Scarica l`allegato - Zanasi Foundation
Transcript
Scarica l`allegato - Zanasi Foundation
Catalogo e Mostra a cura di: Marco Baldassari e Gloria de Liberali Progetto Grafico: Morena Silvestri Campagna fotografica a cura di: Marco Baldassari Copyright 2015: Fondazione Zanasi e gli autori per i testi e le fotografie Si ringraziano Genus Bononiae, Unicredit, Grand Hotel Majestic “già Baglioni” Bologna e la Pinacoteca Nazionale di Bologna La Fondazione Zanasi si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte Catalogo edito da / Published by Agenzia NFC di Amedeo Bartolini & C. sas - Rimini Collana: NFC Edizioni ISBN 978 - 88 - 6726 - 082 - 9 Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione anche parziale dell’opera, in ogni sua forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia, la registrazione e il trattamento informatico, senza l’autorizzazione del possessore dei diritti. Indice 7 La giovinezza dei Carracci: Ludovico, Agostino e Annibale negli anni Ottanta del Cinquecento Andrea Emiliani 20 Ludovico Carracci, San Girolamo Agostino Carracci, Sacra Famiglia con il matrimonio mistico di Santa Caterina Annibale Carracci, Ritratto di anziana donna Repertorio fotografico di Marco Baldassari 45 Un San Girolamo del giovane Ludovico Carracci Gloria de Liberali 51 Un’inedita Sacra Conversazione di Agostino Carracci Nicosetta Roio 59 Un Ritratto della giovinezza di Annibale Carracci Andrea Emiliani 64 Biografie di Ludovico, Agostino e Annibale Carracci a cura di Chiara Zironi 71 Bibliografia essenziale 3 Ludovico Carracci, Il ringiovanimento di Giasone ad opera di Medea (particolare), affresco, Palazzo Fava, Bologna Ludovico Carracci, Gli incanti di Medea (particolare), affresco, Palazzo Fava, Bologna 6 La giovinezza dei Carracci: Ludovico, Agostino e Annibale negli anni Ottanta del Cinquecento Andrea Emiliani La questione della giovinezza dei Carracci – del cugino Ludovico e dei più giovani fratelli Agostino ed Annibale – rappresenta ancora ai nostri occhi l’intera storia della Rinascenza bolognese ed emiliana insieme, nel momento fondamentale del superamento del cadavere agonico del manierismo e della sua eredità di complicazioni intellettuali, volgendo piuttosto l’arte ad un’idea più autentica e vera, nella quale il senso della storia e l’osservazione della natura si congiungono in un’altissima sintesi poetica. La stagione prolungata del lento – e non poco conflittuale – Rinascimento bolognese, diviso tra il dolce classicismo di impronta raffaellesca e figure di crisi come quello spirito grottesco ed estroso che fu Amico Aspertini, aveva ceduto il passo, e rischiava di essere inghiottita, dal linguaggio ornatissimo e pericolosamente astratto – poiché ormai lontano dalla verità naturale – che negli anni nel cuore del Cinquecento aveva prepotentemente piegato l’arte ad un eccezionale strumento di spettacolarizzazione e retorica. Erano stati gli apici toccati dall’eleganza sinuosa del Parmigianino e dal michelangiolismo esasperato e terribile di Pellegrino Tibaldi ad alimentare la febbre delle alterazioni di significato e delle stranezze intellettualistiche contro cui reagì con inamovibile severità il Cardinale Gabriele Paleotti con il suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane del 1582. Il suo testo, che ebbe immediata e larghissima ricezione tra gli artisti, individuava il valore della pittura nella sua onestà morale, nella fedeltà ai testi sacri e nella vicinanza al mondo quotidiano, da perseguire attraverso un linguaggio divulgativo piuttosto che spettacolare. In tempi come quelli tridentini, l’aspetto della quotidianità batte in modo intenso alla porta della religione più familiare e naturale, la quale è un frutto della Rivelazione e cioè della particolare pratica di lettura e di interpretazione dei testi evangelici. È ormai noto quanto puntuale fosse l’attenzione che i pittori dovevano riservare alla narrazione di ore, luoghi ed azioni del Nuovo Testamento e dei 7 testi vetero testamentari: proprio in questi ultimi, talora e spesso, il seme della trasgressione andava a germinare facilmente. Il testo evangelico diveniva allora la vera sceneggiatura del mondo pittorico della “biblia pauperum”, e la pala d’altare andava a rappresentare il luogo figurativo della religione per eccellenza, la tavola dipinta che s’incarica di rivivere per tutta la comunità raccolta attorno ad essa le gesta educative e gli atti eruditi, l’esemplarità gravosa o cruenta della vita dei Santi, il magistero salvifico della loro morte o la seduzione confessionale. Sarà allora la nuova società post-Tridentina ad esigere un ritorno ad una filosofia dell’arte che altro non è che filosofia della natura, la medesima che si ritrovava con agio alle stesse date nella poesia dell’Ariosto o nella prosa del Tasso. Un ritorno alla natura, insomma, atteso con desiderio in una città fertile di nuovi stimoli e di idee di rinnovamento che ne animavano il governo artistico e sociale fin dagli anni Sessanta, quando Bologna sperimentava vasti interventi architettonici sotto la guida lungimirante del giovane cardinale umbro Pier Donato Cesi nelle aree circostanti l’antica basilica petroniana e la Piazza Maggiore. Qui sorsero presto l’Archiginnasio e l’Ospedale della Morte, mentre si procedeva all’ammodernamento dei banchi di cambio e di moneta e del Palazzo del Podestà, di fronte al quale fu creato lo spazio per la fontana del Nettuno progettata da Tommaso Laureti e realizzata dallo scultore fiammingo Jean de Boulogne, creando così uno straordinario assetto prospettico per il centro bolognese. Tale ritorno sulla forma urbana della città si impose come un’opera di recupero della conoscenza rinascimentale e dei suoi modelli formali e funzionali, innestando nel processo culturale pubblico la consapevolezza di una nuova volontà spaziale ed urbanistica carica d’ogni esemplare virtù, e che è alle spalle della riforma naturalistica guidata dai Carracci. Ritrovare la bella natura equivaleva per molti versi a ritrovare e ripercorrere alcune delle strade già conosciute durante quella meravigliosa stagione che era stato il Rinascimento italiano, rievocandolo attraverso i suoi momenti più forti e la folla di protagonisti che ne avevano attraversato i centri propulsivi di Firenze e di Roma: dopo il grande lavoro di unità esercitato sull’arte italiana da Raffaello, il più moderno sistema concettuale si costituisce dall’identità di natura e storia. È questo il percorso poetico individuato ed intrapreso per vie originali da Ludovico, Agostino ed Annibale poco dopo l’ottanta, a dar atto della loro difforme capacità di eversione rispetto ai modi del manierismo storico. Ludovico, 8 primo attore nel quadro dell’arte bolognese tra Cinquecento e Seicento, riassorbe e rielabora in modo lento ma durevole una tradizione padano-lombarda di consistente entità e durata, innestandola sul terreno ancora fertile del vecchio manierismo cinquecentesco, nei confronti del quale egli ingaggia un dialogo costante e non privo di conflitti. Una linea lega e divide per tempo Ludovico ed Annibale Carracci. Una linea che dirime e confonde, insieme, due biografie assai diversamente coltivate ed orientate e che si spezzerà definitivamente soltanto dopo il novanta, ma che già nei primi mesi dell’ottantacinque assumerà un corso diverso. Gli eventi pittorici di questa giovinezza dei Carracci sono infatti di natura tanto dinamica e sorprendente da aver sollecitato un giudizio nuovo e diverso nel tracciare la loro storia. Si va allora disegnando una sorta di bipolarità agli apici della quale si collocano da un lato Annibale e dall’altro Ludovico: la fama del primo, sepolto accanto a Raffaello nella Rotonda romana è destinata a salire sulle spirali d’ogni armonioso Agostino Carracci, Giove si fa condurre da Europa, affresco, Hotel Majestic Baglioni, Bologna 9 classicismo e ad incontrare una poesia di vera oratoria e di diffusa retorica, sempre di solenne pacificazione; dall’altro lato, si affatica la fortuna grave, in parte sepolta e tuttavia schiettamente “vera” di un Ludovico che si eleva quasi subito a patriarca della grande pittura religiosa italiana e di quel barocco lombardo costantemente inteso a fornire un volto alla società. E poiché i destini, grazie al potere della cultura, finiscono sovente per avvantaggiarsi dei centri ove gli artisti scelgono di lavorare, non giovò certo nella tradizione moderna la lunga sosta che Ludovico, per tutta la vita, intrattiene nella sua città, Bologna. Su questo problema si è trovato, nel 1956, Francesco Arcangeli, formulando il suo contributo al problema degli inizi dei Carracci partendo proprio dai principi dello stile, per afferrare quelli così mobili e tuttavia così probabili dell’essere e dell’esistere, fino a farne un modello – di questo Ludovico – posto a cavaliere fra l’evo antico – quello di Vitale e di Aspertini – e l’età moderna – quella di Crespi e di Morandi –, nel quale riconoscere una sorta di gigantesca sincronia della vicenda storica. L’inizio di questa sperimentale costruzione della