Serge Latouche2 - Movimento Valledora
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Serge Latouche2 - Movimento Valledora
Serge Latouche “Breve trattato sulla decrescita serena”-Bollati Boringhieri- 2008Introduzione Si tratta per l’autore di attuare un programma serio che abbandoni la fede nell’economia, nel progresso e nello sviluppo, rigettando il culto della crescita fine a se stessa. Detto in questo modo parrebbe un’utopia e ci si potrebbe trincerare dietro a un immediato “non è possibile”. L’autore, invece passo passo dimostra quanto sarebbe realizzabile in poco tempo, innescando nuovi parametri. Il problema non riguarda la riconferma di un concetto di sviluppo durevole o sostenibile ( come si intendeva a fine anni ’70) oppure di un certo ecosviluppo (conferenza di Stoccolma sotto le pressioni delle lobby americane per intervento di H. Kissinger), Hervé Kempf ci insegna che tale concetto continua a sostenere i profitti, evitando di cambiare le abitudini e modifica la rotta solo parzialmente ( H. Kempf p 21) Chi crede sia possibile una crescita infinita in un mondo finito, diceva Boulding, o è un pazzo o un economista. Latouche cerca di dimostrarlo. “La vita del lavoratore, nel mondo di oggi, si riduce a quella di un organismo che metabolizza il salario con le merci e le merci con il salario, transitando dalla fabbrica all’ipermercato e dall’ipermercato alla fabbrica. Per permettere alla società dei consumi di perpetrare il suo carosello sono necessari tre molle della crescita: la pubblicità ( costituisce il secondo bilancio dopo gli armamenti: 500 miliardi di euro all’anno in tutto il mondo), il credito e l’obsolescenza accelerata. Già nel 1950 Victor Lebow scriveva: “abbiamo bisogno che i nostri oggetti si consumino, si brucino e sia gettati e sostituiti ad un ritmo sempre più rapido”. In termine sempre più brevi, apparecchi e oggetti, si rompono per il cedimento voluto di un elemento. Centocinquanta milioni di computer vengono trasportati ogni anno verso paesi come la Nigeria, verso le discariche del Terzo Mondo, caricandolo di un peso che è solo nostro, di noi occidentali. Vediamo le motivazioni L’iperconsumo dell’individuo contemporaneo sfocia in una felicità paradossale, ferita, alla quale gli uomini non riescono a porre rimedio, né con la bulimia consumistica né con i farmaci. Lo spazio sul pianeta è limitato, lo spazio bioproduttivo cioè utile per la nostra riproduzione è solo una parte di questo spazio. Calcolando i bisogni di materie prime, di energia e le superfici necessarie per assorbire i rifiuti della produzione e del consumo, aggiungendo l’impatto dell’habitat e delle infrastrutture necessarie, ricercatori americani hanno parlato dello spazio bioproduttivo. Lo spazio bioproduttivo consumato pro capite dalla popolazione mondiale è in media di 2,2 ettari, affermano l’istituto Redifining Progress e il WWF, dunque gli uomini hanno abbandonato da tempo il sentiero di una civiltà sostenibile, che richiederebbe di limitarsi a 1,8 ettari a persona ( 51 miliardi di ettari della Terra di cui 12 miliardi può essere lo spazio bioproduttivo diviso per la popolazione attuale), ammesso che la popolazione attuale rimanga stabile, cosa impossibile, p 34. Ogni Americano consuma circa 90 tonnellate all’anno di materiali vivi,un tedesco 80, un italiano 50, cioè 137 chili al giorno. In altre parole l’umanità consuma il 30% in più della capacità di rigenerazione della biosfera e se tutti vivessero come i nostri amici americani ci vorrebbero sei pianeti per soddisfare queste esigenze. Altri esempi. IL sovraconsumo di carne dei ricchi rende necessario il 33% delle terre coltivabili alla coltivazione dei foraggi. Inoltre l’allevamento è responsabile del 37% delle emissioni di CO2 cioè di più del settore dei trasporti. Lo spazio mentale è stato occupato dalla televisione e dalla pubblicità votate al consumo che hanno determinato il trionfo della grande distribuzione nel Nord del Mondo, aggiungendo la “periferizzazione” della piccola borghesia delle città e degli immigrati, il mito dell’automobile (e poco altro) si è creato un popolo quasi invisibile e senza voce dedito