The dark side of the moon

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The dark side of the moon
The dark side of the moon
“Allora, la vogliamo organizzare la notturna sul Miletto con la luna piena? Daniela insiste!” dice Pino, sociomaratoneta con la passione per la neve. “Mandami la locandina che te la lancio”. Dopo qualche giorno di
studio della lunazione ecco il lancio: appuntamento alle 22:00 al solito posto del raduno nel giorno delle
escursioni. Questa volta, data la fascia oraria, la pizzeria che insiste sulla piazza è aperta e c’è la possibilità
di tacitare lo stomaco di quelli che “ho il buco”.
“Chi siamo?” “Siamo un bel gruppo” anticipa Pino, all’esordio come re(ferente) per una notte. E aggiunge
“Viene anche Davide Sabato. Meglio così, mi sento più tranquillo”. E certo, Davide nelle ascese sul ghiaccio
ha esperienza da vendere in quanto, non avendo mai superato il complesso di Edipo, è alla continua ricerca
di mammelloni AAA innevati da ciucciare, dove le tre prime lettere dell’alfabeto non sono la simbologia
delle agenzie di rating, ma l’acronimo di AlpiniAppenniniciAndini. Già, perché il nostro caro socio-yeti non si
accontenta dei quattromila europei e di quando in quando vola verso le Ande per tentare i seimila, dunque
per lui farsi il Miletto innevato è come per il campione del mondo di cocktail cimentarsi nella miscela di vino
e gazzosa.
“Ci sei pure tu?” La combinazione notturna+neve+lunapiena attrae a tal punto che si materializzano
all’appuntamento non soci, neo soci all’esordio assoluto, come Fernando, soci “dormienti” perché molto
selettivi, come Luigi, e soci redivivi, come Maria Grazia (detta “stella”, quindi con lei avremo un’entratura
col firmamento), Piero (riemerso dal mondo dell’arrampicata che lo ha fagocitato precipitandolo in un
lungo letargo escursionistico) e Luca (imprigionato dalle grate familiari, che riesce a limare solo coi ramponi;
infatti non si vedeva dal ghiacciaio del Monte Rosa di due anni prima).
Fatte le macchine, via verso il pianoro di Campitello Matese, dove si arriva in ordine sparso e inverso, dato
che la macchina avviatasi per prima, non avendo capito bene il punto del ritrovo, alla fine si fa attendere.
Fuori gli zaini dal portabagagli, fuori cappello, guanti e guscio dagli zaini, fuori la curiosità degli esordienti,
sotto la luce direzionata delle lampade frontali usate come rinforzo di quella del Grande Lampadario
chiamato luna “Ma come si allacciano ‘ste ciaspole? C’è una destra e una sinistra?” Affibbiato con le punta
delle dita ghiacciate tutto quello che c’è da affibbiare si parte. La neve è dura e compatta e qualcuno come
training autogeno le lancia la sfida ripetendosi mentalmente “Vedremo chi è più duro!” L’incedere è
croccante, lento e, per i neofiti, ignoto con quelle “racchette” di plastica dura ai piedi, evoluzione di quelle
di legno, diventate “ciaspe” o “ciaspole” per conio dialettale nordico, che li fanno camminare con la cautela
degli sminatori. “Forte!”, “Che zasso!” sono le sintesi di entusiasmo comunicate al gruppo da chi le sta
utilizzando per la prima volta. Mentre gli altri, banalmente, cominciano la serie di “Guarda che luna!”, che
sarà il leitmotiv dell’ascesa-discesa.
Camminando al centro della pista solcata dal gatto delle nevi come una patata duchesse, ci avviciniamo ai
primi cannoncini sparaneve conficcati ai bordi della stessa, la cui fissità ricorda quella dei vecchietti sdentati
e delle anziane vestite di nero immobili vicino ai portoni delle case in pietra o al bar del paese, che ti
penetrano fino allo scheletro con lo sguardo potente della storia del luogo quando metti piede per la prima
volta dalle loro parti e ti sembra di sentire i punti interrogativi che si rizzano di colpo e insieme nelle loro
menti: “Ma mo’ chi è ssu furestier’?”.
