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Foto H. Gruyaert/Magnum Photos
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Per rallentare questo bolide destinato a schiantarsi
Intervista a Serge Latouche di Simone Bobbio
«Nel ’68, al ritorno da un viaggio in Africa, venni con mia moglie a Taurinya alla ricerca di una casa. Essendo un economista, sapevo che lo
spopolamento della montagna avrebbe lasciato molte baite disabitate e
che i loro prezzi sarebbero stati bassi. Visitammo quindi un amico insediatosi in zona e, un po’ per caso, capitammo in questo piccolo villaggio
ai piedi del Pic du Canigou, la montagna sacra dei Catalani, dove acquistammo la casa, che ai tempi era un vero e proprio rudere».
Serge Latouche, l’intellettuale francese che da tanti anni pungola le accademie di tutto il mondo con le sue provocazioni sulla decrescita economica, ha trovato il suo buen retiro in un piccolo paesino di montagna
nei Pirenei Orientali sul lato francese. Nato in Bretagna, vive tra Parigi
e i Pirenei Catalani, ma è spesso all’estero per conferenze e lezioni. Ha
insegnato Scienze economiche all’Università di Paris-Sud e contemporaneamente, per molti anni, ha svolto il lavoro dell’antropologo negli
angoli più remoti dell’Africa.
Negli ultimi anni ha lanciato lo slogan della decrescita che mescola teorie socio-economiche con istanze ambientaliste in un cocktail esplosivo,
in grado di incrinare l’evoluzione della società occidentale, fin nelle sue
radici più profonde. La casa, situata proprio nel centro di Taurinya, testimonia, fin dal primo colpo d’occhio, le peripezie e le avventure vissute
da questo eclettico studioso. L’arredamento è quanto di più miscellaneo
si possa immaginare. Un inginocchiatoio da confessionale convive con
un tavolino congolese a fianco di una panchetta tirolese in legno. Ai
severi muri in pietra dello studio sono appesi gli attrezzi per lavorare in
montagna: rastrello e forcone dei contadini con lanterna e piccone dei
minatori. Ma l’aspetto rustico è subito smorzato da stoffe, lampade e
soprammobili africani; alla finestra sventola la bandiera della pace con i
suoi sgargianti colori arcobaleno.
La baita, al momento dell’acquisto, era in condizioni disastrose poiché abbandonata da tempo. La ristrutturazione è stata lunga, ma sempre condotta
secondo la filosofia della decrescita. «Ho fatto io una buona parte dei lavori;
i muri erano coperti da uno strato di intonaco sporco e cadente. Li ho ripuliti
tutti portando alla luce le belle pietre sottostanti. Per gli interventi più grossi
ho chiesto aiuto al muratore del villaggio. In pratica gli facevo da aiutante:
prendevo le misure e preparavo la malta per agevolarlo nel lavoro».
«L’orto è un bell’esempio di decrescita.
Si risparmiano soldi e si guadagna
in sapore e salute perché i prodotti
sono coltivati in maniera genuina.
In più, si sottrae una fetta di mercato
all’agricoltura industriale.
E ne guadagnano anche i rapporti
sociali: si è ben disposti a regalare
ciò che non si riesce a consumare
ad amici e vicini di casa, pur di non
veder marcire i frutti del proprio lavoro»
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Foto A. Ciccarelli
«Una mia conferenza a Bolzano,
è servita a salvare un albero,
un ginkobiloba secolare, che doveva
essere abbattuto per costruire
un parcheggio. Il sindaco,
dopo avere osservato la folla accorsa
per il mio discorso, ha fatto marcia
indietro e ha salvato la pianta»
L’ultimo minatore e un sindaco scellerato
Il professor Latouche si è trovato a suo agio nel ruolo di bocia e, quando
racconta delle soluzioni pratiche adottate per raschiare il pavimento o per
erigere un arco a sostegno della scala, le sue parole e l’espressione del
volto non riescono a celare la grande soddisfazione che si prova nel mostrare i risultati del proprio lavoro. «La possibilità di vivere e lavorare in
questo angolo di montagna mi ha permesso di osservare i danni prodotti
anche qui dallo sviluppo economico, a partire dall’abbandono dei villaggi da parte dei montanari scesi in pianura a lavorare nelle fabbriche. Ho
stretto una profonda amicizia con Jeannot, l’ultimo minatore nelle miniere
di ferro dei dintorni. I suoi racconti del lavoro in quei cunicoli bui e umidi,
dove non si riusciva a vedere il proprio vicino a causa della polvere sospesa nell’aria e dove si moriva come mosche a causa di silicosi e malanni
vari, mi hanno fatto riflettere sull’aspetto criminale del capitalismo».