personalità di Ludovico fu impresa per Arcangeli di non poco conto. Si direbbe che egli, molto abilmente, in un modo che egli stesso chiamerà “tortuoso” ma che invece ben risponde all’efficacia del “paragone”, procede alla fondazione di una personalità intera per metodico, insistente, persuasivo ricorso alla sola induzione stilistica. Ludovico fu il primo, nella famiglia, ad assumere l’alea della metamorfosi formale per attingere ad un nuovo linguaggio, come si può constatare di fronte alle opere che si usa collocare agli albori delle costanti caratteristiche dell’artista. I primi dipinti sono, secondo una successione possibile di stile e poco dopo l’ottanta, lo Sposalizio mistico di Santa Caterina in collezione privata (già esposto in occasione della mostra dedicata all’artista nel 1993), il San Vincenzo del Credito Romagnolo, e infine alcune tra le scene affrescate, tratte dalle Argonautiche di Apollonio Rodio e dalle Metamorfosi di Ovidio, nel ciclo realizzato per Filippo Fava nel palazzo per lui eretto intorno al 1580 di fronte alla Madonna di Galliera: qui, nella fattispecie, si ritiene suo l’ultimo comparto della sequenza narrativa con la Notte degli incantamenti, il Ringiovanimento di Esone e la morte di Esone bollito insieme ad un bianco agnello entro un tripode. L’edificio ospita infatti un salone centrale dove si dispiegano lungo il fregio i diciotto episodi affrescati dai tre Carracci con le Storie di Giasone, ciclo narrativo in cui l’eroe incarna l’ingegno e la forza, il valore 10 e la dignità fisica in grado di trionfare di fronte a reiterate e temibili prove. Sulla spinta del neoplatonismo esoterico, Giasone è un emozionante assertore della facoltà dell’uomo di dominare intellettualmente l’universo superando tutte le prove, e anche quelle conclusive, seppur ricorrendo all’imbattibile intervento di Medea. Gli argonauti sono tuttora il segno di una cultura sperimentale e anzi sono essi stessi, con la loro vicenda, il simbolo del desiderio e la ricerca della sperimentazione necessaria. Negli affreschi affiorano modelli esemplari della più elementare prosa narrativa di Ludovico, capace di rievocare anche ricordi lontani, tra i quali parrebbero sopravvivere specie quelli di Bartolomeo Cesi e di Prospero Fontana. Il segno della sua presenza poetica pare avvolta da un senso di diretta quotidianità, unita ad un andamento inventivo razionale e pulito che giungerà l’apice nella maestria compositiva e formale spiegata nelle Storie di Enea affrescate poco dopo il novanta nella saletta attigua alle Argonautiche, dando così vita ad un momento fondante ed altissimo di classicismo bolognese. Agli anni che intercorrono tra le due imprese converrà dunque assegnare la prima – forse la più antica – delle opere che qui si presentano: il San Girolamo in preghiera, prova in cui si sintetizza Annibale Carracci, Il finto funerale di Giasone, affresco, Palazzo Fava, Bologna 11 Agostino Carracci, Conquista del Vello d’Oro (particolare), affresco, Palazzo Fava, Bologna 12 la vena quotidiana e popolare di Ludovico, erede di una sensibilità tutta padana e di un sentimento religioso intimamente espresso secondo i dettami della pittura controriformata. Soprattutto, negli affreschi di palazzo Fava, brilla il vero protagonista delle stanze, il più giovane del gruppo, Annibale Carracci, che a queste date avrebbe contato ventitré o ventiquattro anni: un’età in vero già assai conscia e produttiva per un pittore colto e sapiente come egli doveva già essere. Molti decenni più tardi, nel 1672, un grande scrittore d’arte che aspirava al ritorno degli ideali della rinascenza classica, Giovan Pietro Bellori, indicava in Annibale l’uomo che avrebbe saputo ricondurre la pittura sull’ideale classico di Raffaello, proponendo un linguaggio che unificasse le diverse scuole pittoriche italiane da quella umbro-toscana a quella fiorentina, da quella veneziana a quella bolognese stessa – a partire dalla chiamata del cardinal Farnese a Roma. Qui, Annibale seppe rinnovare il genere della favola mitologica e del paesaggio attraverso il nuovo senso di equilibrio classico espresso nella volta Farnese e nelle opere che, come il Paesaggio con la predica di Gesù agli Apostoli, concentrano tutta la loro poesia in uno sguardo nuovo sulla natura. Agostino Carracci, Incontro di Giasone e Pelia (particolare), affresco, Palazzo Fava, Bologna 13 Questa stagione aurea era stata preceduta, nella giovinezza di Annibale, da un’altra straordinaria soluzione innovativa e risolutiva nella direzione della riforma naturalistica carraccesca, che già Roberto Longhi definì una nuova “apertura di finestra”, e cioè una scelta semplice eppure densa di risultati quanto un nuovo sguardo rivolto alla bellezza e alla novità instancabile della natura. Ed il suo primo cammino, percorso fin dalla giovinezza – forse addirittura dall’adolescenza, e cioè attorno al 1580 – fu davvero uno sguardo lanciato oltre una nuova finestra aperta ad indagare circa gli aspetti spontanei della natura e dell’apparenza visibile che per la loro semplicità ci affascinano ogni giorno sfuggendo alle nobilitazioni dell’arte più colta. Il dettato di Annibale consiste allora, e quasi inesorabilmente, nel guardare in faccia la natura, per giunta condensata nelle prime cose che cadono sotto la nostra attenzione: i volti dei bambini e dei mendicanti, il fluire della luce e dei giorni in un paese. Alcuni di questi aspetti divengono piccole tele del genere di quella conservata nelle collezioni reali di Stoccolma, ma un tempo nei palazzi Ludovico Carracci, Venere soccorre Enea e lo persuade ad abbandonare la lotta, affresco, Palazzo Fava, Bologna 14 senatori Caprara di Bologna, dove le fisionomie dei piccoli sembrano ispirati a veri e propri ritratti, quasi i due fanciulli fossero stati spiati, a loro insaputa, dal pittore che ha catturato i loro giochi attorno ad un burattino. Così la ripresa “fotografica”, ravvicinata e frontale del Ragazzo che beve da un calice di Oxford ci porta fuori dalla pittura solenne, eroica o religiosa, e ci mette a disposizione il vero repertorio della giovinezza di Annibale, il quale individua nuove strade e fresche fisionomie cercate nella vita quotidiana: quella di tutti i giorni, libera dalle gerarchie, e dunque l’unica che poteva essere affrontata senza ricorrere a difficili velami stilistici o compositivi, a nascondimenti dietro i quali mascherare, annullandola, la bellezza semplice della natura. Ancora Giovan Pietro Bellori ci aveva suggerito il nome di un altro grande pittore italiano, Federico Barocci, il quale, pur legato all’immagine della sua amata Rinascenza domestica, trent’anni prima aveva ricondotto gli uomini e i Santi insieme ai ricordi della propria dolorosa vita entro le forme dell’antico palazzo in faccia al quale si era aperta, a Urbino, la sua stessa finestra di pittore meditativo dietro cui egli si era isolato forse anche a causa della malattia. Non ho mancato poi di evocare, già in altre sedi, l’innegabile e diretto influsso che l’opera coeva del Barocci poté esercitare sul giovane Annibale, così come dimostrano i riferimenti ad opere del marchigiano in quegli anni da lui licenziate e guardate dai contemporanei con una considerazione certamente maggiore di quella di cui godono oggi per gran parte della critica. Anche nelle mani di Federico Barocci, non a caso, la natura ritorna elementare, quotidiana e semplicissima, raffigurandosi spesso nella presenza vitale di donne e bambini e di animali domestici. Sembra chiaro che la condizione dell’arte figurativa sul finire del Cinquecento, inizialmente destinata a dipingere simboli ed espressioni geroglifiche oppure cifrate ed elitarie, abbia volutamente percorso un grande tratto della pittura del manierismo prima di decidere di mostrarsi nella sua piena libertà. Quando lo ha fatto, ciò ha richiesto uno sforzo straordinario di riconquista dell’immagine intesa come quotidianità e dunque come una naturalezza che le cose portano seco con spontaneità. Alla via d’uscita proposta dalla riforma naturalistica, verità figurative ma anche reali condizioni di naturalezza si sono dunque affacciate grazie ad una progressiva e spontanea maturazione dei tempi. Il ritorno alla natura, dunque, che come affermava già Roberto Longhi, è l’aspetto solito di ogni rivoluzione artistica, caratterizza i primi passi pittorici del giovane 15 Annibale Carracci. Il suo primo approccio con il vero passa per lo più attraverso una pluralità di disegni, giunti fino a noi in quantità, che gli consentono di esplorare e trattenere sul foglio idee e atteggiamenti derivanti dalla prima, diretta impressione colta durante l’osservazione della realtà. Nello specifico, Annibale mostra fin dagli esordi una spiccata attitudine al ritratto dinamico, con la caratteristica capacità di evocare al suo interno uno sviluppo narrativo, oltre che psicologico e introspettivo. È dalla scuola cremonese dei Campi che gli deriva quel naturalismo di tratti, quella vivacità espressiva che conferisce il sapore della vita colta nell’istante della