Scarica l`allegato - Zanasi Foundation

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Catalogo e Mostra a cura di:
Marco Baldassari e Gloria de Liberali
Progetto Grafico:
Morena Silvestri
Campagna fotografica a cura di:
Marco Baldassari
Copyright 2015:
Fondazione Zanasi e gli autori per i testi e le fotografie
Si ringraziano Genus Bononiae, Unicredit,
Grand Hotel Majestic “già Baglioni” Bologna
e la Pinacoteca Nazionale di Bologna
La Fondazione Zanasi si dichiara disponibile
a regolare eventuali spettanze per quelle immagini
di cui non sia stato possibile reperire la fonte
Catalogo edito da / Published by
Agenzia NFC di Amedeo Bartolini & C. sas - Rimini
Collana: NFC Edizioni
ISBN 978 - 88 - 6726 - 082 - 9
Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione anche parziale dell’opera, in ogni sua forma e con ogni mezzo,
inclusa la fotocopia, la registrazione e il trattamento informatico, senza l’autorizzazione del possessore dei diritti.
Indice
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La giovinezza dei Carracci:
Ludovico, Agostino e Annibale negli anni Ottanta del Cinquecento
Andrea Emiliani
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Ludovico Carracci, San Girolamo
Agostino Carracci, Sacra Famiglia con il matrimonio mistico di Santa Caterina
Annibale Carracci, Ritratto di anziana donna
Repertorio fotografico di Marco Baldassari
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Un San Girolamo del giovane Ludovico Carracci
Gloria de Liberali
51
Un’inedita Sacra Conversazione di Agostino Carracci
Nicosetta Roio
59
Un Ritratto della giovinezza di Annibale Carracci
Andrea Emiliani
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Biografie di Ludovico, Agostino e Annibale Carracci
a cura di Chiara Zironi
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Bibliografia essenziale
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Ludovico Carracci, Il ringiovanimento di Giasone ad opera di Medea (particolare), affresco,
Palazzo Fava, Bologna
Ludovico Carracci, Gli incanti di Medea (particolare), affresco, Palazzo Fava, Bologna
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La giovinezza dei Carracci: Ludovico, Agostino
e Annibale negli anni Ottanta del Cinquecento
Andrea Emiliani
La questione della giovinezza dei Carracci – del cugino Ludovico e dei più
giovani fratelli Agostino ed Annibale – rappresenta ancora ai nostri occhi
l’intera storia della Rinascenza bolognese ed emiliana insieme, nel momento
fondamentale del superamento del cadavere agonico del manierismo e della sua
eredità di complicazioni intellettuali, volgendo piuttosto l’arte ad un’idea più
autentica e vera, nella quale il senso della storia e l’osservazione della natura si
congiungono in un’altissima sintesi poetica.
La stagione prolungata del lento – e non poco conflittuale – Rinascimento
bolognese, diviso tra il dolce classicismo di impronta raffaellesca e figure di
crisi come quello spirito grottesco ed estroso che fu Amico Aspertini, aveva
ceduto il passo, e rischiava di essere inghiottita, dal linguaggio ornatissimo e
pericolosamente astratto – poiché ormai lontano dalla verità naturale – che negli
anni nel cuore del Cinquecento aveva prepotentemente piegato l’arte ad un
eccezionale strumento di spettacolarizzazione e retorica.
Erano stati gli apici toccati dall’eleganza sinuosa del Parmigianino e dal
michelangiolismo esasperato e terribile di Pellegrino Tibaldi ad alimentare la
febbre delle alterazioni di significato e delle stranezze intellettualistiche contro
cui reagì con inamovibile severità il Cardinale Gabriele Paleotti con il suo Discorso
intorno alle immagini sacre e profane del 1582. Il suo testo, che ebbe immediata e
larghissima ricezione tra gli artisti, individuava il valore della pittura nella sua
onestà morale, nella fedeltà ai testi sacri e nella vicinanza al mondo quotidiano,
da perseguire attraverso un linguaggio divulgativo piuttosto che spettacolare. In
tempi come quelli tridentini, l’aspetto della quotidianità batte in modo intenso
alla porta della religione più familiare e naturale, la quale è un frutto della
Rivelazione e cioè della particolare pratica di lettura e di interpretazione dei testi
evangelici. È ormai noto quanto puntuale fosse l’attenzione che i pittori dovevano
riservare alla narrazione di ore, luoghi ed azioni del Nuovo Testamento e dei
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testi vetero testamentari: proprio in questi ultimi, talora e spesso, il seme della
trasgressione andava a germinare facilmente. Il testo evangelico diveniva allora
la vera sceneggiatura del mondo pittorico della “biblia pauperum”, e la pala
d’altare andava a rappresentare il luogo figurativo della religione per eccellenza,
la tavola dipinta che s’incarica di rivivere per tutta la comunità raccolta attorno
ad essa le gesta educative e gli atti eruditi, l’esemplarità gravosa o cruenta della
vita dei Santi, il magistero salvifico della loro morte o la seduzione confessionale.
Sarà allora la nuova società post-Tridentina ad esigere un ritorno ad una filosofia
dell’arte che altro non è che filosofia della natura, la medesima che si ritrovava con
agio alle stesse date nella poesia dell’Ariosto o nella prosa del Tasso. Un ritorno
alla natura, insomma, atteso con desiderio in una città fertile di nuovi stimoli
e di idee di rinnovamento che ne animavano il governo artistico e sociale fin
dagli anni Sessanta, quando Bologna sperimentava vasti interventi architettonici
sotto la guida lungimirante del giovane cardinale umbro Pier Donato Cesi
nelle aree circostanti l’antica basilica petroniana e la Piazza Maggiore. Qui
sorsero presto l’Archiginnasio e l’Ospedale della Morte, mentre si procedeva
all’ammodernamento dei banchi di cambio e di moneta e del Palazzo del Podestà,
di fronte al quale fu creato lo spazio per la fontana del Nettuno progettata da
Tommaso Laureti e realizzata dallo scultore fiammingo Jean de Boulogne, creando
così uno straordinario assetto prospettico per il centro bolognese.
Tale ritorno sulla forma urbana della città si impose come un’opera di recupero
della conoscenza rinascimentale e dei suoi modelli formali e funzionali, innestando
nel processo culturale pubblico la consapevolezza di una nuova volontà spaziale
ed urbanistica carica d’ogni esemplare virtù, e che è alle spalle della riforma
naturalistica guidata dai Carracci. Ritrovare la bella natura equivaleva per
molti versi a ritrovare e ripercorrere alcune delle strade già conosciute durante
quella meravigliosa stagione che era stato il Rinascimento italiano, rievocandolo
attraverso i suoi momenti più forti e la folla di protagonisti che ne avevano
attraversato i centri propulsivi di Firenze e di Roma: dopo il grande lavoro di
unità esercitato sull’arte italiana da Raffaello, il più moderno sistema concettuale
si costituisce dall’identità di natura e storia.
È questo il percorso poetico individuato ed intrapreso per vie originali da
Ludovico, Agostino ed Annibale poco dopo l’ottanta, a dar atto della loro
difforme capacità di eversione rispetto ai modi del manierismo storico. Ludovico,
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primo attore nel quadro dell’arte bolognese tra Cinquecento e Seicento, riassorbe
e rielabora in modo lento ma durevole una tradizione padano-lombarda di
consistente entità e durata, innestandola sul terreno ancora fertile del vecchio
manierismo cinquecentesco, nei confronti del quale egli ingaggia un dialogo
costante e non privo di conflitti. Una linea lega e divide per tempo Ludovico ed
Annibale Carracci. Una linea che dirime e confonde, insieme, due biografie assai
diversamente coltivate ed orientate e che si spezzerà definitivamente soltanto
dopo il novanta, ma che già nei primi mesi dell’ottantacinque assumerà un corso
diverso. Gli eventi pittorici di questa giovinezza dei Carracci sono infatti di natura
tanto dinamica e sorprendente da aver sollecitato un giudizio nuovo e diverso nel
tracciare la loro storia.
Si va allora disegnando una sorta di bipolarità agli apici della quale si collocano
da un lato Annibale e dall’altro Ludovico: la fama del primo, sepolto accanto a
Raffaello nella Rotonda romana è destinata a salire sulle spirali d’ogni armonioso
Agostino Carracci, Giove si fa condurre da Europa, affresco, Hotel Majestic Baglioni, Bologna
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classicismo e ad incontrare una poesia di vera oratoria e di diffusa retorica,
sempre di solenne pacificazione; dall’altro lato, si affatica la fortuna grave, in parte
sepolta e tuttavia schiettamente “vera” di un Ludovico che si eleva quasi subito
a patriarca della grande pittura religiosa italiana e di quel barocco lombardo
costantemente inteso a fornire un volto alla società.
E poiché i destini, grazie al potere della cultura, finiscono sovente per
avvantaggiarsi dei centri ove gli artisti scelgono di lavorare, non giovò certo nella
tradizione moderna la lunga sosta che Ludovico, per tutta la vita, intrattiene nella
sua città, Bologna. Su questo problema si è trovato, nel 1956, Francesco Arcangeli,
formulando il suo contributo al problema degli inizi dei Carracci partendo proprio
dai principi dello stile, per afferrare quelli così mobili e tuttavia così probabili
dell’essere e dell’esistere, fino a farne un modello – di questo Ludovico – posto
a cavaliere fra l’evo antico – quello di Vitale e di Aspertini – e l’età moderna –
quella di Crespi e di Morandi –, nel quale riconoscere una sorta di gigantesca
sincronia della vicenda storica. L’inizio di questa sperimentale costruzione della
personalità di Ludovico fu impresa per Arcangeli di non poco conto. Si direbbe
che egli, molto abilmente, in un modo che egli stesso chiamerà “tortuoso” ma che
invece ben risponde all’efficacia del “paragone”, procede alla fondazione di una
personalità intera per metodico, insistente, persuasivo ricorso alla sola induzione
stilistica.
