Nietzsche Il filosofo impara dalla vita. Impara anche dagli altri filosofi

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Nietzsche Il filosofo impara dalla vita. Impara anche dagli altri filosofi
Nietzsche
Il filosofo impara dalla vita. Impara anche dagli altri filosofi, dai loro libri, ma
impara soprattutto dalla vita. Schopenhauer cita tra i suoi maestri Kant, Platone e gli
orientali, ma sottolinea sempre che la prima maestra è stata per lui la vita. Ciò
nonostante, per capire bene un filosofo, bisogna sapere a chi è succeduto e a chi ha
reagito nella storia della filosofia. L’ha detto tra gli altri Bergson, senza dire con ciò
granché di nuovo: ogni filosofo pensa in reazione a un altro pensatore. Si applica ai
filosofi la legge che uno dei primi filosofi greci, Anassimandro, applica a tutti gli
esseri: sono tutti commessi alla fine, “secondo l’ordine del tempo”, per una legge di
giustizia. Cioè perché, con l’unilateralità che ciascuno rappresenta e non può non
rappresentare, infrangono l’unità, la compattezza, l’integrità, l’universalità della vita.
Il filosofo successivo è dunque la correzione e l’incremento, per contrasto e
integrazione, del filosofo precedente, in corrispondenza – è importante notarlo – della
successione delle epoche, che essi sempre rappresentano e che sono, come ha detto
Platone, le facce cangianti dell’eternità. Qui eternità equivale a unità, compattezza,
integrità, universalità.
Dunque per capire bene Nietzsche è importante notare quale sia stato il suo
maestro e a chi egli, con la sua opera, reagisca. Il maestro di Nietzsche, l’unico suo
maestro, come egli stesso ha detto, pur essendo stato influenzato da decine di autori, è
stato Arthur Schopenhauer. Vedremo che Nietzsche reagisce, nel modo più
grandioso, a Schopenhauer e al suo pessimismo, anche se non con un sistema
filosofico opposto, come magari avrebbe voluto ma che non era nelle sue corde, bensì
con un chiasma, attuato con i mezzi a lui propri di moralista-poeta.
Ma cominciamo dal principio, visto che, come si dice, “lo stile è l’uomo”. E
diciamo quale è stata la molla che ha messo in moto il cuore e la mente di Nietzsche,
che cosa lo ha indotto a filosofare. Ebbene, Nietzsche, come in genere i grandi,
comincia, si può dire, con una specie di pigrizia. Questa consiste nell’abbandonarsi
alla vita e alla propria natura senza una direzione particolare e senza far conto
dell’esterno. Nietzsche era per indole dolce e mite, semplice, socievole, affettuoso,
aperto alle amicizie, insomma quello che si può definire una persona normale. Come
tale tendeva a una vita normale. Queste caratteristiche egli conservò,
compatibilmente con le tempeste che scossero la sua vita, per tutta la sua esistenza,
come testimoniano le descrizioni di coloro, uomini e donne, che lo conobbero da
vicino, e come testimonia la sua vita ordinaria, documentata da un folto (e splendido)
epistolario. Ciò è vero a tal punto che gli interpreti, ancora oggi, non si sanno
spiegare come mai a un’opera così straordinaria come la sua corrisponda una vita così
“banale”, così ordinaria. Il fatto è che nella “normalità” di Nietzsche c’erano
comunque delle particolarità. Egli era un poeta nato, un poeta con ala cosmica, che si
era nutrito della più grande cultura. Era un allievo dei classici, in particolare di
Goethe e della Goethezeit. Era soprattutto un uomo di radicale dirittura e onestà.
Se ne sarebbe stato dunque tranquillo, se non avesse ben presto incontrato sul
suo cammino la falsità, l’ipocrisia, l’illusione e la menzogna, cioè la stortura e la
disonestà. Già da ragazzo tutto questo aveva messo in crisi la sua fede cristiana. In
1
seguito mise in crisi la sua fede in molte altre credenze, dalle più antiche alle più
moderne. La sua opera è un’opera di reazione. È nello stesso tempo un terremoto,
perché le cose umane con cui lui se la piglia: religioni, morali, sistemi filosofici,
tradizioni, istituzioni, costumi, sono impastate di vero e di falso, di autentico e di
inautentico. Tutte cadono quindi immancabilmente sotto i colpi del suo martello
critico (“Come si filosofa col martello” è il sottotitolo del suo Crepuscolo degli idoli).
