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Il Conte Ugolino e il vescovo Ruggeri: la condanna delle guerre civili
(INFERNO, XXXIII, 1-90)
E’ il pomeriggio del 9 Aprile del 1300 e Dante, insieme a Virgilio, si trova nella seconda zona del
nono cerchio dell’Inferno, detta Antenòra, nella quale sono posti i traditori della patria. I dannati di
questo cerchio sono sepolti nel ghiaccio in varie posizioni a seconda del loro peccato, poiché, per la
legge del contrappasso, il loro cuore in vita fu freddo, appunto, come il ghiaccio. Il canto si apre in
modo diverso dagli altri. Di solito il poeta iniziava con una digressione dal canto precedente,
proprio a voler portare l’attenzione del lettore sui due visitatori dell’Inferno. Questo canto inizia,
invece, con una terzina che trae l’attenzione del lettore su una scena molto particolare. Nel canto
XXXII Dante, alla vista di due dannati conficcati in una buca del Cocito, aveva chiesto ad uno di
loro chi fosse. Questo personaggio è il conte Ugolino della Gherardesca, che sta divorando il cranio
del suo avversario, l’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini. Il primo fu un uomo potentissimo a Pisa;
accusato di avere consegnato a Lucca ed a Firenze alcuni castelli pisani, fu fatto prigioniero dai
Ghibellini e fu lasciato morire di fame insieme a due figli e due nipoti. L’altro dovette la cattura e
la fine orribile alla frode e alla crudeltà. Ambedue traditori scontano la colpa nello stesso luogo, ma
la punizione non è uguale: Ruggeri è sottoposto, oltre al tormento del gelo eterno, alla rabbia del
suo nemico; Ugolino, invece, è tormentato dalla sete di vendetta. Nei primi versi vediamo il conte
in una scena macabra e raccapricciante, che solleva la bocca ‘dal fiero pasto’ e, ripulendola dei
capelli dell’avversario, risponde alla domanda di Dante. L’inizio del racconto di Ugolino rimanda a
quello di Enea, che, alla reggia di Didone, rievoca con dolore le sue vicende. Il Conte comincia la
narrazione con una premessa e parlerà per il solo scopo di far conoscere la sua tragedia e portare
infamia all’arcivescovo. In queste tre terzine si percepisce anche il pensiero politico di Dante e il
suo odio per le fazioni nella sua città. Ma, essendo nato da una famiglia appartenente ai guelfi, ha
dentro di sé un’ intrinseca pietà per Ugolino e una crescente rivalità contro i ghibellini. Il Conte
continua il racconto con la presentazione sintetica di sé e del nemico, poiché sa bene che la sua
vicenda è nota in tutta la Toscana. Egli racconta che durante i mesi di prigionia ha fatto un sogno
premonitore, nel quale l’arcivescovo Ruggeri appare come guida della battuta di caccia del lupo (il
conte) e dei lupicini (i figli), che fuggono verso il monte di San Giuliano situato tra Pisa e Lucca. Il
capocaccia (l’arcivescovo) schiera in prima fila le tre famiglie ghibelline dei Gualandi, Sismondi e
Lanfranchi con cagne feroci (il popolo minuto) istigate contro il conte Ugolino. Dopo il racconto
del sogno premonitore inizia il racconto della tragedia. Si tratta di un vero e proprio diario, con una
scansione quotidiana degli eventi che comprende otto giorni. Dopo il sogno premonitore fatto
durante la notte, siamo al primo giorno: il conte si accorge che il passaggio dal sogno alla realtà è
segnato dall’amaro risveglio che gli fa prendere atto della sostanziale verità di ciò che ha sognato.
Infatti sente piangere per la fame i suoi figliuoli. A questo punto Ugolino interrompe il suo racconto
e rinfaccia a Dante la sua durezza di cuore, gli rimprovera di non commuoversi di fronte al destino
di morte atroce che già si prefigurava ai suoi occhi e nel suo cuore: “Ben se’ crudel, se tu già non ti
duoli / pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava; / e se non piangi, di che pianger suoli?” (vv. 4042). Tenendo conto del fatto che Ugolino riprende, subito dopo, il racconto interrotto, questa terzina
potrebbe apparire come una sospensione del racconto oppure potrebbe avere un significato non
evidente, come per esempio un’allusione agli eventi biografici del poeta preoccupato per la legge
approvata in Firenze nel 1303, che prevedeva che i suoi figli, raggiunta l’età di 14 anni, seguissero
la sorte del padre, come in effetti avvenne. Infatti ai vv. 85-90 Dante maledice i Pisani per aver
condannato non tanto il padre, ma dei ragazzi innocenti, a una fine spietata. Dopo la sospensione
Ugolino riprende subito la narrazione. I ragazzi si sono svegliati al nuovo giorno e aspettano il cibo
quotidiano, mentre il conte sente inchiodare l’uscio dall’esterno, cosa che significava chiaramente
condanna a morte per fame. Allora Ugolino guarda in viso i ragazzi senza parlare e, soprattutto,
senza piangere, perché si sente impietrito dal dolore e dall’angoscia. È un dialogo tra un padre
disperato e i figli non chiaramente consapevoli del destino a cui stanno per andare incontro, un
dialogo fatto di silenzio e di poche espressioni. Soprattutto è un racconto che avanza a scatti verso il
momento più angosciante del dramma. Anselmuccio, vedendo lo sguardo del padre, gli rivolge una
domanda che cade nel silenzio, fatto di incertezza paurosa e di terrore: “Tu guardi sì, padre! che
hai?”. Nessuna risposta da parte del padre. Poi, al secondo giorno, Ugolino compie un gesto
normale per un uomo sconvolto dalla visione del dolore dei figli, quello di mordersi le mani, gesto
che viene letto dai ragazzi come il segno della fame. Ed ecco uno dei momenti più tragici: è il
momento in cui i ragazzi offrono al padre le loro stesse carni; si cibi di loro dal momento che da lui
hanno avuto la vita: “Padre, assai ci fia men doglia / se tu mangi di noi: tu ne vestisti / queste
misere carni, / e tu le spoglia” (vv. 61-63). Parole intensamente drammatiche, dense di
disperazione, pronunciate al plurale a coinvolgere tutti e quattro i ragazzi. Si respira l’aria della
tragedia, ma una tragedia di cui bisogna cogliere il significato vero e profondo e non evidentemente
manifesto. Per far questo bisogna associare alla terzina prima riportata, il v. 69, nel quale Gaddo, in
un momento di grandissima sofferenza, morendo si rivolge al padre con le famosissime
parole:”Padre mio, ché non m’aiuti?”, così come bisogna associare il termine “croce” di v. 87.