Ludovico fu il primo, nella famiglia, ad assumere l’alea della metamorfosi formale
per attingere ad un nuovo linguaggio, come si può constatare di fronte alle opere
che si usa collocare agli albori delle costanti caratteristiche dell’artista. I primi
dipinti sono, secondo una successione possibile di stile e poco dopo l’ottanta, lo
Sposalizio mistico di Santa Caterina in collezione privata (già esposto in occasione
della mostra dedicata all’artista nel 1993), il San Vincenzo del Credito Romagnolo,
e infine alcune tra le scene affrescate, tratte dalle Argonautiche di Apollonio Rodio
e dalle Metamorfosi di Ovidio, nel ciclo realizzato per Filippo Fava nel palazzo
per lui eretto intorno al 1580 di fronte alla Madonna di Galliera: qui, nella
fattispecie, si ritiene suo l’ultimo comparto della sequenza narrativa con la Notte
degli incantamenti, il Ringiovanimento di Esone e la morte di Esone bollito insieme ad
un bianco agnello entro un tripode. L’edificio ospita infatti un salone centrale dove
si dispiegano lungo il fregio i diciotto episodi affrescati dai tre Carracci con le
Storie di Giasone, ciclo narrativo in cui l’eroe incarna l’ingegno e la forza, il valore
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e la dignità fisica in grado di trionfare di fronte a reiterate e temibili prove. Sulla
spinta del neoplatonismo esoterico, Giasone è un emozionante assertore della
facoltà dell’uomo di dominare intellettualmente l’universo superando tutte le
prove, e anche quelle conclusive, seppur ricorrendo all’imbattibile intervento di
Medea. Gli argonauti sono tuttora il segno di una cultura sperimentale e anzi
sono essi stessi, con la loro vicenda, il simbolo del desiderio e la ricerca della
sperimentazione necessaria.
Negli affreschi affiorano modelli esemplari della più elementare prosa narrativa
di Ludovico, capace di rievocare anche ricordi lontani, tra i quali parrebbero
sopravvivere specie quelli di Bartolomeo Cesi e di Prospero Fontana. Il segno
della sua presenza poetica pare avvolta da un senso di diretta quotidianità,
unita ad un andamento inventivo razionale e pulito che giungerà l’apice nella
maestria compositiva e formale spiegata nelle Storie di Enea affrescate poco dopo
il novanta nella saletta attigua alle Argonautiche, dando così vita ad un momento
fondante ed altissimo di classicismo bolognese. Agli anni che intercorrono tra
le due imprese converrà dunque assegnare la prima – forse la più antica – delle
opere che qui si presentano: il San Girolamo in preghiera, prova in cui si sintetizza
Annibale Carracci, Il finto funerale di Giasone, affresco, Palazzo Fava, Bologna
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Agostino Carracci, Conquista del Vello d’Oro (particolare), affresco, Palazzo Fava, Bologna
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la vena quotidiana e popolare di Ludovico, erede di una sensibilità tutta padana
e di un sentimento religioso intimamente espresso secondo i dettami della pittura
controriformata.
Soprattutto, negli affreschi di palazzo Fava, brilla il vero protagonista delle stanze,
il più giovane del gruppo, Annibale Carracci, che a queste date avrebbe contato
ventitré o ventiquattro anni: un’età in vero già assai conscia e produttiva per un
pittore colto e sapiente come egli doveva già essere. Molti decenni più tardi, nel
1672, un grande scrittore d’arte che aspirava al ritorno degli ideali della rinascenza
classica, Giovan Pietro Bellori, indicava in Annibale l’uomo che avrebbe saputo
ricondurre la pittura sull’ideale classico di Raffaello, proponendo un linguaggio
che unificasse le diverse scuole pittoriche italiane da quella umbro-toscana a
quella fiorentina, da quella veneziana a quella bolognese stessa – a partire dalla
chiamata del cardinal Farnese a Roma. Qui, Annibale seppe rinnovare il genere
della favola mitologica e del paesaggio attraverso il nuovo senso di equilibrio
classico espresso nella volta Farnese e nelle opere che, come il Paesaggio con la
predica di Gesù agli Apostoli, concentrano tutta la loro poesia in uno sguardo nuovo
sulla natura.
Agostino Carracci, Incontro di Giasone e Pelia (particolare), affresco, Palazzo Fava, Bologna
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Questa stagione aurea era stata preceduta, nella giovinezza di Annibale, da
un’altra straordinaria soluzione innovativa e risolutiva nella direzione della
riforma naturalistica carraccesca, che già Roberto Longhi definì una nuova
“apertura di finestra”, e cioè una scelta semplice eppure densa di risultati quanto
un nuovo sguardo rivolto alla bellezza e alla novità instancabile della natura.
Ed il suo primo cammino, percorso fin dalla giovinezza – forse addirittura
dall’adolescenza, e cioè attorno al 1580 – fu davvero uno sguardo lanciato oltre
una nuova finestra aperta ad indagare circa gli aspetti spontanei della natura
e dell’apparenza visibile che per la loro semplicità ci affascinano ogni giorno
sfuggendo alle nobilitazioni dell’arte più colta.
Il dettato di Annibale consiste allora, e quasi inesorabilmente, nel guardare in
faccia la natura, per giunta condensata nelle prime cose che cadono sotto la
nostra attenzione: i volti dei bambini e dei mendicanti, il fluire della luce e dei
giorni in un paese. Alcuni di questi aspetti divengono piccole tele del genere di
quella conservata nelle collezioni reali di Stoccolma, ma un tempo nei palazzi
Ludovico Carracci, Venere soccorre Enea e lo persuade ad abbandonare la lotta, affresco, Palazzo Fava, Bologna
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senatori Caprara di Bologna, dove le fisionomie dei piccoli sembrano ispirati
a veri e propri ritratti, quasi i due fanciulli fossero stati spiati, a loro insaputa,
dal pittore che ha catturato i loro giochi attorno ad un burattino. Così la ripresa
“fotografica”, ravvicinata e frontale del Ragazzo che beve da un calice di Oxford
ci porta fuori dalla pittura solenne, eroica o religiosa, e ci mette a disposizione
il vero repertorio della giovinezza di Annibale, il quale individua nuove strade
e fresche fisionomie cercate nella vita quotidiana: quella di tutti i giorni, libera
dalle gerarchie, e dunque l’unica che poteva essere affrontata senza ricorrere a
difficili velami stilistici o compositivi, a nascondimenti dietro i quali mascherare,
annullandola, la bellezza semplice della natura.
Ancora Giovan Pietro Bellori ci aveva suggerito il nome di un altro grande
pittore italiano, Federico Barocci, il quale, pur legato all’immagine della sua
amata Rinascenza domestica, trent’anni prima aveva ricondotto gli uomini e
i Santi insieme ai ricordi della propria dolorosa vita entro le forme dell’antico
palazzo in faccia al quale si era aperta, a Urbino, la sua stessa finestra di pittore
meditativo dietro cui egli si era isolato forse anche a causa della malattia. Non ho
mancato poi di evocare, già in altre sedi, l’innegabile e diretto influsso che l’opera
coeva del Barocci poté esercitare sul giovane Annibale, così come dimostrano i
riferimenti ad opere del marchigiano in quegli anni da lui licenziate e guardate
dai contemporanei con una considerazione certamente maggiore di quella di cui
godono oggi per gran parte della critica. Anche nelle mani di Federico Barocci, non
a caso, la natura ritorna elementare, quotidiana e semplicissima, raffigurandosi
spesso nella presenza vitale di donne e bambini e di animali domestici.
Sembra chiaro che la condizione dell’arte figurativa sul finire del Cinquecento,
inizialmente destinata a dipingere simboli ed espressioni geroglifiche oppure
cifrate ed elitarie, abbia volutamente percorso un grande tratto della pittura del
manierismo prima di decidere di mostrarsi nella sua piena libertà. Quando lo
ha fatto, ciò ha richiesto uno sforzo straordinario di riconquista dell’immagine
intesa come quotidianità e dunque come una naturalezza che le cose portano
seco con spontaneità. Alla via d’uscita proposta dalla riforma naturalistica, verità
figurative ma anche reali condizioni di naturalezza si sono dunque affacciate
grazie ad una progressiva e spontanea maturazione dei tempi.
Il ritorno alla natura, dunque, che come affermava già Roberto Longhi, è l’aspetto
solito di ogni rivoluzione artistica, caratterizza i primi passi pittorici del giovane
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Annibale Carracci. Il suo primo approccio con il vero passa per lo più attraverso
una pluralità di disegni, giunti fino a noi in quantità, che gli consentono di
esplorare e trattenere sul foglio idee e atteggiamenti derivanti dalla prima,
diretta impressione colta durante l’osservazione della realtà. Nello specifico,
Annibale mostra fin dagli esordi una spiccata attitudine al ritratto dinamico,
con la caratteristica capacità di evocare al suo interno uno sviluppo narrativo,
oltre che psicologico e introspettivo. È dalla scuola cremonese dei Campi che
gli deriva quel naturalismo di tratti, quella vivacità espressiva che conferisce il
sapore della vita colta nell’istante della sua rappresentazione: da questo duplice
filone, bolognese e padano, prende le mosse la rivoluzione carraccesca, dove il
confronto diretto con il naturale e il quotidiano si spinge ad attingere alla verità
più profonda delle cose.