Ma questo suo aspetto di demistificatore non è l’unico che lo caratterizza. Perché egli
era inoltre poeta, come abbiamo detto, profeta, psicologo e acuto indagatore della
décadence, come la chiama, cioè della crisi del suo tempo, che poi il suo seguace
Oswald Spengler chiamerà il tramonto dell’Occidente. Come si spiegano e stanno
insieme tutti questi aspetti della sua opera? Finora queste cose sono state esaminate
separatamente, e molti interpreti ritengono che questa pluralità di talenti contrastanti
sia stata il dramma di Nietzsche. In realtà essi sono collegati tra loro e formano
insieme un solo organismo spirituale, certo non facile da decrittare. Non avendo visto
ciò, molti interpreti, tra i più competenti, ritengono Nietzsche, nella sua straripante
ricchezza e “indomabile” varietà, un enigma insolubile. Non bisogna, dicono,
neanche cercare di risolverlo. Abbiamo per esempio Rüdiger Safranski, che dice:
Di Nietzsche non si può venire a capo. Neanche lui è venuto a capo di se stesso.1
Ciò che è vero soltanto, parzialmente, nella seconda parte. Per Karl Jaspers
Nietzsche è inesauribile. Egli non rappresenta un problema che possa essere risolto nella sua
interezza.
Per Gottfried Benn, che tale giudizio riporta nell’Introduzione ai Ditirambi di
Dioniso,2 questa frase è una
frase assai significativa! Con criteri europei moderni in realtà Nietzsche non può essere risolto,
appartiene alle ‘parole primordiali’” [Urworte].3
Infine, il grande biografo di Nietzsche, Curt Paul Janz, spiega che Nietzsche ha
lasciato un’opera che ci starà sempre davanti come uno stimolo, che nella sua molteplicità offre
bensì varie possibilità di accesso e di interpretazione, ma non potrà mai essere abbracciata nella sua
totalità da un singolo osservatore, misurata da un singolo rielaboratore. Collocare Nietzsche nella
sua epoca e nel fluire dei secoli, nel contesto del suo ambiente e in quello delle correnti spirituali
che risalgono fino ai primordi dell’antichità classica, è impresa che fuoriesce dai canoni
interpretativi normali.4
Come si vede, secondo costoro Nietzsche non soltanto non si può capire, ma, come
abbiamo detto, non bisogna neanche cercare di capirlo.
1
Mit Nietzsche kann man nicht fertig werden. Er ist auch nicht mit sich fertig geworden.
F. Nietzsche, Ditirambi di Dioniso, Guanda, Parma 1967, p. 21.
3
Ibidem.
4
C.P. Janz, Vita di Nietzsche, III volume, Roma-Bari 1982, p. 215.
2
2
Ma può la critica arrendersi, vanificarsi, solo perché un’interpretazione si
presenta a prima vista, e magari anche a seconda vista, come “impossibile”, ossia più
difficile di altre? E si può, d’altra parte, sostenere di un qualsiasi autore ciò che
Safranski, Jaspers, Benn, Janz e altri ancora sostengono di Nietzsche: che sfugge
all’analisi, “échappe à l’analyse”, come un critico francese disse, dopo un concerto,
di Beethoven, quasi che Nietzsche o Beethoven fossero fuori o al di sopra del genere
umano? Nel genere umano anche il genio più grande è iscritto con una sua chiara
funzionalità. Il genio, infatti, è un’estrema risorsa dell’umanità nelle sue crisi più
difficili.5 È il rimedio che cresce là dove cresce il male, secondo il noto detto di
Hölderlin. Dunque la difficoltà di capirlo corrisponde ogni volta alla difficoltà di
capire la crisi stessa. Nel caso di Nietzsche non resta perciò che affrontare questo
problema e cercare di risolverlo con i mezzi a nostra disposizione.
Considereremo in seguito questo problema dal lato dell’oggetto, ossia della
crisi storica che Nietzsche rappresenta e di cui, come vedremo, è una creatura e
l’esponente principale. Ma consideriamo per ora il problema dal lato soggettivo e
diciamo che in realtà un criterio unitario, una chiave che permetta di sciogliere il
nodo, certo aggrovigliato, dei contrastanti talenti e delle bivalenze di Nietzsche, come
Giano bifronte, non manca affatto. Questo criterio c’è e spiega, direttamente o
indirettamente, tutte le manifestazioni di Nietzsche: è la sua ribellione alla falsità.
Egli diceva di sentire la falsità a naso e proclamava: “Il mio genio è nelle mie narici”.
È questa una proclamazione significativa, perché nel dire ciò che egli era: un
moralista (nutrito di poesia), dice anche quello che non era. Non era un filosofo nel
senso stretto del termine. In realtà era soprattutto un antifilosofo, che aveva per la
filosofia concettuale una vera e propria idiosincrasia, come un commerciante può
averla per la poesia. La considerava infatti una delle forme meglio agghindate della
falsità, del pensiero interessato. Se si vogliono conoscere le torri della città, dice,
bisogna uscire dalle mura. Nietzsche uscì dalle mura della filosofia per verificare e
soppesare quanto essa (le torri) valesse effettivamente nella vita. Ma non corriamo
troppo.