Purtroppo, qualcuno comincia ad arrancare a causa, dicono, di un panino mangiato in fretta all’ultimo
momento; forse, più logicamente, la difficoltà dipende dalla mancanza di allenamento: con il dislivello, per
di più innevato, non si scherza. Allora, il gruppone si fraziona in tre tronconi: l’avanguardia raccolta intorno
a Davide; il blocco centrale rappresentato da un mix di soci esperti ed esordienti; la “scopa” che fa da
cordone sanitario alla socia in difficoltà. Scopa che si annulla nel blocco centrale quando la difficoltà fisica
sfocia in bandiera bianca di resa e in due (per galanteria, un socio si offre come accompagnatore di ritorno)
tornano giù alle auto per guadagnare il caldo ambientale di un bar ed esofageo di un tè bollente. Per
fortuna che non eravamo saliti molto.
La frammentazione del gruppo, isolando le figure dei partecipanti, mette in evidenza le doppie ombre
personali (sperando che intimamente non si nasconda la terza, l’ombrosità caratteriale). In effetti, i colori
dell’abbigliamento, con l’illuminazione solo lunare sfumano nel nero, per cui la sagoma umana verticale
sembra l’ombra dell’ombra formando un angolo tendenzialmente retto (dipende dall’inclinazione del
pendio), e non sai distinguere qual è la fonte e qual è la proiezione. L’incedere è strabico, con un occhio alla
sorella di S. Franceso, la vera protagonista della notturna, ed uno al solco bucherellato dalle ciaspole di chi
ti precede, che evoca i cartigli egizi. Strabico e lento, visto che, con la scusa di aspettare quelli rimasti
indietro, hai la possibilità di girarti e osservare cosa si vede giù in lontananza. Nell’orizzonte scuro si
stagliano le luci del paese sottostante che con l’effetto flou della visione notturna sembrano lapilli disposti
geometricamente dai piani regolatori stratificatisi negli anni.
I contatti cercati ad alta voce e le risate tra alcuni del gruppo sono carta vetrata passata sul silenzio; danno
un senso di sgradevolezza, perché un altro protagonista, oltre all’argentea luce lunare, è il silenzio.
Volendolo rispettare essendoci entrato in empatia, quasi t’imbarazza contaminarlo con i rumori privati e
inevitabili, quali l’ansimare per lo sforzo ascensionale e il saliscendi del muco che lucida il setto nasale
quando fa freddo.
Intanto la scatola nera del rifugio Del Caprio che s’intravedeva da qualche minuto ora si tocca con mano e
questo psicologicamente induce ad una sosta ristoratrice con liquidi caldi e freddi, barrette, frutta secca e
fresca. Predominano le banane perché, secondo qualche lettura nutrizionista o sentito dire escursionistico,
contengono il potassio, che rinvigorisce i muscoli. Nell’occasione il vero potassio è l’entusiasmo
dell’esperienza particolare che si sta vivendo, da raccontare nei luoghi lavorativi ed amicali frequentati i
giorni successivi.
Richiusi gli zaini, incombe una scelta tecnica: calzare i ramponi o proseguire con le ciaspole? Davide, al
solito, minimizza e invita a proseguire con le seconde non ritenendo necessari i primi. Figurarsi, lui, il
Messner molisano, sarebbe capace di ascendere con le infradito. Alla fine ognuno sceglie in base al proprio
sentire. Sicuramente si sente la fatica e questo mette ansia nei meno allenati perché da lì in poi il dislivello
si fa più impegnativo e si comincia a percepire come una “croce” (“Ma chi me l’ha fatto fare?”). Ormai è
inopportuno tornare indietro, si deve raggiungere la vetta.