a particolari bisogni di consumo. Questo popolo è facilmente manipolabile ed è legato alle imprese multinazionali. La globalizzazione con lo smantellamento dello stato sociale ha portato a termine la distruzione della cultura popolare. Questa situazione ha aperto la strada a una classe politica populista e corrotta, senza scrupoli di cui il fenomeno Berlusconi è un’illustrazione caricaturale. La berlusconizzazione della politica imperverserebbe comunque in tutta Europa con o senza il Cavaliere, determinando lo spostamento delle classi medie dalla solidarietà all’egoismo individuale ( di individualismo parla anche Petrella). Per questo il progetto della decrescita è anche una rifondazione politica a vantaggio del benessere di una popolazione che vuole appropriarsi del territorio lasciando il benessere deterritorializzato per un benessere locale e concreto. Consideriamo ciò che è realizzabile Chiaramente questo sacrificio avviene a svantaggio degli imprenditori dell’attuale sviluppo: le imprese transnazionali, i responsabili politici, i tecnocrati e le mafie ( v. Petrella). Il circolo virtuoso si aggira intorno a otto cambiamenti: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare e riciclare. Vediamo in sintesi questi otto principi: 1. rivalutare: l’attuale sistema rivela un cinico individualismo,occorre subito ritrovare valori altruistici 2. riconcettualizzare: i concetti di ricchezza e rarità vanno riconcettualizzati, in un mondo in cui dopo la privatizzazione dell’acqua stiamo privando i contadini della fecondità della Terra (Ogm). 3. ristrutturare significa adeguare l’apparato produttivo ai valori e a concetti più etici. 4. ridistribuire: tra nord e sud ( rimborsare), all’interno della società, dei sistemi, tra le classi, le generazioni, gli individui 5. rilocalizzare: i movimenti devono essere ridotti all’indispensabile 6. ridurre: rifiuti, orari di lavoro, turismo, movimenti, rischi sanitari 7.8 riutilizzare/riciclare: materiali Alcune esperienze già in atto ci indicano la strada possibile:il motto è pensare globalmente e agire localmente. Si tratta di valorizzare la regione o meglio la bioregione, un territorio inteso come luogo di vita comune e dunque da preservare e da curare per il bene di tutti. La decrescita, tuttavia , non è un ritorno al passato e tanto meno al comunitarismo ma una ritessitura del locale che permette di stare più insieme grazie tra l’altro alla scuola, alle imprese famigliari, ai piccoli negozi e ai cinema di quartiere invece di realizzare una vita da pendolari tra complessi scolastici, industriali e centri commerciali. Non creeremo un microcosmo chiuso ma il nodo di una rete di relazioni trasversali virtuose e solidali. La regionalizzazione significa meno trasporti, catene di produzione trasparenti, stimoli al una produzione e a un consumo sostenibili, minore dipendenza dai capitali e dalle multinazionali. Il ritorno ad un’impronta ecologica corretta (un solo pianeta) , che richiede una riduzione del 75% dei prelievi delle risorse naturali, realizzerebbe una diminuzione del 50% del consumo e un aumento incommensurabile della qualità della vita. Ridurre del 75% i prelievi delle risorse non significa consumare 75% di meno, cosa improponibile alle nostre condizioni, ma eliminare i consumi intermedi,ad esempio di trasporti ed energia. Il Sud Anche il Sud del mondo dovrebbe liberarsi dagli ostacoli che impediscono di realizzarsi in modo diverso: finché l’Etiopia e la Somalia saranno costrette , mentre infuria la carestia, a esportate alimenti per i nostri animali domestici; finchè noi ingrasseremo il nostro bestiame sulle ceneri delle foreste amazzoniche, noi soffocheremo il Sud. Mentre da un lato l’invasione dei prodotti cinesi a basso costo entra in concorrenza con il concetto di recupero, dall’altro l’inquinamento senza frontiere rende sempre più invivibile la società africana, una vera società dei consumi di seconda mano. Telefono cellulari inservibili,computer di recupero, scarti dell’Occidente vengono scaricati al Terzo Mondo. Questo atteggiamento scorretto rode come un cancro la capacità di resistere nell’indifferenza. Tutti gli