Di Nietzsche si parla comunemente come di un filosofo, di un grande filosofo
tedesco, e ciò va bene e non è sbagliato. Anzitutto perché Nietzsche si occupò
costantemente di filosofia e fu dunque inevitabilmente, perifericamente, anche
filosofo. Ma poi perché comunemente filosofo sta per pensatore, e Nietzsche era
certamente un pensatore, un grande pensatore. Però, su un piano rigoroso, per lui,
come da noi per Leopardi, è importante distinguere tra due tipi di pensatori: quelli
che pensano in base alla logica e in termini concettuali, quelli cioè i cui ragionamenti
sono concatenazioni di concetti, e quelli che invece pensano in base all’esperienza e
5
Questa non era l’idea di Nietzsche, per il quale l’individuo non deve servire nessuno, neanche
l’umanità. Quanto a se stesso, nella lettera del 25 novembre 1888 a Heinrich Köselitz dice: Mi sono
posto […] al di là, non al di sopra di ciò che conta ed è in auge oggigiorno, ma al di sopra
dell’umanità”. Ma bisogna considerare che era prossimo a impazzire. Ha una concezione capovolta
e corruttrice del genio: lo scopo della natura, secondo lui, è di produrre in una specie le
manifestazioni più geniali. Quindi gli individui comuni si giustificano solo se servono alla nascita
del genio. Egli nega così la sudditanza del genio alla maestà del genere umano.
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alla morale, in termini non concettuali bensì per intuizioni, come Nietzsche appunto.
Le verità di Nietzsche sono intuizioni morali, non verità filosofiche, con un’eccezione
che vedremo. La prova del nove del fatto che Nietzsche non fosse un filosofo in
senso stretto, alla guisa di Hegel, Spinoza, Leibniz ecc., è che ogni volta che ha
provato a filosofare, vale a dire a sviluppare sistematicamente le sue intuizioni
morali, ha fatto disastri. Questa distinzione di moralismo e filosofia stenta a farsi
strada tra gli studiosi, riesce loro ostica, come ho sperimentato, perché essi non la
ritengono necessaria; ma senza di essa non si può capire Nietzsche, e infatti non lo si
è capito, né altri autori, come il nostro Leopardi. Per più di quarant’anni si è discusso
in Italia se Leopardi, nella sua maggiore opera di pensiero, lo Zibaldone, fosse o non
fosse un filosofo. Chi ha detto di sì, chi ha detto di no. Ma alla fine si è (felicemente)
concluso che era un moralista. Si consideri comunque che in Francia, patria dei
grandi moralisti, i filosofi (Descartes, Malebranche, Bergson) appartengono alla
storia della filosofia, ma i moralisti (La Rochefoucauld, Montaigne, La Bruyère)
appartengono alla storia della letteratura.
La differenza tra i due generi la fa comunque, nel modo più chiaro, Nietzsche
stesso. All’inizio dell’aforisma 5 del suo Opinioni e sentenze diverse afferma:
Un peccato originale dei filosofi. In tutti i tempi i filosofi si sono appropriati i detti di coloro che
scrutano gli uomini (i moralisti) e li hanno corrotti, - proprio quando credevano di elevarsi in tal
modo al di sopra di essi, - col prenderli in senso assoluto e col voler dimostrare come necessario ciò
che dai moralisti era inteso solo come indicazione approssimativa o addirittura come verità di un
deennio, particolare a un paese o a una città.
Di questa distinzione Nietzsche dà poi una notevole applicazione nell’aforisma 33
della stessa opera. In esso nega che Schopenhauer sia filosofo e lo riconosce solo
come moralista:
Voler essere giusti e voler essere giudici. Schopenhauer, la cui grande conoscenza dell’umano e del
troppo umano, il cui originario senso dei fatti è stato non poco pregiudicato dal variegato manto di
leopardo della sua metafisica (che bisogna prima togliergli, per scoprirvi sotto un vero genio
moralista) - …
La differenza tra filosofi e moralisti è ulteriormente ribadita nell’aforisma 214 del
Viandante e la sua ombra. Qui, parlando di sei moralisti francesi, Fontenelle,
Vauvenargues e Chamfort oltre ai tre già citati, Nietzsche dice:
essi contengono più pensieri reali di tutti i libri dei filosofi tedeschi messi insieme.
Che cosa vuol dire “pensieri reali”? Certamente vuol dire pensieri concreti, che hanno
a che fare con l’uomo e la vita umana, e non pensieri che si dilatano nell’iperuranio e
che, nella loro astrattezza, sono lontani dall’uomo e dalla vita.