Il terreno privilegiato della ricerca pittorica per il giovane Annibale è allora
rappresentato innanzitutto dalle persone che egli incontra nella sua vita di tutti
i giorni: i garzoni di bottega, i bambini che giocano nelle strade di Bologna, un
villano affamato in un’osteria (il celebre Mangiafagioli della Galleria Colonna),
una vecchia vicina di casa (come potrebbe essere il Ritratto di donna anziana di
collezione privata) o una parente a lui prossima, come è possibile immaginare
per l’inedito, potente Ritratto di anziana che in questa occasione si presenta per la
prima volta al pubblico degli studiosi e degli appassionati d’arte antica.
In verità, a Bologna la pratica del ritratto dal vero affondava già le proprie
radici profonde nel manierismo cinquecentesco di Prospero Fontana, il
quale, appassionatosi all’imitazione delle cose della natura sotto la spinta
dell’enciclopedismo di Ulisse Aldrovandi, a partire dal 1560 iniziava ad
affrontare il ritratto maschile con un tagli prospettico ravvicinato, che enfatizza
la descrizione minuziosa e realistica dei particolari allontanando ogni pericolo di
retorica celebrazione. Ma era poi stato soprattutto Bartolomeo Passerotti, memore
della lezione del fiammingo Denis Calvaert, ad introdurre a Bologna il tono
borghese e domestico della ritrattistica nordica, con la sua minuzia descrittiva
e le sue ambientazioni di sovente in interni dove l’effigiato si presenta in toni
di cordiale descrizione, inserito in un contesto ambientale che ne individua le
attitudini intellettuali o l’attività professionale. Dal Passerotti Annibale apprende
la sensibilità per i valori cromatici e per i morbidi passaggi chiaroscurali che
conferiscono plastica volumetria al personaggio, nello stesso momento in cui il
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mondo figurativo veneto – ma soprattutto il cromatismo tizianesco – arricchiscono
la sua tavolozza di sfumature e cangiantismi sottilmente differenziati.
Questa ricerca di resa dal vivo a tutti i costi della verità umana esperita sull’umanità
cordiale e popolare che lo circonda si smarca agilmente da qualsiasi rischio di
caduta nella pittura di genere attraverso una severità di intenti che è insieme
stilistica e morale: nei suoi ritratti spoglie ed essenziali, come il Suonatore di liuto
di Dresda, o il Ritratto di gentiluomo di collezione privata, l’effigiato si offre allo
sguardo dell’osservatore con una gravità classica cui non è estraneo un leggero
turbamento, ad attestare autorevolmente quanto la ritrattistica carraccesca
conoscesse bene la via per superare il dato naturalistico ed attingere ad una verità
psicologica ed esistenziale più profonda grazie ad una straordinaria efficacia
Annibale Carracci, Paesaggio con la predica di Gesù agli Apostoli, olio su tela, cm. 107 x 133,
collezione privata
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introspettiva che sembra frutto di un tempo di posa – e dunque di osservazione –
dilatato, lentissimo e attentamente meditato.
Sarà questo naturalismo, questa verità fisica ad allontanare i ritratti di Annibale
da quelli coevi di Lavinia Fontana, orientata, come il padre, verso i toni aulici
di una retorica del ritratto che risente del predicato paleottiano negli aspetti
di onestà e decoro dell’immagine, mentre un’incidenza di stile significativa si
stabilisce con pittori bresciani come il Moroni o Sofonisba Anguissola, e non a
caso, alla verità del ritratto carraccesco guarderà l’altro lombardo protagonista
di una nuova rivoluzione naturalistica, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio.
Se fin qui si è trascurata la figura di Agostino, fratello maggiore di Annibale e cugino
più giovane di Ludovico, è perché la sua collaborazione nell’impresa artistica da
cui abbiamo preso le mosse per tracciare il percorso della riforma naturalistica
carraccesca, e cioè gli affreschi di Palazzo Fava, appare, allo stato odierno della
critica, abbastanza ridotta, soprattutto se paragonata alla personalità dominante
Annibale Carracci, Romolo e Remo nutriti dalla lupa, affresco, Palazzo Magnani, Bologna
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del fratello. I suoi interventi trovano spazio perlopiù nell’apparato decorativo ed
architettonico del fregio, costituito dalle figure di divinità dipinte in monocromo
ai lati delle incorniciature dei comparti con le singole scene. Il primo episodio
narrativo oggi generalmente accettato alla sua autografia è il terzo nella prima
parete con Pelia che si avvia al sacrificio, seguito immediatamente dall’Incontro tra
Giasone e Pelia, dove l’invenzione e la mano di Agostino vi si riconoscono ormai
con chiarezza; egli torna poi nel comparto tredicesimo della terza parete, la cui
scena raffigura la Conquista del Vello d’oro, per concludersi nell’ultimo comparto
con il Ritorno di Giasone che consegna il Vello d’oro a Pelia.
In fondo, anche la personalità meno coinvolta di Agostino dimostra di essere
altrettanto matura ed evoluta nel linguaggio artistico e nella cultura acquisiti
innanzitutto dall’affascinante mondo pittorico veneziano, la cui influenza
nell’enfasi cromatica studiata e coltivata nella città lagunare gli viene proprio dal
viaggio di studio lì condotto in quel cruciale anno 1584. Una minor presenza di
Agostino nel fregio di Palazzo Fava – Camerino d’Europa compreso – si potrà
così comprendere e giustificare almeno in parte osservando il notevole impegno
e l’alto successo raggiunto dall’artista a quelle date, lontano dalle mura di
Bologna. Nel corso del decennio Agostino conoscerà infatti Venezia e Parma, poi
Roma e Cremona, e di nuovo Venezia per giungere da lì a visitare Firenze. Le
suggestioni che in questi anni di peregrinazioni egli assorbì dall’arte di Paolo
Veronese, Tintoretto e sopra a tutti dal Correggio sono al meglio esemplificate
nella tela qui presentata, raffigurante la Madonna con il Bambino, San Giuseppe e
Santa Caterina d’Alessandria, ovvero uno Sposalizio mistico della Santa, dichiarando
nella profusione di luce dorata che percorre e forma diagonalmente i volumi, così
come nella morbidezza dei passaggi cromatici, tutta la potenza dell’esperienza
correggesca dei primi anni ottanta.
Il profilo della Santa martirizzata con il supplizio della ruota, dall’acconciatura
raccolta in una treccia e la preziosa corona d’oro e pietre dure, è parente certa delle
bellezze femminili del Caliari, testimoniando con forza le inclinazioni veneziane
di Agostino agli esordi della sua produzione pittorica, allo stesso modo in cui il
senso di maternità familiare e popolaresco che emana dalla figura umanissima
della Vergine ne rammenta i natali bolognesi e l’inevitabile educazione artistica
sotto gli influssi del cugino Ludovico.
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Ludovico Carracci
S. Girolamo in preghiera
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Agostino Carracci
Sacra Famiglia con il Matrimonio mistico
di S. Caterina d’Alessandria
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Annibale Carracci
Ritratto di anziana donna
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Ludovico Carracci, San Girolamo in preghiera, olio su tela, cm. 68 x 56,5, collezione privata
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Un San Girolamo del giovane Ludovico Carracci
Gloria de Liberali
Il dipinto raffigura San Girolamo, dottore della Chiesa e teologo tra i più amati
nelle opere d’arte cristiana per la devozione domestica, nel momento in cui le
sue preghiere d’adorazione rivolte al crocifisso che stringe tra le mani conducono
i suoi pensieri – ed il suo sguardo – verso il cielo addensato di nuvoloni grigi,
come quelli che s’intravedono alle spalle della grotta in cui egli si è ritirato in
meditazione.
Nell’estremità destra del quadro è sospinta una natura morta, che potremmo definire scabra ed essenziale nell’accostamento di un teschio quale simbolo di penitenza, e degli strumenti di scrittura impiegati dal Santo nella traduzione della
Bibbia dal greco e dall’ebraico in latino.
L’opera, finora inedita, è stata ricondotta con certezza da Andrea Emiliani all’autografia di Ludovico Carracci – e specialmente al momento della sua giovinezza
– per i caratteri tipici degli anni in cui la pittura emiliana, e bolognese soprattutto,
inaugurava un graduale ma irreversibile rinnovamento figurativo da una tradizione di stampo cinquecentesco e manierista verso una sensibilità religiosa di
tipo protobarocco, animata da un “nuovo” sentimento della natura.
L’importanza cruciale dell’azione trainante ed innovativa di Ludovico nel giro
di anni compresi tra il 1583 ed il 1585 fu intuita ed argomentata con fascino ed
intelligenza già da Francesco Arcangeli nel fondamentale saggio Sugli inizi dei
Carracci, pubblicato alle soglie dell’inaugurazione della storica mostra tenutasi
nel 1959 nelle sale dell’Archiginnasio a Bologna1. La figura di Ludovico spiccava
allora come uno spirito più complesso e moderno rispetto a quello dello stesso
Annibale, poiché in grado di assimilare all’interno della propria poetica l’unione
schietta di colto e di popolare, facendola coincidere con la dolce gravità del suo
temperamento. Questa “sobrietà di costume” e questa “grave modestia” così connaturate nelle corde del pittore tanto da renderlo interprete raffinato della Controriforma e allo stesso tempo geniale anticipatore del moderno naturalismo seicentesco, si coglie bene nella forma chiusa di quest’opera di non grande formato,
dove la figura dignitosa ed austera di Girolamo serba ancora il sapore della severa
grandezza liturgica del coetaneo Bartolomeo Cesi, lui sì, rigoroso interprete dei
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dettami tridentini.