sua rappresentazione: da questo duplice filone, bolognese e padano, prende le mosse la rivoluzione carraccesca, dove il confronto diretto con il naturale e il quotidiano si spinge ad attingere alla verità più profonda delle cose. Il terreno privilegiato della ricerca pittorica per il giovane Annibale è allora rappresentato innanzitutto dalle persone che egli incontra nella sua vita di tutti i giorni: i garzoni di bottega, i bambini che giocano nelle strade di Bologna, un villano affamato in un’osteria (il celebre Mangiafagioli della Galleria Colonna), una vecchia vicina di casa (come potrebbe essere il Ritratto di donna anziana di collezione privata) o una parente a lui prossima, come è possibile immaginare per l’inedito, potente Ritratto di anziana che in questa occasione si presenta per la prima volta al pubblico degli studiosi e degli appassionati d’arte antica. In verità, a Bologna la pratica del ritratto dal vero affondava già le proprie radici profonde nel manierismo cinquecentesco di Prospero Fontana, il quale, appassionatosi all’imitazione delle cose della natura sotto la spinta dell’enciclopedismo di Ulisse Aldrovandi, a partire dal 1560 iniziava ad affrontare il ritratto maschile con un tagli prospettico ravvicinato, che enfatizza la descrizione minuziosa e realistica dei particolari allontanando ogni pericolo di retorica celebrazione. Ma era poi stato soprattutto Bartolomeo Passerotti, memore della lezione del fiammingo Denis Calvaert, ad introdurre a Bologna il tono borghese e domestico della ritrattistica nordica, con la sua minuzia descrittiva e le sue ambientazioni di sovente in interni dove l’effigiato si presenta in toni di cordiale descrizione, inserito in un contesto ambientale che ne individua le attitudini intellettuali o l’attività professionale. Dal Passerotti Annibale apprende la sensibilità per i valori cromatici e per i morbidi passaggi chiaroscurali che conferiscono plastica volumetria al personaggio, nello stesso momento in cui il 16 mondo figurativo veneto – ma soprattutto il cromatismo tizianesco – arricchiscono la sua tavolozza di sfumature e cangiantismi sottilmente differenziati. Questa ricerca di resa dal vivo a tutti i costi della verità umana esperita sull’umanità cordiale e popolare che lo circonda si smarca agilmente da qualsiasi rischio di caduta nella pittura di genere attraverso una severità di intenti che è insieme stilistica e morale: nei suoi ritratti spoglie ed essenziali, come il Suonatore di liuto di Dresda, o il Ritratto di gentiluomo di collezione privata, l’effigiato si offre allo sguardo dell’osservatore con una gravità classica cui non è estraneo un leggero turbamento, ad attestare autorevolmente quanto la ritrattistica carraccesca conoscesse bene la via per superare il dato naturalistico ed attingere ad una verità psicologica ed esistenziale più profonda grazie ad una straordinaria efficacia Annibale Carracci, Paesaggio con la predica di Gesù agli Apostoli, olio su tela, cm. 107 x 133, collezione privata 17 introspettiva che sembra frutto di un tempo di posa – e dunque di osservazione – dilatato, lentissimo e attentamente meditato. Sarà questo naturalismo, questa verità fisica ad allontanare i ritratti di Annibale da quelli coevi di Lavinia Fontana, orientata, come il padre, verso i toni aulici di una retorica del ritratto che risente del predicato paleottiano negli aspetti di onestà e decoro dell’immagine, mentre un’incidenza di stile significativa si stabilisce con pittori bresciani come il Moroni o Sofonisba Anguissola, e non a caso, alla verità del ritratto carraccesco guarderà l’altro lombardo protagonista di una nuova rivoluzione naturalistica, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. Se fin qui si è trascurata la figura di Agostino, fratello maggiore di Annibale e cugino più giovane di Ludovico, è perché la sua collaborazione nell’impresa artistica da cui abbiamo preso le mosse per tracciare il percorso della riforma naturalistica carraccesca, e cioè gli affreschi di Palazzo Fava, appare, allo stato odierno della critica, abbastanza ridotta, soprattutto se paragonata alla personalità dominante Annibale Carracci, Romolo e Remo nutriti dalla lupa, affresco, Palazzo Magnani, Bologna 18 del fratello. I suoi interventi trovano spazio perlopiù nell’apparato decorativo ed architettonico del fregio, costituito dalle figure di divinità dipinte in monocromo ai lati delle incorniciature dei comparti con le singole scene. Il primo episodio narrativo oggi generalmente accettato alla sua autografia è il terzo nella prima parete con Pelia che si avvia al sacrificio, seguito immediatamente dall’Incontro tra Giasone e Pelia, dove l’invenzione e la mano di Agostino vi si riconoscono ormai con chiarezza; egli torna poi nel comparto tredicesimo della terza parete, la cui scena raffigura la Conquista del Vello d’oro, per concludersi nell’ultimo comparto con il Ritorno di Giasone che consegna il Vello d’oro a Pelia. In fondo, anche la personalità meno coinvolta di Agostino dimostra di essere altrettanto matura ed evoluta nel linguaggio artistico e nella cultura acquisiti innanzitutto dall’affascinante mondo pittorico veneziano, la cui influenza nell’enfasi cromatica studiata e coltivata nella città lagunare gli viene proprio dal viaggio di studio lì condotto in quel cruciale anno 1584. Una minor presenza di Agostino nel fregio di Palazzo Fava – Camerino d’Europa compreso – si potrà così comprendere e giustificare almeno in parte osservando il notevole impegno e l’alto successo raggiunto dall’artista a quelle date, lontano dalle mura di Bologna. Nel corso del decennio Agostino conoscerà infatti Venezia e Parma, poi Roma e Cremona, e di nuovo Venezia per giungere da lì a visitare Firenze. Le suggestioni che in questi anni di peregrinazioni egli assorbì dall’arte di Paolo Veronese, Tintoretto e sopra a tutti dal Correggio sono al meglio esemplificate nella tela qui presentata, raffigurante la Madonna con il Bambino, San Giuseppe e Santa Caterina d’Alessandria, ovvero uno Sposalizio mistico della Santa, dichiarando nella profusione di luce dorata che percorre e forma diagonalmente i volumi, così come nella morbidezza dei passaggi cromatici, tutta la potenza dell’esperienza correggesca dei primi anni ottanta. Il profilo della Santa martirizzata con il supplizio della ruota, dall’acconciatura raccolta in una treccia e la preziosa corona d’oro e pietre dure, è parente certa delle bellezze femminili del Caliari, testimoniando con forza le inclinazioni veneziane di Agostino agli esordi della sua produzione pittorica, allo stesso modo in cui il senso di maternità familiare e popolaresco che emana dalla figura umanissima della Vergine ne rammenta i natali bolognesi e l’inevitabile educazione artistica sotto gli influssi del cugino Ludovico. 19 Ludovico Carracci S. Girolamo in preghiera 20 22 24 Agostino Carracci Sacra Famiglia con il Matrimonio mistico di S. Caterina d’Alessandria 28 32 34 Annibale Carracci Ritratto di anziana donna 36 38 Ludovico Carracci, San Girolamo in preghiera, olio su tela, cm. 68 x 56,5, collezione privata 44 Un San Girolamo del giovane Ludovico Carracci Gloria de Liberali Il dipinto raffigura San Girolamo, dottore della Chiesa e teologo tra i più amati nelle opere d’arte cristiana per la devozione domestica, nel momento in cui le sue preghiere d’adorazione rivolte al crocifisso che stringe tra le mani conducono i suoi pensieri – ed il suo sguardo – verso il cielo addensato di nuvoloni grigi, come quelli che s’intravedono alle spalle della grotta in cui egli si è ritirato in meditazione. Nell’estremità destra del quadro è sospinta una natura morta, che potremmo definire scabra ed essenziale nell’accostamento di un teschio quale simbolo di penitenza, e degli strumenti di scrittura impiegati dal Santo nella traduzione della Bibbia dal greco e dall’ebraico in latino. L’opera, finora inedita, è stata ricondotta con certezza da Andrea Emiliani all’autografia di Ludovico Carracci – e specialmente al momento della sua giovinezza – per i caratteri tipici degli anni in cui la pittura emiliana, e bolognese soprattutto, inaugurava un graduale ma irreversibile rinnovamento figurativo da una tradizione di stampo cinquecentesco e manierista verso una sensibilità religiosa di tipo protobarocco, animata da un “nuovo” sentimento della natura. L’importanza cruciale dell’azione trainante ed innovativa di Ludovico nel giro di anni compresi tra il 1583 ed il 1585 fu intuita ed argomentata con fascino ed intelligenza già da Francesco Arcangeli nel fondamentale saggio Sugli inizi dei Carracci, pubblicato alle soglie dell’inaugurazione della storica mostra tenutasi nel 1959 nelle sale dell’Archiginnasio a Bologna1. La figura di Ludovico spiccava allora come uno spirito più complesso e moderno rispetto a quello dello stesso Annibale, poiché in grado di assimilare all’interno della propria poetica l’unione schietta di colto e di popolare, facendola coincidere con la dolce gravità del suo temperamento. Questa “sobrietà di costume” e