A questo bisogna osservare che un autore non distingue filosofi e moralisti con
un tale svantaggio per i filosofi senza essere e ritenersi egli stesso un moralista. Per
questo la famosa frase di Heidegger: “Nietzsche è altrettanto obiettivo e rigoroso di
Aristotele”, è fondamentalmente sbagliata. Aristotele, infatti, proclama come base
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della filosofia il principio di ragione nelle sue tre forme: principio di identità,
principio di non contraddizione e principio del terzo escluso. Questo principio logico
serve a dimostrare le proposizioni filosofiche, egli spiega, ma non dimostra se stesso.
E in effetti, ciò che dimostrerebbe il principio dovrebbe a sua volta essere dimostrato,
con un regresso all’infinito. Aristotele, insomma, filosofa in base alla logica, ma la
logica, appunto, era ritenuta da Nietzsche uno strumento di falsificazione, una
macchina autoaffermativa che rende pensabile quello che non lo è, ossia la realtà. La
realtà per Nietzsche non è pensabile. Diceva: “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal
centro verso una x”. E consigliava la logica ai malati. A loro fa bene, sosteneva,
ingabbiare, incapsulare, addomesticare la realtà indomabile, trascendente e
defatigante nell’ordine logico, cioè umano, antropomorfico.
La cosa strana (fino a un certo punto: in Nietzsche si trovano varie
contraddizioni di questo tipo) è però che, dopo aver tanto nettamente distinto filosofia
e moralismo, filosofi e moralisti, che ragionano, come abbiamo detto, in base a due
principi e sistemi diversi, uno concettuale e uno, si può dire, morale (la coerenza
morale alla fine fa sistema, e solo questo è il sistema di Nietzsche), Nietzsche non si
sia attenuto alla distinzione da lui stesso istituita, sia venuto meno all’imperativo
patere legem quam ipse tulisti. Si comportò infatti più volte come i filosofi da lui
stigmatizzati nell’aforisma 5 e nutrì per tutta la vita il sogno di un Hauptwerk
filosofico, cioè sistematico, di un capodopera o opera fondamentale, con cui
schierarsi accanto ai filosofi classici. Abbandonò questo sogno senza rimpianti solo
alla fine della sua vita sana (fu poi pazzo per undici anni). Vedremo che il suo vero
Hauptwerk fu in realtà ben superiore a un sistema filosofico e che in fondo, con
l’Hauptwerk filosofico, egli sognava al ribasso. Anticipiamo che tale superHauptwerk non fu La volontà di potenza, “il libro più indipendente”, come egli
credeva, ma Così parlò Zarathustra, “il libro più profondo”.
Dunque Nietzsche era un moralista. Che negando la realtà come stabile
costituzione delle cose, riduceva la filosofia, come studio della realtà e dell’uomo in
quanto parte della realtà, a moralismo, ossia a studio dell’uomo sull’uomo in ciò che
è altro dall’uomo (la x). Come moralista, egli si manifesta ufficialmente a partire da
Umano, troppo umano, la sua instauratio magna, continuando, con l’intensificazione
di toni e accenti, per il resto della vita.
Tutte queste opere non sono dunque opere autonome; sono, fondamentalmente,
opere di critica storica e filosofica, di Kulturkritik o critica della civiltà (non di
Gesellschaftskritik, critica della società, come specialmente persone di sinistra
pretenderebbero); sono opere scettiche, negative. Ma che cos’era egli prima? Prima
del periodo razionalistico-scettico ci sono le opere giovanili: La nascita della
tragedia e le Considerazioni inattuali, e prima ancora o contemporaneamente, gli
scritti del 1870-1873. Queste opere sono caratterizzate dall’influsso di Schopenhauer
e Wagner e appartengono alla cosiddetta fase metafisica. È a questa fase e a
quest’influsso che Nietzsche reagisce nella fase critica, razionalistica, inaugurata da
Umano, troppo umano, e questo esercizio va fino al Crepuscolo degli idoli, cioè fino
alla fine della sua vita lucida. In questa seconda e definitiva fase, da alcuni
periodizzat in base a criteri particolari, Schopenhauer e Wagner, come maestri,
5
furono abbandonati, “radiati”, in quanto è soprattutto in contrasto con loro che si
sviluppa il nuovo pensiero di Nietzsche. Ma non fu abbandonata la visione
dionisiaca. Concepita ed elaborata nella prima fase, questa rimase poi sempre al
centro della sua opera. Fu fatta valere ufficialmente nella Nascita della tragedia
(1872), ma è elaborata in particolare nella Visione dionisiaca, uno degli scritti del
1870-1873.
