un bagliore di fuoco.
Spaccò le rocce nel deserto
e diede loro da bere come dal grande abisso.
Fece sgorgare ruscelli dalla rupe
e scorrere l’acqua a torrenti”. (Sal 78, 5-16)
Dio ha continuato a fare meraviglie e queste sono raccontate in questo salmo, perché il popolo non le
dimentichi. Quando il popolo è infedele Dio si arrabbia. Se Dio si arrabbia come può Israele stare
davanti a Dio? Non può! Che cosa fa Dio allora? Dio perdona.
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CHE COS’E IL PERDONO?
Il perdono è lo spazio di vita che Dio permette di nuovo e che dà al suo popolo. Se non c’è più relazione,
non c’è più spazio in cui giocare la vita. Il perdono è lo spazio che Dio ridà al suo popolo per potergli
stare davanti, per poter avere una relazione con lui. Allora ecco il racconto di tutte le cadute d’Israele e
di tutti i lamenti del popolo, che ha ricevuto tantissimo da Dio, ma ha continuato a peccare contro di lui.
“Eppure continuarono a peccare contro di lui
a ribellarsi all’Altissimo nel deserto.
Nel loro cuore tentarono Dio,
chiedendo cibo per le loro brame;
mormorarono contro Dio
dicendo: «Potrà forse Dio
preparare una mensa nel deserto?»
Ecco, egli percosse la rupe e ne scaturì acqua,
e strariparono torrenti.
«Potrà forse dare anche pane
e preparare carne al suo popolo?»
All’udirli il Signore ne fu adirato;
un fuoco divampò contro Giacobbe
e l’ira esplose contro Israele,
perché non ebbero fede in Dio
nè speranza nella sua salvezza” (78,17-22)
Questo salmo è antichissimo, eppure quanto lo possiamo sentire davvero nostro!
FECE PIOVERE SU DI ESSI LA MANNA COME CIBO
“Comandò alle nubi dall’alto
e aprì le porte del cielo;
fece piovere su di essi la manna per cibo”(Sal78,23-24)
Che cosa fa Dio? Dà al popolo una dieta differenziata: manna alla mattina e quaglie alla sera, così non
si ammalano. C’è una storia ebraica che dice che col cibo di Dio non avevano bisogno di andare in
bagno, non c’era niente da espellere, non c’era niente in più, perchè tutto veniva reso vita. Di tutto ciò
che ti dà Dio non si butta via niente, perché tutto viene trasformato in vita, vita buona, vita bella, vita con
Dio.
“L’uomo mangiò il pane degli angeli,
diede loro cibo in abbondanza.
Su di essi fece piovere la carne come polvere
e gli uccelli come sabbia del mare;
Mangiarono e furono ben sazi,
li soddisfece nel loro desiderio.
La loro avidità non era ancora saziata,
avevano ancora il cibo in bocca,
quando l’ira di Dio si alzò contro di essi,
Quando li faceva perire, lo cercavano,
ritornavano e ancora si volgevano a Dio;
ricordavano che Dio è loro rupe,
e Dio, l’Altissimo, il loro salvatore;
non erano fedeli alla sua alleanza.
Lo lusingavano con la bocca
e gli mentivano con la lingua;
il loro cuore non era sincero con lui
e non erano fedeli alla sua alleanza”. (Sal 78,25-37)
DIO PERDONA FIDANDOSI DEL PECCATORE
“Ed egli pietoso perdonava la colpa, li perdonava invece di distruggerli”.
Qui si può riassumere tutta la storia d’Israele, storia d’infedeltà e di continue riprese. Quando perdona,
Dio rilancia, fa una nuova proposta, crea all’infedele uno spazio in cui gli dà una cosa ancora più grande.
Nel salmo 78 è raccontata tutta la storia d’Israele: è il momento di massima educazione di Dio. Questa
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educazione avviene nel deserto, il luogo senza parole. Nel luogo dove non ci sono le parole degli altri,
possiamo sentire la parola di Dio.
L’AZIONE EDUCATIVA DI DIO NEL DEUTERONOMIO
Legge predicata, Legge profetica
Il Deuteronomio si presenta come un libro dell’alleanza, ossia come un documento del patto fra Dio e
Israele. La condizione posta a Israele per entrare in possesso della terra è l’obbedienza alla legge
ricevuta sul Sinai.
L’epilogo (Dt 31,1 – 34,12) riguarda la scelta di un successore di Mosè nella persona di Giosuè. Segue il
racconto della morte di Mosè sul monte Nebo, senza che egli possa entrare nella terra promessa.
Il cantico di Mosè è una rivisitazione della storia d’Israele in bilico fra la giustizia di Dio, la sua
misericordia e le benedizioni di Mosè alle tribù d’Israele, che fanno apparire quest’uomo di Dio come
l’ultimo e il più grande dei padri d’Israele, e presentano il Deuteronomio, nella redazione finale, come il
suo testamento spirituale.
Oltre che legge predicata, potremmo dire che il Deuteronomio è una Legge profetica, per il carattere
umanitario delle sue prescrizioni e per la sua preoccupazione di proteggere le categorie sociali più
indifese, come l’orfano, la vedova, lo straniero, il levita, la donna.
Questo passo esprime una costante della Scrittura: è Dio il grande educatore del suo popolo. Il castigo
più terribile che potrebbe colpire gli uomini della Bibbia non è quello di punizioni particolari, ma di sentirsi
abbandonati da questa guida amorevole, sapiente e instancabile.
L’azione educativa comporta dei momenti di rottura col passato (l’uscita dalla terra deserta); si compie
attraverso una crescita progressiva, propiziata da gesti di attenzione e di amore (lo educò, ne ebbe cura,
lo custodì); comporta una partnership e una elevazione profonda dello spirito (lo sollevò sulle sue ali);
esige una fiducia assoluta e incondizionata (il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui alcun Dio
straniero).
DEUTERONOMIO CAPITOLO 32: IL RIB
Vediamo ora il capitolo 32 del Deuteronomio, che è una sorta di salmo di genere letterario chiamato in
ebraico Rib. Che cos’è il Rib?
Il Rib è una modalità ebraica per risolvere le liti senza andare in tribunale.
La parte lesa si rivolge al colpevole e avendolo già perdonato, cerca di convincerlo del suo errore. Infatti
sa che chi fa il male in realtà fa male a se stesso e si autocondanna.
Il colpevole, a questo punto, deve smettere di fare del male a sé e agli altri. Non si cerca risposta al
proprio problema, ma si tenta di ricondurre l’ingiusto sulla via della giustizia.
La confessione della colpa diventa accettazione del perdono già offerto.
Il Rib è il modo in cui l’uomo può rispondere al male nella storia usando le categorie di giustizia di Dio.
Nel Vangelo di Matteo Gesù dice: “Se hai una disputa con tuo fratello vai e parlagli in segreto”.
Gesù suggerisce di richiamare il fratello senza portarlo in tribunale, ma ricorrendo al Rib. Gesù per tutta
la vita ha fatto il Rib a noi uomini, ci ha chiamato e richiamato esortandoci a non fare il male.
Prendiamo il libro del Deuteronomio.
In questo canto 32 del Deuteronomio, composto secondo le diverse opinioni degli studiosi tra il 3° e il 6°
secolo, i copisti hanno introdotto delle tracce che sembrano tardive, forse soltanto delle aggiunte,
soprattutto l’arcaicità è attestata da espressioni di una corporeità eccessiva.
Questo brano è molto corporeo, come molte parti della Bibbia sono molto sensibili, parlano della
corporeità, perché tutte le relazioni con Dio passano attraverso il nostro corpo.
Leggiamo Deuteronomio cap. 32,1-4
“Ascoltate, o cieli: io voglio parlare:
stilli come pioggia la mia dottrina,
scenda come rugiada il mio dire;
come scroscio sull’erba del prato,
come spruzzo sugli steli di grano.
Voglio proclamare il nome del Signore:
date gloria al nostro Dio!