L’eco di questa tradizione cinquecentesca è ancora preponderante nelle opere del
giovane Ludovico, qual è l’Annunciazione dipinta per la Compagnia del Santissimo Sacramento, a lungo custodita nella chiesa di San Giorgio in Poggiale ed oggi
conservata nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. In questo spazio essenziale e
prospetticamente “neoquattrocentesco”, dove la giovanissima Vergine somiglia
ad una “collegialina cui sian state affidate le cure d’una casa” (Arcangeli), esordisce pubblicamente lo spirito popolare e casalingo del nostro autore, pur mitigato da un residuo di capziosità tardo manierista che anima le vesti di scintillanti
cangianze, e da una certa rigidezza sculturale che blocca le forme in gesti devoti.
Ma negli anni della sua giovinezza Ludovico sa soprattutto infondere ai suoi dipinti sentimenti umanamente religiosi e schiettamente casalinghi che sono in lui
connaturati, fin dall’inizio, per quel “movente lombardo” che già il Longhi aveva
argutamente individuato quale motore primo della riforma carraccesca dopo le
esperienze del Moretto, del Moroni e dei Campi cremonesi 2.
Sono elementi che si colgono fin dalle opere da lui licenziate ancora entro la prima metà degli anni Ottanta: lombardo è soprattutto il tono del Ritratto della Famiglia Tacconi, un dipinto dal “fare dimesso, quasi senza stile” (Arcangeli) nella
semplicità essenziale, solo superficialmente passerottiana di quest’umanità inconsapevole e sobria che si affaccia dal rettangolo della tela. Le figure prendono
vita da una tavolozza ridotta, secca e terrosa, prossima alla monocromia, come le
terre brune che danno vita al San Girolamo a alla natura morta di oggetti che lo circondano: il teschio, i testi sacri, il calamaio, la tangibile verità di questi strumenti
è paragonabile a quella del piccolo cesto con i materiali per il cucito e al leggio
affollato di libri della già citata Annunciazione. La loro presenza serve a ricondurre
la storia sacra ad una dimensione umana modernissima.
Sembra poi di poter ritrovare, nello scorcio di cielo che anticipa il chiaroscuro
metereologico di questo San Girolamo, quell’ “alito di sera cadente, d’autunno
che s’allontana, quando resta soltanto un sussurro segreto di brezze a spettinare
appena il folto dei capelli o delle verzure” che poeticamente l’Arcangeli leggeva
nel Battesimo di Cristo conservato al castello di Schleissheim, presso Monaco, un
tempo scambiato per opera seicentesca attribuita a Pierfrancesco Mola. La delicata resa dei particolari di barbe e capelli, così come il trattamento delicatissimo del nudo anatomico pieno e carnoso, accomunano in un’eccezionale cura
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esecutiva quest’opera alla nostra, dove le piccole lumeggiature delle mani, degli
occhi e della barba del Santo, come pure l’alta qualità della natura morta presente
nell’estremità sinistra del dipinto, ci indicano l’esperienza di un pittore di fervida
invenzione e di poesia, oltre che di innata perizia tecnica.
Si avverte, in questo San Girolamo, anche l’eco di una sensibilità luministica nuova, dove la luce è vera e non sublime: essa rivela la natura e l’umanità delle cose,
non serve lo stile. È questa la novità, già seicentesca, delle opere giovanili di Ludovico che si scalano tra l’83 e l’85-86, e che l’Arcangeli definì “precaravaggesche”
per l’anticipo con cui vi si esplorano soluzioni compositive e formali che vanno
Ludovico Carracci, Annunciazione, olio su tela, cm. 182,5 x 221, Pinacoteca Nazionale, Bologna
47
dall’interpretazione umana del fatto sacro all’uso di un’illuminazione verisimile
e schietta, pur difendendo il decoro e la dignità della verità ottica delle cose. Si
tratta del Battesimo di Schleissheim, l’Annunciazione di Bologna, Il San Francesco in
adorazione del crocifisso della Pinacoteca Capitolina e della Visione di San Francesco
del Rijksmuseum di Amsterdam: visioni severe e rustiche di un’umanità vera e
grave, evocative di una presenza reale e di un sentimento sincero.
Se infine il soggetto ci sembrerà pervaso di vaghe suggestioni venete, è certo
che esse, a quelle date, poterono venire con ogni probabilità dal suggerimento
di Agostino, il solo fra i Carracci che al 1584 avesse già fatto visita a Venezia,
raccogliendo l’eredità del Veronese e del Tintoretto. Ciò giustificherebbe la vicinanza, nel formato e nel soggetto, che già Andrea Emiliani ha rilevato tra il nostro
dipinto e i cosiddetti “Santini”,
la nota serie di dieci stampe riferite ad Agostino Carracci già
dal Malvasia, che le disse fatte
“per prova in gioventù” alla
sorprendente età di quattordici anni, collocandone dunque
l’esecuzione intorno all’anno
1569 invece che nel 1581, come
oggi si ritiene più probabile.
Una di queste figurine devozionali, riprodotta al n. 44[71]
del catalogo di Diane de Grazia3 , raffigura appunto un San
Gerolamo penitente volto di spalle che si batte il petto con una
pietra accanto al suo leone. Le
due opere, pur diverse nelle
soluzioni compositive, si dimostrano simili nella costruzione
di un’immagine devozionale in
Ludovico Carracci, Ritratto della famiglia Tacconi, olio su tela, cm. 97 x 76, Pinacoteca Nazionale, Bologna
48
grado di condurre il fedele ad un incontro ravvicinato con il santo.
Tuttavia, è al giovane Ludovico che deve ricondursi questa prova pittorica. A
lui infatti spettò il ruolo più puro e sperimentale al principio della riforma carraccesca: l’immediatezza e l’intimità con cui egli seppe guardare alla natura e
al modo in cui l’uomo e la storia – specialmente sacra – si compiono in essa fu
uno dei motivi per cui i pittori del suo tempo lo ritennero il capofila della scuola
bolognese, come lasciano intendere le attualissime parole pronunciate da Guido
Reni e riportate dal Malvasia: “Coì anche mi ricordo la intendea Guido, che solea
dire, stimare egli più Lodovico, perché non era stato come i Cugini tanto attaccato alla scuola Lombarda, e alla Veneziana, che anche la Romana aver osservato
non dimostrasse: che que’ duo’ s’eran dilettati d’una maniera a Tiziano, ed al
Correggio simile; ma Lodovico, non ostante l’aver quelle osservato di Andrea del
Sarto ancora, del Tibaldi, del Primaticcio, e d’ogni altro compiaciutosi, avevasi
poi composto una maniera nuova, e propria, che poteasi dir la sua, e da ogni altra
diversa”. E questa sua “maniera nuova, e propria” dallo stesso Malvasia è così
riassunta: “E quel fare statuino non era tutto il suo genio, come altresì tutto non
lo si era quella inerudita semplicità lombarda; ma cercava un misto che né l’uno
né l’altro fosse, e dell’uno e dell’altro partecipasse”.
1
2
3
F. Arcangeli, Sugli inizi dei Carracci, in Paragone, n. 79, 1956 pp. 17-48
R. Longhi, Momenti della pittura Bolognese, in L’Archiginnasio, anno XXX, n. 1-3, 1935.
D. de Grazia, Le stampe dei Carracci con i disegni, le incisioni, le copie e i dipinti connessi. Catalogo critico. Bologna, 1984.
49
Agostino Carracci, Sacra Famiglia con il matrimonio mistico di Santa Caterina, olio su tela, cm. 95,5 x 77,5,
collezione privata
50
Un’inedita “Sacra Conversazione” di Agostino Carracci
Nicosetta Roio
La Sacra famiglia con S.Caterina d’Alessandria rappresenta una piacevole variazi-
one del tema iconografico dello “sposalizio mistico” di Caterina, la fanciulla di
stirpe regale destinata a ricevere da Gesù bambino l’anello nuziale1. L’episodio
rievoca una delle visioni avute dalla giovane prima che le fosse inflitto il famoso
supplizio con la ruota dentata in seguito al suo rifiuto di adorare gli idoli pagani
in nome delle proprie credenze cristiane: secondo l’antica fonte agiografica nota
col titolo di Legenda aurea, ad esso tentarono di sottoporla i carnefici, ma la nobile
giovinetta venne salvata miracolosamente da un fulmine scagliato dal Signore
che distrusse il terribile strumento di tortura.
In virtù della forte venerazione popolare nei confronti della mistica bolognese
Caterina de’Vigri (1413-1463), omonima della leggendaria santa alessandrina e
vissuta a Bologna in odore di santità all’epoca della Signoria dei Bentivoglio2,
tra la fine del XV e il principio del XVI secolo nella città felsinea si diffuse particolarmente la produzione di opere devozionali raffiguranti proprio il tema della
Sacra famiglia in compagnia di S.Caterina d’Alessandria e ciò avvenne, appunto,
parallelamente all’intensificarsi del culto nei confronti della Vigri, occupando largo spazio nella Bologna del Cinque-Seicento a partire principalmente dalla produzione dei figli e seguaci del più illustre pittore bentivolesco del Rinascimento,
Francesco Francia, passando attraverso quella di altri “raffaelleschi” padani come
Innocenzo da Imola e i Bagnacavallo; il piacevole tema iconografico risulta essere
stato tra i più praticati anche dalla generazione successiva di artisti locali - tra i
quali vanno ricordati almeno Pellegrino Tibaldi, Prospero e Lavinia Fontana, i
Passerotti, Lorenzo Sabatini e Orazio Samacchini -, trovando rinnovato vigore
grazie agli esemplari realizzati sia dal Correggio che dal Parmigianino, caratterizzati certamente da una più moderna ed evoluta affettuosità.