Leggendo la terzina, le parole di Gaddo e il termine “croce” ricordano appunto Cristo che offre al
Padre il suo corpo, la sua vita, come prezzo necessario per riscattare l’umanità dalla colpa del
peccato originale. Tali richiami fanno apparire i ragazzi come vere e proprie vittime sacrificali,
pronte a offrire le proprie carni come in un atto d’amore drammatico e solenne. Questa parte
dell’episodio rappresenta, accanto all’amore paterno, puro profondissimo viscerale, anche la
profondità e la visceralità di un altro amore, quello filiale, che si spinge fino alle vette dell’estremo
sacrificio. Dopo le parole dei ragazzi, Ugolino si acquieta un poco. Nel secondo e nel terzo giorno
nessuno di essi pronuncia parola. Il silenzio è terrificante e diventa davvero il protagonista della
tragedia. Ed ora Ugolino esprime tutto il senso tremendo di quelle giornate: “ahi terra, perché non
t’apristi?” (v. 66). Il conte, quindi, racconta la morte di Gaddo, avvenuta al quarto giorno, e quella
degli altri tre ragazzi, avvenuta nel quinto e nel sesto giorno. E nel buio si mise a brancolare tra i
loro corpi chiamandoli per due giorni per nome. E siamo nel settimo e nell’ottavo giorno: “Poscia
più che il dolor poté il digiuno: poi, più che il dolore mi fece morire il digiuno”. Sono tante le
interpretazioni che si danno di questo v. 75. L'interpretazione più comune è che il conte infine morì,
soccombendo alla fame che lo uccise dopo due giorni, laddove il dolore per la morte dei figli non
era riuscito a sopraffarlo. Un'interpretazione alternativa sostiene che le ultime parole del conte
lascerebbero presagire uno scenario in cui egli, ormai cieco e folle, per la fame avrebbe mangiato i
cadaveri dei figli; si tratterebbe in sostanza della vittoria degli istinti brutali dell'uomo sul suo
dolore e sui suoi affetti, provocata dalla pena inumana a cui il conte è stato sottoposto. Il racconto
del conte Ugolino finisce qui. E Dante, prima di dare sfogo alla sua indignazione, annota, nei vv.
76-78, che il conte, con gli occhi stravolti biechi torvi, riprese a rosicchiare il cranio
dell’arcivescovo. È la stessa scena che si è presentata agli occhi del lettore agli inizi del canto.
Infine, Dante, che ha ascoltato in silenzio il racconto di Ugolino, scaglia una feroce invettiva contro
Pisa “vituperio de le genti”, paragonata a una “novella Tebe”, città greca nota per la guerra
fratricida tra Eteocle e Polinice, poiché deve essere punita per il grave delitto commesso nei
confronti del conte: i figli innocenti non dovevano pagare le colpe del padre.
Il punto che ha acceso il nostro interesse per questo canto è stata l’interpretazione del v.75, in
quanto il tema dell’antropofagia non è un argomento lontano dalla realtà. Come abbiamo già detto,
l’uomo in casi estremi è spinto dallo spirito di sopravvivenza a compiere gesti animaleschi. Un
esempio più vicino a noi è stato documentato nell’incidente accaduto nel 1972 in Uruguay, dove un
aereo con a bordo 45 persone si schiantò sulla Cordigliera delle Ande e i sopravvissuti, per resistere
al freddo, finite le scorte di cibo, decisero di comune accordo di sfuggire all’inevitabile destino
mangiando i resti dei compagni morti. In conclusione, quello che abbiamo dedotto da queste due
vicende è che l’istinto di sopravvivenza domina la ragione e il cuore, se la vittima è uno
sconosciuto, come nell’incidente aereo, mentre nel caso del conte, dove è il cuore il primo a
dominare, egli non cede all’istinto brutale. Dante non vuole suscitare orrore con la tecnofagia, ma
pietà per ragazzi vittime innocenti della violenza delle guerre civili, pensando anche alla sua
condizione di exul immeritus (esule senza colpa) e al coinvolgimento dei suoi figli incolpevoli.
Antonio Maffei
Elena Milici
Emanuela Maffei