Dioniso è il dio della pura esistenza, del libero gioco delle forze naturali, dei
contrasti irriducibili, delle infinite metamorfosi, della creazione e distruzione senza
origine, fine, identità, essenza, verità. Tutto ciò che è ritenuto stabile e provvisto di
senso si rivela fluido e insensato, ogni fondamento (Dio, anima, essere, sostanza,
substrato) viene meno. Tutti i tentativi di redenzione della finitezza e limitatezza
umana sfociano in altrettante negazioni della vita. Se si ama e si rispetta la vita, per
Nietzsche bisogna amarla e rispettarla nella sua caducità (non nell’eternità), senza i
calcoli dell’egoismo schopenhaueriano (“la vita è un’impresa che non vale la spesa”),
per leale e disinteressato amore di figlio. La visione dionisiaca è dunque la visione
della natura come caos, come immenso ed esplosivo conglomerato di forze. Tra
queste regna la volontà di potenza e una drastica gerarchia, per cui le forze maggiori
aggrediscono, asserviscono e sfruttano quelle minori. Questa visione selvaggia della
natura, che fa parte della “saggezza selvaggia” di Nietzsche (parla della sua wilde
Weisheit), è, conformemente a quanto abbiamo detto della ribellione alla falsità che
ispira tutte le sue manifestazioni, una visione in funzione anticristiana. Come si sa,
infatti, per il cristianesimo l’universo è invece la creazione di Dio per l’uomo, fatto a
immagine e somiglianza di Dio. In essa l’uomo è il centro e il fine, è signore del cielo
e della terra e può disporre a suo piacimento della grade famiglia delle piante e degli
animali. Paradossale resta comunque che, nonostante questo gran dono, il cristiano
sia destinato in ultima analisi a rinunciarvi, perché il vero scopo della sua vita è
allocato nell’aldilà.
L’onda caotica dell’universo è distruttiva, ma porta anche a riva le conchiglie
più preziose: l’ordine umano, per quanto precario, e i beni di cui e per cui gli uomini
vivono: la gioventù, la bellezza, l’amore, la realizzazione, la speranza, la libertà, il
gioco e infiniti altri, compreso il ben mangiare e bere, che per Zarathustra “non è
un’arte vana”. Pur avendo piena valenza filosofica, questa visione è in primo luogo
una creazione poetica, come vedremo una trasfigurazione in poesia tragica della crisi
storica, e come tale non sarà più abbandonata da Nietzsche, come abbiamo detto;
rimarrà sempre, esplicitamente o implicitamente, al centro delle sue opere e della sua
ispirazione.
L’opera di Nietzsche si può pertanto paragonare alla terra: un nucleo infuocato
e magmatico: la visione dionisiaca, e una crosta rigida e fredda: le opere scettiche.
Tra le due cose, in apparenza opposte, c’è un legame organico. Le opere scettiche
mirano infatti alla difesa della visione dionisiaca, visione verace della natura, che
l’uomo subisce, contro coloro, cristiani o altri, che vorrebbero mentirne la verità e
antropomorfizzarla, addomesticarla, fingendo un ordine morale al posto del disordine
guerreggiato, drammatico dell’universo. Ma nel bel mezzo della filosofia scettica
delle opere aforistiche ecco spuntare improvvisamente, come un alto monte solitario
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in mezzo a una vasta pianura, Così parlò Zarathustra. Così parlò Zarathustra è
l’opera affermativa in cui Nietzsche raggiunge le sue dimensioni ottime e massime.
In essa rifulgono, unite e compenetrate come gli organi di un organismo, le sue doti
di moralista, poeta, psicologo, profeta e diagnostico della crisi dell’Occidente.
Nietzsche ha pensato con trasporto intimo e senso del dramma di dover essere
il fondatore della religione dell’eterno ritorno di tutte le cose, che era da lui
considerata la massima affermazione della vita. Ma in ciò si è ingannato. Egli
pensava l’eterno ritorno come incitamento morale a vivere la vita nel modo più
degno, al fine di potersene compiacere nelle infinite vite future. Ma in questo senso
l’eterno ritorno non funziona. Anzi funziona all’incontrario. Poiché è eterno non da
adesso, cioè non dal tempo in cui Nietzsche l’ha pensato e proclamato, ma già
dall’eternità, la nostra vita sarà eternamente quella che è già eternamente stata. Qui il
fatalismo uccide l’incitamento, deprime e non esalta lo sforzo. Nietzsche, “filosofo
dell’avvenire”, come si firmò in una pensione di Napoli (“Don Federico Nietzsche,
filosofo dell’avvenire”), non pensava evidentemente al passato. Del resto già Alfred
Bäumler dimostrò che nello Zarathustra l’eterno ritorno è un corpo estraneo.
