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196 così bevevano 176 a tutta birra 144 memorie d’acqua 132 menù storici 124 la rete delle comunità Locale/globale Foto H. Gruyaert/Magnum Photos Non siamo più in tempo Per rallentare questo bolide destinato a schiantarsi Intervista a Serge Latouche di Simone Bobbio «Nel ’68, al ritorno da un viaggio in Africa, venni con mia moglie a Taurinya alla ricerca di una casa. Essendo un economista, sapevo che lo spopolamento della montagna avrebbe lasciato molte baite disabitate e che i loro prezzi sarebbero stati bassi. Visitammo quindi un amico insediatosi in zona e, un po’ per caso, capitammo in questo piccolo villaggio ai piedi del Pic du Canigou, la montagna sacra dei Catalani, dove acquistammo la casa, che ai tempi era un vero e proprio rudere». Serge Latouche, l’intellettuale francese che da tanti anni pungola le accademie di tutto il mondo con le sue provocazioni sulla decrescita economica, ha trovato il suo buen retiro in un piccolo paesino di montagna nei Pirenei Orientali sul lato francese. Nato in Bretagna, vive tra Parigi e i Pirenei Catalani, ma è spesso all’estero per conferenze e lezioni. Ha insegnato Scienze economiche all’Università di Paris-Sud e contemporaneamente, per molti anni, ha svolto il lavoro dell’antropologo negli angoli più remoti dell’Africa. Negli ultimi anni ha lanciato lo slogan della decrescita che mescola teorie socio-economiche con istanze ambientaliste in un cocktail esplosivo, in grado di incrinare l’evoluzione della società occidentale, fin nelle sue radici più profonde. La casa, situata proprio nel centro di Taurinya, testimonia, fin dal primo colpo d’occhio, le peripezie e le avventure vissute da questo eclettico studioso. L’arredamento è quanto di più miscellaneo si possa immaginare. Un inginocchiatoio da confessionale convive con un tavolino congolese a fianco di una panchetta tirolese in legno. Ai severi muri in pietra dello studio sono appesi gli attrezzi per lavorare in montagna: rastrello e forcone dei contadini con lanterna e piccone dei minatori. Ma l’aspetto rustico è subito smorzato da stoffe, lampade e soprammobili africani; alla finestra sventola la bandiera della pace con i suoi sgargianti colori arcobaleno. La baita, al momento dell’acquisto, era in condizioni disastrose poiché abbandonata da tempo. La ristrutturazione è stata lunga, ma sempre condotta secondo la filosofia della decrescita. «Ho fatto io una buona parte dei lavori; i muri erano coperti da uno strato di intonaco sporco e cadente. Li ho ripuliti tutti portando alla luce le belle pietre sottostanti. Per gli interventi più grossi ho chiesto aiuto al muratore del villaggio. In pratica gli facevo da aiutante: prendevo le misure e preparavo la malta per agevolarlo nel lavoro». «L’orto è un bell’esempio di decrescita. Si risparmiano soldi e si guadagna in sapore e salute perché i prodotti sono coltivati in maniera genuina. In più, si sottrae una fetta di mercato all’agricoltura industriale. E ne guadagnano anche i rapporti sociali: si è ben disposti a regalare ciò che non si riesce a consumare ad amici e vicini di casa, pur di non veder marcire i frutti del proprio lavoro» dicembre 2007 63 116 oasi nel deserto 74 icone/dublino 56 56 locale/globale locale/globale 48 il racconto 16 editoriali Locale/globale Foto A. Ciccarelli «Una mia conferenza a Bolzano, è servita a salvare un albero, un ginkobiloba secolare, che doveva essere abbattuto per costruire un parcheggio. Il sindaco, dopo avere osservato la folla accorsa per il mio discorso, ha fatto marcia indietro e ha salvato la pianta» L’ultimo minatore e un sindaco scellerato Il professor Latouche si è trovato a suo agio nel ruolo di bocia e, quando racconta delle soluzioni pratiche adottate per raschiare il pavimento o per erigere un arco a sostegno della scala, le sue parole e l’espressione del volto non riescono a celare la grande soddisfazione che si prova nel mostrare i risultati del proprio lavoro. «La possibilità di vivere e lavorare