Ciononostante la tendenza a riprodurre un po’ stancamente lo stile dei grandi
maestri rinascimentali, accentuandone il virtuosismo e le complicazioni formali,
finì per portare gli artisti manieristi a non obbedire più alle esigenze di limpidezza devozionale. In questo contesto e su queste basi culturali ed estetiche i tre
cugini Carracci svolsero il loro compito di teorici del rinnovamento artistico, ac-
51
centuando l’umanità dei personaggi e la chiarezza delle scene sacre.
Il notevole spessore intellettuale di Agostino Carracci si svela pertanto in questo
dipinto fin dal suo peculiare modo di affrontare quel soggetto diffusissimo: la scena composta dall’artista felsineo, infatti, si sottrae alla tentazione di illustrare esplicitamente il rito nuziale tra la santa e Gesù bambino, affidando a quest’ultimo
una gestualità lieve e domestica nel rivolgersi alla Madre sollevando delicatamente nel contempo il dito anulare di Caterina, un’azione che racchiude in sé
tutta la spiritualità di quel riferimento soprannaturale, tanto più perché gli attori
protagonisti sono visibilmente delle persone comuni, con le quali lo spettatore
può certamente identificarsi nonostante sul capo di Caterina troneggi una splendida corona d’oro con perle e pietre preziose e il piccolo Salvatore sia accomodato
su un elegante cuscino di seta. Infatti tutte le figure presenti, compreso il pensoso
e protettivo S.Giuseppe in secondo piano, non sono rese affatto con forme idealizzate ma riproducono quelle
di modelli di riferimento reali,
così come si presentavano sia
agli occhi del pittore che del riguardante, anticipando molte
delle soluzioni della “rivoluzione” veristica del più giovane
Caravaggio.
E’ proprio l’accentuato rispetto per l’ortodossia delle storie
rappresentate, assimilato agli
aspetti di “normalità” figurativa, a caratterizzare la dottrina
stilistica dei Carracci; in ciò i tre
artisti seguirono fedelmente le
istruzioni dei teorici dell’epoca,
segnatamente quelle presenti
nel famoso Discorso sulle immagini sacre e profane (1582),
Agostino Carracci, Ritratto di Ulisse Aldrovandi, olio su tela, cm. 79 x 62 cm, Accademia Carrara, Bergamo
52
grandioso progetto dotto e ricercato di monsignor Gabriele Paleotti, che traspose
nei cinque volumi dell’opera l’aspirazione della Chiesa post-tridentina e di tutta
l’autorità ecclesiastica al controllo dei contenuti delle scene sacre: il testo del cardinale bolognese manifestava l’esigenza di fedeltà alle scritture sacre delle storie
dipinte, perciò i santi con le loro peculiarità identificative dovevano essere facilmente riconoscibili e rispettosi della tradizione, laddove agli artisti veniva concessa comunque la facoltà e la libertà di scegliere lo stile più adeguato all’interno
di questi parametri.
I Carracci si inserirono perfettamente in questo momento politico e culturale
dell’epoca, comprendendo appieno il bisogno di una tensione artistica capace
di rispecchiare le nuove esigenze e che, al contempo, fosse libera dagli artifici
e dalla complessità del Manierismo: fu proprio Agostino, considerato il più sapiente e culturalmente impegnato dei tre cugini, il maggiore responsabile delle
vincenti scelte intellettuali dell’accademia carraccesca, sebbene il catalogo della
sua produzione pittorica sia ancora piuttosto incerto e spesso, in passato, alcune
sue opere siano state ingiustamente attribuite tanto al fratello Annibale che al
cugino Ludovico: valga come esempio il pregevole Ritratto di Ulisse Aldrovandi
dell’Accademia Carrara di Bergamo, databile intorno alla metà degli anni Ottanta, per cui ora è finalmente maggioritario il consenso critico sulla sua paternità.
Universalmente riconosciuto come il vero riformatore della calcografia italiana,
parallelamente agli studi artistici Agostino si occupò anche di materie scientifiche ottenendo grandi considerazioni pure come matematico, retorico, musicista
e poeta: questa profonda passione per le scienze e la disposizione ad avere rapporti con molti eruditi (oltre al citato Aldrovandi fu molto amico del poeta Cesare
Rinaldi e di innumerevoli altri illustri intellettuali dell’epoca), provocò le ripetute
invidie del fratello Annibale: una costante nella vita dei due fu proprio la reciproca gelosia professionale.
Se, dunque, è ampiamente apprezzato l’indubbio valore di Agostino in campo
grafico, in quello più strettamente pittorico l’artista, pur ammiratissimo dai suoi
contemporanei, finì in un certo senso per essere schiacciato dall’irresistibile fama
del fratello minore.
D’altra parte la sua stessa lunga pratica incisoria finì per svantaggiarlo, facendolo
percepire come più incline alla copia che all’ideazione, tanto che la moderna fortuna critica dell’Agostino Carracci pittore pare risentire ancora di questi retaggi
53
le due pressoché coeve Assunzioni della Pinacoteca Nazionale di Bologna (1592
circa), ambedue caratterizzate dal forte influsso dell’arte veneziana; e tuttavia la
versione di Agostino appare temperata da una disciplina strutturale e da una
linea intellettuale di manifesto superiore spessore4, risultando complessivamente
più monumentale e definita rispetto a quella di Annibale.
D’altro canto il rapporto con Venezia fu per Agostino decisamente rilevante, avendo svolto in Laguna una larga parte della propria attività incisoria entrando in
stretti rapporti con Paolo Veronese, del quale divenne in un certo senso l’incisore
ufficiale, e con Jacopo Tintoretto, che ne apprezzò moltissimo l’abilità grafica.
Secondo quanto ci tramandano le fonti, i sentimenti del Robusti nei confronti del
maestro bolognese erano scaturiti dall’apprezzamento dell’incisione che il Carracci aveva tratto da uno dei capolavori dello stesso Tintoretto, la famosa Crocifissione della Scuola Grande di S.Rocco, una delle prove grafiche più note e ammirate di Agostino. Il sodalizio tra i due sarebbe stato così forte da indurre il grande
pittore veneziano – che a quell’epoca era già famosissimo - a fare da padrino di
battesimo ad Antonio, figlio naturale del Carracci5, che era nato proprio in Laguna intorno al 1592 (e non negli anni Ottanta, come si pensava erroneamente
fino a qualche tempo fa) dalla sua prolungata relazione con una bella cortigiana
che viveva nei pressi di S.Lucia6.
Antonio Carracci, che poi divenne anch’egli pittore, visse la sua infanzia tra Venezia e Bologna ma al momento della scomparsa del genitore nel 1602 si trasferì a
Roma presso lo zio Annibale, che gli fece da padre e, pur essendo già di salute
malferma, si preoccupò massimamente di offrire al suo erede acquisito una istruzione più ampia e approfondita possibile: ciò forse anche per risarcire la memoria
del fratello più intellettuale ed erudito, col quale aveva avuto sempre un rapporto
difficile e contrastato proprio per motivi culturali, dal momento che Annibale era
da sempre assai poco attratto dagli studi e dalle alte meditazioni.
Morto anche lo zio nel 1609, Antonio Carracci fu raggiunto nell’urbe dalla “dilettissima madre” Isabella che, nonostante la giovanile “discussa” moralità - uno dei
principali motivi della sua mancata annessione al nucleo familiare carraccesco
nella Bologna tridentina - ottenne finalmente lo status di “Signora Carracci” anche dall’intransigente canonico Carlo Cesare Malvasia7.
Assieme alla profonda conoscenza della pittura lagunare, va ricordato che Agostino Carracci fu anche uno dei migliori traduttori a stampa delle opere del Cor-
55
reggio (famose sono la Madonna di S.Girolamo o il Commiato di Cristo dalla Madre,
mentre si deve proprio all’incisione di Agostino tratta dall’Ecce Homo dell’Allegri
ora nella National Gallery di Londra, l’inizio della ricostruzione collezionistica
della tavola, dal momento che solo nel 1587, data di esecuzione della stampa, si
hanno le prime notizie di quel quadro di Correggio che era a quei tempi nella raccolta Prati di Parma8), da cui derivano le peculiari delicatezze affettive che associano tra loro i personaggi della nostra Sacra famiglia con S.Caterina d’Alessandria:
il suo confronto con opere come il suo più noto capolavoro, l’Ultima comunione di
S.Girolamo (Bologna, Pinacoteca Nazionale, con l’Ultima cena (Madrid, Museo del
Prado) e, soprattutto, con la già menzionata Assunzione della Pinacoteca Nazionale di Bologna è molto utile sia dal punto di vista delle qualità cromatiche - il
rosso dalle tonalità rosate, il giallo, gli incarnati e la luce dorata -, che delle analogie fisionomiche: ad esempio quella del S.Giuseppe corrisponde alla tipologia
degli Apostoli più anziani, mentre il Gesù bambino è molto somigliante ai numerosi angioletti che accompagnano Maria assunta in cielo e, anzi, il suo viso si
sovrappone esattamente alla creatura celeste con le manine giunte collocato sulla
destra della gamba della Vergine; per non tacere delle similitudini delle mani e,
in generale, delle gestualità.
In tutte queste opere di Agostino come nella nostra “Sacra conversazione”,
l’intelligente dipendenza dall’arte veronesiana (ma anche tizianesca) è innegabile: va detto che già Maurizio Calvesi aveva evidenziato i legami dell’Assunzione
di Agostino con la tela di analogo soggetto che il Caliari aveva allocato in S.Maria
Maggiore a Venezia all’inizio degli anni Novanta del Cinquecento9, anche se è
bene ribadire come il Carracci appaia particolarmente portato a liberare la propria espressività da qualsiasi virtuosismo per restituire ai suoi eventi figurativi
una plasticità mai statica, i rigorosi impianti formali si stemperano sempre grazie
alla scioltezza delle tinte brillanti e a una impareggiabile libertà di segno, rendendo così i palcoscenici dipinti delle situazioni del tutto naturali, come appena
realmente avvenute.