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Egli è la Roccia; perfetta è l’opera sua;
tutte le sue vie sono giustizia;
è un Dio verace e senza malizia;
Egli è giusto e retto”
Qui siamo nel discorso di Mosè morente. Le ultime parole di una persona che sta per morire sono le più
importanti, perché in questo c’è la sintesi di quello che egli ha capito della vita.
MOSE’ RICORDA I GESTI D’AMORE DI DIO PER IL POPOLO INFEDELE
“Peccarono contro di lui i figli degeneri,
generazione tortuosa e perversa.
Così ripaghi il Signore,
o popolo stolto e insipiente?
Non è lui il padre che ti ha creato
che ti ha fatto e ti ha costituito?
Ricorda i giorni del tempo antico,
medita gli anni lontani.
Interroga tuo padre e te lo farà sapere,
i tuoi vecchi e te lo diranno.
Quando l’Altissimo divideva i popoli,
quando disperdeva i figli dell’uomo,…
perché porzione del Signore è il suo popolo
Giacobbe è sua eredità”. (Dt 32,5-9)
Per il Signore Giacobbe è la porzione della sua eredità.
Siamo figli prediletti di Dio come una porzione di torta che lui si è riservata.
“Lo circondava in terra informe,
lo istruiva, lo custodiva
come pupilla del suo occhio.
Come aquila… che vola sopra i suoi nati,
egli spiegò le ali e lo prese,
lo sollevò sulle sue ali.
Il Signore lo guidò da solo
non c’era con lui alcun dio straniero.
…e lo nutrì con i prodotti della campagna;
gli fece succhiare miele dalla rupe
e olio dai ciottoli della roccia;
crema di mucca e latte di pecora
insieme con grasso di agnelli,
fior di farina di frumento
e sangue d’uva, che bevevi spumeggiante”. (Dt 32,10-14)
L’abbondanza. Dio non dà solo il necessario, Dio dà il di più.
E quest’abbondanza la vediamo dal primo capitolo di Genesi e per tutta la Bibbia.
Nel salmo ci sono tre verbi che sono i verbi dell’educazione (circondare, allevare, custodire), con
significati affini. Essi nell’insieme sottolineano la valenza educativa nella sua totalità.
Gli aspetti più importanti dell’educazione sono:
*in primo luogo l’iniziativa è sempre di Dio;
*quest’iniziativa ci circonda, ci avvolge anche se non sempre l’accogliamo, perché cerchiamo di
scrollarcela di dosso;
*inoltre c’è un aspetto più specificamente istruttivo.
Alle catechiste spetta il compito di dare l’intelligenza delle cose di Dio, di custodire, di comprendere e di
prendersi cura dei “piccoli” a loro affidati.
Speciale Catechesi 8
RELAZIONE 2a parte: GESÙ CI VIENE INCONTRO CON UNA BUONA NOTIZIA
Si trovava là un uomo…malato
Vi fu una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme (Gv5,1)
Si sale a Gerusalemme, perchè è a 800 metri sopra il livello del mare. È sempre una salita
Gerusalemme, ci sono anche i salmi delle salite e delle ascese. Nella Bibbia quando si parla di salire
non si sale solo con i piedi, ma si sale anche col cuore: sono sempre due le salite. Gesù va a
Gerusalemme e c’era una festa, una festa del pellegrinaggio. Erano tre le feste del pellegrinaggio
Pesach, Sucot e Shavuot. Di fatto noi sappiamo che Gesù andava a Gerusalemme per la festa come
tutti i pellegrini.
V’è a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzaetà, con cinque
portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Un angelo infatti in certi
momenti discendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo ad entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua
guariva da qualsiasi malattia fosse affetto. (Gv 5,2-4)
Questa religiosità noi la possiamo collocare a Lourdes, dove c’è la piscina del malato e chi scende nella
piscina a volte guarisce. L’acqua in tutta la Bibbia ha una valenza doppia, perché la poca acqua ti fa
vivere. Nel deserto senza acqua muori. In Israele ci sono i fiumi con i ciottoli sotto e, quando piove
tantissimo, il terreno non assorbe l’acqua, quindi l’acqua straripa e, quando straripa, ha una potenza
enorme e uccide. Quindi l’acqua è una potenza salvifica quando è poca ed ha una potenza mortifera
quando è troppa. Israele ha paura delle grandi acque, perché Israele non è un popolo di navigatori, è un
popolo del deserto. Sappiamo inoltre che alle nozze di Cana, che è il primo segno di Gesù, quell’acqua
di purificazione diventa vino. Ma era l’acqua di purificazione nelle giare, in cui gli ebrei si lavavano fino al
gomito prima di mangiare. Questo gesto non era solo una norma igienica, ma assume una valenza
religiosa.
Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù vedendolo disteso e, sapendo che da
molto tempo stava così, gli disse: «Vuoi guarire?» (Gv5-5-6) (“sapendo”…Gesù lo sa perché è Dio).
“Vuoi guarire?”. Voi provate dire a un malato se vuol guarire. Ma certo che vuol guarire! Ma è importante
per Gesù questa domanda, perché sta facendo prendere coscienza all’uomo di chi sia, ma soprattutto
che cosa vuole veramente. Quello che fa fare Gesù col suo sguardo e con la sua parola è sempre un
cammino interiore: andare nel più profondo di te e dire la tua identità e dire il tuo desiderio più profondo.
Gesù prende l’iniziativa inizia il dialogo e gli chiede il suo desiderio più profondo. Gli chiede: «Vuoi
guarire?».
Gli rispose il malato: «Signore, io non ho nessuno che m’immerga nella piscina quando l’acqua si agita.
Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me». (Gv1,7)
Quest’uomo è malato da tanto tempo, e non dice subito a Gesù: “Sì, voglio guarire”, egli dice in realtà il
suo dolore più profondo, la solitudine. La solitudine che può diventare la più grande malattia dell’anima.
Gesù gli disse: «Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina». E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo
lettuccio, cominciò a camminare. Quel giorno però era un sabato. (Gv1,8-9)
Proprio quel giorno doveva guarire Gesù? Non poteva farlo il giorno prima o aspettare il giorno dopo?
Altrimenti sarebbero venute fuori tutte le discussioni coi Giudei, per cui il sabato non si possono fare 39
melakà, 39 azioni. Neanche aprire l’ombrello si può, neanche chiamare l’ascensore. Tu non puoi fare
nessuna azione che trasformi il reale: è lo shabbat! E Gesù guarisce il malato. Come lo guarisce? Lo
Speciale Catechesi 9
guarisce con una parola: «Alzati!» Ma l’ha visto, gli ha parlato, si è preso cura, ha sentito nel profondo la
solitudine di quest’uomo.
Dissero dunque i Giudei all’uomo guarito: «È sabato e non ti è lecito prender su il tuo lettuccio». (È
sabato e non si può portare il lettuccio, non si può nemmeno portare un libro da una stanza all’altra). Ma
egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: prendi il tuo lettuccio e cammina». Gli chiesero
allora: «Chi è stato a dirti: prendi il tuo lettuccio e cammina?». Ma colui che era stato guarito non sapeva
chi fosse; Gesù infatti si era allontanato, essendoci folla in quel luogo. Poco dopo Gesù lo trovò nel
tempio e gli disse: «Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di
peggio». (Gv1,11-14)
Il sabato è il tempo di Dio: attenzione, perché ha una valenza fondamentale questo segno, non miracolo,
(nei sinottici i miracoli sono 29 nel vangelo di Giovanni i segni sono 7 e Giovanni li chiama segni non
miracoli). Il vangelo di Giovanni può essere interpretato a tantissimi livelli: è il vangelo dell’aquila, il
vangelo che vola più in alto ed è anche il più difficile da comprendere. «Vai e non peccare più!», perché
se pecchi ti succede qualcosa di più grave. Noi sentendo quest’affermazione diciamo: «Allora se uno è
malato è perché ha peccato e se non ha peccato lui hanno peccato i suoi genitori». Era una credenza di
allora che la malattia fosse legata intimamente al peccato, come fosse un pegno da pagare. In realtà
Gesù sta portando quest’uomo su un altro piano: la malattia non nasce dal peccato. La malattia è segno
di disagio ed oggi alcuni medici dicono che addirittura il tumore è psicosomatico. Di fatto qui Gesù fa fare
un cammino profondissimo all’uomo, lo mette in discussione. Ma vi siete chiesti perché Gesù ne
guarisce solo uno? Ce n’erano tanti di malati, c’era una folla di gente ammalata, perché guarisce solo
questo? Perché era solo. Gesù vede la sua solitudine prima della sua malattia e allora Gesù si fa
compagno, amico, vicino. Gesù gli dice: «Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina!». Guardate che Gesù
gli sta dicendo di andare contro la legge, perché quell’uomo di sabato non può portare il suo lettuccio.
