L`Altra Musica

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L`Altra Musica
Simply Red:
la forza delle emozioni
A Conegliano il concerto
dello storico gruppo
di Mick Hucknall
di John Vignola
U
di eleganza e sobrietà, che fa
quasi dimenticare quanto le radici di questo gruppo di Manchester affondassero, alle origini, nel
punk. Mick Hucknall militava giovanissimo nei Frantic
Elevators, «una band in cui mi sono totalmente sgolato»,
ricorda. Poi, l’esordio come Simply Red nel 1985, con Picture Book, è stato anche l’avvio di una storia che ha coniugato soul, jazz e pop, con una propensione, nel corso del
tempo, sempre più vicina all’ultimo dei tre elementi. Album di ottima fattura (oltre all’esordio, A New Flame, del
1989, e Stars, del 1991), mescolati a lavori più orientati verso il mercato (Life, del 1995, e il ritorno a sorpresa di Home,
nel 2003, con il recentissimo Stay, del 2007, a cui ha fatto
seguito una doppia raccolta di Greatest Hits, entrambe autogestite): amato negli USA e sopportato appena in Madrepatria, Mick ha comunque proseguito per una strada
che alcuni possono considerare stucchevole – con lui in
realtà, agli inizi, c’erano tre ex membri degli indimenticati Durutti Column –, ma che ha invece un sapore raffinato e molto
contemporaneo. Lo dimostrano gli show dal vivo, mai deludenti, e la visione artistica di
questo cantante e songwriter
nemmeno cinquantenne, dai colori rossi, accesi come una buona
canzone black di inizio Sessanta.
In oltre vent’anni di
attività, cosa le sembra che sia cambiato, nell’ambito della
musica pop?
Se ne è andata un po’
d’an ima. Il
soul non c’è
più (gioco con
la parola, che in
inglese significa, appunto,
na strana mistura
Conegliano (Tv)
Zoppas Arena
19 maggio, ore 21.30
Mick Hucknall
anima, ndr) e il resto del pop annaspa. Non sempre, chiaro. Però mancano gli ideali: non è solo un fatto sociale, è
pure una questione estetica.
Ovvero?
C’è un appiattimento, che riguarda un po’ tutta la produzione artistica. Ciò che conta non è, da tempo, l’ispirazione, ma quanto si possa dare al mercato. Un mercato che,
fra l’altro, sta morendo.
L’esistenza, ancora oggi, dei Simply Red, può essere allora considerato un fatto di resistenza?
Beh, io faccio soltanto ciò che so fare: canto e metto in
scena le mie passioni. Siamo vissuti, musicalmente, fra due
decenni, gli Ottanta e i Novanta, vituperati – i primi soprattutto – forse, ma in cui le possibilità di farsi ascoltare
erano molte più di adesso. È stata una fortuna, per cui ringrazio la sorte ogni mattina. Poi, in realtà, esistono diverse
zone in cui il rock, o qualcosa di simile, circola liberamente. Non sono più quelle della grande distribuzione, però.
È impressionante che dica una cosa del genere un personaggio che ha
avuto un successo notevole, anche di immagine.
Mi hanno qualche volta accusato di romanticismo eccessivo. Io, però, nelle canzoni, ho sempre cercato la forza
delle emozioni: quelle che non cambiano mai. Mi piace il
canto confidenziale, è un fatto di stile. Però non ho mai
seguito i trend che giravano attorno a me. Un segreto, se
vuole, dei Simply Red, è di essere rimasti sempre loro stessi: anche quando si poteva pensare che fossero fuori moda.
Quindi, suonare oggi, dal vivo, non ha nulla di nostalgico.
La nostra musica è nostalgica in assoluto. Si tratta di una
componente essenziale, che ricorda al gruppo quali sono
le sue linee di fuga. Non c’è invece rimpianto per i bei tempi andati: non sarebbe giusto per il nostro pubblico. Noi
abbiamo ancora un radioso futuro davanti ai nostri occhi
(sorride, ndr).
Nel corso della sua carriera lei ha interpretato pezzi di leggende viventi come Bob Dylan o Neil Young. Ha un autore preferito, e cosa
pensa che renda un brano davvero indimenticabile?
Il mio preferito forse è Dylan, perché nel corso della sua
carriera è riuscito a fare qualsiasi cosa, a passare da uno stile a un altro con grande originalità. Una canzone indimenticabile è quella che si fa ricordare, ovviamente: il motivo
può essere una melodia forte, un testo toccante, uno strumento che spunta, inatteso, e diventa protagonista. Varianti non programmate che generano un’alchimia unica. ◼
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Sembra facile
cantare una
canzone popolare!