Tutto ciò è tanto più evidente in un dipinto come questo bel ritrovato Sposalizio
mistico di S.Caterina, la cui originale destinazione doveva essere evidentemente
più riservata e appartata rispetto all’altare di una chiesa frequentata da devoti:
Andrea Emiliani ha ipotizzato per la tela una provenienza farnesiana, paragonandola opportunamente alla Madonna col Bambino e i Ss.Giuseppe e Margherita
56
d’Alessandria (ora a Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte ma proveniente,
appunto, dal Palazzo del Giardino dei Farnese a Parma, dove Agostino Carracci
lasciò, prima della morte prematura, gli ultimi suoi brani affrescati su richiesta
del duca Ranuccio), e alla Sacra Famiglia della National Gallery of Victoria di Melbourne10, tutte opere accomunate dallo stesso peculiare senso di familiarità sempre presente nell’attività pittorica, come si è detto ancora troppo poco stimata,
di Agostino Carracci, che eseguì questo “Matrimonio mistico” verosimilmente
tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo, forse ritraendo,
nelle vesti di Caterina d’Alessandria, l’amata madre di suo figlio, Isabella, come
pare dichiarare la stringente somiglianza della santa con la ruota dentata e il ritratto della donna all’interno della famosa incisione di Agostino “Ogni cosa vince
l’oro”, dove compaiono significativamente nello sfondo l’autoritratto di spalle
dell’artista pensieroso col figlio Antonio bambino11.
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Olio su tela, cm 95,5 x 77,5 - collezione privata; il restauro del 2014 curato da Marta Galvan ha riportato il dipinto
alle misure originali, dopo un precedente intervento che ne aveva ampliato incongruamente i margini del contorno.
Per una biografia riassuntiva sulla Santa per eccellenza di Bologna si rimanda almeno a S.Spanò, in Dizionario
biografico degli Italiani, 22, Roma, 1979, ad vocem.
S.Ostrow, Agostino Carracci, Ph.D. Thesis, Ann Arbor, 1966.
Per l’Assunzione di Agostino Carracci e la sua complessa storia si rimanda a E.Fiori, in Pinacoteca Nazionale
di Bologna. Catalogo generale. 2.Da Raffaello ai Carracci, Bologna, 2006, pp.293-295, cat.n.195.
G.P.Bellori, Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni, Roma, 1672, ed. a cura di E.Borea, Torino, 1976, p.121.
La data di nascita di Antonio Carracci è stata fissata intorno al 1592 grazie alle deduzioni rese possibili dal
ritrovamento della sua licenza di matrimonio del 1615: per tutta la ricostruzione si rimanda a N.Roio, “La vera
età di Antonio Carracci”, in Antonio Carracci (1592-1618), Manerba, 2007, pp.65-84.
C.C.Malvasia, Felsina pittrice, 1678, ed. a cura di G.Zanotti, 1841, I, p.372.
D.DeGrazia, Le stampe dei Carracci, Bologna, 1984: il lavoro della studiosa è ancora fondamentale per la
conoscenza dell’Agostino incisore, ma è anche una base indispensabile da cui partire per una corretta
valutazione del personaggio.
M.Calvesi, in Mostra dei Carracci, catalogo della mostra, Bologna, 1956, pp.152-154; per la questione
cronologica del dipinto di Veronese, ora alle Gallerie dell’Accademia, si rimanda a T.Pignatti-F.Pedrocco,
Veronese, Milano, 1995, p.461, cat.n.356.
Questi dati si ricavano dallo studio di Andrea Emiliani sul dipinto.
Roio, cit., in particolare le pp.68-69, con bibliografia precedente; l’incisione con “Ogni cosa vince l’oro” o
Il Vecchio e la cortigiana è riprodotta a p.67.
57
Annibale Carracci, Ritratto di anziana donna, olio su carta applicata su tela, cm. 38,5 x 31
collezione privata
58
Un Ritratto della giovinezza di Annibale Carracci
Andrea Emiliani
Questo piccolo capolavoro della ritrattistica carraccesca era un tempo nella col-
lezione dello scrittore ed appassionato della storia e della critica d’arte Giuseppe
Raimondi, quando ancora viveva e lavorava nel vecchio ambiente del padre stufaio in Piazza Santo Stefano a Bologna. Nella sua singolare raccolta il dipinto poté
giungere dietro il possibile parere di Francesco Arcangeli, amico e consigliere di
gusto ed esperienza, e lì probabilmente era stato conosciuto ed ammirato anche
dal maestro Roberto Longhi, in un ambiente più che mai fervido di dotti ed amichevoli dibattiti.
Si tratta, con ogni evidenza, di un’opera riconducibile agli anni giovanili di Annibale Carracci, forse addirittura alla sua adolescenza, e cioè attorno al 1580, essendo egli nato, come è noto, nel 1560 e quindi già attivo nel 1578-1580. In questi anni
egli affrontava la sua prima esperienza pittorica indirizzata a cogliere della vita
gli aspetti più immediati e spontanei attraverso una cultura – ed una tecnica – di
natura sperimentale ed un fascino che già potremmo definire pittoresco.
Il progressivo avvicinamento alla resa dal vivo ci è testimoniato, in un primo approccio, dalla grande varietà di disegni dal vero di teste e profili colti in diverse
pose e atteggiamenti, i quali consentono all’artista di esplorare e trattenere sul
foglio la prima e più diretta impressione derivata dall’osservazione del naturale.
Alla pratica del ritratto il giovane Annibale giunge anche attraverso prove per
così dire “indirette”, tentate (e risolte) a margine dei primi importanti dipinti di
soggetto sacro. Nella pala d’altare raffigurante il Crocifisso con i dolenti e i Santi
Bernardino da Siena, Francesco e Petronio, realizzata per la Chiesa di San Nicolò a
Bologna nel 1583 e ritenuta, in assenza di altri riscontri, il primo capolavoro del
giovane Annibale, la figura di Giovanni appare appena in scorcio, coperta com’è
dall’ingombrante manto in broccato del San Petronio in primo piano. Con l’immediatezza del suo gesto e con lo sguardo rivolto direttamente all’osservatore,
esso costituisce il primo esempio noto di ritratto “dal vivo” di Annibale, seguito
subito dopo, nel Battesimo di Cristo per la Chiesa dei Santi Gregorio e Siro, dal
giovane San Giovanni in primo piano, intento a richiamare con naturalezza l’attenzione dello spettatore sulla scena sacra che prende vita a pochi passi da lui.
59
Nella sequenza di schizzi e abbozzi di volti e fisionomie cui si dedicarono in gioventù tutti i Carracci nell’intento di perfezionare la resa pittorica delle espressioni
e dei sentimenti bisognerà poi ricordare almeno il Ritratto di giovane della Galleria
Spada a Roma, dove l’attenzione dell’artista è tutta concentrata sul viso, animato
da un’espressione vitale e vagamente furbesca. Il tratto veloce e compendiario è
tipico del bozzetto, e la dimensione realistica convive con l’intento di conferire
all’immagine una valenza che è insieme anche psicologica ed introspettiva.
La sensibilità rara che Annibale dimostra nella capacità di cogliere la bellezza
semplice del naturale e del quotidiano ci è testimoniata da capolavori di grazia
rara com’è la teletta delle Collezioni Reali di Stoccolma raffigurante Due bambini
che giocano, quasi certamente ritratti dal vero nei pressi della bottega del pittore,
ma sorprendenti per la facilità priva di ogni complicazione e retorica con cui essi
si offrono con freschezza ad uno sguardo pittorico nuovo. La ripresa fotografica ravvicinata e frontale del Volto di un bambino in collezione privata è poi il segno della volontà di spingersi ad indagare una verità più profonda e nobile della
semplice apparenza, consentendoci di riconoscere, all’interno della ritrattistica
carraccesca, un doppio filone che è insieme classicamente aulico e schiettamente
Annibale Carracci, Due bambini che giocano,
olio su tela, cm. 59 x 50
Collezioni Reali, Stoccolma
60
Annibale Carracci, Ritratto di bambino,
olio su tela, cm. 22,5 x 19,5
collezione privata
naturalistico, sventando così ogni rischio di cadere nel campo limitante e riduttivo della pittura di genere.
Bisogna poi considerare che a Bologna la pratica del ritratto dal vero aveva affondato le sue radici più profonde nel manierismo cinquecentesco di Prospero Fontana e Bartolomeo Passerotti: nutrito di fervida curiosità scientifica aldrovandiana
il primo, domestico della minuzia descrittiva fiamminga attraverso la lezione del
Calvaert il secondo. Da questa tradizione l’Annibale ritrattista apprende l’impostazione formale e morfologica del ritratto tradizionale cinquecentesco, il taglio
prospettico ravvicinato, e l’attenzione per il contesto ambientale o le attitudini
professionale ed intellettuali degli effigiati, mentre la sensibilità ai valori cromatici ed i morbidi passaggi chiaroscurali si arricchiscono nel momento dell’apertura
verso il mondo figurativo veneto.
Allo stesso tempo, l’esempio per un terreno di ricerca che privilegia la ricerca dal
vero svolta nella quotidianità della vita tra le strade della città risale anche – e
soprattutto – alla pittura dei Campi di Cremona, città della bassa Padana dalla
quale proviene anche la famiglia Carracci e dove è documentata, nelle numerose raccolte nobiliari dell’epoca, la
presenza di dipinti fiamminghi e olandesi con scene di mercato o di cucina.