Gesù in realtà gli sta dicendo di fare una cosa che non si può fare nella religiosità ebraica, nei 613
precetti. Gesù va oltre la legalità, vede l’umanità e gli sta facendo fare un cammino.
Che cos’è il peccato? Il peccato nella Bibbia, letteralmente, è sbagliare bersaglio ed è una ferita che tu
fai all’altro, al mondo, a Dio e tocca tutte le relazioni ed è una ferita che fai anche a te stesso. Questo è il
peccato, non portare il lettuccio, anche se secondo la mentalità di allora era un peccato. Vedete quanto
è sconvolgente Gesù! Forse in questo brano, quello che Gesù gli dice, è più sconvolgente della
guarigione. Da trentotto anni quest’uomo era malato. Quest’uomo ha fatto un cammino di maturazione e
adesso è pronto per dare un nome al suo desiderio più profondo e al suo bisogno di guarigione, che non
è solo la gamba che non funziona, cioè l’essere paralitico, ma è la solitudine. Gesù è venuto a guarire
prima di tutto questa realtà: Lui è il Dio con noi. Il nostro Dio è un Dio che sta nella sofferenza, è un Dio
che sta con te sempre e il messaggio dirompente di questo Vangelo è che adesso quest’uomo non sarà
più solo.
Vedendo e sapendo
Ci sono dei vocaboli che si richiamano nella mistica ebraica: machol, danza, ha un suono simile alla
parola machalà, malattia, a mechilà, perdono, a chemlà, compassione. La malattia è provocata
dall’incapacità di perdonare noi stessi o gli altri o di danzare, atti, questi ultimi, che danno libero sfogo a
forze psicologiche e spirituali sprofondate nell’intimo del nostro animo: reprimere la loro libera effusione
provoca afflizione dell’anima e conseguente malattia fisica. La danza così nella spiritualità ebraica
diventa un vero e proprio strumento di guarigione interiore. Chi danza si libera dentro, si purifica, esce
da se stesso e va incontro ai fratelli e alle sorelle che ha accanto. Chi accetta di entrare nella danza,
anche solo in senso spirituale, riceve fra le mani lo strumento adatto per la guarigione, così da poter pian
piano sconfiggere la malattia; riceve la chiave per aprirsi al perdono e alla compassione verso di sé e
verso gli altri. Loro dicono così: chi ha compassione perdona, danza e non si ammala. Che cosa vuol
Speciale Catechesi 10
dire? Ci sono delle malattie che sono causate anche da non aver perdonato, da portarsi dentro dei
macigni, dei pesi enormi, che poi a un certo punto diventano malattia. Questa è una delle possibili
letture: questa è mistica ebraica. La compassione e il perdono sono una via di guarigione. Io l’ho
chiamato, permettetemi, il “carisma della leggerezza”. A volte in certe situazioni o le sorvoli o muori,
perché ti tirano giù, ti prendono talmente tanto di dolore che poi il dolore diventa corporeo, fisico e crepi.
O impariamo davvero a sorvolare su certe situazioni o restiamo inghiottiti. La guarigione ci conduce in
una condizione spirituale nuova, nella quale noi possiamo incominciare un cammino di conversione.
Bisogna dirlo, perché nella Bibbia è anche così, chi guarisce cambia la vita.
Passiamo al capitolo 9: Vide un uomo cieco
Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato,
lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori,
ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9,1-3)
Si cerca sempre un motivo. Voi provate a leggere la Bibbia dalla prima all’ultima pagina non c’è la
spiegazione della sofferenza. Ci sono tanti tentativi di capire il perché della malattia, ma non c’è una
risposta chiara, univoca, unica. E non la dà neanche Gesù. Ma se lui non ha peccato e nemmeno i suoi
genitori perchè questo è malato? E Gesù: «È così perché si manifestassero in lui le opere di Dio».
«Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finchè è giorno; poi viene la notte, quando
nessuno può più operare. Finchè sono nel mondo sono la luce del mondo» (Gv9, 4-5)
La luce è la prima parola che Dio dice in Genesi 1: «Sia luce!». E se ricordate nella trasfigurazione Gesù
ha un vestito bianco tutto luminoso. Tutto questo discorso e questa guarigione è perché Gesù manifesti
chi è: lui è la luce. E dire luce è una parola esplosiva nella Bibbia.
Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco. (Gv9,6)
Sul fatto che Gesù abbia sputato per terra e col fango abbia fatto un impasto, apriamo un varco che va
da Qumram fino a Genesi e da Genesi a Qumram. Noi siamo adam, da adamà , polvere del suolo. Ma si
narra che Gesù era stato a Qumram, dove c’erano gli Esseni e lì c’erano dei profeti che erano anche
guaritori o medici e conoscevano delle tecniche di guarigione. Nel mondo ebraico si dice che Gesù
avesse imparato lì delle tecniche di guarigione, usando il fango. Col fango e la saliva che cosa ha fatto
Dio quando ha creato? Ha fatto l’uomo e poi ha baciato il suo “fantoccino”, gli ha insufflato la neshama,
la scintilla divina. Gli ebrei dicono l’ha baciato. C’è della saliva nel bacio: questa è una nuova creazione,
perché l’uomo guarito è un uomo nuovo, completamente.
…gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Siloe (che significa inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci
vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano:« Non è
egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma
gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli chiesero: «Come dunque ti furono aperti gli
occhi?». Egli rispose: «Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi
ha detto: Và a Siloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista». Gli dissero:«
Dov’è questo tale?». Rispose: «Non lo so». Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: era
infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei
dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha posto del fango
sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da
Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E
c’era dissenso tra di loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu che dici di lui, dal momento che ti ha
aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!»… (Gv 9,7-17)
Speciale Catechesi 11
«È un profeta»: dice il cieco guarito, riferendosi a Gesù. E noi ci domandiamo come mai Gesù compie
anche questo segno di sabato. Gesù ci sta rivelando chi è: Gesù è Signore del sabato.
Per noi uomini cessare ogni attività un giorno alla settimana è riconoscere che Dio è il Signore della
nostra vita. È entrare nel tempo di Dio: questo è lo shabbat degli ebrei. Anche per noi la domenica
dovrebbe essere entrare nel tempo di Dio e cessare le nostre attività abituali. Così riconosceremo anche
noi che egli è il Signore della nostra storia e del nostro tempo. È facile dirlo, ma è difficile farlo. Chissà se
un giorno alla settimana riusciamo a spegnere il cellulare, non è facile, perché togliamo tutti i contatti con
il mondo esterno.
Per finire riprendiamo il perché nella Bibbia non c’è una risposta razionale alla sofferenza e alla malattia.
Neanche Gesù ce la dà. Lui che cosa fa? Alla fine ormai l’odio era divampato. Il suo messaggio d’amore
è quello di un amore in più, è tantissimo amore che crea degli squilibri da altre parti e genera l’odio.
Gesù ha amato ed è finito in croce per amore: ha vissuto il tradimento di quelli che amava e questo è più
pesante delle ferite dei chiodi. Gesù sulla croce vive la domanda, neanche lì risponde del perché della
sofferenza. A volte il dolore d’amore, ti prende il cuore, te lo stringe in una morsa e ti fa dolore fisico.
Gesù ha vissuto la domanda, perché mai nessuno su questa terra, in qualsiasi dolore, possa sentirsi
solo.