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di Gualtiero Bertelli
no dice: «M a che ci vuole a cantare una canzone popolare. L’ascolti, la impari e poi la canti come
pare a te, come ti piace, come ti viene meglio…»
La questione del «folk-revival», vale a dire di come riproporre il patrimonio popolare, ha invece appassionato, e anche movimentato, una parte significativa del mondo occidentale fin dalla metà del secolo scorso.
Perché un conto è che uno canti una canzone che gli è stata tramandata dalla famiglia o dal contesto in cui vive e lo
faccia così, per stare in compagnia; altra cosa è che lo faccia come professione, come scelta culturale, come espressione della sua creatività, insomma lo faccia da «cantante».
Allora apriti cielo! Ci si infila in un dibattito che, anche
se oggi è un po’ sottotraccia, non ha mai smesso di coinvolgere studiosi, ricercatori, musicisti,
cantanti più o meno
famosi.
Negli Usa, per
esempio, decine di
cantanti, divenuti poi famosissimi
come Bob Dylan,
Bruce Springsteen,
Joan Baez, Pete Seeger, Tom Paxton e
così via fino a Odetta e Harry Belafonte (per citare i nomi più famosi), hanno manifestato il loro culto per quello
Pete Seeger
che viene unanimemente definito «maestro», Woody Guthrie e più volte, tutti, gli hanno devoluto il loro tributo.
Ma c’è una certa differenza tra il modo di riconoscersi nella lezione del folk singer dell’Oklaoma di Dylan, che
con la sua esperienza ha attraversato tutte le forme della
musica americana, dal folk, al blues, al rock e quello di Seeger, rimasto fedele ai modi del canto contadino, alla chitarra acustica e al banjo che ancora oggi, ultra ottantenne,
lo accompagnano nei suoi tour. Tant’è vero che un altro
artista multiforme come Springsteen per realizzare il suo
recente bellissimo tributo a Pete Seeger ha dovuto abbandonare la sua proverbiale «grinta» e la band elettrica e affidarsi a modalità canore meno rock e a strumenti acustici.
Per capirne un po’ di più di questa questione, che non è
affatto di lana caprina, dobbiamo tornare ad Alan Lomax,
che abbiamo incontrato durante la sua campagna di ricerca in Italia negli anni 1954/1955.
Il contributo che questo straordinario uomo di cultura
ha dato allo sviluppo dell’interesse per la folk music nel
suo paese e nel mondo non si è limitato all’enorme messe
di materiali che ha raccolto, ordinato criticamente e, alme-
no in parte, pubblicato. Né si è rivolto soltanto agli aspetti teorici e scientifici strettamente connessi con la ricerca.
Lomax si è dedicato anche ad analizzare le forme della riproposta della canzone popolare, ad approfondire le ragioni, le intenzioni e le tecniche del revival, fino ad alimentare un’ampia discussione che dagli Stati Uniti si è poi riversata in Gran Bretagna e in Italia.
Nella primavera del 1959, con la sua nota di presentazione al disco Folk­ways 3548, Guy Carawan, vol.II, dal titolo I
cantanti urbani di folklore e le loro canzoni, Lomax apriva una discussione epocale su quello che definisce il «folk song revival» senza perifrasi e doppi sensi.
«Una vera folla di giovanotti di città, ricchi di talento e di
ambizione, si è buttata sul “folk-song” con precisa determinazione. Questi “folkniks” o “city-billies”, come vengono general­mente chiamati, partecipano a un gran numero
di concerti, sono in confidenza con i funzionari delle reti
televisive e si danno un gran daffare con gli impresari teatrali (….) Prendono la vera musica popolare e la “tradu­
cono” in maniera da renderla accettabile e quindi fruibile
dai loro “clienti” (una certa borghesia ur­bana di sentimenti radicali e di istruzione media).(...) Quando un canto popolare è estratto dal suo contesto stilistico e “cantato bene” subisce perlomeno una trasformazione, se non si vuol
Milva e Giorgio Strehler
dire che si annulla. Molti sono con­vinti che in questo processo il documento “si mi­gliori” ma questa è una posizione insostenibile. Dal mio punto di vista una canzone popolare ese­guita con stile improprio perde qualcosa di molto importante e forse di essenziale».
Questo saggio scatenò una polemica senza fine, e, naturalmente, i «folkniks», così maltrattati da Lomax, ebbero
molti difensori ed estimatori. Ma vediamo cos’ha provocato questo confronto nel nostro paese.
Roberto Leydi, divenuto nel frattempo autorevole etnomusicolgo e cofondatore del Nuovo Canzoniere Italiano e
dei Dischi del Sole, traduce tutti questi materiali e li pubblica nell’autorevole rivista Marcatre n. 23/24/25 del giugno 1966. Come mai in quel momento, sette anni dopo la
loro divulgazione negli Usa?