animatori di movimenti popolari da Vandana Shiva in India a Emmanuelle Ndione in Senegal esprimono in modi diversi lo stesso concetto: restituiamo ai poveri la capacità di avere un’autonomia alimentare, quella che c’era in Africa fino agli anni sessanta. La sollecitudine dei Bianchi che si mostra preoccupata della non crescita del Sud è sospetta. Quello che si continua a chiamare aiuto è soltanto una spesa destinata a rafforzare le strutture generatrici di miseria, dice M. Rahnema. In realtà le vittime spogliate dei loro beni, non vengono mai aiutate quando tentano di sottrarsi al sistema produttivo globalizzato. Agli africani non ancora diventati schiavi delle comodità moderne, basterebbe adottare i seguenti sette punti, limitatamente al mondo rurale: 1. non fare affidamento sulle ricchezze occidentali, sono false 2. sostituire le monete cartacee straniere con monete locali 3. abolire le monocolture da esportazione e sostituirle con colture non dipendenti da merci da importare ( concimi, pesticidi…) ricorrendo al compostaggio 4. in caso di raccolti eccedenti cercare di trasformare da soli le materie prime agricole 5. proteggere la terra con piccole dighe antierosione 6. cucinare con il sole ( un forno solare costa 100 euro) 7. creare bacini per trattenere acqua piovana. Per la Cina si parla tra le molte cose di un triste primato: primo inquinatore del pianeta ( nel 2007 primo paese al mondo per emissioni di gas a effetto serra). Per vivere meglio, scriveva Andrè Gorz si tratta di produrre e di consumare diversamente, di fare meglio, di più con meno, eliminando anzitutto le fonti di spreco e aumentando la durata dei prodotti. Un programma politico della decrescita esiste: 1. recuperare un’impronta ecologica uguale o inferiore a un pianeta ovverosia ritornare alla produzione materiale equivalente agli anni ’70. Si debbono ridurre i consumi intermedi: trasporti, energia, imballaggi, pubblicità; il ritorno al locale e la lotta agli sprechi daranno un contributo decisivo. 2. Tassare il trasporto e i danni provocati da questa attività 3. rilocalizzare le attività 4. rilocalizzare l’agricoltura 5. ridurre il tempo del lavoro finchè ci sarà disoccupazione 6. stimolare la produzione di beni relazionali 7. ridurre lo spreco di energia ( in Francia 110 esperti stanno studiando per l’associazione Nega Watt le possibilità di ridurre le emissioni di gas a effetto serra entro il 2050) 8. Penalizzare le spese pubblicitarie: niente manipolazione nei messaggi e niente pubblicità per i bambini 9. Le innovazioni tecnologiche ( oltre a Tav, inceneritori, autostrade, manipolazione genetica…) vanno riviste secondo le nuove aspirazioni delle persone, potenziando la medicina ambientale, agrobiologia, agroecologia . Questo programma è stato presentato per la prima volta nel 2004 insieme ad altre proposte avanzate successivamente come il Contratto ecologico di Hulot alle 164 misure del Memorandum di Parigi, citato da Dominique Belpomme la quale sostiene che “è indispensabile immediatamente decretare una moratoria sulla costruzione di nuovi inceneritori e sulla trattazione dei rifiuti mediante coincenerimento”. Denis Clerc sostiene che attraverso misure fiscali un diverso sistema di tassazione è possibile: è indispensabile far coincidere l’interesse privato con quello sociale cheriveste lo stesso principio del patto ecologico di Nicolas Hulot. Se venissero inclusi nei prezzi dei carburanti, incidenti stradali, inquinamento dell’aria, i costi di funzionamento delle basi militari per impedire ai paesi produttori di assumere il controllo del petrolio, il prezzo del carburante schizzerebbe a 14 dollari il gallone contro uno di oggi. Con un prezzo del genere scomparirebbe l’aviazione civile e le auto diventerebbero rare. Un altro sistema sarebbe obbligare le imprese ad assicurarsi totalmente per i danni che gravano sulle società: rischio nucleare, climatico, sanitario sociale , estetico, OGM, nanotecnologie, E’ evidente che l’uomo politico che ponesse un problema del genere e una volta al governo cominciasse ad applicarlo sarebbe assassinato nel giro di una settimana. Con rara lucidità nel 1972 Salvator