questa “grave modestia” così connaturate nelle corde del pittore tanto da renderlo interprete raffinato della Controriforma e allo stesso tempo geniale anticipatore del moderno naturalismo seicentesco, si coglie bene nella forma chiusa di quest’opera di non grande formato, dove la figura dignitosa ed austera di Girolamo serba ancora il sapore della severa grandezza liturgica del coetaneo Bartolomeo Cesi, lui sì, rigoroso interprete dei 45 dettami tridentini. L’eco di questa tradizione cinquecentesca è ancora preponderante nelle opere del giovane Ludovico, qual è l’Annunciazione dipinta per la Compagnia del Santissimo Sacramento, a lungo custodita nella chiesa di San Giorgio in Poggiale ed oggi conservata nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. In questo spazio essenziale e prospetticamente “neoquattrocentesco”, dove la giovanissima Vergine somiglia ad una “collegialina cui sian state affidate le cure d’una casa” (Arcangeli), esordisce pubblicamente lo spirito popolare e casalingo del nostro autore, pur mitigato da un residuo di capziosità tardo manierista che anima le vesti di scintillanti cangianze, e da una certa rigidezza sculturale che blocca le forme in gesti devoti. Ma negli anni della sua giovinezza Ludovico sa soprattutto infondere ai suoi dipinti sentimenti umanamente religiosi e schiettamente casalinghi che sono in lui connaturati, fin dall’inizio, per quel “movente lombardo” che già il Longhi aveva argutamente individuato quale motore primo della riforma carraccesca dopo le esperienze del Moretto, del Moroni e dei Campi cremonesi 2. Sono elementi che si colgono fin dalle opere da lui licenziate ancora entro la prima metà degli anni Ottanta: lombardo è soprattutto il tono del Ritratto della Famiglia Tacconi, un dipinto dal “fare dimesso, quasi senza stile” (Arcangeli) nella semplicità essenziale, solo superficialmente passerottiana di quest’umanità inconsapevole e sobria che si affaccia dal rettangolo della tela. Le figure prendono vita da una tavolozza ridotta, secca e terrosa, prossima alla monocromia, come le terre brune che danno vita al San Girolamo a alla natura morta di oggetti che lo circondano: il teschio, i testi sacri, il calamaio, la tangibile verità di questi strumenti è paragonabile a quella del piccolo cesto con i materiali per il cucito e al leggio affollato di libri della già citata Annunciazione. La loro presenza serve a ricondurre la storia sacra ad una dimensione umana modernissima. Sembra poi di poter ritrovare, nello scorcio di cielo che anticipa il chiaroscuro metereologico di questo San Girolamo, quell’ “alito di sera cadente, d’autunno che s’allontana, quando resta soltanto un sussurro segreto di brezze a spettinare appena il folto dei capelli o delle verzure” che poeticamente l’Arcangeli leggeva nel Battesimo di Cristo conservato al castello di Schleissheim, presso Monaco, un tempo scambiato per opera seicentesca attribuita a Pierfrancesco Mola. La delicata resa dei particolari di barbe e capelli, così come il trattamento delicatissimo del nudo anatomico pieno e carnoso, accomunano in un’eccezionale cura 46 esecutiva quest’opera alla nostra, dove le piccole lumeggiature delle mani, degli occhi e della barba del Santo, come pure l’alta qualità della natura morta presente nell’estremità sinistra del dipinto, ci indicano l’esperienza di un pittore di fervida invenzione e di poesia, oltre che di innata perizia tecnica. Si avverte, in questo San Girolamo, anche l’eco di una sensibilità luministica nuova, dove la luce è vera e non sublime: essa rivela la natura e l’umanità delle cose, non serve lo stile. È questa la novità, già seicentesca, delle opere giovanili di Ludovico che si scalano tra l’83 e l’85-86, e che l’Arcangeli definì “precaravaggesche” per l’anticipo con cui vi si esplorano soluzioni compositive e formali che vanno Ludovico Carracci, Annunciazione, olio su tela, cm. 182,5 x 221, Pinacoteca Nazionale, Bologna 47 dall’interpretazione umana del fatto sacro all’uso di un’illuminazione verisimile e schietta, pur difendendo il decoro e la dignità della verità ottica delle cose. Si tratta del Battesimo di Schleissheim, l’Annunciazione di Bologna, Il San Francesco in adorazione del crocifisso della Pinacoteca Capitolina e della Visione di San Francesco del Rijksmuseum di Amsterdam: visioni severe e rustiche di un’umanità vera e grave, evocative di una presenza reale e di un sentimento sincero. Se infine il soggetto ci sembrerà pervaso di vaghe suggestioni venete, è certo che esse, a quelle date, poterono venire con ogni probabilità dal suggerimento di Agostino, il solo fra i Carracci che al 1584 avesse già fatto visita a Venezia, raccogliendo l’eredità del Veronese e del Tintoretto. Ciò giustificherebbe la vicinanza, nel formato e nel soggetto, che già Andrea Emiliani ha rilevato tra il nostro dipinto e i cosiddetti “Santini”, la nota serie di dieci stampe riferite ad Agostino Carracci già dal Malvasia, che le disse fatte “per prova in gioventù” alla sorprendente età di quattordici anni, collocandone dunque l’esecuzione intorno all’anno 1569 invece che nel 1581, come oggi si ritiene più probabile. Una di queste figurine devozionali, riprodotta al n. 44[71] del catalogo di Diane de Grazia3 , raffigura appunto un San Gerolamo penitente volto di spalle che si batte il petto con una pietra accanto al suo leone. Le due opere, pur diverse nelle soluzioni compositive, si dimostrano simili nella costruzione di un’immagine devozionale in Ludovico Carracci, Ritratto della famiglia Tacconi, olio su tela, cm. 97 x 76, Pinacoteca Nazionale, Bologna 48 grado di condurre il fedele ad un incontro ravvicinato con il santo. Tuttavia, è al giovane Ludovico che deve ricondursi questa prova pittorica. A lui infatti spettò il ruolo più puro e sperimentale al principio della riforma carraccesca: l’immediatezza e l’intimità con cui egli seppe guardare alla natura e al modo in cui l’uomo e la storia – specialmente sacra – si compiono in essa fu uno dei motivi per cui i pittori del suo tempo lo ritennero il capofila della scuola bolognese, come lasciano intendere le attualissime parole pronunciate da Guido Reni e riportate dal Malvasia: “Coì anche mi ricordo la intendea Guido, che solea dire, stimare egli più Lodovico, perché non era stato come i Cugini tanto attaccato alla scuola Lombarda, e alla Veneziana, che anche la Romana aver osservato non dimostrasse: che que’ duo’ s’eran dilettati d’una maniera a Tiziano, ed al Correggio simile; ma Lodovico, non ostante l’aver quelle osservato di Andrea del Sarto ancora, del Tibaldi, del Primaticcio, e d’ogni altro compiaciutosi, avevasi poi composto una maniera nuova, e propria, che poteasi dir la sua, e da ogni altra diversa”. E questa sua “maniera nuova, e propria” dallo stesso Malvasia è così riassunta: “E quel fare statuino non era tutto il suo genio, come altresì tutto non lo si era quella inerudita semplicità lombarda; ma cercava un misto che né l’uno né l’altro fosse, e dell’uno e dell’altro partecipasse”. 1 2 3 F. Arcangeli, Sugli inizi dei Carracci, in Paragone, n. 79, 1956 pp. 17-48 R. Longhi, Momenti della pittura Bolognese, in L’Archiginnasio, anno XXX, n. 1-3, 1935. D. de Grazia, Le stampe dei Carracci con i disegni, le incisioni, le copie e i dipinti connessi. Catalogo critico. Bologna, 1984. 49 Agostino Carracci, Sacra Famiglia con il matrimonio mistico di Santa Caterina, olio su tela, cm. 95,5 x 77,5, collezione privata 50 Un’inedita “Sacra Conversazione” di Agostino Carracci Nicosetta Roio La Sacra famiglia con S.Caterina d’Alessandria rappresenta una piacevole variazi- one del tema iconografico dello “sposalizio mistico” di Caterina, la fanciulla di stirpe regale destinata a ricevere da Gesù bambino l’anello nuziale1. L’episodio rievoca una delle visioni avute dalla giovane prima che le fosse inflitto il famoso supplizio con la ruota dentata in seguito al suo rifiuto di adorare gli idoli pagani in nome delle proprie credenze cristiane: secondo l’antica fonte agiografica nota col titolo di Legenda aurea, ad esso tentarono di sottoporla i carnefici, ma la nobile giovinetta venne salvata miracolosamente da un fulmine scagliato dal Signore che distrusse il terribile strumento di tortura. In virtù della forte venerazione popolare nei confronti della mistica bolognese Caterina de’Vigri (1413-1463), omonima della leggendaria santa alessandrina e vissuta a Bologna in odore di santità all’epoca della Signoria dei Bentivoglio2, tra la fine del XV e il principio del XVI secolo nella città felsinea si diffuse particolarmente la produzione di opere devozionali raffiguranti proprio il tema della Sacra famiglia in compagnia di S.Caterina d’Alessandria e ciò avvenne, appunto, parallelamente all’intensificarsi del culto nei confronti della Vigri, occupando largo spazio nella Bologna del Cinque-Seicento a partire principalmente dalla produzione dei figli e seguaci del più illustre pittore bentivolesco del Rinascimento, Francesco Francia, passando attraverso quella di altri “raffaelleschi” padani come