Un’altra significativa incidenza di stile
nella giovinezza di Annibale è quella
nota e comprovata dei pittori bresciani Giovan Battista Moroni e Sofonisba
Anguissola, senza dimenticare la pittura di Savoldo e Moretto tra Brescia e
Bergamo, che ben presenti nella cultura
figurativa dei tre Carracci fin dai loro
esordi diedero luogo a quel “costume
insostituibile intonato ad un affettuoso
timbro lombardo” già memorabilmente individuato da Roberto Longhi.
Annibale Carracci, Ritratto di vecchia, olio su tavola, cm. 30 x 22,5, collezione privata
61
È dunque da una combinazione di tutti questi elementi stilistici e poetici che scaturisce la forza prorompente di questo Ritratto di un’anziana donna1, descritta nelle
fattezze fisiche dell’età avanzata e priva di mascheramenti: il volto ruvido, le rughe che ne solcano la fronte, il collo non più elastico e tonico stretto tra i fili di una
collana di perline nere. Il volto, fisiognomicamente identificato, è di fatto affidato
ad un’analisi di marcato rilievo anatomico, rilevando così la sua appartenenza
ad un’età di studio come quella fin qui delineata intorno all’ottanta, e dunque
da Annibale rivolta alle forme umane e al mondo naturale: le labbra serrate e le
sopracciglia corrugate esprimono una personalità complessa ed appartengono ad
una visione di intensità naturalistica mentre riflettono un cosmo di forte e visibile
e espressione.
Un esito analogo a quest’effige è raggiunto da Annibale in un altro dipinto, pure
in collezione privata, raffigurante anch’esso un Ritratto di vecchia: la schiettezza
descrittiva è la medesima, seppure il soggetto sembra esercitare in questo caso
minor presa sugli interessi introspettivi del pittore. La materia resta tuttavia la
medesima, distribuita con pennellate grasse e pastose, curate e sovrapposte nel
modo più attento laddove percorrono con minuzia i dettagli del volto, per poi delineare con maggior sommarietà e risoluta destrezza la veste e lo sfondo, quest’ultimo praticamente assente per conferire allo sguardo della donna il massimo risalto.
Tali forme rivelatrici donano alla figura un’espressione severa, al punto che la capacità di penetrazione di questo sguardo tradisce un rapporto col riguardante di
cui non ci è dato oggi di conoscere con certezza la natura: si trattava forse di una
vicina di casa, una parente, forse la madre stessa? La mente non può non correre,
allora, a quell’immagine di nobile castigatezza che è il Ritratto della madre, che un
bolognese della generazione successiva, il “divino” Guido Reni, dipingerà circa
trent’anni più tardi, ricordandosi della poetica naturalistica rivoluzionariamente
introdotta in pittura dai suoi maestri e predecessori in opere come questa, appena
prima di intraprendere una strada che lo porterà presto a farsi interprete di una
vocazione per l’apollineo e per il sublime scegliendo di dar vita ad una natura
ormai emendata da ogni umana incertezza.
Per questo caratteristico sguardo sulla realtà – la nuova “apertura di finestra”
che per Longhi costituì l’aspetto più significativo della riforma carraccesca –
quest’opera rivela nella sua sprezzata esecuzione una tavolozza densa di virtù
pittoriche che preannunciano sull’orizzonte della scuola bolognese le glorie a
venire del giovane Guido Reni: un’impressionante coincidenza di genio pittori-
62
co colto nel momento della sua più alta espressione, mentre si affacciano già le
grandi imprese della maturità con cui saranno celebrate le glorie del “nuovo corso” nel quale maturò l’arte universale di Annibale Carracci. Alla soglia di questa
nuova stagione, la mano e l’invenzione del giovane Annibale si rivelano dunque
ancora una volta le virtù responsabili di un’incomparabile esperienza nella quale
i tre Carracci erano destinati ad illuminare le sorti dell’intera pittura italiana.
Guido Reni, Ritratto della madre, olio su tela, cm. 65 x 55
Pinacoteca Nazionale, Bologna
63
Altri dipinti importanti del suo periodo giovanile
sono
l’Annunciazione
(1585
circa:
Bologna,
Pinacoteca Nazionale); la Visione di S. Antonio (1586
circa: Amsterdam, Rijksmuseum); l’Assunzione della
Pinacoteca Nazionale); la Resurrezione di Cristo (circa
1597: Bologna, S.Cristina); S.Gerolamo (circa 1596-
98: Bologna, S.Martino Maggiore); il Martirio di
S.Orsola (1600: Imola, Ss.Nicola e Domenico); Gli
Vergine (1587 circa: Raleigh, North Carolina Museum
Apostoli alla tomba della Vergine (1601: Bologna, Corpus
Pinacoteca Nazionale).
Tra il 1605 e il 1609 eseguì degli affreschi per la
of Art); la Conversione di S.Paolo (1587-89: Bologna,
Nelle opere successive Ludovico mostra un interesse
sempre crescente per effetti drammatici e per chiari,
vigorosi schemi compositivi. Nella “Pala Bargellini”
si avvertono influssi sia di Tiziano che del Correggio.
Alcune di queste opere rivelano anche quella grande
capacità inventiva nell’interpretare i temi religiosi
che è caratteristica costante della pittura di Ludovico.
In effetti egli fu senza dubbio, fra tutti i Carracci,
il più originale nelle scelte iconografiche e nelle
interpretazioni drammatiche.
All’inizio dell’ultimo decennio del secolo, Ludovico
ebbe una rapida evoluzione verso uno stile
“protobarocco”. Anche se i suoi brani nei fregi di
Palazzo Magnani a Bologna (1589-90) dipendono
stilisticamente in parte da Pellegrino Tibaldi e
Domini).
cattedrale di Piacenza oltre a due vasti dipinti ad olio
raffiguranti i Funerali della Vergine e Gli apostoli alla
tomba della Vergine (ora nella Galleria Nazionale di
Parma); verso il 1610 il suo stile assunse un accento
estremamente personale che sembra riflettere il suo
senso via via più profondo di isolamento rispetto
alle generazioni di artisti più giovani. Nelle sue
ultime opere riappaiono elementi manieristici e
in alcune di esse la fantasia formale e iconografica
produce
un
suggestivo
lirismo,
mentre
altre
mostrano un’originalità per certi versi sconcertante
raggiungendo effetti quasi “espressionistici”: S.
Raimondo di Pennaforte (circa 1608-1610: Bologna,
S.Domenico); Crocifissione (1614: Ferrara, S.Francesca
Romana); Martirio di S.Margherita (1616: Mantova, S.
contengono ancora reminiscenze manieriste, le grandi
Maurizio); il Paradiso (1616: Bologna, S.Paolo). Tra
libertà di tocco e di composizione (Predica del Battista,
fresco nella cattedrale di Bologna (1618-1619),
pale d’altare dello stesso periodo sono notevoli per
1592, Martirio di S.Orsola, 1592), Madonna degli
Scalzi, 1593 circa, tutte nella Pinacoteca Nazionale
di Bologna). La rapidità della pennellata, i forti
contrasti di luce e dei movimenti, la ricchezza del
i suoi ultimi dipinti va ricordata l’Annunciazione a
ma l’opera di Ludovico continuò a essere molto
richiesta fino alla sua morte, avvenuta a Bologna il 13
novembre 1619.
colore mostrano in queste opere profondi debiti nei
confronti dell’arte veneziana di Tintoretto e Veronese.
Nel
1594,
quando
Annibale
e
Agostino
si
allontanarono da Bologna, Ludovico continuò a
seguire gli allievi nella bottega e nell’Accademia
degli Incamminati, ad eccezione di una breve
visita a Roma nel 1602. In questo periodo sviluppò
ulteriormente le premesse “barocche” del suo stile
in dipinti stipati di grandi figure violentemente
gesticolanti, esaltati da forti effetti chiaroscurali: ne
sono esempi la Trasfigurazione (circa 1595-97: Bologna,
65
disegni di Antonio Campi destinate alla Cremona
famiglia con S.Margherita (ambedue a Napoli, Museo
ritorno a Bologna dove si associò a Ludovico e ad
Nel 1600, dopo una lite con Annibale, Agostino lasciò
fedelissima (Cremona, 1585). Tra il 1583 e l’84 fece
Annibale nei lavori per la decorazione ad affresco di
Palazzo Fava. E’ probabile che si trovasse a Parma
nel 1586-87 mentre qualche anno dopo, ancora a
Venezia, nacque suo figlio Antonio (secondo Bellori il
Tintoretto gli avrebbe fatto da padrino), che diventerà
anch’egli pittore.
Benché la principale attività di Agostino fra il
1580 e il 1590 fosse quella di fare riproduzioni a
incisione, egli eseguì negli stessi anni anche un
certo numero di dipinti fortemente influenzati
dall’arte
veneziana:
l’Adorazione
di Capodimonte).
Roma, sembra già in cattiva salute. Si recò a Bologna
e poi a Parma dove, nel luglio dello stesso anno, entrò
alla corte del duca Ranuccio Farnese. La decorazione
a fresco di uno stanzino del palazzo del Giardino
a Parma restò incompleta per la morte dell’artista
avvenuta il 23 febbraio 1602. Fu sepolto nel duomo
di Parma.