Perchè basta invocare il suo nome e lui è l’Emmanuele, il Dio con noi.
PROF.SSA ANTONELLA ANGHIGNONI
(Biblista, docente presso ISSR S.M. di Monte Berico)
Testo trascritto da SILVA STEFANUTTI e non rivisto dalla relatrice
INTERVENTO TEOLOGICO
LA COMUNITA’ “GREMBO” ACCOGLIENTE DELLE PERSONE CON DISABILITA’
La Christifideles Laici al n. 26, afferma che
la parrocchia è “l’ultima localizzazione della
Chiesa e, in un certo senso, la chiesa
stessa che vive in mezzo alle case dei suoi
figli e delle sue figlie”. Proprio perché vive
in mezzo alle case della gente è il luogo
ordinario dell’esperienza cristiana che
cerca di cogliere, alla luce del Vangelo, tutti
gli aspetti della vita delle persone, nelle sue
diverse fasi. E’ come “la fontana del
villaggio” alla quale tutti possono accedere
per la loro sete. Essa è aperta a tutti, sani o
disabili e si pone al servizio di ognuno,
specialmente dei più deboli.
Di fatto, però, si ha l’impressione che la
presenza della persona “diversamente
abile” (disabile), nel contesto della
comunità, costituisca un problema, una
“preoccupazione”. E’ solo a seguito di una
riflessione più seria, meno emotiva, che si
comprende come la disabilità, prima di
essere “pre-occupante” è “pro-vocante”,
non solo perché richiama attenzione e
rispetto, ma perché spinge l’intera comunità
a mettersi in discussione:
* a riconoscere la radice della comune
umanità e realizzare con la persona
disabile un incontro tra persone, prima
ancora che con la disabilità, senza il velo
del pietismo, percepito dallo stesso disabile
e dal suo ambiente familiare con un senso
di disagio;
* e costringe i suoi membri a meglio
comprendere la propria umanità. Il disabile
infatti, mette in discussione le nostre
presunte sicurezze, evidenzia le nostre
paure, contesta il mito dell’efficienza e ci
obbliga a riconoscere il bisogno che tutti
Speciale Catechesi 12
abbiamo dell’altro, di essere accettati e
amati così come siamo;
* infine obbliga a rivisitare la qualità della
nostra fede, perché è vero che la presenza
del disabile suscita tutta una serie di
interrogativi, proprio in riferimento alla fede.
Quale immagine di comunità?
A partire dal Concilio Vaticano II, la
teologia, la predicazione e la catechesi
hanno fatto ricorso a tutta una serie di
immagini per presentare la Chiesa nella
maniera più accettabile e comprensibile
possibile.
Anzi, fu lo stesso Concilio che, nella
Costituzione
sulla
Chiesa
(Lumen
Gentium), ha evocato tutta una serie di
immagini bibliche nella intenzione di darci
una comprensione meno incompleta del
mistero della Chiesa. Sono immagini
desunte dalla vita pastorale e agricola
come ovile, gregge, campo, olivo, vite; altre
dal linguaggio edilizio, come edificio o
tempio; altre ancora dalla vita domestica,
come famiglia, sposa di Cristo (S. Paolo, Ef
5, 21-33).
La teologia per suo conto ha approfondito,
in particolare, tre altre grandi immagini
bibliche
ampiamente presenti nel
documento conciliare LG e nello stesso
NT, un po’ meno nella catechesi: la Chiesa
come Corpo di Cristo, come Tempio dello
Spirito Santo, come Popolo di Dio. Accanto
a questi nomi ne ha elaborato altri come
Società, comunità, sacramento.
Ultimamente, a partire forse dalla
constatazione che queste ultime grandi
metafore sono poco spendibili dal punto di
vista
pedagogico,
anche
perché
presuppongono
una
conoscenza
approfondita della Bibbia, pur restando
fondamentali, si è ricorsi a tutta una serie di
altre immagini caratterizzate da una
accentuazione della dimensione più
affettiva, più comunionale e comunitaria: la
Chiesa come comunità, come scuola, come
famiglia, come casa, e siamo giunti
all’immagine che sta a titolo di questo
nostro incontro, la Chiesa come “grembo”.
Che cosa di più intimo, di più affettivo del
“grembo” materno.
L’immagine della Chiesa come grembo
Proviamo ad evocare i possibili rimandi di
questa immagine, cioé di una chiesa
concepita
come
grembo,
la
cui
realizzazione dovrebbe costituire l’impegno
di tutti. Si tratta di realizzare comunità
disposte
a
rendersi
effettivamente
accoglienti nei confronti di tutti, in
particolare di chi vive alcune disabilità.
Dal punto di vista antropologico, l’immagine
del grembo rinvia a quel processo che sta
alla base di ogni vita umana, le cui tappe
sono: il concepimento, la gestazione, la
generazione di ogni creatura che viene a
questo mondo. Nel nostro caso l’immagine
del grembo rinvia alla cura amorevole che
la comunità deve avere nei confronti di tutti
i suoi figli, in particolare di coloro che sono
più bisognosi di cura.
Che la Comunità cristiana sia grembo lo
avevano già detto i Padri della Chiesa in
riferimento soprattutto al Battesimo e più
precisamente al fonte battesimale: quel
grembo da cui scaturisce la vita
soprannaturale, che fa di ogni battezzato
un figlio di Dio. L’accostamento del
battesimo, e dunque della ri-nascita
dall’acqua e dallo Spirito, alla nascita
naturale evidenzia, fin dall’inizio della vita, il
destino trascendente della nuova creatura
rispetto alla vicenda ‘naturale’ della
generazione, ma evidenzia anche la cura
che la chiesa, la comunità cristiana dove
avere nei confronti dei propri figli, definiti i
“neofiti”, cioè i “nuovi nati”. In tale
prospettiva trova positivo apprezzamento
l’aspetto della tenerezza, dell’intimità
“carnale” tra madre e figlio, della cura e
della protezione della madre nei confronti
del figlio.
C’è però un rischio insito nella
configurazione della comunità cristiana
come ”grembo”, il rischio di offrirsi come
luogo di rifugio, dove il figlio non diventa
mai adulto. Offrirsi come grembo ai propri
figli disabili, espone la comunità ad un
rapporto iper-protettivo, quando c’è, che
impedisce al disabile di crescere. Fra l’altro
è diffusa l’idea che il disabile non possa più
di
tanto
crescere,
sviluppare
sue
potenzialità, dare un suo contributo in
famiglia, nella comunità cristiana, nella
società. La “compassione”, questo nobile
Speciale Catechesi 13
sentimento
evangelico,
non
è
semplicemente una specie di intima
sofferenza nei confronti del disabile, ma è
un “patire insieme” la fatica del crescere,
cioè di aiutare il disabile a cavare da sé il
meglio delle sue possibilità, a sentirsi
soggetto responsabile e non solo oggetto di
cure, per quel tanto che gli è consentito. E’
proprio questo rapporto che lo apre alla
comprensione dello stesso messaggio
evangelico. Se l’educatore, il catechista
non è sorretto da questa intima
convinzione, difficilmente riuscirà a far
giungere il messaggio evangelico. Nella
misura in cui si sente considerato, non
tanto a partire dai suoi limiti, ma a partire
dalle sue possibilità egli entra in sintonia
con i suoi educatori e vive una
comprensione affettiva del messaggio
evangelico. Non dobbiamo dimenticare che
il messaggio di Gesù è destinato a tutti e se
Gesù
ha
avuto
una
preferenza
nell’annuncio del Regno l’ha avuta nei
confronti di tutte quelle categorie di persone
che la società di allora aveva messo ai
margini: ciechi, zoppi, lebbrosi, malati
d’ogni genere, pubblicani e peccatori.
A sollecitare ulteriormente la responsabilità
della comunità c’è una considerazione
fondamentale da tener presente: cioé che
la salvezza, anche per questi nostri fratelli,
passa attraverso l’ascolto della Parola e
quindi attraverso la fede intesa come
risposta a questa Parola. Sta alla comunità
allora
elaborare
metodi,
indovinare
linguaggi, individuare persone capaci di far
giungere la buona notizia di Gesù.