Perché in Italia solo allora si stavano creando le condizioni perché un simile argomento potesse avere qualche motivo d’interesse.
I Dischi del Sole sono ormai una realtà consolidata e seguita, si è vissuta l’esperienza Cantacronache e si è svilup-
pato in modo consistente il gruppo del Nuovo Canzoniere
Italiano, si sono fatti due grandi spettacoli di folk-revival
come Bella ciao e Pietà l’è morta e si sta preparando la grande
novità: Ci ragiono e canto con la regia di Dario Fo; c’è stato il
primo folk festival internazionale di Torino e si sta preparando il secondo, è nato l’Istituto Ernesto De Martino…
Insomma sono successe e stanno succedendo mille cose e
i tempi sembrano maturi per aprire una discussione franca su cosa vuol dire riproporre il canto popolare, ora che
il patrimonio italiano sta assumendo una consistenza davvero significativa.
Ma soprattutto è in atto una forte polemica culturale che
Leydi anima in prima persona e che coinvolge personaggi di grande popolarità e peso culturale: Giorgio Strehler
e il Piccolo Teatro di Milano e successivamente lo stesso
Dario Fo.
Sulla scia della grande risonanza avuta dallo spettacolo Bella Ciao presentato a Spoleto nel 1964 (vicenda di cui
avremo modo di parlare in un prossimo articolo) l’interesse per il repertorio popolare andava crescendo e nel 1965
Strehler curò uno spettacolo di canti popolari italiani eseguiti da Milva. La «Pantera di Goro», come veniva allora
chiamata, si esprimeva con una voce potente e ricca di melismi tipici del canto all’italiana; non è ancora la Milva di
Peppino Marotto e coro di Orgosolo-InCanto 1995 (foto di Angela Chiti)
«Io Bertolt Brecht», certamente più consapevole del senso interpretativo in relazione ai diversi repertori, e soprattutto ha poco a che vedere con quei modi propri del canto
popolare che Leydi definiva «specifico stilistico» al quale
si doveva far riferimento ogniqualvolta si attivavano operazioni di folk-revival. Insomma è giunto il momento di
dare illustri padrini alla riflessione su che cosa vuol dire
riproporre il canto etnico e Leydi non può che far riferimento alle elaborazioni del suo maggiore referente e amico Alan Lomax.
Approfondiremo nel prossimo numero che cosa si intenda per «specifico stilistico» e quali vicende si svilupparono
attorno a questo assunto teorico.
Torniamo invece alla polemica tra Leydi e Strehler,
che, a quel che mi risulta, erano anche in ottimi rapporti personali.
Leydi attaccò lo spettacolo di Milva dalle pagine dell’«Europeo», settimanale di cui era collaboratore, sostenendo
che quel tipo di interpretazione depotenziava la forza anticonvenzionale che il canto popolare portava in sé. Gli fu
risposto con le stesse argomentazioni che furono utilizzate
per contrastare le osservazioni di Lomax: «Se il canto popolare, rivissuto nell’esperienza dei cantanti urbani, è valido anche per una società moderna e industriale non mancherà una comunicazione emotiva reale e concreta, anche
se profondamente diversa da quella tradizionale e originale» (John Cohen, Una risposta ad Alan Lomax: in difesa dei cantanti popolari urbani, da «Sing out», estate 1959).
In buona sostanza il ragionamento è il seguente: se vuoi
che la musica popolare, contadina in particolare, non muoia e parli anche alle nuove generazioni, devi reinterpretarla, rivestirla di suoni e significati nuovi, darle ulteriori «paternità».
Sono trascorsi da allora oltre 40 anni, ne abbiamo viste e
sentite molte, ma la riflessione evocata continua a sollevare curiosità, perplessità, storiche divergenze.
L’incolpevole «vittima» di quell’ardente polemica fu,
pensate un po’, Luisa Ronchini, la cantante popolare veneziana per eccellenza.
Nel 1964, prima che decidessimo di formare il Canzoniere Popolare Veneto, Luisa aveva avuto dei contatti con
i Dischi del Sole e le era stato proposto di registrare un EP
con 5 canti popolari veneziani da inserire nella nuova collana curata da Leydi sui canti delle diverse regioni.
Roberto stesso le fece avere una copia
di alcuni brani registrati da
Lomax a Pellestrina e alcuni altri li aveva
raccolti lei dalla voce della signora Tilde, la
padrona della
casa dove aveva affittato una
camera.
Aveva preparato le canzoni con la colWoody Guthrie
laborazione di
Franco Baroni, chitarrista
classico, e nell’interpretazione aveva messo tutta la sua foga melodica, mutuata dalla grande passione che lei aveva
per il canto all’Italiana.