La religione dell’eterno ritorno è però una testimonianza dell’animo e della
vocazione religiosi di Nietzsche. Con tale animo e per tale vocazione, Nietzsche ha
fondato un’altra religione, questa volta “vera”, autentica, che “funziona” benissimo:
la religione del corpo e della terra, della vita effimera, caduca, scintillante, della vita
così com’è, a favore della quale ha respinto ogni tentativo di immortalizzazione ed
eternizzazione. Tanti hanno rivendicato i diritti del corpo e della terra, ma non come
Nietzsche, non con la sua intensità, la sua potenza e il suo spirito religioso. Si tratta di
una vera religione, di una religione laica, che è anche una religione dell’umiltà (non
della superbia, come ha detto Papa Benedetto XVI), perché predica l’amore della vita
riconoscendo lo stato dell’uomo di cellula del grande organismo dell’universo, di cui
deve subire le leggi, leggi non fatte per l’uomo, come lamentava già l’antico poeta
Lucrezio (“Il mondo non è fatto per l’uomo”). È per questo che, quando Nietzsche
non sapeva ancora come classificare il parto maschio dello Zarathustra, Peter Gast,
suo provvidenziale discepolo e amico, gli disse: “È una sacra scrittura”.
Lo Zarathustra è effettivamente un antivangelo. È il vangelo della purezza e
della giustizia. Esso si erge contro il vangelo della carità. È il vangelo dell’amore di
sé che è amore della vita e accettazione delle responsabilità della vita e si
contrappone al vangelo dell’amore del prossimo, è l’esaltazione della vita terrena,
nella sua problematica, tragica bellezza, contro ogni trascendenza, è un inno alla
grandezza con radici terrestri e la sua fenomenologia nel mondo, è la storia del
martirio che incombe a chi si mette sul suo sentiero solitario. È il vero Ecce homo,
non teatralizzato, non sbandierato al pubblico nell’euforia precedente la pazzia, ma
sussurrato a se stesso in timore e tremore. Come opera che fonda la religione laica, lo
Zarathustra appare il seguito logico e la grandiosa conclusione di quel processo
innescato dall’ateismo scientifico e divenuto, ai tempi di Nietzsche, una conquista
della coscienza europea. Questo ateismo è concepito
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come l’atto più ricco di conseguenze di una bimillenaria educazione alla verità, che alla fine si vieta
la menzogna della fede in Dio… Si vede che cosa propriamente vinse il Dio cristiano: la stessa
moralità cristiana, il concetto della veracità preso in modo sempre più rigoroso, la sottigliezza da
padri confessori della coscienza cristiana, tradotta e sublimata in coscienza scientifica, in pulizia
intellettuale a ogni costo (La gaia scienza, 357).
Lo Zarathustra è dunque il il monte sacro, il vero Hauptwerk di Nietzsche, ed
egli è stato, come abbiamo già detto, troppo modesto in questo suo sogno, allo stesso
modo che lo è stato con la religione dell’eterno ritorno. Con lo Zarathustra egli non
si è schierato, come voleva, accanto ai filosofi classici, ma li ha sovrastati con una
creazione – perfetta fusione di filosofia, religiosità e poesia – che, come religione
laica della vita, è molto più di un sistema filosofico: è semplicemente la più grande,
ispirata e profonda affermazione della vita nella sua fugace autenticità. In tal senso è,
malgrado i suoi non pochi difetti e cadute, dovuti alla sua nascita non unitaria ma a
ondate successive - in cui l’energia accumulata durante il lungo esercizio
razionalistico scema man mano che l’autore aggiunge parti alle parti - non solo la più
grande opera della letteratura tedesca, in cui prende il posto dei Colloqui con Goethe
di Eckermann, da Nietzsche esaltati come tale, ma anche la più grande celebrazione
dell’umanità nella sua vera natura e nel suo vero destino. È insieme il definitivo
rovesciamento dell’opera pessimistica di Schopenhauer.
Abbiamo paragonato l’opera di Nietzsche alla terra. Possiamo paragonare Così
parlò Zarathustra, nella costellazione delle opere nietzschiane, al sole. Esso illumina
le altre opere, precedenti e successive, come il sole i suoi pianeti. Come i pianeti, che
orbitano intorno al sole, esse orbitano intorno allo Zarathustra. Qui però è
importantissimo osservare, sulla scorta magari di un comune atlante di astronomia,
che il sole è immensamente, “spaventosamente” più grande dei pianeti, è quasi da
solo l’intero, cosiddetto, sistema solare, perché i pianeti, pur così grandi per noi che
guardiamo da un pianeta, sono solo frammenti, schizzati via dall’immensa massa
solare e raffreddatisi girandovi intorno. Tale il rapporto dell’opera del “grande Sì alla
vita”, a quelle, pur grandi e secondo molti, miopi, addirittura più grandi, del “grande
No”, specie da Al di là del bene e del male in poi.