in questo angolo di montagna mi ha permesso di osservare i danni prodotti anche qui dallo sviluppo economico, a partire dall’abbandono dei villaggi da parte dei montanari scesi in pianura a lavorare nelle fabbriche. Ho stretto una profonda amicizia con Jeannot, l’ultimo minatore nelle miniere di ferro dei dintorni. I suoi racconti del lavoro in quei cunicoli bui e umidi, dove non si riusciva a vedere il proprio vicino a causa della polvere sospesa nell’aria e dove si moriva come mosche a causa di silicosi e malanni vari, mi hanno fatto riflettere sull’aspetto criminale del capitalismo». «Quando sono a Taurinya» continua Latouche, «cerco anche di sensibilizzare gli abitanti sui problemi sociali e ambientali causati dalla crescita indiscriminata e ho incoraggiato i cittadini a condurre una battaglia contro 64 Slowfood la privatizzazione dell’acquedotto. Un sindaco scellerato aveva venduto a una grossa impresa privata le concessioni pubbliche sulla distribuzione dell’acqua. Ma i cittadini si sono coalizzati, hanno analizzato attentamente i contratti individuando varie inadempienze della ditta e ne hanno dimostrato la nullità. Ora l’acqua è ritornata a essere pubblica e l’operaio che prima lavorava per l’impresa, è stato assunto dal Comune». Dalla finestra, proprio nel centro del villaggio, si possono ammirare gli orticelli con rigogliose piante di pomodoro, dai frutti rossi e maturi, in file ordinate accanto alle giovani piantine di cavoli e cavolfiori che stanno crescendo in previsione della stagione fredda. «L’orto è un bell’esempio di decrescita. Si risparmiano soldi e si guadagna in sapore e salute perché i prodotti sono coltivati in maniera genuina. In più, si sottrae una fetta di mercato all’agricoltura industriale. E ne guadagnano anche i rapporti sociali: si è ben disposti a regalare ciò che non si riesce a consumare ad amici e vicini di casa, pur di non veder marcire i frutti del proprio lavoro». 196 così bevevano 176 a tutta birra 144 memorie d’acqua 132 menù storici 124 la rete delle comunità Foto A. Ciccarelli Un ritratto dello studioso francese Serge Latouche fotografato durante l’intervista nella sua casa di Taurinya sui Pirenei Orientali. Nella pagina precedente è con l’autore dell’intervista nel suo studio. Decolonizzare il nostro immaginario Latouche e la moglie Mathilde cercano di passare almeno quattro mesi all’anno a Taurinya, ma talvolta gli impegni non lo permettono: conferenze, lezioni, convegni e semplici interventi di Latouche sono molto richiesti per la grande attualità delle sue idee. E l’Italia è in prima fila. Senza avere mai seguito corsi di italiano, Latouche parla perfettamente la nostra lingua grazie ai numerosi viaggi compiuti nella penisola. «Una mia conferenza a Bolzano, è servita a salvare un albero, un ginkobiloba secolare, che doveva essere abbattuto per costruire un parcheggio. Il sindaco, dopo avere osservato la folla accorsa per il mio discorso, ha fatto marcia indietro e ha salvato la pianta». La sua militanza contro lo sviluppo economico e contro la “crescita per la crescita”, come ama definire questo nostro capitalismo orientato a ingigantirsi senza limiti, dura ormai da quasi 40 anni. In sostanza la decrescita è nata constatando la crisi dello sviluppo economico sia nei paesi del terzo mondo sia nella nostra società; solo in un secondo tempo si è ancorata alle teorie ambientaliste. «Lo sviluppo non è né auspicabile né sostenibile. Non auspicabile perché potremmo vivere meglio ed essere più felici in un mondo organizzato su basi differenti. Non sostenibile poiché, come hanno dimostrato gli ecologisti, la crisi ambientale è causata dalla crescita: ogni progresso dell’uomo avviene a scapito delle risorse naturali». Latouche critica con maggior vigore il carattere universale e omologante della società occidentale, che impone un unico modello economico e culturale al resto del mondo. «Quando affermo che per comprendere la decrescita dobbiamo decolonizzare il nostro immaginario, mi riferisco proprio al fatto