L’importanza della comunicazione
La comunicazione, intesa come modo di
comunicare diventa, allora determinante.
Ovviamente essa varia a seconda dei vari
tipi di disabilità e le diverse capacità dei
soggetti. Passa comunque attraverso tutto
un insieme di atteggiamenti, di attenzioni, di
contatto visivo, a volte tattile, di mimica
facciale, di sguardi, che richiedono
“pazienza”, calma e tranquillità. Una
comunità che vive la frenesia del fare,
difficilmente riuscirà ad essere grembo nei
confronti di questi suoi figli. Se l’approccio
catechistico poi, è di tipo esclusivamente
intellettuale, dottrinale, verbale, difficilmente
il Vangelo sarà avvertito come buona
notizia.
Oggi la tecnica ha messo a disposizione
strumenti che facilitano la comunicazione
anche per quanti non dispongono della
comunicazione verbale, ma anche in
questo caso l’educatore, il catechista,
l’operatore pastorale sono chiamati ad
essere attenti a cogliere il di più delle
risposte prefabbricate offerte dai nuovi
strumenti, a manifestare interesse alla
fatica e alla soddisfazione del disabile per
essersi potuto esprimere ed essere stato
capito. A volte si è tentati di anticipare la
comprensione della risposta, privando così
la persona del disabile della soddisfazione
di dimostrare che è in grado di comunicare,
di farsi capire.
Ebbene, concepire la comunità cristiana
come “grembo”, evoca tutte queste
attenzioni, le stesse attenzioni che la madre
dedica al suo bambino per coglierne i
messaggi, i bisogni, non attraverso discorsi
ma attraverso il linguaggio di tipo
percettivo-affettivo.
La comunità cristiana come grembo
E’ vero però che il termine “grembo” porta
con sé anche dei rischi. Primo fra tutti
quello di voler proteggere il disabile al
punto da creargli, una vita quasi speciale,
parallela, fatta di cose su misura, percorsi
diversi, di opportunità ridotte anziché
introdurlo e accompagnarlo nelle stesse
opportunità e nei medesimi percorsi dei
suoi
coetanei,
rendendolo
non
semplicemente oggetto delle cure, ma
soggetto e protagonista per quel tanto che
la sua disabilità gli consente.
Se il termine “grembo”, usato per definire la
comunità cristiana, evoca tutto questo
insieme di atteggiamenti, di attenzioni, mi
chiedo se le nostre comunità effettivamente
sono in grado di esprimersi così nei
confronti di tutti i suoi membri e in
particolare nei confronti dei disabili.
Offrirsi come grembo non vuol dire solo e
principalmente integrare il disabile nella
comunità, sottraendolo alla tentazione
dell’isolamento e del considerarlo come il
“diverso”. A questo proposito si deve
riconoscere che oggi l’integrazione del
Speciale Catechesi 14
disabile, dal punto di vista legislativo e
culturale è piuttosto avanzata.
L’integrazione nel territorio si concretizza
attraverso alcuni interventi che vanno
dall’abbattimento
delle
barriere
architettoniche e ancor più di quelle
ideologiche. Integrazione del disabile
significa soprattutto permettergli di vivere
con gli altri, frequentare gli stessi luoghi con
uguali opportunità, poter usufruire di
interventi d’aiuto personalizzato così da
metterlo nella condizione di accedere alla
realtà “normale” con i “normali”.
E’ a questo punto che entra a pieno titolo la
comunità
parrocchiale
come
luogo
privilegiato,
“grembo”
appunto,
di
accoglienza e di ascolto di quei bisogni
appena sussurrati o a volte troppo
impegnativi
per
essere
presi
in
considerazione dal quartiere o da altri
ambiti sociali.
In particolare, in quanto grembo, la
comunità è chiamata non solo a generare
alla fede tramite il sacramento del
Battesimo, ma ad inserire il disabile in quei
percorsi o itinerari che portano alla maturità
della fede i propri figli. La comunità allora, è
chiamata non solo a generare, ma anche
ad
educare:
deve
passare
dalla
generazione all’educazione.
La comunità cristiana come famiglia
Al fine però di una più ampia
configurazione e comprensione della
comunità come grembo e dei suoi compiti
nei confronti dei disabili che la abitano, mi
sembra importante esplorare due altre
metafore che evocano altre dimensioni
della comunità e sollecitano altre attenzioni
e responsabilità nei confronti dei disabili: si
tratta dell’immagine della comunità cristiana
come famiglia e come casa. Oltretutto
sono due metafore che si richiamano
vicendevolmente.
L’ikona
anzitutto
della
cristiana come “famiglia”
comunità
In questi ultimi anni il tema della Chiesa
come famiglia è diventato, per molte
chiese, parte importante di molti progetti
pastorali. Penso alla Chiesa africana che, a
partire dal Sinodo dei Vescovi sulla Chiesa
in Africa del 1995, si è compresa proprio
come “Familia Dei”, immagine a partire
dalla quale stanno maturando scelte
pastorali importanti. Tale prospettiva è
presente anche in Italia, per esempio con il
progetto dal titolo quanto mai significativo:
“Parrocchia, famiglia di famiglie”. Il senso di
questi progetti va nella direzione di
comunità che privilegiano l’insieme e la
varietà dei rapporti familiari.
Oltretutto,
nell’immaginario
collettivo,
l’ikona del grembo rinvia immediatamente
alla realtà della “famiglia”, ben sapendo che
oggi questo legame famiglia e grembo non
è
scontato.
Si
può
generare
indipendentemente dal rapporto con la
comunità coniugale e familiare, nel
contesto di un rapporto esclusivo tra madre
e figlio. L’ideale tradizionale del grembo
materno nel contesto della famiglia, intesa
come intreccio di relazioni di tipo sponsale
tra marito e moglie, di tipo genitoriale tra
genitori e figli, di tipo filiale tra figli e
genitori, fraterno tra fratelli e sorelle, questo
ideale è messo in questione.
Senza addentrarci nella problematica
complessa della famiglia oggi, ma
ispirandoci al concetto più comunemente
accettato, la famiglia costituisce lo sbocco
naturale del frutto del grembo. Essa integra
il nuovo nato nel contesto più ampio delle
relazioni familiari. La famiglia infatti è
costituita dall’intreccio
di molteplici
relazioni. La relazione
madre-figlio si
integra in un insieme di altre relazioni che
dilatano la libertà e la coscienza di ogni
figlio, disabile o meno, e pone le premesse
indispensabili per comprendere e quindi per
vivere nel modo giusto, lo stesso impegno
educativo nei confronti dei figli. C’è infatti
un nesso strettissimo tra generazione ed
educazione. Potremmo sinteticamente
descriverlo così: l’educazione è l’insieme
delle azioni mediante le quali i genitori
fanno sperimentare al figlio la realizzazione
progressiva di quella promessa di vita
buona che gli hanno fatto mettendolo al
mondo.
Che ci sia un nesso strettissimo tra
generazione ed educazione, la cosa
sembra pacifica. Sennonché, oggi non è
più così. Oggi si pensa all’educazione non
tanto come un aiuto offerto ai figli perché
Speciale Catechesi 15
comprendano e vivano una vita buona – ciò
è considerato una mancanza di rispetto
della loro libertà e dignità – ma come un
disimpegno progressivo così da liberarli da
quell’originario rapporto di dipendenza nei
confronti dei genitori che sta agli inizi della
loro vita. Dietro a questa idea di
educazione ci sta un luogo comune
secondo il quale occorre sempre rispettare
le idee altrui, l’opinione altrui, giuste o
sbagliate che siano e quindi liberare i figli a
se stessi.
Ripensare le nostre comunità alla luce della
categoria “famiglia” – non certo in sintonia
con tali estremismi - vuol dire impegnarsi a
delineare il volto concreto delle nostre
comunità sulla base di alcuni fondamentali
che strutturano la famiglia e che
condizionano l’impegno educativo.
