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n° 368 - gennaio 2015
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Molto più di un fumetto
Un viaggio attraverso la “Pop Art” di Roy Lichtenstein alla GAM di Torino
L’uomo contemporaneo è sempre più
circondato di immagini, a volte ne
viene sopraffatto, l’uso delle moderne
tecnologie permette di immortalare
e riprodurre qualunque frammento di
vita, rendendolo sì indimenticabile
perché bloccato nel tempo, ma anche
una semplice goccia in un oceano privo
di unicità. L’immagine è qualcosa che
da sempre cerca di preservare la memoria, inizialmente come memoria
del mondo della spiritualità e del potere, per poi diventare patrimonio
di tutti, fino a essere oggi un vero e
proprio “consumo di massa”, tramite
marchi di prodotti, notizie, pubblicità e media in generale.
Un forte cambiamento del valore dell’immagine, conseguentemente dell’arte, è stato avvertito negli anni ’50
del Novecento, inizialmente nel Regno Unito, e poi soprattutto negli
Stati Uniti, dove ha avuto origine il
fenomeno denominato “Pop Art”, che
si poneva come rifiuto dell’eccessivo
intellettualismo dell’Espressionismo
astratto, basando invece la propria
forza sui beni comuni, disponibili a
tutti in ogni momento - pubblicità,
fumetti, news, prodotti commerciali di vario genere, dalle zuppe ai detersivi.“Pop Art” viene dall’abbreviazione di popular, termine con cui non
si indica il concetto di “popolare”, ma
piuttosto “di massa”; la “Pop Art” non
vuole essere una provocazione nello
stile Dada, né un messaggio sociale,
non vuole stimolare nessun tipo di ribellione, è più che altro una constatazione del mondo che cambia, dei nuovi
metodi di produzione, dell’affermazione della nuova società dei consumi,
della riproducibilità in serie di un
qualsivoglia oggetto, senza intenti di
critica o allarmismi; senza voler astrarre
dalla nuova realtà cerca invece di includerla nel mondo artistico, creando
nuove categorie, nuove forme disponibili: l’arte dovrà mettersi al passo
con i tempi e diventare un fenomeno
di massa, quindi non più godimento
per pochi, ma narrazione della storia di tutti, dall’operaio, al ricco industriale, dalla sarta allo stilista d’alta
moda. Roy Lichtenstein e Andy Warhol danno avvio alla “Pop Art” negli Stati Uniti e cominciano a usare i
fumetti e le pubblicità come fonte
d’ispirazione per le proprie opere, indipendentemente l’uno dall’altro; Topolino e Braccio di Ferro non sono più
personaggi per appassionati lettori di
giornalini, ma diventano vere e proprie opere d’arte; i titoli stessi delle
creazioni di Lichtenstein suonano anomali, o meglio onomatopeici, Takka
takka, Varoom, Crak, Whaam! e la tela
stessa sembra gridarli.
Questo nuovo tipo di arte incontrò
forti opposizioni, perché sembrava
quasi una provocazione verso la profondità emotiva dei dipinti degli espressionisti astratti: i critici tradizionali,
che avevano da poco digerito le novità
del dripping di Pollock, non apprezzavano questa nuova tendenza che si
stava manifestando nella produzione
artistica, e non celarono il loro disappunto, tanto che nel 1964 un articolo
di Life su Lichtenstein si intitolava “È
il peggior artista americano?”
Il confine fra arte e design diveniva
molto sottile con l’avanzare della “Pop
Art”, motivo per cui si cercava ogni
modo per poterla criticare sottolineandone ad esempio la banalità; non
era certo la prima volta che il mondo
dell’arte si apriva a quello della massa,
ma fino a quel momento si era trattato di una prassi utile ad alleggerire contenuti troppo seri con note più
basse ed aggressive, mentre con la “Pop
Art” sembrava che avvenisse il contrario, e oggetti comuni divenivano
indiscussi protagonisti. Lichtenstein fu accusato di copiare banalmente
i fumetti e quindi di mancare di originalità, niente di più falso, però,
Study for Pop! - Collezione Marsha and Jeffrey
Perelman
© Estate of Roy Lichtenstein / SIAE 2014
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Still Life with Mirror (Study) - Collezione privata
Oh, Jeff...I Love You, Too...But... (Study) - Collezione privata
© Estate of Roy Lichtenstein / SIAE 2014
© Estate of Roy Lichtenstein / SIAE 2014
visto che la sua “copia” avveniva in
modi tutt’altro che scontati; l’artista
selezionava accuratamente una o più
tavole da una striscia di fumetti, dalle
quali ricavava qualche schizzo, che
trasferiva poi sulla tela senza mai ripetere il fumetto in ogni sua parte;
una volta tracciata l’immagine sulla
tela adattandola al piano pittorico, la
riempiva di punti attraverso una griglia, una sorta di mascherina per lo
stencil, usando colori primari e contorni spessi che facessero risaltare le
figure; iniziava il disegno dalle parti
in luce per poi passare il nero pesante
dei contorni. Nonostante apparisse
come una semplice riproduzione di
un comune fumetto, la sua opera era
in realtà uno studio e un’accurata
unione di riproduzione meccanica e
lavoro manuale, tanto che riusciva difficile distinguere l’uno dall’altra. Forse
la tecnica di Lichtenstein è da considerare come il grido di un uomo che
si sente sopraffatto dalle moderne tecnologie e che cerca di imitarle, mettendosi prima al loro pari e poi cercando di superarle. L’artista si interessa allo studio della percezione vi-
siva per tutto l’arco della sua carriera
e fa del puntino Ben Day la propria
originalissima sigla, rubando la tecnica della retinatura alla tipografia; i
puntini non sono utilizzati alla maniera del Pointillisme per far apparire
omogenea la pittura a una certa distanza, ma piuttosto per dare l’idea
della stampa, utilizzando un retino tipografico di dimensioni esasperate.