Innocenzo da Imola e i Bagnacavallo; il piacevole tema iconografico risulta essere stato tra i più praticati anche dalla generazione successiva di artisti locali - tra i quali vanno ricordati almeno Pellegrino Tibaldi, Prospero e Lavinia Fontana, i Passerotti, Lorenzo Sabatini e Orazio Samacchini -, trovando rinnovato vigore grazie agli esemplari realizzati sia dal Correggio che dal Parmigianino, caratterizzati certamente da una più moderna ed evoluta affettuosità. Ciononostante la tendenza a riprodurre un po’ stancamente lo stile dei grandi maestri rinascimentali, accentuandone il virtuosismo e le complicazioni formali, finì per portare gli artisti manieristi a non obbedire più alle esigenze di limpidezza devozionale. In questo contesto e su queste basi culturali ed estetiche i tre cugini Carracci svolsero il loro compito di teorici del rinnovamento artistico, ac- 51 centuando l’umanità dei personaggi e la chiarezza delle scene sacre. Il notevole spessore intellettuale di Agostino Carracci si svela pertanto in questo dipinto fin dal suo peculiare modo di affrontare quel soggetto diffusissimo: la scena composta dall’artista felsineo, infatti, si sottrae alla tentazione di illustrare esplicitamente il rito nuziale tra la santa e Gesù bambino, affidando a quest’ultimo una gestualità lieve e domestica nel rivolgersi alla Madre sollevando delicatamente nel contempo il dito anulare di Caterina, un’azione che racchiude in sé tutta la spiritualità di quel riferimento soprannaturale, tanto più perché gli attori protagonisti sono visibilmente delle persone comuni, con le quali lo spettatore può certamente identificarsi nonostante sul capo di Caterina troneggi una splendida corona d’oro con perle e pietre preziose e il piccolo Salvatore sia accomodato su un elegante cuscino di seta. Infatti tutte le figure presenti, compreso il pensoso e protettivo S.Giuseppe in secondo piano, non sono rese affatto con forme idealizzate ma riproducono quelle di modelli di riferimento reali, così come si presentavano sia agli occhi del pittore che del riguardante, anticipando molte delle soluzioni della “rivoluzione” veristica del più giovane Caravaggio. E’ proprio l’accentuato rispetto per l’ortodossia delle storie rappresentate, assimilato agli aspetti di “normalità” figurativa, a caratterizzare la dottrina stilistica dei Carracci; in ciò i tre artisti seguirono fedelmente le istruzioni dei teorici dell’epoca, segnatamente quelle presenti nel famoso Discorso sulle immagini sacre e profane (1582), Agostino Carracci, Ritratto di Ulisse Aldrovandi, olio su tela, cm. 79 x 62 cm, Accademia Carrara, Bergamo 52 grandioso progetto dotto e ricercato di monsignor Gabriele Paleotti, che traspose nei cinque volumi dell’opera l’aspirazione della Chiesa post-tridentina e di tutta l’autorità ecclesiastica al controllo dei contenuti delle scene sacre: il testo del cardinale bolognese manifestava l’esigenza di fedeltà alle scritture sacre delle storie dipinte, perciò i santi con le loro peculiarità identificative dovevano essere facilmente riconoscibili e rispettosi della tradizione, laddove agli artisti veniva concessa comunque la facoltà e la libertà di scegliere lo stile più adeguato all’interno di questi parametri. I Carracci si inserirono perfettamente in questo momento politico e culturale dell’epoca, comprendendo appieno il bisogno di una tensione artistica capace di rispecchiare le nuove esigenze e che, al contempo, fosse libera dagli artifici e dalla complessità del Manierismo: fu proprio Agostino, considerato il più sapiente e culturalmente impegnato dei tre cugini, il maggiore responsabile delle vincenti scelte intellettuali dell’accademia carraccesca, sebbene il catalogo della sua produzione pittorica sia ancora piuttosto incerto e spesso, in passato, alcune sue opere siano state ingiustamente attribuite tanto al fratello Annibale che al cugino Ludovico: valga come esempio il pregevole Ritratto di Ulisse Aldrovandi dell’Accademia Carrara di Bergamo, databile intorno alla metà degli anni Ottanta, per cui ora è finalmente maggioritario il consenso critico sulla sua paternità. Universalmente riconosciuto come il vero riformatore della calcografia italiana, parallelamente agli studi artistici Agostino si occupò anche di materie scientifiche ottenendo grandi considerazioni pure come matematico, retorico, musicista e poeta: questa profonda passione per le scienze e la disposizione ad avere rapporti con molti eruditi (oltre al citato Aldrovandi fu molto amico del poeta Cesare Rinaldi e di innumerevoli altri illustri intellettuali dell’epoca), provocò le ripetute invidie del fratello Annibale: una costante nella vita dei due fu proprio la reciproca gelosia professionale. Se, dunque, è ampiamente apprezzato l’indubbio valore di Agostino in campo grafico, in quello più strettamente pittorico l’artista, pur ammiratissimo dai suoi contemporanei, finì in un certo senso per essere schiacciato dall’irresistibile fama del fratello minore. D’altra parte la sua stessa lunga pratica incisoria finì per svantaggiarlo, facendolo percepire come più incline alla copia che all’ideazione, tanto che la moderna fortuna critica dell’Agostino Carracci pittore pare risentire ancora di questi retaggi 53 le due pressoché coeve Assunzioni della Pinacoteca Nazionale di Bologna (1592 circa), ambedue caratterizzate dal forte influsso dell’arte veneziana; e tuttavia la versione di Agostino appare temperata da una disciplina strutturale e da una linea intellettuale di manifesto superiore spessore4, risultando complessivamente più monumentale e definita rispetto a quella di Annibale. D’altro canto il rapporto con Venezia fu per Agostino decisamente rilevante, avendo svolto in Laguna una larga parte della propria attività incisoria entrando in stretti rapporti con Paolo Veronese, del quale divenne in un certo senso l’incisore ufficiale, e con Jacopo Tintoretto, che ne apprezzò moltissimo l’abilità grafica. Secondo quanto ci tramandano le fonti, i sentimenti del Robusti nei confronti del maestro bolognese erano scaturiti dall’apprezzamento dell’incisione che il Carracci aveva tratto da uno dei capolavori dello stesso Tintoretto, la famosa Crocifissione della Scuola Grande di S.Rocco, una delle prove grafiche più note e ammirate di Agostino. Il sodalizio tra i due sarebbe stato così forte da indurre il grande pittore veneziano – che a quell’epoca era già famosissimo - a fare da padrino di battesimo ad Antonio, figlio naturale del Carracci5, che era nato proprio in Laguna intorno al 1592 (e non negli anni Ottanta, come si pensava erroneamente fino a qualche tempo fa) dalla sua prolungata relazione con una bella cortigiana che viveva nei pressi di S.Lucia6. Antonio Carracci, che poi divenne anch’egli pittore, visse la sua infanzia tra Venezia e Bologna ma al momento della scomparsa del genitore nel 1602 si trasferì a Roma presso lo zio Annibale, che gli fece da padre e, pur essendo già di salute malferma, si preoccupò massimamente di offrire al suo erede acquisito una istruzione più ampia e approfondita possibile: ciò forse anche per risarcire la memoria del fratello più intellettuale ed erudito, col quale aveva avuto sempre un rapporto difficile e contrastato proprio per motivi culturali, dal momento che Annibale era da sempre assai poco attratto dagli studi e dalle alte meditazioni. Morto anche lo zio nel 1609, Antonio Carracci fu raggiunto nell’urbe dalla “dilettissima madre” Isabella che, nonostante la giovanile “discussa” moralità - uno dei principali motivi della sua mancata annessione al nucleo familiare carraccesco nella Bologna tridentina - ottenne finalmente lo status di “Signora Carracci” anche dall’intransigente canonico Carlo Cesare Malvasia7. Assieme alla profonda conoscenza della pittura lagunare, va ricordato che Agostino Carracci fu anche uno dei migliori traduttori a stampa delle opere del Cor- 55 reggio (famose sono la Madonna di S.Girolamo o il Commiato di Cristo dalla Madre, mentre si deve proprio all’incisione di Agostino tratta dall’Ecce Homo dell’Allegri ora nella National Gallery di Londra, l’inizio della ricostruzione collezionistica della tavola, dal momento che solo nel 1587, data di esecuzione della stampa, si hanno le prime notizie di quel quadro di Correggio che era a quei tempi nella raccolta Prati di Parma8), da cui derivano le peculiari delicatezze affettive che associano tra loro i personaggi della nostra Sacra famiglia con S.Caterina d’Alessandria: il suo confronto con opere come il suo più noto capolavoro, l’Ultima comunione di S.Girolamo (Bologna, Pinacoteca Nazionale, con l’Ultima cena (Madrid, Museo del Prado) e, soprattutto, con la già menzionata Assunzione della Pinacoteca Nazionale di Bologna è molto utile sia dal punto di vista delle qualità cromatiche - il rosso dalle tonalità rosate, il giallo, gli incarnati e la luce dorata -, che delle analogie fisionomiche: ad esempio quella del S.Giuseppe corrisponde alla tipologia degli Apostoli più anziani, mentre il Gesù bambino è molto somigliante ai numerosi angioletti