Alcuni “fondamentali” della famiglia che
strutturano la comunità cristiana
1. La comunità cristiana pensata come
“famiglia” ci induce a pensare alla
parrocchia come comunità radicata in un
territorio. Sì, perché di fatto la famiglia ci
colloca tutti, individui e famiglie, in un
determinato luogo, in uno spazio, una casa,
una tenda. La parrocchia allora, pensata
come famiglia fissa la presenza della
chiesa in un determinato territorio.
Attraverso la parrocchia, la chiesa, cioè la
comunità dei credenti, riesce ad abitare
spazi sociali e territori diversissimi ed
entrare in contatto con soggetti ben precisi,
e con le tensioni e i problemi che li abitano
(povertà, immigrati, disabili, ecc.). Nel suo
impegno nei confronti dei suoi figli disabili
non potrà non tener conto del contesto
umano, sociale, culturale in cui essi sono
aiutati a vivere la loro fede.
diverse concezioni circa l’educazione,
rimane che fondamentalmente educare
significa anzitutto amare le persone
concrete e desiderare il loro bene. Il
disabile in particolare nella misura in cui si
sente amato, nella misura in cui percepisce
che la premura di chi lo circonda è sorretta
dalla fiducia nelle sue possibilità si apre
anche alla comprensione affettiva del
messaggio evangelico. Ovviamente la
famiglia non è soltanto un modulo a cui
ispirare l’azione educativa, ma è un
soggetto con il quale si deve interagire. Al
catechista pertanto che si rende partecipe
di questo impegno della comunità, si chiede
innanzitutto di essere capace di costruire
rapporti e di promuovere capacità
relazionali, integrative di quelle che la
famiglia offre. Questo chiede attenzione
verso un ascolto attivo, un atteggiamento
empatico, una comunicazione che della
parola
non
fa
l’unico
strumento
comunicativo. Se un tempo al catechista si
chiedeva di essere un buon trasmettitore
dei contenuti di fede, oggi gli si chiede di
essere capace di intuire le domande che si
nascondono dietro lo sguardo, il gesto, il
silenzio del disabile. Gli si chiede certo una
buona
preparazione
teologica,
indispensabile per poter avere la libertà di
tradurre i contenuti nel linguaggio che non
è quello dei catechismi scritti, gli richiede
anche una preparazione specifica che
tenga conto della modalità di comprensione
e di espressione del disabile. E’ una
richiesta eccessiva? Direi di no, si tratta di
stabilire delle priorità nell’ordine del giorno
delle nostre comunità cristiane, perché
l’enfasi che accompagna la riflessione sul
mondo dell’handicap, anche nella chiesa,
non suoni puramente pubblicitaria.
La comunità cristiana come “casa”
2. Inoltre, pensata come famiglia, la
comunità cristiana deve porsi come
soggetto educante. Dicevamo che la
famiglia non é solo il luogo della
generazione, ma in forza dello stretto
legame che esiste tra generazione ed
educazione, essa si sa chiamata ad
educare tutti i suoi figli. Ebbene, la
comunità cristiana pensata come famiglia si
sente ulteriormente stimolata a rafforzare il
suo impegno educativo. Al di là delle
E’ anche vero che il fatto di nascere in una
famiglia rinvia alla realtà della casa che la
ospita. E abitare una casa, possiede risorse
insospettate per rinnovare quelle attitudini
evangeliche da viversi soprattutto nei
confronti di chi, in famiglia è più in difficoltà.
Proviamo allora una rilettura “domestica” di
quella realtà che è la parrocchia, non a
caso definita, casa dei credenti.
Speciale Catechesi 16
Che la parrocchia rinvii all’immagine della
casa, lo sta a dire lo stesso termine
“Parrocchia”. Infatti, è una parola greca
portatrice di un duplice significato: può
significare il “vicino di casa”, “confinante”,
ma anche lo straniero, il pellegrino, il
forestiero che non è nella casa. Mi piace
pensare la parrocchia in riferimento al
primo significato, cioè come un “vicinato”,
un insieme di case vicine con il compito di
trasformare in casa lo spazio nel quale
essa è collocata e di rendere domestiche
persone e cose, affinché l’ambiente risulti
portatore delle promesse che la casa porta
con sé.
Quali sono queste promesse che la casa
evoca?
La casa, soprattutto la casa natale, è il
luogo che dischiude lo spazio all’intimità,
agli affetti e a tutte quelle relazioni che la
abitano. E’ il luogo della protezione, della
sicurezza, il luogo dove si viene generati
alla coscienza, alla vita come dono gratuito,
dove si colloca l’avventura dell’esistenza.
L’esperienza della casa inoltre,
risulta
decisiva per la formazione della propria
identità. Quando uno si pensa e cerca di
rispondere all’interrogativo: ma chi sono io?
nel tentare di darsi una risposta si pensa
sempre in riferimento alla casa, alle cose di
casa, alle persone di casa.
Questa immagine della parrocchia come
“casa/famiglia” ci permette allora di
delineare un volto di comunità che coltiva
alcuni tratti importanti a servizio dei suoi
abitanti, in particolare di chi ha più bisogno,
senza dimenticare mai che nessun luogo,
dalla casa alla parrocchia, sia pur
addomesticata, è privo di ambiguità.
Andare alla parrocchia vuol dire andare alla
stabilità e all’attendibilità delle relazioni,
all’abitudine, o meglio al proprio habitat. Il
disabile deve percepire che la parrocchia è
il proprio habitat attraente.
Per un’azione
adeguata
catechistico-pastorale
Questi tratti che abbiamo evocato ci
possono aiutare a tracciare, verificare,
migliorare i percorsi pastorali e spirituali per
le persone con disabilità all’interno delle
nostre comunità e in modo particolare per
consolidare l’impegno a sensibilizzare la
comunità dei credenti verso le persone con
disabilità e le loro famiglie quali soggetti
attivi di evangelizzazione.
E’ chiaro che non possiamo dedurre da
queste immagini un percorso organico di
evangelizzazione dei disabili. E’ possibile
però inquadrare le suggestioni che le
metafore portano con sé, nel contesto di
una visione organica di quanto le comunità
cristiane sono chiamate a fare. E’
importante ricordare che la presenza nelle
nostre comunità di persone “diversamente
abili” comporta, più che la messa in opera
di
attività
specifiche,
un
fecondo
ripensamento di quello che la parrocchia
(“Chiesa che vive fra le case degli uomini”,
“famiglia dei figli di Dio”, “grembo
accogliente”) è, a partire dalle sue radici
evangeliche.
Mi permetto, a questo punto di individuare
alcuni nuclei tematici che devono diventare
mete concrete del nostro lavoro:
Alcuni obiettivi prioritari
1. Lavorare per una corretta cultura della
disabilità. Il valore della persona con
disabilità quale membro attivo della chiesa
e non solo destinataria di cura pastorale,
dev’essere la prima condizione da
realizzare affinché nessuno sia escluso
dalla partecipazione alla vita ecclesiale.
Concretamente si tratta di condividere un
linguaggio comune che sia rispettoso della
disabilità in particolare e delle diversità in
generale (es. Certe definizioni non si
usano
più:
insufficienza
mentale,
handicappato, ecc.). Il rispetto della
specificità della disabilità deve però
tradursi in accoglienza. Ogni persona e
non solo il disabile per sviluppare le
proprie potenzialità e maturare ha bisogno
di sentirsi accolta, di sperimentare un
contesto di comunione, di condivisione, di
amore. E una comunità è accogliente se
riconosce nel proprio ambito tutte le
presenze che la costituiscono (bambini,
giovani, famiglie, malati, anziani, stranieri,
diversamente abili, ecc. ) e sa valorizzare
la ricchezza di ciascuna di esse. I
diversamente abili appartengono come gli
Speciale Catechesi 17
altri cristiani a una diocesi, ad una
parrocchia e la comunità cristiana deve
prendere coscienza della necessità di
accogliere al suo interno tutte queste
persone. Escluderne qualcuna o non
interessarsene, la comunità, risulterebbe
essere un Corpo privo di alcune sue
membra.