Il 18 gennaio 1603 l’Accademia degli Incamminati
celebrò per lui un complicato rito commemorativo
nella chiesa dell’Ospedale della Morte a Bologna.
pastori
Svariati furono gli interessi di Agostino: i suoi
Madonna con Bambino e santi (1586; Parma, Galleria
e, fra tutti i membri della famiglia sembra sia
dei
(circa 1584; Bologna, S.Bartolomeo di Reno) e la
Nazionale). Continuò a produrre stampe, anche
se nell’ultimo decennio del secolo divenne più
intensa la sua attività di pittore: oltre a partecipare
alle imprese collettive col fratello e il cugino, negli
anni precedenti al 1595 dipinse quadri importanti
come l’Ultima comunione di S.Girolamo (circa 1592;
Bologna, Pinacoteca Nazionale), forse la sua opera
più famosa; l’Assunzione della Vergine (circa 1593;
Bologna, Pinacoteca Nazionale); l’Ultima cena (1594-
95 circa; Madrid, Prado): opere ancora sotto l’influsso
veneziano, temperato ora, tuttavia, da una disciplina
strutturale e di linea destinata ad acquistare sempre
maggior peso nelle opere successive.
Alla fine del 1594 Agostino accompagnò a Roma
biografi ne ricordano l’indole letteraria e musicale
stato il più interessato alla teoria e alla pedagogia
artistica. Come Annibale, si dedicò e contribuì
allo sviluppo della caricatura come genere (alcuni
suoi disegni caricaturali esistono ancora). Ma il
maggior contributo storico di Agostino è ancora oggi
considerato quello di incisore: basandosi sull’esempio
delle stampe di Marcantonio Raimondi e, soprattutto,
del nordico Cornelius Cort, mise a punto una tecnica
che ebbe straordinaria influenza sull’arte incisoria
fino al XX secolo; si tratta di una tecnica semplice
ad apprendersi e rigorosa a un tempo, che perciò
divenne il fondamento dello stile “accademico”
dell’incisione.
il fratello Annibale, e ambedue tornarono a
Bologna all’inizio del 1595. Nel 1597 Agostino
andò probabilmente a Parma prima di raggiungere
Annibale a Roma, dove lavorò sino al 1600: si
devono a lui due scene affrescate sulla volta
della Galleria di Palazzo Farnese (Teti trasportata
nella stanza nuziale di Peleo; Aurora e Cefalo).
A Roma dipinse anche il ritratto di Giovanna
Guicciardini
(1598;
Berlino,
Gemäldegalerie),
l’Arrigo peloso, Pietro matto, Ammon nano e la Sacra
67
dipinti come la Venere, un satiro, e due amorini (circa
1588: Firenze, Uffizi); Venere e Adone (circa 158889: Madrid, Prado); l’Assunzione della Vergine (1592:
Bologna, Pinacoteca Nazionale); la Madonna con i
Ss.Luca e Caterina (1592: Parigi, Louvre); la Madonna
col Bambino e i Ss.Giovanni Evangelista e Caterina (1593:
Bologna, Pinacoteca Nazionale); l’Elemosina di
S.Rocco (1594-95: Dresda, Gemäldegalerie).
Nel 1594, su invito del cardinale Odoardo Farnese,
Annibale e il fratello Agostino, soggiornarono a Roma
per pochi mesi. Successivamente, nel settembre o
nell’ottobre del 1595, Annibale lasciò definitivamente
Bologna per Roma, dove si installò in Palazzo Farnese.
Qui affrontò la prova più impegnativa della propria
carriera, ossia la decorazione del “Camerino” (159597) con le rappresentazioni allegoriche delle Virtù di
Odoardo Farnese. Questi affreschi e il dipinto a olio che
fu collocato al centro del soffitto (Ercole al bivio, ora a
Napoli, Museo di Capodimonte) sono ancora in gran
parte di stile emiliano-veneto, nonostante la presenza
di nuovi spunti tratti dalla scultura antica, oltre che da
Michelangelo e Raffaello. Questi motivi sovrastano il
colorismo settentrionale, pur non eliminandolo del
tutto, nell’opera più celebre di Annibale, gli affreschi
della volta della Galleria Farnese. In generale lo
stile romano di Annibale è caratterizzato da grande
monumentalità, disegno nitido, solidità compositiva,
idealità di forme. L’intera decorazione, che raffigura
il dominio universale dell’Amore, ebbe inizio
probabilmente intorno al 1597; due scene della volta
sono riconosciute ad Agostino, mentre gli affreschi
delle pareti furono eseguiti da Annibale con la larga
partecipazione di aiuti (Domenichino, Giovanni
Lanfranco e Sisto Badalocchio) e raffigurano L’Amore
sensuale dominato dalla Virtù, con particolare allusione
alle virtù della famiglia Farnese.
Fra il 1595 e il 1605 Annibale eseguì a Roma altri
importanti dipinti: l’Incoronazione della Vergine (circa
1596: New York, Metropolitan Museum); la Nascita della
Vergine (circa 1598-99: Parigi, Louvre); la Pietà (circa
1599-1600: Napoli, Museo di Capodimonte); le Tre
Marie al sepolcro (circa 1600: Leningrado, Ermitage);
l’Assunzione della Vergine (circa 1600-1601: Roma,
S. Maria del Popolo); la Pietà (1602/03-1607: Parigi,
Louvre).
Dopo aver lasciato Bologna non si dedicò più alla
pittura di genere, per quanto sia possibile che
alcuni suoi disegni per le famose e importanti
rappresentazioni dei mestieri (Le arti di
Bologna, incisioni di S.Guillain, pubblicate a Roma
nel 1646), una serie probabilmente iniziata negli
ultimi anni del nono decennio, fossero eseguiti a
Roma. Tuttavia pare che abbia continuato a fare
disegni caricaturali: anzi, stando alle fonti letterarie,
fu l’inventore (probabilmente negli anni Novanta)
della moderna caricatura; ma si conoscono solo due
caricature a lui attribuibili (conservate al Louvre e
nella Collezione Reale di Windsor). Si dedicò invece
sempre alla pittura di paesaggio: i più antichi dipinti
di questo genere rivelano soprattutto l’influsso di
Nicolò dell’Abate e della pittura paesistica veneziana;
a Roma creò un tipo di paesaggio monumentale,
rigorosamente costruito, che in seguito costituì il
punto di partenza per i “paesaggi ideali” di artisti
quali Domenichino, Nicolas Poussin e Claude
Lorrain: la Caccia e la Pesca (circa 1587-88: Parigi,
Louvre); Paesaggio fluviale (circa 1589-90: Washington,
National Gallery); Paesaggio con ponte (circa 1593:
Berlino, Gemäldegalerie); Paesaggio con il sacrificio
d’Isacco (circa 1599: Parigi, Louvre); sei lunette
con Storie sacre ambientate in paesaggi (dopo il 1603:
Roma, Galleria Doria-Pamphili).
Nel corso della sua attività artistica Annibale
eseguì anche acqueforti (la più famosa è il Cristo
di Caprarola del 1597) e, nei suoi primi anni romani,
fece incisioni su argento. Ma, in complesso, la sua
produzione incisoria è quantitativamente limitata:
ciò non toglie che egli sia stato uno dei più validi
pittori-incisori del tardo Cinquecento.
Intorno al 1605 Annibale andò incontro a un crollo
psicologico dovuto, secondo i biografi, al compenso
inaspettatamente scarso (500 scudi) ricevuto per
gli affreschi dell’imponente e impegnativa Galleria
Farnese. Fatto sta che si ammalò gravemente e ciò gli
impedì quasi del tutto di dipingere: gran parte delle
opere tarde furono portate avanti dalla sua bottega
e alcuni affreschi furono eseguiti prevalentemente
dai suoi aiuti, talora su suoi disegni; le opere più
importanti di questa fase sono gli affreschi della
cappella Herrera in S.Giacomo degli Spagnoli
in Roma, eseguiti dal 1604 al 1607 soprattutto
dall’Albani, Lanfranco e Badalocchio (non più in loco
ma staccati e conservati in sedi diverse).
Una volta stabilitosi a Roma, annibale lasciò la città
solo un paio di volte: per un breve periodo nel 1602,
quando tornò a Bologna per il funerale di Agostino e
all’inizio dell’estate del 1609, quando, in compagnia
del pittore Baldassarre Aloisi, fece un breve viaggio
a Napoli, che risultò estremamente dannoso per la
sua già malferma salute. Morì così a Roma il 15 luglio
1609 e fu sepolto nel Pantheon, seguendo un suo
desiderio.
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Bibliografia essenziale
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G. P. Bellori, Le vite de’ Pittori, Scultori et Architetti Moderni, Roma, 1672
C. C. Malvasia, Felsina Pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, Bologna, 1678
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G. C. Cavalli, F. Arcangeli, A. Emiliani, M. Calvesi (a cura di), con una nota di D. Mahon,
Mostra dei Carracci, Bologna, 1956
F. Arcangeli, G. C. Cavalli, M. Calvesi, A. Emiliani, C. Volpe (a cura di), Maestri della pittura
del Seicento emiliano, Bologna, 1959
A. Emiliani, Bologna 1584. Gli esordi dei Carracci e gli affreschi di Palazzo Fava, Bologna, 1984
A. Emiliani, S. J. Freedberg, J. Pope-Hennessy, Nell’età di Correggio e dei Carracci. Pittura in
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A. Emiliani (a cura di), con scritti di M. S. Campanini, G. Feigenbaum, S. J. Freedberg,
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Saggi
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D. Mahon, Studies in Seicento Art and Theory, Londra, 1947
F. Arcangeli, Sugli inizi dei Carracci, in Paragone, 1956
D. S. Pepper, Annibale Carracci ritrattista, 1973
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Finito di stampare nel mese di maggio 2015
presso Modulgrafica Forlivese - Forlì
per conto di Agenzia NFC
di Amedeo Bartolini & C. sas