Prima di passare all’ultimo, importante argomento, un ultimo chiarimento a
questo riguardo. Noi rifiutiamo, per la religione laica di Nietzsche, l’espressione, che
si ritrova nella recente e meno recente letteratura, di religione atea. E ciò benché
Nietzsche abbia usato lui stesso questa parola. Su di essa anzi egli ha insistito. Ma,
secondo noi, egli ha fatto ciò soprattutto per negare i vani sogni e le menzogne, le
illusioni e le ipocrisie delle religioni positive (“nessuna religione ha mai finora
contenuto, né direttamente né indirettamente, né come dogma né come allegoria, una
verità”6). Il suo uso e le sue insistenze hanno dunque un valore polemico. L’amore
della vita, della terra (“il cuore della terra è d’oro”) e del corpo da lui predicato è un
amore aperto sull’eternità, l’infinità e la divinità della vita. Come tale esso si nutre e
si sazia di sé e della vita e non dà spazio a speculazioni e a negazioni di qualunque
sorta. Chi vive nell’integrità e nella pienezza non ha bisogno di distogliere
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Umano, troppo umano, 110.
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l’attenzione dalla sua vita per spostarla su elucubrazioni vane circa le prime e le
ultime cose. Fin da giovane Nietzsche – così egli si vanta in Ecce homo – non si è
mai preoccupato di queste cose. Egli sposta il sacro dal piano della trascendenza a
quello dell’esperienza. Raggiunge così il suo connazionale Martin Lutero, oltre che
come genio linguistico, come genio religioso.
E passiamo adesso alla vexata quaestio della responsabilità politica di
Nietzsche. Ma in primo luogo, perché c’entra, diciamo che Nietzsche, pur non
essendo filosofo in senso stretto, ha creato un grande filosofema, l’unico vero suo
filosofema: il nichilismo. Il nichilismo è la negazione della conoscenza e della
morale. È importante notare comunque che anche a questo filosofema egli è arrivato
non per via logica, ma per via psicologica. Alla psicologia, “quale morfologia e teoria
evolutiva della volontà di potenza” e quale disciplina al di sopra delle altre, che è “la
via che porta ai problemi fondamentali”, egli eleva un monumento nell’aforisma 23
di Al di là del bene e del male. A forza di psicologizzare l’uomo, cioè di indagare i
motivi egoistici o piuttosto fisiologici che si nascondono sotto le sue pretese
spirituali, poi i gruppi, i popoli e alla fine l’umanità stessa come grande individuo,
Nietzsche ha scoperto che l’universo non ha senso unitario, umano, non ha un senso,
ed è questo che significa in ultima analisi “Dio è morto”. L’universo ha solo gli
innumerevoli sensi che gli esseri traggono da se stessi in base alla loro varia natura e
misura di forza. Questi sensi sono “prospettive”, cioè sempre anche abbreviazioni del
mondo, e questo è il famoso prospettivismo di Nietzsche. Connsiderando la
conoscenza come una “prospettiva”, è più facile capire la negazione della logica e
della sua capacità di penetrare la realtà. Per Nietzsche insomma l’antropomorfismo è
un manto senza buchi che ricopre tutta la conoscenza umana. In questo egli si può
considerare un rinnovatore della sofistica antica, non per niente da lui esaltata come
la più libera e gloriosa cultura dell’antichità. Essa però era fine a se stessa e non
serviva, come in lui, la religione della vita. Anche per quanto riguarda la morale,
Nietzsche scopre che il preteso ordine morale del mondo, che i filosofi, per esempio
Kant e Schopenhauer, e gli uomini in genere affermano, non è che il ribaltamento nel
caos dell’universo del loro ordine interiore. Esso serve a creare una barriera, per
quanto fittizia, contro l’onda caotica e distruttiva dell’universo, dunque la morale ha
senso antropomorfico e di autoconservazione.
Teniamo conto pertanto, per quanto riguarda l’argomento della responsabilità
politica, di questa negazione della conoscenza e della morale, che costituiscono,
come abbiamo detto, la sostanza del nichilismo. Da essa derivano gravi conseguenze.
Dalla negazione della realtà come una qualunque stabile costituzione delle cose
deriva, tanto per cominciare, la negazione della verità, per mancanza dell’oggetto a
cui dovrebbe corrispondere (la verità è normalmente ciò che corrisponde alla realtà).
Ma allora che cos’è la verità? è l’errore, risponde Nietzsche, di cui abbiamo bisogno
per vivere. La ricerca della verità non è ricerca della verità, ma di ciò che ci aiuta, ci
fortifica e ci potenzia. Questo, e non la verità, è anche il criterio di validità della
filosofia: è valida quella filosofia che aiuta i forti. Questi, per Nietzsche, sono
destinati a soccombere alla forza del numero e all’astuzia dei mediocri, degli schiavi,
A queste negazioni si aggiunge la negazione della libertà, del libero arbitrio, e quindi
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della responsabilità. È errore, dice Nietzsche, giudicare di meriti e colpe: “l’uomo
non è da tenere responsabile per niente, né per il suo essere, né per i suoi motivi, né
per le sue azioni, né per i suoi effetti”.7 Afferma inoltre che la legge suprema della
natura è la sopraffazione e che non bisogna cercare di eliminarla o correggerla,
perché se si tocca il gioco duro della vita si rende impossibile la nascita della
grandezza. La grandezza, come abbiamo detto, è per lui lo scopo della vita e solo nel
servizio alla grandezza gli uomini si giustificano. Insieme con la sopraffazione
afferma lo sfruttamento dei più deboli e la necessità della schiavitù come “condizione
di ogni civiltà e di ogni innalzamento di civiltà”. Afferma inoltre la necessità di
rinaturalizzare l’uomo: “si deve riconoscere il terribile testo di base homo natura.