L’ulteriore sgranarsi del gruppo crea segmenti di percorso individuali dentro i quali ognuno, non avvertendo
più l’obbligo della socializzazione, può dare sfogo alle proprie riflessioni e creare spazio per immagazzinare
le emozioni sublunari. Se alzi lo sguardo noti che le stelle al confronto con la luna sembrano lampadine a
risparmio energetico sul finire della vita utile, mentre se fissi il terreno ti accorgi che è come un grande
foglio grigio sul quale puoi disegnare con il led fissato sulla fronte, solo che utilizzi il capo al posto della
mano.
Finalmente qualcuno, parafrasando gli scrutatori a prua, urla “Croce!”. Intenso sospiro di sollievo da parte
di quelli in affanno, per i quali “croce scaccia croce (atletica)”. Il simbolo del cristianesimo, che sul Miletto è
tubolare, è avviluppato da ghiaccioli disposti orizzontalmente che lo fanno sembrare un drappo bianco
stirato dal vento a destra e sinistra. Foto di rito per testimoniare la conquista, piccolo supplemento di
ristoro liquido, sorrisi che smontano la tensione accumulata e si riscende.
Per accelerare la discesa si taglia per un tratto fuori pista che, non essendo battuto dal tappeto solcante del
“gatto”, è levigato. I rivoli di luce proiettati sul manto liscio e lucido dalle lampade frontali, ormai anarchici
visto l’ordine sparso che caratterizza il ritorno, lo fanno sembrare agli occhi degli uomini l’allume di rocca
che i barbieri usavano in tempi andati come emostatico, mentre a quelli delle donne dorsi di anguille in
lento e ristretto movimento come in un grande banco ittico pre-natalizio.
“Ops!”, un piccolo salto di cunetta e si rientra nella pista per puntare dritti verso il pianoro. Tornare ai
solchi della pista battuta dà la sensazione di tarlare con i ramponi il maglioncino a coste bianco-neve che il
Miletto indossa d’inverno. Sarà per l’effetto psicologico che il grosso è fatto che la discesa è più leggera;
infatti, dopo aver preso confidenza col terreno e con l’attrezzatura, s’avanza a grandi passi; qualcuno
addirittura si sfida a chi raggiunge prima, correndo, un certo punto fissato più giù in corrispondenza di
qualche riferimento naturale o impiantistico, tipo i piloni della seggiovia.
Quest’ultima, che di giorno è strumento di allegria, portando in cima sciatori colorati, rumorosi e festanti,
di notte incute timore. I suoi sedili immobili e sospesi, che appena s’intravedono nel buio, da sotto
sembrano grandi uccelli preistorici appollaiati sulle corde d’acciaio. E quell’acciaio sotto la volta di cielo
ferroso rende ancora più freddo l’ambiente. Ti viene da guardarti intorno prima di arrivare alle macchine
per rivisitare e memorizzare quanto hai appena fatto. Ruotando con calma lo sguardo a 360°, senza più la
parzialità di campo visivo indotta dal dover camminare e rimanere attaccato al gruppo, noti meglio
l’imponenza degli elementi impiantistici, che davvero sembrano grandi dinosauri del giurassico.
Quell’habitat fatto di silenzio, ordine, verginità delle piste, sobrietà cromatica sarebbe da consigliare agli
sciatori caciaroni e a volte un po’ cafoni, per far apprezzare loro l’altra faccia della montagna e indurli,
magari, a rispettarla di più durante la fruizione iperconsumistica diurna.
o ro
L’avvicinamento è veloce, tant’è che il pian
s’ingrandisce sempre più, come quando guardi
nell’occhio della macchina fotografica per zoomare. I primi arrivati hanno già liberato con sollievo caviglie e
piante degli scarponi dalla presa dei ramponi riscoprendo il piacere della deambulazione di routine, anche
se per il sollievo pieno occorre il bagno. La soddisfazione per l’esperienza in chiusura fa venire voglia di
estendere le classiche lettere della toilette “WC”, almeno per quella notte non contaminata dalle lamine
sciancrate e sciolinate, in “W Campitello”.