Andò a Milano a registrare il disco Nineta cara verso la fine del mese di ottobre. Ne uscì un prodotto assolutamente
perfetto dal punto di vista formale, ma ben lontano dal famoso «specifico stilistico» del canto popolare. E fu pronto
proprio nel bel mezzo della polemica tra Leydi e Strehler
cui prima ho fatto cenno.
Leydi, responsabile della collana, bloccò la pubblicazione
del disco; ci furono furenti reazioni di Luisa e imbarazzi da
parte dei suoi interlocutori presso le edizioni.
Alla fine l’oggetto del contendere uscì, in sordina per
la verità, attorno alla metà di agosto del 1965, ma un’altra Luisa stava già crescendo, quella che abbiamo amato tutti. Seppe condividere alcune critiche e sviluppare nuove modalità d’analisi; di conseguenza modificò di molto non tanto e non solo il suo stile interpretativo, quanto il modo con cui da allora ha saputo avvicinarsi al canto popolare e alla sua ricerca. ◼
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Approda in Veneto
«Jannacci Tour 2009»
T
di Guido Michelone
orna a esibirsi in Veneto Enzo Jannacci, uno dei
buoni «maestri», dei padri storici della canzone italiana: sabato 16 maggio è di scena all’Auditorium Maxilive di Costabissara con il suo ultimo spettacolo, chiamato semplicemente «Jannacci Tour 2009», che riprende forme e contenuti degli ultimi lavori musicali. Sotto quest’ultimo punto di vista Jannacci sta di nuovo scalando i vertici del-
rie come ama definirsi) ribadisce, senza troppo preoccuparsi degli anni che passano. In fondo non è molto diverso, artisticamente parlando, lo Jannacci di oggi da quello di ieri,
quando cantava le case di ringhiera, gli amori di periferia, la
miseria e la povertà che si celavano dietro i nuovi grattacieli
o le vetrine luccicanti del boom economico. Benché egli non
ami definirsi cantautore impegnato o politico – anche per
la vis comica quale elemento fondante del modo di scrivere e interpretare i brani, in piena simbiosi fra testo letterario
e accompagnamento musicale – Jannacci fa comunque parte, ormai da cinquant’anni, di quella Milano intellettuale in
senso organico, quasi una concreta inconscia messa in opera
del nazional-popolare di gramsciana memoria. Con Jannacci c’erano o ci sono il teatro-canzone di Giorgio Gaber, il te-
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Negli anni settanta
Enzo Jannacci
Con Cochi e Renato, Canzone intelligente, 1973
atrino dei Gufi, il Piccolo di Paolo Grassi e Giorgio Strehler,
la notorietà, grazie alla pubblicazione di un dvd-cd per Alale commedie o i monologhi di Dario Fo e Franca Rame, gli
bianca intitolato The Best, che raccoglie ovviamente il meglio
stornelli di strada di Franco Trincale, i libri di Giangiacomo
di un’opera vicina al mezzo secolo di vita. Era infatti la fine
Feltrinelli, il giornalismo di Beppe Viola, le cronache di Cadegli anni cinquanta quando un giovane studente di Medicimilla Cederna, il piano jazz di Renato Sellani, Enrico Intra,
na di origini meridionali calcava i palcoscenici di quella che
Giorgio Gaslini, i cabarettisti del Derby, il diario e la semiallora risultava la Milano alternativa: si parlava di canzoni
ologia di Umberto Eco, i disegni animati di Bruno Bozzetdella mala, ma il giro degli artisti era quello del jazz, del cabato, fino al ricambio generazionale dei Maurizio Nichetti, dei
ret, del folk, del nascente rock and roll, persino della scuola
Gabriele Salvatores, dei Gaetano Liguori, delle Angela Figenovese di cantautori ormai trasferitisi nel capoluogo lomnocchiaro, dei Claudio Bisio, degli Augusto Bianchi Rizzi.
bardo per via della casa discografica Ricordi. Jannacci timiPochi hanno seguito le direzioni indicate da Enzo Jannacci
damente presentava le sue ballate, a volte swingate, spesso
nella musica e nella canzone: rimane solo lui con le varie «El
in dialetto meneghino, mettendo subito d’accordo pubblipurtava i scarp del tennis», «Ho visto un re», «Faceva il palo»,
co e critica grazie a una comunicativa stralunata particola«La fotografia», «Sei minuti all’alba», «Venrissima, che mescola surrealtà e humour nego anch’io no tu no», «Io e te», «Parlare con i
ro, parodia e sberleffo, romanticismo e dilimoni» a testimonianza di una stagione forsincanto: doti che tutt’oggi si possono apCostabissara (Vi)
se irripetibile della canzone e della vita culprezzare proprio nel senso di continuità che
Auditorium Maxlive
turale milanese e, per esteso, di tutt’Italia. ◼
lo stesso moderno menestrello (o contasto16 maggio ore 21.30