lettura critica |La figura del conte Ugolino

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lettura critica | La figura del conte Ugolino
Dante ha immaginato che fosse il gelo la pena fisica più adatta a rappresentare l’estrema degradazione dell’uomo
nel peccato. Nelle zone del nono cerchio si assiste così a una specie di graduale cristallizzazione o fossilizzazione
della figura umana, fino ai traditori dei benefattori, senza più nome, tutti immersi nel ghiaccio, da cui traspaiono
«come festuca in vetro», immobilizzati in pose casuali (If., 34, vv. 13-15):
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.
Nell’Antenora, zona di chi ha tradito la patria o il partito, v’è ancora una minima possibilità di movimento, e tanto
basta a dar concretezza a un tremendo spettacolo di violenza (If., 32, vv. 125-129):
...io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca [mangia],
così ’l sovran [sovrastante] li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca [con il midollo spinale]…
Così si entra nell’episodio che il poeta ha dedicato al più alto pathos dell’angoscia e dell’orrore: «e se non piangi,
di che pianger suoli?» (If., 33, v. 42). Colui che s’è ridotto all’atto bestiale di far «pasto» del suo nemico è un
morto per fame: il nobile pisano Ugolino della Gherardesca; l’altro è il suo assassino, l’arcivescovo Ruggieri degli
Ubaldini. Sono entrambi rei, agli occhi di Dante, di tradimenti politici; ma lo specifico tema del peccato punito è,
nell’episodio, totalmente trasfigurato nella rappresentazione del sentimento in cui l’umana vocazione all’amore
conosce la perversione più radicale: l’odio (cfr. 32, v. 134). «L’uomo naturalmente è compagnevole animale» (Cv
IV 4,1); ma Ugolino è ormai tutto odio (33, vv. 1-9):
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto [devastato].
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur [solo] pensando, pria che ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien [devono] seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme».
In odio a Ruggieri accetta di narrare la storia dei suoi ultimi giorni; ed essa è appunto la storia di un atto di odio
estremo, di cui Ugolino è stato vittima, con i suoi figli e nipoti. Prigionieri in una torre per ordine dell’arcivescovo,
i Gherardesca vengono lasciati senza cibo fino alla morte. Ugolino racconta di come l’angoscia s’impadronisca
degli sventurati dopo un sogno premonitore; di come lui stesso impietrisca nell’udire che la porta del carcere
viene inchiodata; di come assista in orrido silenzio, per l’impotenza, all’agonia delle vittime innocenti (vv. 55-66):
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi [lo facessi] per voglia
di manicar, di sùbito levorsi [si alzarono]
e disser: «Padre, assai ci fia [sarà] men doglia
se tu mangi di noi: tu ne [ci] vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia».
Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?
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Il conte amava i suoi cari, ma il lettore sente che l’atrocità della sopraffazione va tuttavia raggelando quel sentimento, e mutan dolo in infinita, eterna capacità di odiare: «ambo le man per lo dolor mi morsi». Tra il quarto dì
e il sesto, il conte vede cader morti uno a uno i suoi Gaddo, Anselmuccio, Uguccione e Brigata. «... Ond’io mi
diedi,» — racconta — «già cieco, a brancolai sovra ciascuno, / e due dì li chiamai, poi che fur morti. / Poscia,
più che ’l dolor, poté ’l digiuno» (vv. 72-75). Dopo due giorni, la fame riuscì più potente del dolore, ossia poté
uccidere Ugolino che all’estremo dolore era invece sopravvissuto. Della voce che i prigionieri avessero mangiato
«l’uno […] de le carni a l’altro» (come scrive un cronista), Dante ha tenuto conto, quando fa che i giovani si offrano
all’anziano. Ma non è necessario, secondo la lettera, e non è nemmeno probabile che il verso finale contenga
un’allusione a tanto obbrobrio.
L’ultimo grande episodio infernale è intonato letterariamente al versante più cupo dell’epos antico; Dante chiama
Pisa «novella Tebe», ponendo mente al poema di Stazio da cui è tratta la prima similitudine che interessa Ugolino
(32, vv. 130-132):
non altrimenti Tideo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva [rodeva] il teschio e l’altre cose.
(G. Inglese, Dante: guida alla Divina Commedia, Carocci, Roma 2008)
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