Quando ci si saluta, distrutti dalla fatica, le lancette urlano “ore 3:00” sotto l‘aumentato chiarore del
passaggio di testimone dalla luce lunare all’albeggiare, che fa percepire meglio, rispetto all’arrivo, le
concavità e convessità del Miletto. L’ora antelucana pianta un desiderio prepotente nella mente: il letto, il
cuscino, la posizione orizzontale, il recupero fisico: alterare i ritmi circadiani sonno-veglia pesa, soprattutto
dopo uno sforzo fisico intenso. Purtroppo, però, le giovani socie Daniela, Laura e Michela hanno ancora
energie da consumare e abboccano all’amo-cornetto che la notte sempre lancia verso quell’ora ai suoi
frequentatori inquieti. Allora via verso CB con l’accordo di deliberare l’eventuale prosieguo in piazza Savoia.
Negli abitacoli cominciano subito i contrasti tra i “cornettisti” e i “cuscinisti” e, come sempre accade in
questi casi, il gruppo alla fine si polverizza restando in pochi a proseguire, tra i quali alcuni veramente
motivati ed altri costretti dall’incapacità di dire “no!”.
“Gli ultimi dei Mohica(n)i” rimasti in gioco si lanciano alla ricerca del cornetto appena sfornato, ma i primi
tentativi falliscono o perché i bar obiettivo sono chiusi o per la precocità della ricerca che fa incassare due o
tre “Ancora non me li portano”. Quelli che continuano ad agognare il confort del proprio letto, Simona in
primis, provano a fare leva sui primi fallimenti per convincere le tre streghette incaponite a desistere dal
sabba del cornetto, ma non c’è niente da fare. Se ci parli sembra di vedere scorrere sul display delle loro
fronti, ormai libere dalle lampade, la famosa canzone di Ligabue: “… Certe notti somigliano a un vizio che
non vuoi smettere, smettere mai …”.
Pazienza, ormai sei in ballo e devi continuare a ballare o, meglio, a osservare i ragazzi che tornano dal ballo
o dallo sballo, più avvezzi a quella fascia oraria. La differenza rispetto a loro emerge già nel saluto
all’ingresso dei locali, perché mentre tu, abbigliato da montagna, semiramponabile e rincoglionito dalla
stanchezza e dal sonno perso dici “Buonanotte”, loro vestiti di giovinezza, ancora freschi in viso e con la
sigaretta infilata nelle labbra dicono, con la certezza dell’abitudine, “Buongiorno”, e hanno ragione perché
sono circa le 5:00 del mattino. Intanto Paola ha mancato l’appuntamento al primo bar provato e, come una
trapezista asincrona, ha seguito inerzialmente la propria traiettoria andando a cadere, per fortuna, nel suo
letto. “Non vi ho visti più e me sono andata a casa” messaggia lagemelladimontagano. Che invidia cara
Paola, “n meno tre” presenti vorrebbero essere al tuo posto!
L’attesa fa riemergere da una quota profondissima dell’oceano dei ricordi i tempi dei veglioni dell’ultimo
dell’anno, quando ti ritiravi a casa solo dopo aver consumato il rito del cornettoecappuccino e con un po’ di
pudore annusavi il dopobarba di tuo padre che aveva appena terminato il rito della lametta. C’è una vena di
tristezza nelle immagini sbiadite rivenienti dalla gioventù che, bruciata o meno, non tornerà più. É un’altra
stagione della vita ed è illusorio resistere fino alle 05:00 del mattino riponendo in un cornetto appena
sfornato la speranza di tornare “freccia”, come recita il Salmo 127: “Come frecce in mano a un eroe sono i
figli della giovinezza”. L’illusione dura il tempo dell’evaporazione della macchia circolare di cappuccino che
ha coperto la punta del tuo naso mentre lo bevevi, non solo a causa della generosità anatomica della
piramide nasale, ma anche perché la schiuma quasi tracimava dalla tazza. Comunque veramente buoni sia il
cornetto che il cappuccino.