che accompagnano Maria assunta in cielo e, anzi, il suo viso si sovrappone esattamente alla creatura celeste con le manine giunte collocato sulla destra della gamba della Vergine; per non tacere delle similitudini delle mani e, in generale, delle gestualità. In tutte queste opere di Agostino come nella nostra “Sacra conversazione”, l’intelligente dipendenza dall’arte veronesiana (ma anche tizianesca) è innegabile: va detto che già Maurizio Calvesi aveva evidenziato i legami dell’Assunzione di Agostino con la tela di analogo soggetto che il Caliari aveva allocato in S.Maria Maggiore a Venezia all’inizio degli anni Novanta del Cinquecento9, anche se è bene ribadire come il Carracci appaia particolarmente portato a liberare la propria espressività da qualsiasi virtuosismo per restituire ai suoi eventi figurativi una plasticità mai statica, i rigorosi impianti formali si stemperano sempre grazie alla scioltezza delle tinte brillanti e a una impareggiabile libertà di segno, rendendo così i palcoscenici dipinti delle situazioni del tutto naturali, come appena realmente avvenute. Tutto ciò è tanto più evidente in un dipinto come questo bel ritrovato Sposalizio mistico di S.Caterina, la cui originale destinazione doveva essere evidentemente più riservata e appartata rispetto all’altare di una chiesa frequentata da devoti: Andrea Emiliani ha ipotizzato per la tela una provenienza farnesiana, paragonandola opportunamente alla Madonna col Bambino e i Ss.Giuseppe e Margherita 56 d’Alessandria (ora a Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte ma proveniente, appunto, dal Palazzo del Giardino dei Farnese a Parma, dove Agostino Carracci lasciò, prima della morte prematura, gli ultimi suoi brani affrescati su richiesta del duca Ranuccio), e alla Sacra Famiglia della National Gallery of Victoria di Melbourne10, tutte opere accomunate dallo stesso peculiare senso di familiarità sempre presente nell’attività pittorica, come si è detto ancora troppo poco stimata, di Agostino Carracci, che eseguì questo “Matrimonio mistico” verosimilmente tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo, forse ritraendo, nelle vesti di Caterina d’Alessandria, l’amata madre di suo figlio, Isabella, come pare dichiarare la stringente somiglianza della santa con la ruota dentata e il ritratto della donna all’interno della famosa incisione di Agostino “Ogni cosa vince l’oro”, dove compaiono significativamente nello sfondo l’autoritratto di spalle dell’artista pensieroso col figlio Antonio bambino11. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 Olio su tela, cm 95,5 x 77,5 - collezione privata; il restauro del 2014 curato da Marta Galvan ha riportato il dipinto alle misure originali, dopo un precedente intervento che ne aveva ampliato incongruamente i margini del contorno. Per una biografia riassuntiva sulla Santa per eccellenza di Bologna si rimanda almeno a S.Spanò, in Dizionario biografico degli Italiani, 22, Roma, 1979, ad vocem. S.Ostrow, Agostino Carracci, Ph.D. Thesis, Ann Arbor, 1966. Per l’Assunzione di Agostino Carracci e la sua complessa storia si rimanda a E.Fiori, in Pinacoteca Nazionale di Bologna. Catalogo generale. 2.Da Raffaello ai Carracci, Bologna, 2006, pp.293-295, cat.n.195. G.P.Bellori, Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni, Roma, 1672, ed. a cura di E.Borea, Torino, 1976, p.121. La data di nascita di Antonio Carracci è stata fissata intorno al 1592 grazie alle deduzioni rese possibili dal ritrovamento della sua licenza di matrimonio del 1615: per tutta la ricostruzione si rimanda a N.Roio, “La vera età di Antonio Carracci”, in Antonio Carracci (1592-1618), Manerba, 2007, pp.65-84. C.C.Malvasia, Felsina pittrice, 1678, ed. a cura di G.Zanotti, 1841, I, p.372. D.DeGrazia, Le stampe dei Carracci, Bologna, 1984: il lavoro della studiosa è ancora fondamentale per la conoscenza dell’Agostino incisore, ma è anche una base indispensabile da cui partire per una corretta valutazione del personaggio. M.Calvesi, in Mostra dei Carracci, catalogo della mostra, Bologna, 1956, pp.152-154; per la questione cronologica del dipinto di Veronese, ora alle Gallerie dell’Accademia, si rimanda a T.Pignatti-F.Pedrocco, Veronese, Milano, 1995, p.461, cat.n.356. Questi dati si ricavano dallo studio di Andrea Emiliani sul dipinto. Roio, cit., in particolare le pp.68-69, con bibliografia precedente; l’incisione con “Ogni cosa vince l’oro” o Il Vecchio e la cortigiana è riprodotta a p.67. 57 Annibale Carracci, Ritratto di anziana donna, olio su carta applicata su tela, cm. 38,5 x 31 collezione privata 58 Un Ritratto della giovinezza di Annibale Carracci Andrea Emiliani Questo piccolo capolavoro della ritrattistica carraccesca era un tempo nella col- lezione dello scrittore ed appassionato della storia e della critica d’arte Giuseppe Raimondi, quando ancora viveva e lavorava nel vecchio ambiente del padre stufaio in Piazza Santo Stefano a Bologna. Nella sua singolare raccolta il dipinto poté giungere dietro il possibile parere di Francesco Arcangeli, amico e consigliere di gusto ed esperienza, e lì probabilmente era stato conosciuto ed ammirato anche dal maestro Roberto Longhi, in un ambiente più che mai fervido di dotti ed amichevoli dibattiti. Si tratta, con ogni evidenza, di un’opera riconducibile agli anni giovanili di Annibale Carracci, forse addirittura alla sua adolescenza, e cioè attorno al 1580, essendo egli nato, come è noto, nel 1560 e quindi già attivo nel 1578-1580. In questi anni egli affrontava la sua prima esperienza pittorica indirizzata a cogliere della vita gli aspetti più immediati e spontanei attraverso una cultura – ed una tecnica – di natura sperimentale ed un fascino che già potremmo definire pittoresco. Il progressivo avvicinamento alla resa dal vivo ci è testimoniato, in un primo approccio, dalla grande varietà di disegni dal vero di teste e profili colti in diverse pose e atteggiamenti, i quali consentono all’artista di esplorare e trattenere sul foglio la prima e più diretta impressione derivata dall’osservazione del naturale. Alla pratica del ritratto il giovane Annibale giunge anche attraverso prove per così dire “indirette”, tentate (e risolte) a margine dei primi importanti dipinti di soggetto sacro. Nella pala d’altare raffigurante il Crocifisso con i dolenti e i Santi Bernardino da Siena, Francesco e Petronio, realizzata per la Chiesa di San Nicolò a Bologna nel 1583 e ritenuta, in assenza di altri riscontri, il primo capolavoro del giovane Annibale, la figura di Giovanni appare appena in scorcio, coperta com’è dall’ingombrante manto in broccato del San Petronio in primo piano. Con l’immediatezza del suo gesto e con lo sguardo rivolto direttamente all’osservatore, esso costituisce il primo esempio noto di ritratto “dal vivo” di Annibale, seguito subito dopo, nel Battesimo di Cristo per la Chiesa dei Santi Gregorio e Siro, dal giovane San Giovanni in primo piano, intento a richiamare con naturalezza l’attenzione dello spettatore sulla scena sacra che prende vita a pochi passi da lui. 59 Nella sequenza di schizzi e abbozzi di volti e fisionomie cui si dedicarono in gioventù tutti i Carracci nell’intento di perfezionare la resa pittorica delle espressioni e dei sentimenti bisognerà poi ricordare almeno il Ritratto di giovane della Galleria Spada a Roma, dove l’attenzione dell’artista è tutta concentrata sul viso, animato da un’espressione vitale e vagamente furbesca. Il tratto veloce e compendiario è tipico del bozzetto, e la dimensione realistica convive con l’intento di conferire all’immagine una valenza che è insieme anche psicologica ed introspettiva. La sensibilità rara che Annibale dimostra nella capacità di cogliere la bellezza semplice del naturale e del quotidiano ci è testimoniata da capolavori di grazia rara com’è la teletta delle Collezioni Reali di Stoccolma raffigurante Due bambini che giocano, quasi certamente ritratti dal vero nei pressi della bottega del pittore, ma sorprendenti per la facilità priva di ogni complicazione e retorica con cui essi si offrono con freschezza ad uno sguardo pittorico nuovo. La ripresa fotografica ravvicinata e frontale del Volto di un bambino in collezione privata è poi il segno della volontà di spingersi ad indagare una verità più profonda e nobile della semplice apparenza, consentendoci di riconoscere, all’interno della ritrattistica carraccesca, un doppio filone che è insieme classicamente aulico e schiettamente Annibale Carracci, Due bambini che giocano, olio su tela, cm. 59 x 50 Collezioni Reali, Stoccolma 60 Annibale Carracci, Ritratto di bambino, olio su tela, cm. 22,5 x 19,5 collezione privata naturalistico, sventando così ogni rischio di cadere nel campo limitante e riduttivo della pittura di genere. Bisogna poi considerare che a Bologna la pratica del ritratto dal vero aveva affondato le sue radici più profonde nel manierismo cinquecentesco di Prospero Fontana e Bartolomeo Passerotti: nutrito di fervida curiosità scientifica aldrovandiana il primo, domestico della minuzia descrittiva fiamminga