Porfirio Rubirosa, il seduttore noioso che aveva paura delle donne

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Porfirio Rubirosa, il seduttore noioso che aveva paura delle donne
DOMENICA 11 GENNAIO 2009
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
Porfirio Rubirosa, il seduttore noioso
che aveva paura delle donne
ORIANA FALLACI
entirei se affermassi che l’incontro con Porfirio Rubirosa mi lasciava del tutto indifferente. Sebbene il signor Rubirosa mi abbia sempre turbato pochissimo, anzi per niente, un poco eccitata lo ero: ammettiamolo. È bruttacchiolo, e va bene. Ha un profilo da negroide, e va bene, gli occhi piccoli come fragoline di bosco, e va bene. Se non sapessi che è Rubirosa non mi girerei neanche a
guardarlo, e va bene. Ma qualcosa, pensavo, deve
pur avere questo Porfirio se gli basta l’alzata di un
sopracciglio per portarsi a letto tutte le donne che
vuole e sposarsi tutte le miliardarie che crede.
Qualcosa che prescinde, è evidente, dal suo aspetto fisico e magari dalle sue capacità di amatore:
dopotutto esistono uomini che al primo sguardo
non ti dicono nulla e dopo dieci minuti ti fanno
perder la testa. Sicché per incontrarlo (non si sa
mai) m’ero messa il mio migliore Chanel, m’ero
fatta la messa in piega da Alexandre, avevo curato fino allo spasimo il mio maquillage. E il profumo! Avreste dovuto sentire il profumo. Come
un fiore, olezzavo. [...]
La casa di Rubi (le sue donne lo chiaman così) è a Marnes-la-Coquette, venti minuti d’auto da Parigi. Lasciai Parigi un’ora prima dell’appuntamento, giunsi a Marnes-la-Coquette con quaranta minuti di anticipo. Aspettai
nel salotto cinquantacinque minuti giacché
egli scese con un certo ritardo. E quando entrò soffocato dal mio profumo di fiori, soffocandomi col suo odor di lavanda, tanto stirato e perfetto che nessuno avrebbe potuto
rimproverargli una piegolina, un capello
fuoriposto, un bottone sganciato, arrossii
leggermente. Così dice il fotografo. Del resto anche Rubi arrossì: un rossore, dice il
fotografo, che stava al mio come un pomodoro maturo sta a un guscio d’uovo.
Ciò, conquistandomi, mi rinfrancò a un tale punto che cominciai subito a sistemare il magnetofono, a fare le prove: «Pronto, pronto. Prova uno-due-tre-quattro.
Prova uno-due-tre-quattro». Poi alzai la testa, con un bel
sorriso, e il sorriso si spense: il pomodoro maturo
era stinto in qualcosa che stava
tra il guscio dell’uovo ed il torlo.
Quanto alle fragoline di bosco
fissavano il vuoto, perdute, come
se, avendo trascinato in alcova
Elizabeth Taylor, Rubi si fosse ritrovato fra le braccia che so io,
Nikita Krusciov.
Apriva la bocca, la richiudeva. Inghiottiva saliva, espirava. Si stringeRIODICI
FOTO RCS PE
M
va con mani di tenaglia i ginocchi, tremava quanto ho visto tremare soltanto il mio Yorkshire Terrier che è il cane
più freddoloso del mondo: il giorno in cui lo lavai in un torrente e lo misi ad asciugare sotto un pallido sole. E non solo tremava, sudava: goccioloni di ansia che dalle tempie
percorrevano in rivoli il volto abbronzato e cadevano
dentro il colletto a due o tre per volta, toc-toc, toc-toc-toc.
Nel silenzio totale che era caduto tra lui e il mio stupore
sembrava quasi di udir quel toc-toc: mi sentivo come una
strega che sevizia un bimbo innocente e non comprende
l’infamia che sta commettendo. Cercai di spiegargli che
non gli avrei fatto del male: da un punto di vista patologico, anzi, la conversazione sarebbe stata del tutto indolore. Rispose che il magnetofono lo innervosiva, se non lo
chiudevo non avrebbe incominciato a parlare. Chiusi il
magnetofono, presi penna e taccuino. Non ottenni nulla
di più. Riaprii il magnetofono, incoraggiai e supplicai. Rispose che non aveva niente da dire. Gli chiesi perché allora mi avesse dato l’appuntamento. Tacque e ritacque.