L’inventore del “Ben Day Rapid Shading Medium” era stato Benjamin Day
che nel 1878 aveva escogitato una applicazione “industriale” per i principi
ottici sviluppati nel XIX secolo dai
teorici del colore. Il carattere sensazionale e innovativo del puntino di
Lichtenstein stava nell’interpretazione
della realtà, che aveva subito un cambiamento radicale, in virtù del quale
la vita era mediata da tutta l’immane
mole di immagini che venivano stampate e trasmesse.
Lichtenstein affermava ironicamente:
«In quasi mezzo secolo di carriera
ho dipinto fumetti e puntini per soli
due anni. Possibile che nessuno si
sia mai accorto che ho fatto altro?»;
in effetti basare tutta l’opera di Li-
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chtenstein solo sulla fase dei puntini
può rappresentare un limite per capire il lavoro dell’artista; per superare
questo ostacolo la GAM, Galleria di
Arte Moderna di Torino, ospita nelle
sue sale dal 27 settembre 2014 al 25
gennaio 2015, ben 235 opere di Roy
Lichtenstein che illustrano la nascita
e l’evoluzione della tecnica del Ben
Day nel suo percorso creativo; insieme
a disegni che vanno dai primi anni
Quaranta al 1997, sono presenti alcune grandi opere, che sono documentate anche da un apparato fotografico
dell’artista a lavoro. La mostra, curata
da Danilo Eccher, direttore della GAM,
è incentrata sull’Opera Prima, cioè l’origine dell’opera di Lichtenstein, le sue
fonti d’ispirazione, gli schizzi e i bozzetti e infine sulla sua opera compiuta.
Dai lavori in mostra è possibile percepire il mondo della fantasia e del sogno che si apre nelle creazioni di Lichtenstein, come accade in quelle di
Mirò e Dalì, da cui l’artista pare prendere spunto in alcuni disegni: occhi
in mezzo ad una nuvola o ad un orecchio, figure scomposte, non solo nella
tecnica di disegno, che usa in questo
caso linee e tratti più che punti, ma
anche in senso fisico, con bocche verticali e oggetti di una malleabilità e
fluidità inverosimili, danno l’idea che
Lichtenstein voglia comporre dei rebus con le sue figure; alle origini della
sua opera vediamo quindi riferimenti
al surrealismo e al dadaismo, ma più
come forma di studio e ricerca che non
per ragioni sociali; indaga le forme,
ma lascia perdere i messaggi, la sua
è pura creazione. È facile cadere nella
tentazione di considerare Lichtenstein
come semplice imitatore, ma è molto
più di questo, la sua arte non è sola
imitazione, trae ispirazione da un
mondo comune agli occhi di molti per
arrivare a qualcosa di più alto, per arrivare ad una vera rappresentazione
artistica avvalendosi di soggetti considerati “banali”, riuscendo con questi anche ad avvicinarsi alle pure astrazioni. Spesso l’arte contemporanea
pone di fronte a figure che si dissolvono nello sfondo, per abolire la profondità e dare totale piattezza alla superficie; Lichtenstein, come gli altri
artisti pop, dà invece l’illusione dello
spazio e la realtà di fatto della superficie, come se i personaggi dei fumetti
avessero usurpato lo spazio metafisico
delle figure geometriche di Malevich.
Prima di approdare alla “Pop Art” Lichtenstein aveva fatto esperienza con
uno stile espressionista, poi con un
falso stile popolare con cui adattava
temi americani, e per breve tempo con
composizioni astratte; padroneggiava
senza problemi una serie di tecniche
di stili modernisti e di artifici delle
avanguardie, come la pennellata gestuale con cui tracciare un’ombra o
una macchia bianca per un riflesso, le
forme astratte per la griglia, la pittura
monocroma, il ready-made, l’immagine ritrovata. Tutto questo è tenuto
insieme nella sua opera dai soggetti
ispirati ad annunci pubblicitari e fumetti, da quella modalità figurativa
che l’arte di avanguardia aveva cercato
di rovesciare.
Nel 1967 affermava «Non disegno
un’immagine per riprodurla, ma per
ricomporla. E non tento in tutti i modi
di cambiarla, ma cerco di produrre il
più basso numero di variazioni»;
qui sta il nucleo della creatività di Lichtenstein: copiare immagini stampate ma adattarle a parametri pittorici. Matisse, Mondrian e Léger sono
tutti presenti nei suoi quadri, letti attraverso i fumetti: l’ambiguità fra ombre e luci di Picasso, i colori primari
di Mondrian, le figure semi caricaturali di Léger, il contorno marcato e
soave di Matisse. Sul proprio linguaggio pittorico Lichtenstein affermava:
«È legato al Cubismo nella stessa misura in cui lo è il cartone animato. C’è
un rapporto tra i cartoni animati e artisti come Mirò o Picasso, che magari
gli stessi disegnatori di cartoni non
colgono, ma che è già presente nel
primo Disney».
L’indagine sulla Opera Prima di Lichtenstein è fondamentale per capire
il percorso dell’artista, vedere cosa lo
ha portato a determinate scelte e come
ha dato vita ad una sorta di democratizzazione dell’arte che continua ancora oggi.
elena aiazzi
Study of Hands - Collezione privata
© Estate of Roy Lichtenstein / SIAE 2014