attraverso la lezione del Calvaert il secondo. Da questa tradizione l’Annibale ritrattista apprende l’impostazione formale e morfologica del ritratto tradizionale cinquecentesco, il taglio prospettico ravvicinato, e l’attenzione per il contesto ambientale o le attitudini professionale ed intellettuali degli effigiati, mentre la sensibilità ai valori cromatici ed i morbidi passaggi chiaroscurali si arricchiscono nel momento dell’apertura verso il mondo figurativo veneto. Allo stesso tempo, l’esempio per un terreno di ricerca che privilegia la ricerca dal vero svolta nella quotidianità della vita tra le strade della città risale anche – e soprattutto – alla pittura dei Campi di Cremona, città della bassa Padana dalla quale proviene anche la famiglia Carracci e dove è documentata, nelle numerose raccolte nobiliari dell’epoca, la presenza di dipinti fiamminghi e olandesi con scene di mercato o di cucina. Un’altra significativa incidenza di stile nella giovinezza di Annibale è quella nota e comprovata dei pittori bresciani Giovan Battista Moroni e Sofonisba Anguissola, senza dimenticare la pittura di Savoldo e Moretto tra Brescia e Bergamo, che ben presenti nella cultura figurativa dei tre Carracci fin dai loro esordi diedero luogo a quel “costume insostituibile intonato ad un affettuoso timbro lombardo” già memorabilmente individuato da Roberto Longhi. Annibale Carracci, Ritratto di vecchia, olio su tavola, cm. 30 x 22,5, collezione privata 61 È dunque da una combinazione di tutti questi elementi stilistici e poetici che scaturisce la forza prorompente di questo Ritratto di un’anziana donna1, descritta nelle fattezze fisiche dell’età avanzata e priva di mascheramenti: il volto ruvido, le rughe che ne solcano la fronte, il collo non più elastico e tonico stretto tra i fili di una collana di perline nere. Il volto, fisiognomicamente identificato, è di fatto affidato ad un’analisi di marcato rilievo anatomico, rilevando così la sua appartenenza ad un’età di studio come quella fin qui delineata intorno all’ottanta, e dunque da Annibale rivolta alle forme umane e al mondo naturale: le labbra serrate e le sopracciglia corrugate esprimono una personalità complessa ed appartengono ad una visione di intensità naturalistica mentre riflettono un cosmo di forte e visibile e espressione. Un esito analogo a quest’effige è raggiunto da Annibale in un altro dipinto, pure in collezione privata, raffigurante anch’esso un Ritratto di vecchia: la schiettezza descrittiva è la medesima, seppure il soggetto sembra esercitare in questo caso minor presa sugli interessi introspettivi del pittore. La materia resta tuttavia la medesima, distribuita con pennellate grasse e pastose, curate e sovrapposte nel modo più attento laddove percorrono con minuzia i dettagli del volto, per poi delineare con maggior sommarietà e risoluta destrezza la veste e lo sfondo, quest’ultimo praticamente assente per conferire allo sguardo della donna il massimo risalto. Tali forme rivelatrici donano alla figura un’espressione severa, al punto che la capacità di penetrazione di questo sguardo tradisce un rapporto col riguardante di cui non ci è dato oggi di conoscere con certezza la natura: si trattava forse di una vicina di casa, una parente, forse la madre stessa? La mente non può non correre, allora, a quell’immagine di nobile castigatezza che è il Ritratto della madre, che un bolognese della generazione successiva, il “divino” Guido Reni, dipingerà circa trent’anni più tardi, ricordandosi della poetica naturalistica rivoluzionariamente introdotta in pittura dai suoi maestri e predecessori in opere come questa, appena prima di intraprendere una strada che lo porterà presto a farsi interprete di una vocazione per l’apollineo e per il sublime scegliendo di dar vita ad una natura ormai emendata da ogni umana incertezza. Per questo caratteristico sguardo sulla realtà – la nuova “apertura di finestra” che per Longhi costituì l’aspetto più significativo della riforma carraccesca – quest’opera rivela nella sua sprezzata esecuzione una tavolozza densa di virtù pittoriche che preannunciano sull’orizzonte della scuola bolognese le glorie a venire del giovane Guido Reni: un’impressionante coincidenza di genio pittori- 62 co colto nel momento della sua più alta espressione, mentre si affacciano già le grandi imprese della maturità con cui saranno celebrate le glorie del “nuovo corso” nel quale maturò l’arte universale di Annibale Carracci. Alla soglia di questa nuova stagione, la mano e l’invenzione del giovane Annibale si rivelano dunque ancora una volta le virtù responsabili di un’incomparabile esperienza nella quale i tre Carracci erano destinati ad illuminare le sorti dell’intera pittura italiana. Guido Reni, Ritratto della madre, olio su tela, cm. 65 x 55 Pinacoteca Nazionale, Bologna 63 Altri dipinti importanti del suo periodo giovanile sono l’Annunciazione (1585 circa: Bologna, Pinacoteca Nazionale); la Visione di S. Antonio (1586 circa: Amsterdam, Rijksmuseum); l’Assunzione della Pinacoteca Nazionale); la Resurrezione di Cristo (circa 1597: Bologna, S.Cristina); S.Gerolamo (circa 1596- 98: Bologna, S.Martino Maggiore); il Martirio di S.Orsola (1600: Imola, Ss.Nicola e Domenico); Gli Vergine (1587 circa: Raleigh, North Carolina Museum Apostoli alla tomba della Vergine (1601: Bologna, Corpus Pinacoteca Nazionale). Tra il 1605 e il 1609 eseguì degli affreschi per la of Art); la Conversione di S.Paolo (1587-89: Bologna, Nelle opere successive Ludovico mostra un interesse sempre crescente per effetti drammatici e per chiari, vigorosi schemi compositivi. Nella “Pala Bargellini” si avvertono influssi sia di Tiziano che del Correggio. Alcune di queste opere rivelano anche quella grande capacità inventiva nell’interpretare i temi religiosi che è caratteristica costante della pittura di Ludovico. In effetti egli fu senza dubbio, fra tutti i Carracci, il più originale nelle scelte iconografiche e nelle interpretazioni drammatiche. All’inizio dell’ultimo decennio del secolo, Ludovico ebbe una rapida evoluzione verso uno stile “protobarocco”. Anche se i suoi brani nei fregi di Palazzo Magnani a Bologna (1589-90) dipendono stilisticamente in parte da Pellegrino Tibaldi e Domini). cattedrale di Piacenza oltre a due vasti dipinti ad olio raffiguranti i Funerali della Vergine e Gli apostoli alla tomba della Vergine (ora nella Galleria Nazionale di Parma); verso il 1610 il suo stile assunse un accento estremamente personale che sembra riflettere il suo senso via via più profondo di isolamento rispetto alle generazioni di artisti più giovani. Nelle sue ultime opere riappaiono elementi manieristici e in alcune di esse la fantasia formale e iconografica produce un suggestivo lirismo, mentre altre mostrano un’originalità per certi versi sconcertante raggiungendo effetti quasi “espressionistici”: S. Raimondo di Pennaforte (circa 1608-1610: Bologna, S.Domenico); Crocifissione (1614: Ferrara, S.Francesca Romana); Martirio di S.Margherita (1616: Mantova, S. contengono ancora reminiscenze manieriste, le grandi Maurizio); il Paradiso (1616: Bologna, S.Paolo). Tra libertà di tocco e di composizione (Predica del Battista, fresco nella cattedrale di Bologna (1618-1619), pale d’altare dello stesso periodo sono notevoli per 1592, Martirio di S.Orsola, 1592), Madonna degli Scalzi, 1593 circa, tutte nella Pinacoteca Nazionale di Bologna). La rapidità della pennellata, i forti contrasti di luce e dei movimenti, la ricchezza del i suoi ultimi dipinti va ricordata l’Annunciazione a ma l’opera di Ludovico continuò a essere molto richiesta fino alla sua morte, avvenuta a Bologna il 13 novembre 1619. colore mostrano in queste opere profondi debiti nei confronti dell’arte veneziana di Tintoretto e Veronese. Nel 1594, quando Annibale e Agostino si allontanarono da Bologna, Ludovico continuò a seguire gli allievi nella bottega e nell’Accademia degli Incamminati, ad eccezione di una breve visita a Roma nel 1602. In questo periodo sviluppò ulteriormente le premesse “barocche” del suo stile in dipinti stipati di grandi figure violentemente gesticolanti, esaltati da forti effetti chiaroscurali: ne sono esempi la Trasfigurazione (circa 1595-97: Bologna, 65 disegni di Antonio Campi destinate alla Cremona famiglia con S.Margherita (ambedue a Napoli, Museo ritorno a Bologna dove si associò a Ludovico e ad Nel 1600, dopo una lite con Annibale, Agostino lasciò fedelissima (Cremona, 1585). Tra il 1583 e l’84 fece Annibale nei lavori per la decorazione ad affresco di Palazzo Fava. E’ probabile che si trovasse a Parma nel 1586-87 mentre qualche anno dopo, ancora a Venezia, nacque suo figlio Antonio (secondo Bellori il Tintoretto gli avrebbe fatto da padrino), che diventerà anch’egli pittore. Benché la principale attività di Agostino fra il 1580 e il 1590 fosse quella di fare riproduzioni a incisione, egli eseguì negli stessi anni anche un certo numero di dipinti fortemente influenzati dall’arte veneziana: l’Adorazione di Capodimonte). Roma, sembra già in cattiva salute. Si recò a Bologna