Poi smise di tacere per dirmi che non capivo il riguardo
che mi aveva usato: detesta i giornalisti, i giornalisti sono
stupidi, i giornalisti sono bugiardi, i giornalisti sono infami, mai nella sua vita aveva accettato di parlare con un
giornalista, tale eccezione era un sacrificio per me... e poi
tacque. Tacque e ritacque. Impiegammo quasi due ore
per incidere un nastro di trenta minuti. L’intervista che
leggerete è il più eroico lavoro di cucitura che sia mai stato fatto dal tempo in cui i cavernicoli si cucivan le pelli con
le spine di pesce. Cucitura? Mosaico. Da allora, quando
vo in San Vitale a Ravenna, esclamo orgogliosa: «Sì. Però
io ho composto l’intervista con Rubi». Nemmeno la duchessa d’Alba mi fece tanto soffrire: persi in questa intervista tre chili, quanti ne ha persi Gordon Cooper nel suo
viaggio spaziale, quanti ne perde un obeso che per due
settimane sta a frutta e caffè. Il ritratto che segue non è
esattamente il ritratto di Porfirio Rubirosa: se avessi dovuto riportare la conversazione nel modo in cui si svolse,
il mio direttore mi avrebbe cacciato. Però non mi pento
di aver presentato Rubi più loquace di quello che sia: i suoi
amici mi giurano che con gli altri la conversazione di Rubi è squisita, si sta ad ascoltarlo quasi fosse Demostene.
Alcuni suoi amici sono, strano a dirsi, miei amici. E mi vedo costretta a non dubitarne.
Finito il tormento andammo in giardino dove c’era la
quinta moglie di Rubi, Odile Rodin, e un’ospite di Rubi,
Elsa Martinelli. Colpita dal mio scoramento la Martinelli
spiegò che Rubi è assai timido e la timidezza è una virtù
molto chic. Poi mi chiese quali altre virtù avessi colto in
lui. Risposi non so, non saprei, e perché diavolo piace tanto alle donne? La Martinelli osservò che è un tale brav’uomo. Aggiunse che, siccome era un tale brav’uomo, avrebbe accettato di rivedermi. Grazie a Dio, non accettò.
© 1963-2009 RCS Libri S. p. A., Milano
Uno schiaffo al grande Ordoñez,
torero dal sangue andaluso
L’
NE PRIVATA)
CI (COLLEZIO
FOTO FALLA
FOTO FARABOLA
FOTO GIANC
ARLO DOTTI
invito di Ordoñez era alla finca di
Valcargado, la grande proprietà
dove alleva i suoi tori, duecento
chilometri da Siviglia, passato Jerez, nell’estremo Sud della Spagna. L’appuntamento era a un bivio, nel punto dove la strada diventa viottolo e proseguir senza guida
è impossibile: qui Ordoñez avrebbe aspettato con la Land Rover per condurre alla finca me e la cuadrilla. Coloro che Ordoñez
chiamava cuadrilla, termine con cui viene indicato in Spagna il gruppo che accompagna il
torero, erano i miei amici: Marco, il fotografo,
e Mercedes, la fidanzata di Marco. Glieli avevo presentati a Madrid, qui infatti dovevamo
far l’intervista. Ma un toro s’era ammalato e
Ordoñez era corso a curarlo. [...]
Lo trovammo al bivio, con la sua Land Rover. Era vestito da contadino, stivali di pelle,
cappellaccio di paglia, irriconoscibile, e il
suo sguardo era ancora più puro, il suo sorriso ancor più innocente. Quando fummo
scesi dalla nostra automobile ci caricò sulla sua, mormorò Buenos días, e partì. Durante il viaggio ruppe il silenzio solo per accennare con un movimento di testa a una
mandria: «Toros». A Valcargado, una casa
bianca di calce, posata su una collina di
sassi, frenò e indicando sei uomini disse:
«Amigos». [...] Quando gli chiesi come stava il suo toro rispose «Mejor, muchas gracias, mejor»; e nient’altro. Avrebbe dovuto parlarmi più tardi, non vedeva ragioni
per sprecare parole anzitempo. Riaprì
bocca solo per annunciare che il pranzo
era pronto e farci passare in un salone
tappezzato con teste di toro: i trofei delle sue migliori corride. [...] D’un tratto
voltò a tutti le spalle e mi disse «Vamos a
hablar».
Fu una strana intervista. Ogni risposta era preceduta da un lungo pensare,
un raccoglimento che aveva il sapore
di un rito, e solo dopo quel rito pronunciava la frase: lentamente, inequivocabilmente, con la voce bassa e
profonda che, ora capivo, ricordava il
muggito di un toro. Parlando mi fissava nelle pupille, quasi fossi stata un
pericolo da non perder di vista. [...]