2. Oltretutto, la cura dei membri più deboli,
nella prassi di Gesù,
è segno
caratteristico della venuta del Regno di
Dio, della sua presenza nella storia ed è
parte integrante della missione della
Chiesa. Detta così la cosa risulta piuttosto
generica. Si tratta allora di precisare le
modalità con cui tutto ciò dev’essere
realizzato. La riflessione in proposito
potrebbe essere riassunta attorno a tre
parole: 1) Integrazione cioè operare
perché il disabile abbia piena cittadinanza
nella comunità, evitando ogni forma di
isolamento. Si tratta di rendere la persona
“diversamente abile” soggetto a pieno
titolo, secondo le sue possibilità nell’ambito
della vita parrocchiale. 2) Normalizzazione.
Significa operare perché il disabile si
avvicini il più possibile al comportamento
della vita comune. Aiutarlo perché, nel
limite del possibile, faccia le cose che
fanno gli altri e che sono considerate
normali, nell’arco della giornata e della
settimana. 3) Personalizzazione. Nelle
attenzioni e nelle cure di vario genere,
come pure nei diversi rapporti educativi e
religiosi si avrà cura di partire dal
considerare il disabile non a partire dalla
sua disabilità, ma dal fatto che egli è
persona che ha il diritto di svilupparsi in
tutte le sue dimensioni: fisiche, morali e
spirituali. Si tratta quindi di mettere in atto
azioni pastorali, anche se inizialmente
poche, semplici e concrete, tutte orientate
al raggiungimento dell’integrazione, della
normalizzazione e della personalizzazione
del disabile. Nel caso del disabile essa si
concretizza in un rapporto che ti coinvolge
nei minimi gesti quotidiani. Azioni ordinarie
come alzarsi per bere, girare la pagina di
un libro, premere il tasto del diplay per far
scattare una risposta, ecc. sono azioni
che chiedono qualcuno che “agisca per..”,
che abbia mani, bocca, orecchi per… E’ un
atteggiamento di premura esistenziale
verso l’altro affinché questi possa
esprimere se stesso, sentirsi degno di
essere amato per il fatto di esserci.
3. Considerare la presenza della disabilità
nella Chiesa come presenza da
comprendere e valorizzare. Essa é
abitata dallo Spirito, e pertanto è portatrice
di senso. Proprio perché essa è una realtà
dell’esperienza umana, come tale, essa
interpella la nostra ragione per colmare un
bisogno di senso, anche sul piano
religioso. Si tratta allora di attivare un
processo di inclusione pastorale
affinché la persona diversamente abile
possa modificare alcuni atteggiamenti,
presenti anche nelle nostre comunità, che
non solo non garantiscono la piena
partecipazione nella chiesa, ma che di
fatto creano esclusione. Penso, al criterio
della efficienza a cui si ispira molta nostra
pastorale, della ricerca della efficacia
immediata che sottende tante nostre
attività pastorali, al criterio della visibilità.
Sono tutti atteggiamenti che di fatto creano
esclusione, emarginazione nei confronti di
chi non è in grado di rispondere a questo
standard di vita.
4. Inoltre, una pastorale per persone
“diversamente abili” non può non
preoccuparsi di offrire condizioni e
strumenti affinché ciascuno possa vivere il
più consapevolmente possibile la scoperta
della propria interiorità, partendo dalla
convinzione di fede dell’azione misteriosa
dello Spirito nel cuore di ciascuno. Se è
vero che il Dio di Gesù Cristo è un Dio che
per primo ama l’uomo indipendentemente
dalle capacità intellettuali e fisiche, ma solo
in quanto persona voluta a sua immagine e
somiglianza, la comunità cristiana deve
preoccuparsi di promuovere la persona
disabile anche nella sua specificità
spirituale. La persona disabile dev’essere
messa nella condizione di essere abilitata a
scoprire cosa c’è “dentro” di lei, non solo
renderla competente nelle autonomie
quotidiane. Concretamente si tratta di
preparare persone (catechisti/e) che
facilitino la trasmissione dell’esperienza di
fede (es. utilizzando diversi linguaggi per
chi è in deficit di capacità sensoriali o
cognitive). Il fatto poi, di credere che il
Speciale Catechesi 18
disabile (intellettivo) possa coltivare la
dimensione della spiritualità, non autorizza
certo a pensare che la disabilità costituisca
un privilegio. Tutto questo non ha niente da
vedere con la spiritualità. Infatti, anche per
chi crede, la disabilità – come la malattia –
pone molti interrogativi sul perché di questa
realtà e ne suscita molti altri. Chi vive o
lavora con i disabili sa che spesso si
procede per tentativi, anche quando si
possiedono
metodologie
pensate
e
programmate. Si è sempre alla ricerca di
linguaggi diversi per comunicare e per fare
in modo che il disabile resti sempre
soggetto di scelte, anche minime.
5. La gratuità. Succede spesso di valutare
la vita propria e degli altri in base ai
successi professionali, affettivi, sociali. A
volte identifichiamo la positività di
un’esistenza con la possibilità di misurare i
risultati che si vedono e che tutti possono
apprezzare. Esistono però anche gesti di
dedizione assoluta verso un’altra persona
che nessuno mai conoscerà; gesti i cui
effetti
restano
nascosti
da
una
comunicazione difficile e incomprensibile,
ma non per questo meno reale. I criteri per
valutare l’efficacia della nostra azione
catechistica, in questo caso sono del tutto
inadeguati. In quest’ambito si opera in
assoluta gratuità.
Conclusione
Di fronte alla disabilità, la comunità
cristiana e, in essa i catechisti, si rendono
conto di non essere del tutto preparati a
svolgere un servizio che sia nello stesso
tempo gratuito e competente. Le risorse
umane a disposizione sono spesso limitate.
D’altra parte una risposta dev’essere data,
se non altro per fedeltà al Vangelo.
Occorre anche ribadire che la disabilità non
è solo di qualcuno. Essa è estremamente
democratica e parla a tutti, a prescindere
dall’età, dal sesso, dalla situazione
economica. Infatti, disabili non lo si è solo
dalla nascita, lo si può diventare per età,
per incidente, traumi, malattie, disagi di
diverso tipo, in un momento della vita in cui
magari si è già usciti dai circuiti scolastici o
lavorativi ed allora la solitudine e il senso
del disagio e di inadeguatezza diventano
ancor più forti e fonte di maggiore
sofferenza. Proprio per questo la disabilità
spesso resta chiusa nei ristretti confini della
famiglia e della casa, spesso troppo
angusti.
La comunità cristiana può fare molto: può
diventare il luogo di un’accoglienza senza
riserve, senza aspettative di particolari
prestazioni, senza l’ombra del pregiudizio.
Può essere veramente il luogo in cui siamo
tutti uguali e nella diversità troviamo il
completamento delle reciproche difficoltà,
creando nuovi spazi di integrazione e non
solo per i disabili.
Realizzare tutto questo non è semplice né
immediato, occorre un lavoro serio di
preparazione e di programmazione di
interventi anche piccoli ma mirati, insieme
ad una spontaneità e freschezza di rapporti
che consenta di fare delle nostre comunità
dei veri “grembi”, delle vere “famiglie”, delle
vere “case”.
Bibliografia
CONGREGAZIONE DELLA DOTTRINA DELLA
FEDE, Dignità e diritti delle persone con handicap
mentale, Roma.
CEI, UFFICIO CATECHISTICO NAZIONALE, La
Parola di Dio nella catechesi ai disabili, Roma
2008
MARTINI C.M., Comunità cristiana e handicap, in
Rivista diocesana milanese, LXXV (1983) 487492.
COLLINI M., Oltre il limite. La Chiesa e l’handicap,
ed. Franco Angeli
MORANTE G., D, come diversità. Cinque sentieri
per l’inclusione dei disabili in parrocchia. Ed.
ElleDiCi, Torino
PAGAZZI G.C., Sentirsi a casa: Abitare il mondo
da figli ed. EDB, Bologna 2010
G. Angelini, Il Figlio, una benedizione, un compito,
ed. Vita e Pensiero, Milano 1991
AA.VV. L’arte di educare nella fede. Le sfide
culturali del presente, Edizioni Messaggero,
Padova 2008.