Ritradurre l’uomo nella natura; trionfare delle molte vanitose e fantasiose
interpretazioni e significazioni aggiuntive che sono stae finora scarabocchiate e
spennellate su quell’eterno testo di base homo natura”.8
Ora, tutti questi sono risultati di un percorso strettamente personale ed
esclusivamente filosofico. La politica non c’entra niente. Nietzsche non è mai stato
uno scrittore politico o addirittura totus politicus, come lo descrive un interprete totus
politicus egli stesso. Egli era invece totus impoliticus. La politica, dice Nietzsche, è
fatta per le teste mediocri. Dice anche che, se uno crede di risolvere i problemi della
vita con la politica, fa solo una caricatura. Sta di fatto tuttavia che questo percorso
personale, solitario, filosofico, apolitico, antipolitico, corrisponde in tutto e per tutto,
come per miracolo, all’involuzione e al tramonto dell’Occidente. Ma “come per
miracolo” se vediamo le cose dal lato degli effetti, non se le vediamo dal lato delle
cause. Se vediamo cioè che la crisi storica (semplice, fatale crisi di vecchiaia) della
bimillenaria civiltà cristiano-europea si irradia, nella seconda metà dell’Ottocento, in
tutte le manifestazioni umane: politica, morale, arte, filosofia ecc., che tutte la
esprimono a modo proprio, comprendiamo che alla fine, pur essendo stato in tutto e
per tutto antipolitico e inattuale, Nietzsche risulta essere in primo luogo una creazione
e un’antenna della crisi, cioè della storia, della politica e dell’attualità, secondo la
massima di Goethe: “Gli uomini sono da considerare organi del loro secolo che si
muovono per lo più inconsapevolmente”. È l’ironia della sorte: sull’uomo che si
considerava inattuale per antonomasia, il giudizio storico da dare è un giudizio di
attualità. L’uomo che ha scrutato l’antica Grecia era mosso da un inconsapevole,
profondo motivo attuale. Con la sua trasfigurazione della crisi in poesia e filosofia
tragica, egli ha conferito alla crisi corpo spirituale, legittimità e accelerazione; col suo
irrazionalismo e la sua filosofia della natura e della forza (superuomo, uomo forte,
volontà di potenza, gerarchia), la sola che resta quando si sono abbattuti i sistemi
filosofici, ha acceso quel fuoco che trent’anni e cinquant’anni dopo si svilupperà in
incendio mondiale. Si capisce dunque perché Thomas Mann dica: “Nietzsche è un
fenomeno epocale mitico-terrificante”.
Ma d’altra parte, se consideriamo la grandezza e l’importanza delle opere di
Nietzsche, nella loro parte non guastata dall’epoca, la loro validità al di là del suo
7
8
Umano, troppo umano, 39.
Al di là del bene e del male, 230.
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tempo, comprendiamo anche che, sebbene storia e filosofia comunichino e si
alimentino a vicenda sotterraneamente, certo con peso disuguale, l’una non è
riducibile all’altra. La filosofia in particolare, della quale qui ci occupiamo, cioè
l’uomo, conserva in linea di massima, rispetto alla storia, la sua autonomia.
Nell’ambito di questa i ruoli si possono invertire, come per lo più avviene appunto
nel caso di Nietzsche. Ed è per questo che abbiamo citato a suo riguardo la frase di
Goethe e non quella violenta di Marx: “L’individuo è strumento della storia, che lo
schiaccia”. Nietzsche non è stato schiacciato. La crisi che lo ha partorito e
condizionato e di cui egli rimane l’esponente principale, gli fornisce l’occasione per
conquiste immortali puramente poetiche, morali e filosofiche: alta poesia e filosofia
tragica, tellurica demistificazione di falsità, illusioni e ipocrisie, educazione alla
grandezza, massima esaltazione dell’indipendenza umana, scandaglio psicologico di
un nuovo Machiavelli, difesa della lealtà e giustizia verso la vita, accettazione
religiosa della vita e dei suoi pesi, sulfurea e profetica critica della civiltà, con una
perla rilucente: un’etica pura, scevra di ogni ombra di edonismo, utilitarismo,
eudemonismo.
Sossio Giametta
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