Dicendo: «Usted es una mujer, no
puede entender» si torceva le dita in
uno scricchiolare di nocche e lo diceva col tono d’aver fatto una scoperta abbagliante, allo stesso tempo un po’ sconveniente. Il sangue andaluso gli bolle addosso come il cattolicesimo, la tentazione di lasciarsi andare al peccato lo buca come l’orror del
peccato; tutti gli anni si ritira dieci giorni coi preti a far
gli esercizi spirituali e si batte il petto con la stessa violenza con cui batterebbe un covone di grano. Malgrado ciò è molto buono, di rado ho incontrato qualcuno
FACCIA A FACCIA
Dall’alto in basso,
tre interviste
“d’epoca” di Oriana Fallaci:
Alfred Hitchcock,
Porfirio Rubirosa,
Antonio Ordoñez
A sinistra, un ritratto
della giornalista nel 1963
che avesse una così cieca fiducia nel Paradiso, un così
irrazionale ottimismo negli uomini, nelle bestie, negli
alberi, nell’intero creato. Uomini e tori sono tutti figli di
Dio, quando muoiono volano al Cielo: e nessuno mi leva il sospetto che in tanta francescana bontà uccida i tori per vedergli spuntare le ali, salire tra i martiri e suonar
trombe d’oro. Il mondo, per lui, non è forse un immenso animale con quattro zampe e due corna? Hemingway non lo amava forse per questo? [...] Il discorso mutò. E si concluse con la decisione di venire a Siviglia. [...]
Lo trovammo alle sette, con una lussuosissima Bentley, tutto vestito di blu ma senza cravatta, ci demmo alla scorribanda con lui e altri due toreri, «mi amigos».
Osterie, e poi ancora osterie, e poi ancora osterie: e un
cielo stellato, una deliziosa Siviglia. Don Antonio era allegro, perfetto. [...] Capitava ogni tanto che il suo sorriso tornasse un po’ meno innocente, il suo sguardo un
po’ meno puro, però mai, proprio mai, egli fece qualcosa che potesse irritarmi. Se la notte si fosse conclusa
con la coerenza dei tori, sembravan dire i suoi occhi, come di regola si conclude la compagnia un po’ prolungata di un toro maschio e di un toro femmina, tanto meglio: lui non chiedeva un bel niente, non offendeva il Signore. Invece, inaspettata, esplose la rissa.
Uscendo dall’albergo avevamo fatto una scommessa, io e lui: se mi fossi divertita, cosa di cui dubitavo, gli
avrei pagato duemila pesetas. E alle due del mattino,
mentre in una osteria di toreri assistevamo a un flamenco, fu chiaro che non avrei potuto non dargli le
duemila pesetas. I suonatori di flamenco che lui aveva
scelto erano tra i migliori di Spagna, le loro dita sfioravano le chitarre come le dita degli angeli, la loro voce arrivava alle viscere. Cantando sembravano vomitare l’anima e il cuore ed ogni strofa mi riportava alla Spagna
che avevo imparato ad amare con le poesie di García
Lorca e i racconti di Hemingway. Ballavano inoltre come non ho mai visto ballare il flamenco, si dimenticava guardandoli che erano brutti e vestiti da poveri; e mi
facevan pensare, chissà perché, ai poveri che sulle barricate di Barcellona o Bilbao erano morti gridando Viva la Libertad. Mi voltai verso Antonio per dirgli è strano, lo sai a chi mi fanno pensare? Ai poveri che sulle barricate di Barcellona o Bilbao morivan gridando Viva la
Libertad. Don Antonio stava frugando nella mia borsa,
afferrando tutti i soldi che v’erano dentro: un bel po’ di
pesetas, più delle duemila che aveva ormai vinto. E prima ancora che potessi impedirlo gridò: «Mi son guadagnato la sera e da questo momento fo tutto gratis. Tenete, bevete. Alle americane di Boston fo pagare di più».
Poi lanciò il mucchietto di fogli che si librarono alti come coriandoli, planarono lenti come aquiloni. Le chitarre caddero rumorosamente per terra, le pesetas sparirono dentro mani avide, uno schiaffo sonoro si abbatté sulla guancia rasata del torero más grande de
España mentre gridavo: «Vaccaro, fascista!». Poi mi alzai seguita da Marco e Mercedes, il volto olivastro di lui
era diventato color della cera. Marco e Mercedes tentavano inutilmente di spiegarmi che aveva bevuto un po’
troppo, avevamo tutti bevuto un po’ troppo.
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Repubblica Nazionale