E intanto ripensi a quella che da un punto di vista psicologico viene considerata un’età di mezzo in cui non
si è più bambini e non si è ancora adulti, e perciò faticosa, difficile, fonte di sofferenze e di ansie, età di
transito. Ai giovani che stanno male e non sempre ne sono consapevoli. Le famiglie si allarmano, la scuola
non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per spingerli sulle vie del divertimento e del
consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la
loro stessa vita, che non riesce più a proiettarsi in un futuro che preannunci qualche promessa. E allora il
presente è da vivere con la massima intensità, non perché questa procuri gioia, ma perché neutralizza
l’angoscia del deserto di senso. Un po’ di musica sparata nelle orecchie per annullare le parole, un po’ di
droga per anestetizzare il dolore o per provare qualche emozione, tanta solitudine tipica di
quell’individualismo esasperato, sconosciuto alle generazioni precedenti, indotto dalla persuasione che –
stante l’inaridimento di tutti i legami affettivi – non ci si salva se non da soli, magari attaccandosi, nel
deserto dei valori, a quell’unico generatore simbolico di tutti i valori che nella nostra cultura si chiama
denaro.
Comincia il mal di testa e s’accorcia sempre più l’intervallo temporale tra gli sbadigli. Finalmente il saluto è
definitivo. Sotto casa mentre apri il portone sfreccia rombante alle tue spalle un’auto di giovani urlanti,
probabilmente “fatti”, che riemergono dagli abissi della dissolutezza generazionale. Ti giri ma non fai in
tempo a vedere neanche il tipo di macchina; la torsione del collo però dà la possibilità di buttare un ultimo
sguardo alla luna, sbiadita ma ancora presente. Salendo le scale ti chiedi se qualcuno dei partecipanti alla
notturna ha provato a immaginare l’altra faccia della luna, il suo lato oscuro. “Folle è l’uomo che parla alla
luna, stolto chi non le presta ascolto” diceva Shakespeare. Velocemente t’infili nel letto, rinunciando a
combattere la placca, e mentre pensi al “dark side of the moon” di pinkfloydiana memoria (manco a farlo
apposta un disco filosofico e di riflessione sulla condizione umana) Morfeo ti guarda storto picchiettando
l’indice sull’orologio facendoti notare l’ora insolitamente tarda. Ehm, caro Morphy, tu non conosci le tre
sorelline del Liga!
Nelle lenzuola, come prevedibile, solo uno, due semigiri del corpo appesantito dalla stanchezza e poi le
palpebre, sipario sullo spettacolo della vita, si chiudono veloci come se il siparista avesse perso il controllo
delle carrucole a seguito di un coccolone. Sul lato palpebrale esterno sembra di avvertire ancora la
proiezione della luna piena. Le labbra accennano una smorfia di sorriso quando la mente in transito verso il
sonno fa salire a bordo l’ultimo pensiero semivigile: “In fondo, la giovinezza è andata ma ha anche i suoi
problemi, l’età attuale ha il compito affascinante di cercare e realizzare l’”anima” e la vecchiaia ancora non
si avvicina; tutto sommato, è valsa la pena fuoriuscire dall’utero per farsi accarezzare e sferzare dal vento
della vita”.
Intanto, come a teatro quando dopo gli ultimi applausi il sipario si chiude definitivamente e il fascio di luce
dell’occhio di bue, che ricorda la forma della luna piena, indugia sul drappo di velluto rosso mentre si
riaccendono le luci in platea, l’ennesimo nuovo giorno riaccende le luci sul mondo.
Claudio Struzzolino