Allende in un discorso pronunciato all’ONU parlò di una politica infinitamente meno sovversiva dando una motivazione valida ancora oggi: “…gli Stati non sono più padroni delle loro decisioni fondamentali, politiche, economiche e militari a causa delle multinazionali che operano senza alcuna responsabilità e non sono controllate da nessun parlamento.” Salvator Allende veniva assassinato qualche mese più tardi ( si consideri che nel 1973 non si parlava ancora di globalizzazione). Posti di lavoro Bisogna ricordare che molti allarmi lanciati dal mondo scientifico: amianto, aflatossine,eparina, campi elettromagnetici, diossina …sono stati soffocati dai governi tagliando i finanziamenti ai laboratori in questione, p 92. Non sono quindi né le idee né le soluzioni che mancano ma le condizioni della loro realizzazione. Perciò è necessario creare le condizioni di questo cambiamento. Del resto non abbiamo altra scelta. Ci vorrà del tempo per rilocalizzare la produzione, gli scambi e lo stile di vita . Il problema sociale e quello ecologico sono connessi e uno non si risolve senza l’altro e viceversa. Facciamo esempi pratici. Secondo La Federazione nazionale dei bioagricoltori francesi, sarebbe possibile creare 90.000 posti di lavoro in più in Francia se l’agricoltura biologica passasse dal 2% al 9% come in Austria. Con il 12-15% i posti sarebbero da 120.000 a 150.000. Se la Francia applicasse la direttiva europea e producesse il 20% della sua elettricità dalle energie rinnovabili, come il solare e l’eolico si creerebbero 240.000 posti di lavoro. Ogni milione di euro investiti in efficienza energetica crea da 12 a 16 posti di lavoro in più, nel libro verde pubblicato dalla Commissione europea, nel 2005 contro i 4,5 del nucleare e 4,1 del carbone. In altre parole economizzare un chilowattora costa molto meno che produrlo. Si delineano su questo fronte quattro elementi che giocano in senso diverso. 1. Una evidente riduzione di produttività dovuto all’abbandono del termoindustriale, di tecniche inquinanti e di macchinari energivori. 2. la rilocazione delle attività e l’interruzione dello sfruttamento del Sud 3. la creazione di posti di lavoro verdi in nuovi settori di attività 4. cambiamenti di stili di vita e eliminazione di bisogni inutili I primi tre punti fanno aumentare la richiesta di lavoro il quarto va in senso opposto. Si potrebbe discutere a lungo e naturalmente elaborare simulazioni. Resta comunque il fatto che una società della decrescita dovrebbe offrire lavori salariati produttivi a tutti coloro che li desiderano, invece di trasformare attività non mercantili in lavoro salariato e di moltiplicare i lavori parassiti e servili. Lester Brown indica nove settori destinati a crescere in condizioni di applicazione delle decrescita: costruzione di pale eoliche e corrispondenti turbine, produzione di cellule fotovoltaiche, industria delle biciclette, la produzione di idrogeno e di motori corrispondenti, l’agricoltura biologica,la riforestazione. A monte e a valle si creerebbero nuovi mestieri: dall’esperto forestale all’ecoarchitetto. Le riduzioni , la riutilizzazione, la riparazione e il riciclaggio che si avrebbero con l‘abbandono dell’obsoleto farebbero nascere nuove attività anziché pensare come la sinistra ad ampliare solo scuole e ospedali. Conclusioni Il passaggio può avvenire in modo indolore, l’importante non è transigere sugli obiettivi Molto istruttivo è il fallimento del programma del partito socialista nel 1989, quello delle 35 ore. Il programma è fallito perché non si è messo in discussione la logica capitalistica. Come dimostra splendidamente Daniel Mothè, il tempo libero dal lavoro, non è automaticamente liberato dall’economia, anzi il nostro ne è invaso: palestra, mode, cibo, bisogni indotti ecc.(n.anna) Il tempo liberato è un tempo qualitativo, una riconquista personale, un tempo che coltiva la lentezza e la contemplazione in quanto libero dal “pensiero prodotto” (indotto nda). Capitalismo più o meno liberista e socialismo produttivista sono varianti di uno stesso progetto di società della crescita, fondato sullo sviluppo delle forze produttive. sintesi Anna Andorno