Delitto Matteotti, delitto di Stato. Le responsabilità dirette di

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Delitto Matteotti, delitto di Stato. Le responsabilità dirette di
Delitto Matteotti, delitto di Stato. Le responsabilità dirette di Mussolini
Mercoledì 03 Dicembre 2014 00:00
di MARIO GIANFRATE
La tesi spacciata per nuova ma, in realtà, abbondantemente datata e formulata non sulla base
di una rigorosa ricostruzione storica
e processuale ma su tendenze negazioniste tese a legittimare il fascismo e riabilitare il suo
Duce, e che escluderebbe ogni responsabilità diretta di Mussolini nell’assassinio di Matteotti,
innesca inevitabilmente una polemica provocazione a cui non si può non obiettare.
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Diversi sono gli elementi che confermano la premeditazione del delitto e conducono al suo
mandante: Benito Mussolini.
Un primo riscontro è rilevabile in una circostanza che dovrebbe, se non altro, indurre a una
riflessione: Matteotti è strettamente sorvegliato dalla polizia; il giorno del rapimento, benché il
Questore di Roma, Bertini, avesse inviato un fonogramma al Commissario di Quartiere, De
Bernart, chiedendo di intensificare il pedinamento del deputato socialista, non c’è traccia di
agenti di polizia che lo controllino.
Al momento del rapimento Matteotti ha con se una borsa. Tale circostanza viene riferita dalla
moglie Velia in una dichiarazione rilasciata il 13 giugno alla “Giustizia”, quotidiano del PSU di
cui Matteotti è il Segretario; è ribadita dall’Avanti! E’ confermata da uno dei due ragazzi,
Amilcare Mascagna, che hanno assistito alla scena del rapimento, in una minuziosa
deposizione al Giudice Istruttore ed è resa in fase dibattimentale da Amleto Poveromo, uno
degli squadristi che ha preso parte al rapimento e all’assassinio, il quale afferma che della
borsa si è impossessato Dumini, il capo della Ceka e della spedizione.
Cosa conteneva quella borsa? In un recente viaggio in Inghilterra, Matteotti aveva avuto una
“soffiata” da parte dei laburisti circa un giro di tangenti in cui sarebbe stato coinvolto il fascismo.
In sintesi: la Sinclair Oil, una società petrolifera americana, puntava al controllo del mercato
petrolifero italiano. A tale progetto si opponevano il Ministro all’Agricoltura De Capitani e il capo
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della direzione generale per i combustibili, Arnaldo Petretti, propensi alla creazione di un ente
petrolifero italiano; entrambi saranno “dimissionati” da Mussolini, invece favorevole a concedere
l’appalto. Perché? Nella seduta della Camera fissata per il giorno 11 Matteotti si apprestava a
denunciare l’intreccio tra politica e affarismo e il giro di mazzette che avevano come destinatari
Arnaldo Mussolini, fratello del Duce e direttore del Popolo d’Italia e il re. Questo spiega
l’atteggiamento di latitanza e di indifferenza di Vittorio Emanuele durante l’intera crisi Matteotti.
Semplicemente perché era ricattabile.
Ma ricattabile è anche Mussolini: le carte contenute nella borsa vengono inviate da Dumini a
due avvocati texani, Martin Arnold e Hugh Robertson, a fini di tutela personale; sconterà
appena un mese di galera per essere rimesso in libertà grazie a un’opportuna amnistia
concessa da Mussolini. E otterrà larghe elargizioni pecuniarie dallo stesso che gli consentiranno
di condurre una vita discreta.
Se aggiungiamo i tre memoriali scritti da Cesarino Rossi, capo ufficio stampa di Mussolini e
capro espiatorio della vicenda, che accusano direttamente il Duce del delitto, le dichiarazioni di
Aldo Finzi, anch’egli silurato dal fascismo, dello stesso Filippelli che fornì a Dumini l’auto per
compiere il rapimento, il quadro è completo. Scrive Aldo Finzi in una lettera-testamento inviata
al fratello: “… dopo che Matteotti ebbe pronunziato alla Camera il famoso discorso impugnante
la validità della maggioranza, il Presidente del Consiglio, esasperato, fatto chiamare Cesare
Rossi, gli dichiarò che si addivenisse senz’altro alla soppressione dei più violenti capi
dell’opposizione e ordinò si dovesse cominciare a sopprimere clandestinamente e senz’indugio
l’on. Matteotti”.
L’affermazione trova inoppugnabile conferma nel telegramma cifrato.12093, che Mussolini
invia al Prefetto di Torino il giorno 30 maggio 1924, l’indomani, cioè della seduta parlamentare
nella quale Matteotti ha sferrato il suo durissimo atto di accusa: “Mi si riferisce che noto Gobetti
sia stato recentemente Parigi e che oggi sia in Sicilia. Prego informarmi e vigilare per rendere
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nuovamente difficile questo insulso oppositore Governo et Fascismo. Firmato: Mussolini”.
Qualche giorno dopo Piero Gobetti sarà aggredito e bastonato da una squadra di camicie
nere e, per le conseguenze, morirà l’anno successivo.
In questo caso, sul delitto, c’è anche la firma di Benito Mussolini, mandante anche del delitto
Matteotti e di tutti gli altri delitti commessi dallo squadrismo fascista.
Due sole altre puntualizzazioni che non sfuggirebbero al rigore dello storico: il discorso di
apertura ai socialisti avanzata da Mussolini nella seduta del 7 giugno, a tre giorni dal delitto, e
l’ipotizzato committente dello stesso delitto da parte della Sinclair Oil.
La chiave di lettura della proposta di collaborazione fatta da Mussolini ai socialisti è che il
Duce stava costruendo l’alibi per l’azione criminosa progettata: ma davvero è pensabile che,
dopo il discorso di Matteotti, fosse possibile una qualsiasi collaborazione tra fascismo e
socialisti? Per Matteotti non ci potevano essere compromessi, né titubanze. Matteotti, per
primo, aveva individuato la natura totalitaria del fascismo, non un’idea ma un crimine.
Ammettendo per un istante la bontà dell’apertura mussoliniana alla collaborazione con i
socialisti, Matteotti ne era un ostacolo. Quindi, andava eliminato.
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Infine, davvero peregrina e suggestiva l’ipotesi che mandanti del delitto fossero i vertici della
Sinclair Oil: ma davvero c’è qualcuno disposto a credere che la Società americana si sarebbe
rivolta, anziché a dei professionisti del crimine, alla banda di famigerati e sgangherati
delinquenti della Ceka, la milizia segreta alle dirette dipendenze del Viminale?
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