MONS. LUCIANO BORDIGNON
(Teologo, docente del Seminario diocesano)
FINE PRIMA PARTE
Speciale Catechesi 19
PROPOSTE CATECHISTICHE…
DIOCESI DI VICENZA
UFFICIO PER L’EVANGELIZZAZIONE E LA CATECHESI
DIVENTARE CREDENTI
ALLA LUCE
DELLA PAROLA
BREVE PERCORSO BIBLICO
INCONTRO FORMATIVO PER ANIMATORI
DEI CENTRI DI ASCOLTO,
DEI GRUPPI BIBLICI
E PER QUANTI OPERANO NELLA PASTORALE
DATA: Domenica 29 Gennaio 2012
ORARIO: ore 15,00-18,00
SEDE: Chiesa Parrocchiale di San Marco – Vicenza
PROGRAMMA DELL’INCONTRO
ore 15,00 - 15,15
Accoglienza e preghiera iniziale
ore 15,15 - 16,30
Diventare credenti alla luce della Parola
(prof. Milani don Marcello - Biblista)
ore 16,30 - 17,00
Pausa
ore 17,00 - 17,45
«Discepoli come Bartimeo»: lectio… in musica su Mc 10,46-52
DESTINATARI:
- quanti animano i Centri di Ascolto della Parola di Dio (CAP) in parrocchia o i gruppi biblici
- coordinatore/i dei CAP in Parrocchia
- quanti seguono la catechesi dei Giovani/Adulti
- responsabili e membri dei gruppi liturgici
- giovani e adulti interessati a pregare con la Parola di Dio
- catechisti parrocchiali
- adulti impegnati nella Pastorale familiare e nella vita di coppia
COORDINATORI DELL’INIZIATIVA:
Davide Viadarin, Annalinda Zigiotto, Suor Maria Zaffonato
PER PARTECIPARE:
Si invita, per questioni organizzative, a segnalare la propria presenza alla Segreteria dell’Ufficio entro Mercoledì
25 Gennaio 2012, telefonando (0444/226571) o inviando una e-mail ([email protected]).
NOTE TECNICHE:
Per il parcheggio, è possibile usufruire di quello interno al Cinema Parrocchiale San Marco oppure degli appositi
spazi che costeggiano le mura di Parco Querini.
PRESENTAZIONE E SENSO DELLA PROPOSTA
Da alcuni anni l’ultima domenica di gennaio viene riservata per un incontro formativo fra quanti si impegnano
per l’annuncio del Vangelo agli adulti, primi destinatari del messaggio cristiano e responsabili di trasmettere la
fede alle nuove generazioni.
Con l’appuntamento di gennaio 2012 si vuole proporre un progetto triennale di riflessione sul credere in modo
maturo di fronte alle domande profonde e, a volte, controverse che il contesto contemporaneo pone al singolo e
alla comunità ecclesiale.
Speciale Catechesi 20
INCONTRO DI CATECHESI FAMILIARE
DIOCESI DI VICENZA
UFFICIO PER L’EVANGELIZZAZIONE E LA CATECHESI
4° INCONTRO DIOCESANO
SULLA CATECHESI FAMILIARE
PRESENTAZIONE
Da qualche anno alcune comunità parrocchiali o zone pastorali hanno avviato, per accompagnare i fanciulli e i ragazzi nell’itinerario di
fede e sacramentale, l’esperienza della catechesi familiare, modello di catechesi che vanta una tradizione pluridecennale. Arrivati a
questo punto della sperimentazione, avvertiamo la necessità di riflettere sui contenuti da proporre, sugli itinerari di fede da attivare e
soprattutto sul rapporto tra Parola di Dio e catechismi CEI all’intero di tale esperienza.
Riteniamo importante, inoltre, la presenza dei rappresentanti vicariali per poter fare il punto delle sperimentazioni nelle varie zone.
Questo è l’obiettivo del prossimo appuntamento diocesano.
Domenica 11 marzo 2012
ore 15.00 – 17.30
SEDE: Opere parrocchiali di Laghetto in Vicenza
PROGRAMMA:
Ore 15.00:
Ore 15.15:
Ore 15.30:
Ore 16.30:
Ore 17.00:
INVITATI:
-
Preghiera iniziale e saluto
Breve relazione:
Catechesi familiare: quali contenuti?
Lavoro a piccoli gruppi per uno scambio di esperienze
Discussione in assemblea e comunicazioni dei rappresentati
vicariali
Conclusioni
I catechisti/e rappresentanti delle parrocchie, che hanno già avviato il modello della catechesi
familiare
I delegati delle parrocchie intenzionati ad iniziare tale modello
I rappresentanti dei vicariati
Quanti sono interessati al tema.
PER PARTECIPARE:
E’ indispensabile, per motivi organizzativi, dare la propria adesione telefonando all’Ufficio per l’Evangelizzazione
e la Catechesi (0444/226571) o inviare una mail: [email protected] entro il 3 marzo 2012.
PER INCORAGGIARE LA SCELTA DELL’IRC A SCUOLA
L’IRC (insegnamento della religione cattolica) a scuola è un’esperienza importante
che rimane nella vita. E’ diversa ma complementare all’esperienza della catechesi in
parrocchia finalizzata ad introdurre alla fede e all’incontro con Gesù Cristo.
Anche le/i catechiste/i sono invitate/i a incoraggiare e sostenere i ragazzi e le loro
famiglie a continuare nella scelta dell’IRC, disciplina scolastica (soprattutto nei mesi
precedenti l’iscrizione!).
In parrocchia sono a disposizione materiale informativo per spiegare le ragioni
positive di tale scelta (adesivi e dèpliants multilingue). C’è pure una bella lettura del
nostro Vescovo Beniamino che va fatta conoscere. Si potrebbe inoltre organizzare un
incontro con un docente di religione della zona. Tutto il materiale preparato
dall’Ufficio diocesano per l’IRC si può scaricare dal sito web:
www.vicenza.chiesacattolica.it
Speciale Catechesi 21
L’Ufficio Diocesano per l’Evangelizzazione e la Catechesi, in collaborazione
con l’Opera Diocesana Esercizi Spirituali Villa S. Carlo
organizza un
CORSO DI
ESERCIZI SPIRITUALI
presso
Villa S. Carlo di Costabissara
da venerdì 24 febbraio 2012 (ore 18.30)
a domenica 26 febbraio 2012
(pranzo compreso)
Le riflessioni saranno tenute da
Sr. Michela Vaccari
Teologa delle Suore Orsoline
Tema del corso:
“Vi trasmetto innanzitutto quello che anch’io ho ricevuto:
la Parola che rende buona la vita” (1 Cor 15,3)
Iscrizioni e indicazioni organizzative
Le iscrizioni si ricevono presso Villa S. Carlo, chiamando il 0444/971031.
All’atto dell’iscrizione va precisato se si desidera una camera singola o si accetta eventualmente anche una
doppia, per favorire così una maggiore partecipazione.
Il termine ultimo, per permettere all’Ufficio per l’Evangelizzazione e la catechesi di preparare il materiale
occorrente e alla Casa di organizzare l’accoglienza, è martedì 21 febbraio 2012.
Un consiglio: chi si iscrive partecipi all’intero corso.
Ci rendiamo conto che, “prendersi” un tempo personale in un fine settimana non è una scelta semplice,
soprattutto se si ha famiglia e si lavora, ma è anche vero che questa esperienza acquista significatività se
vissuta nella sua interezza. Il “mini-percorso” proposto risulta poco utile se vissuto frammentariamente.
Partecipare a questo tipo di ritiro quaresimale non è come ascoltare una relazione, quanto piuttosto creare
uno spazio privilegiato nel corso dell’anno, per fermarsi un po’, meditare, stare con il Signore in un clima di
silenzio e ascolto orante.
Ognuno poi farà come può e come il Signore non mancherà di suggerire… Vi aspettiamo !!
Speciale Catechesi 22