che dobbiamo concepire un mondo in cui sviluppo e crescita economica siano completamente eliminati dall’orizzonte, anche simbolico. Già negli anni Settanta, insieme a Vandana Shiva, Wolfgang Sachs e altri, formammo una piccola internazionale in cui avanzavamo idee di critica alla crescita, all’occidentalizzazione del mondo e all’imperialismo culturale sulle orme del nostro maestro Ivan Illich. Avevamo tutti esperienze di vita nei paesi più poveri, per ragioni anagrafiche o di studio, e osservavamo come il progetto dello sviluppo, secondo il quale dicembre 2007 65 116 oasi nel deserto 74 icone/dublino 56 56 locale/globale locale/globale 48 il racconto 16 editoriali Locale/globale Foto A. Ciccarelli «Lo sviluppo non è né auspicabile né sostenibile. Non auspicabile perché potremmo vivere meglio ed essere più felici in un mondo organizzato su basi differenti. Non sostenibile poiché, come hanno dimostrato gli ecologisti, la crisi ambientale è causata dalla crescita: ogni progresso dell’uomo avviene a scapito delle risorse naturali» i paesi più ricchi si impegnano ad aiutare quelli più poveri, in realtà portasse alla distruzione di società fondate sull’auto-organizzazione e sulla solidarietà. Questi popoli non sono in grado di adattarsi alle strutture capitalistiche importate dai paesi occidentali e la prova sta nel fatto che, da quando dopo la seconda guerra mondiale, il presidente americano Truman lanciò la teoria dello sviluppo, il divario economico tra Nord e Sud del mondo è aumentato». La decrescita conviviale La decrescita nasce proprio da queste prime esperienze, dal fatto di avere conosciuto mondi e società perfettamente funzionanti ma non fondati sul principio della crescita economica esasperata. «La caduta del muro di Berlino ha evidenziato con maggiore chiarezza le contraddizioni dell’Occidente. Sono sparite le distinzioni tra primo, secondo e terzo mondo, e siamo entrati nella fase del pensiero unico; molte persone, però, hanno iniziato ad accorgersi che i progressi della scienza e della tecnica non sono simbolo di benessere e felicità. Si è affacciato il problema della crisi ecologica a cui si è pensato di rispondere con il concetto di sviluppo sostenibile: l’espressione più evidente della schizofrenia del nostro mondo. Si tratta di un ossimoro, di un puro e semplice slogan, poiché lo sviluppo, per sua definizione, non può essere sostenibile. E così, per rispondere a tutti coloro che mi chiedevano un’alternativa, ho creato anch’io uno slogan chiamato 66 Slowfood “decrescita conviviale”». Ecco la ricetta della decrescita: la critica allo sviluppo di Ivan Illich sapientemente mescolata con studi antropologici in Africa e condita con posizioni ambientaliste è lievitata in una forma che incontra i gusti di un numero sempre crescente di persone. «La crescita è paranoica, dissociata, ma strenuamente protetta da tutti i poteri. Quando Ratzinger si scaglia contro il relativismo culturale, si schiera a difesa dei modelli che permettono all’Occidente cristiano di dominare il mondo. Per fortuna sta nascendo tra la gente una nuova consapevolezza dei problemi anche se le scelte personali degli individui possono dare l’esempio e lanciare un messaggio, ma non potranno certo cambiare il mondo. Per esempio, in Francia la domanda di prodotti biologici è salita al 10% del mercato, ma soltanto il 2% del biologico è prodotto nel nostro paese a causa delle norme comunitarie. I francesi sono quindi costretti a importare alimenti bio dall’estero, dalla Sicilia in particolare. Ma che senso ha mangiare verdure biologiche che hanno percorso migliaia di chilometri sui tir quando potremmo coltivarcele dietro casa? E come è possibile pensare di andare a colonizzare altri pianeti perché noi stessi stiamo distruggendo il nostro? La società della decrescita è un’utopia, ma si contrappone a un’ideologia che ci sta conducendo all’auto-annientamento. Bisogna decisamente cambiare strada perché ormai non siamo più in tempo per rallentare questo bolide destinato a schiantarsi». .