e poi a Parma dove, nel luglio dello stesso anno, entrò alla corte del duca Ranuccio Farnese. La decorazione a fresco di uno stanzino del palazzo del Giardino a Parma restò incompleta per la morte dell’artista avvenuta il 23 febbraio 1602. Fu sepolto nel duomo di Parma. Il 18 gennaio 1603 l’Accademia degli Incamminati celebrò per lui un complicato rito commemorativo nella chiesa dell’Ospedale della Morte a Bologna. pastori Svariati furono gli interessi di Agostino: i suoi Madonna con Bambino e santi (1586; Parma, Galleria e, fra tutti i membri della famiglia sembra sia dei (circa 1584; Bologna, S.Bartolomeo di Reno) e la Nazionale). Continuò a produrre stampe, anche se nell’ultimo decennio del secolo divenne più intensa la sua attività di pittore: oltre a partecipare alle imprese collettive col fratello e il cugino, negli anni precedenti al 1595 dipinse quadri importanti come l’Ultima comunione di S.Girolamo (circa 1592; Bologna, Pinacoteca Nazionale), forse la sua opera più famosa; l’Assunzione della Vergine (circa 1593; Bologna, Pinacoteca Nazionale); l’Ultima cena (1594- 95 circa; Madrid, Prado): opere ancora sotto l’influsso veneziano, temperato ora, tuttavia, da una disciplina strutturale e di linea destinata ad acquistare sempre maggior peso nelle opere successive. Alla fine del 1594 Agostino accompagnò a Roma biografi ne ricordano l’indole letteraria e musicale stato il più interessato alla teoria e alla pedagogia artistica. Come Annibale, si dedicò e contribuì allo sviluppo della caricatura come genere (alcuni suoi disegni caricaturali esistono ancora). Ma il maggior contributo storico di Agostino è ancora oggi considerato quello di incisore: basandosi sull’esempio delle stampe di Marcantonio Raimondi e, soprattutto, del nordico Cornelius Cort, mise a punto una tecnica che ebbe straordinaria influenza sull’arte incisoria fino al XX secolo; si tratta di una tecnica semplice ad apprendersi e rigorosa a un tempo, che perciò divenne il fondamento dello stile “accademico” dell’incisione. il fratello Annibale, e ambedue tornarono a Bologna all’inizio del 1595. Nel 1597 Agostino andò probabilmente a Parma prima di raggiungere Annibale a Roma, dove lavorò sino al 1600: si devono a lui due scene affrescate sulla volta della Galleria di Palazzo Farnese (Teti trasportata nella stanza nuziale di Peleo; Aurora e Cefalo). A Roma dipinse anche il ritratto di Giovanna Guicciardini (1598; Berlino, Gemäldegalerie), l’Arrigo peloso, Pietro matto, Ammon nano e la Sacra 67 dipinti come la Venere, un satiro, e due amorini (circa 1588: Firenze, Uffizi); Venere e Adone (circa 158889: Madrid, Prado); l’Assunzione della Vergine (1592: Bologna, Pinacoteca Nazionale); la Madonna con i Ss.Luca e Caterina (1592: Parigi, Louvre); la Madonna col Bambino e i Ss.Giovanni Evangelista e Caterina (1593: Bologna, Pinacoteca Nazionale); l’Elemosina di S.Rocco (1594-95: Dresda, Gemäldegalerie). Nel 1594, su invito del cardinale Odoardo Farnese, Annibale e il fratello Agostino, soggiornarono a Roma per pochi mesi. Successivamente, nel settembre o nell’ottobre del 1595, Annibale lasciò definitivamente Bologna per Roma, dove si installò in Palazzo Farnese. Qui affrontò la prova più impegnativa della propria carriera, ossia la decorazione del “Camerino” (159597) con le rappresentazioni allegoriche delle Virtù di Odoardo Farnese. Questi affreschi e il dipinto a olio che fu collocato al centro del soffitto (Ercole al bivio, ora a Napoli, Museo di Capodimonte) sono ancora in gran parte di stile emiliano-veneto, nonostante la presenza di nuovi spunti tratti dalla scultura antica, oltre che da Michelangelo e Raffaello. Questi motivi sovrastano il colorismo settentrionale, pur non eliminandolo del tutto, nell’opera più celebre di Annibale, gli affreschi della volta della Galleria Farnese. In generale lo stile romano di Annibale è caratterizzato da grande monumentalità, disegno nitido, solidità compositiva, idealità di forme. L’intera decorazione, che raffigura il dominio universale dell’Amore, ebbe inizio probabilmente intorno al 1597; due scene della volta sono riconosciute ad Agostino, mentre gli affreschi delle pareti furono eseguiti da Annibale con la larga partecipazione di aiuti (Domenichino, Giovanni Lanfranco e Sisto Badalocchio) e raffigurano L’Amore sensuale dominato dalla Virtù, con particolare allusione alle virtù della famiglia Farnese. Fra il 1595 e il 1605 Annibale eseguì a Roma altri importanti dipinti: l’Incoronazione della Vergine (circa 1596: New York, Metropolitan Museum); la Nascita della Vergine (circa 1598-99: Parigi, Louvre); la Pietà (circa 1599-1600: Napoli, Museo di Capodimonte); le Tre Marie al sepolcro (circa 1600: Leningrado, Ermitage); l’Assunzione della Vergine (circa 1600-1601: Roma, S. Maria del Popolo); la Pietà (1602/03-1607: Parigi, Louvre). Dopo aver lasciato Bologna non si dedicò più alla pittura di genere, per quanto sia possibile che alcuni suoi disegni per le famose e importanti rappresentazioni dei mestieri (Le arti di Bologna, incisioni di S.Guillain, pubblicate a Roma nel 1646), una serie probabilmente iniziata negli ultimi anni del nono decennio, fossero eseguiti a Roma. Tuttavia pare che abbia continuato a fare disegni caricaturali: anzi, stando alle fonti letterarie, fu l’inventore (probabilmente negli anni Novanta) della moderna caricatura; ma si conoscono solo due caricature a lui attribuibili (conservate al Louvre e nella Collezione Reale di Windsor). Si dedicò invece sempre alla pittura di paesaggio: i più antichi dipinti di questo genere rivelano soprattutto l’influsso di Nicolò dell’Abate e della pittura paesistica veneziana; a Roma creò un tipo di paesaggio monumentale, rigorosamente costruito, che in seguito costituì il punto di partenza per i “paesaggi ideali” di artisti quali Domenichino, Nicolas Poussin e Claude Lorrain: la Caccia e la Pesca (circa 1587-88: Parigi, Louvre); Paesaggio fluviale (circa 1589-90: Washington, National Gallery); Paesaggio con ponte (circa 1593: Berlino, Gemäldegalerie); Paesaggio con il sacrificio d’Isacco (circa 1599: Parigi, Louvre); sei lunette con Storie sacre ambientate in paesaggi (dopo il 1603: Roma, Galleria Doria-Pamphili). Nel corso della sua attività artistica Annibale eseguì anche acqueforti (la più famosa è il Cristo di Caprarola del 1597) e, nei suoi primi anni romani, fece incisioni su argento. Ma, in complesso, la sua produzione incisoria è quantitativamente limitata: ciò non toglie che egli sia stato uno dei più validi pittori-incisori del tardo Cinquecento. Intorno al 1605 Annibale andò incontro a un crollo psicologico dovuto, secondo i biografi, al compenso inaspettatamente scarso (500 scudi) ricevuto per gli affreschi dell’imponente e impegnativa Galleria Farnese. Fatto sta che si ammalò gravemente e ciò gli impedì quasi del tutto di dipingere: gran parte delle opere tarde furono portate avanti dalla sua bottega e alcuni affreschi furono eseguiti prevalentemente dai suoi aiuti, talora su suoi disegni; le opere più importanti di questa fase sono gli affreschi della cappella Herrera in S.Giacomo degli Spagnoli in Roma, eseguiti dal 1604 al 1607 soprattutto dall’Albani, Lanfranco e Badalocchio (non più in loco ma staccati e conservati in sedi diverse). Una volta stabilitosi a Roma, annibale lasciò la città solo un paio di volte: per un breve periodo nel 1602, quando tornò a Bologna per il funerale di Agostino e all’inizio dell’estate del 1609, quando, in compagnia del pittore Baldassarre Aloisi, fece un breve viaggio a Napoli, che risultò estremamente dannoso per la sua già malferma salute. Morì così a Roma il 15 luglio 1609 e fu sepolto nel Pantheon, seguendo un suo desiderio. 69 Bibliografia essenziale Fonti antiche G. P. Bellori, Le vite de’ Pittori, Scultori et Architetti Moderni, Roma, 1672 C. C. Malvasia, Felsina Pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, Bologna, 1678 Cataloghi delle principali mostre G. C. Cavalli, F. Arcangeli, A. Emiliani, M. Calvesi (a cura di), con una nota di D. Mahon, Mostra dei Carracci, Bologna, 1956 F. Arcangeli, G. C. Cavalli, M. Calvesi, A. Emiliani, C. Volpe (a cura di), Maestri della pittura del Seicento emiliano, Bologna, 1959 A. Emiliani, Bologna 1584. Gli esordi dei Carracci e gli affreschi di Palazzo Fava, Bologna, 1984 A. Emiliani, S. J. Freedberg, J. Pope-Hennessy, Nell’età di Correggio e dei Carracci. Pittura in Emilia nei secoli XVI e XVII, Bologna, 1986 A. Emiliani (a cura di), con scritti di M. S. Campanini, G. Feigenbaum, S. J. Freedberg, G. Perini, A. Stanzani, Ludovico Carracci, Bologna - Forth Worth, Texas, 1993 D. Benati, E. Riccòmini (a cura di), Annibale Carracci, Bologna - Roma, 2006 Saggi R. Longhi, Momenti della pittura bolognese, Bologna, 1935 D. Mahon, Studies in Seicento Art and Theory, Londra, 1947 F. Arcangeli, Sugli inizi dei Carracci, in Paragone, 1956 D. S. Pepper, Annibale Carracci ritrattista, 1973 71 Finito di stampare nel mese di maggio 2015 presso Modulgrafica Forlivese - Forlì per conto di Agenzia NFC di Amedeo Bartolini & C. sas