«Quando sono a Taurinya» continua Latouche, «cerco anche di sensibilizzare gli abitanti sui problemi sociali e ambientali causati dalla crescita indiscriminata e ho incoraggiato i cittadini a condurre una battaglia contro
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Slowfood
la privatizzazione dell’acquedotto. Un sindaco scellerato aveva venduto
a una grossa impresa privata le concessioni pubbliche sulla distribuzione
dell’acqua. Ma i cittadini si sono coalizzati, hanno analizzato attentamente
i contratti individuando varie inadempienze della ditta e ne hanno dimostrato la nullità. Ora l’acqua è ritornata a essere pubblica e l’operaio che
prima lavorava per l’impresa, è stato assunto dal Comune».
Dalla finestra, proprio nel centro del villaggio, si possono ammirare gli
orticelli con rigogliose piante di pomodoro, dai frutti rossi e maturi, in
file ordinate accanto alle giovani piantine di cavoli e cavolfiori che stanno crescendo in previsione della stagione fredda. «L’orto è un bell’esempio di decrescita. Si risparmiano soldi e si guadagna in sapore e salute
perché i prodotti sono coltivati in maniera genuina. In più, si sottrae una
fetta di mercato all’agricoltura industriale. E ne guadagnano anche i
rapporti sociali: si è ben disposti a regalare ciò che non si riesce a consumare ad amici e vicini di casa, pur di non veder marcire i frutti del
proprio lavoro».
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la rete delle comunità
Foto A. Ciccarelli
Un ritratto dello studioso francese Serge Latouche fotografato durante l’intervista nella sua casa di
Taurinya sui Pirenei Orientali. Nella pagina precedente è con l’autore dell’intervista nel suo studio.
Decolonizzare il nostro immaginario
Latouche e la moglie Mathilde cercano di passare almeno quattro mesi
all’anno a Taurinya, ma talvolta gli impegni non lo permettono: conferenze, lezioni, convegni e semplici interventi di Latouche sono molto
richiesti per la grande attualità delle sue idee. E l’Italia è in prima fila.
Senza avere mai seguito corsi di italiano, Latouche parla perfettamente
la nostra lingua grazie ai numerosi viaggi compiuti nella penisola. «Una
mia conferenza a Bolzano, è servita a salvare un albero, un ginkobiloba
secolare, che doveva essere abbattuto per costruire un parcheggio. Il
sindaco, dopo avere osservato la folla accorsa per il mio discorso, ha
fatto marcia indietro e ha salvato la pianta».
La sua militanza contro lo sviluppo economico e contro la “crescita per la
crescita”, come ama definire questo nostro capitalismo orientato a ingigantirsi senza limiti, dura ormai da quasi 40 anni. In sostanza la decrescita
è nata constatando la crisi dello sviluppo economico sia nei paesi del terzo
mondo sia nella nostra società; solo in un secondo tempo si è ancorata
alle teorie ambientaliste. «Lo sviluppo non è né auspicabile né sostenibile.
Non auspicabile perché potremmo vivere meglio ed essere più felici in un
mondo organizzato su basi differenti. Non sostenibile poiché, come hanno
dimostrato gli ecologisti, la crisi ambientale è causata dalla crescita: ogni
progresso dell’uomo avviene a scapito delle risorse naturali».
Latouche critica con maggior vigore il carattere universale e omologante
della società occidentale, che impone un unico modello economico e
culturale al resto del mondo. «Quando affermo che per comprendere la
decrescita dobbiamo decolonizzare il nostro immaginario, mi riferisco
proprio al fatto che dobbiamo concepire un mondo in cui sviluppo e
crescita economica siano completamente eliminati dall’orizzonte, anche
simbolico. Già negli anni Settanta, insieme a Vandana Shiva, Wolfgang
Sachs e altri, formammo una piccola internazionale in cui avanzavamo
idee di critica alla crescita, all’occidentalizzazione del mondo e all’imperialismo culturale sulle orme del nostro maestro Ivan Illich. Avevamo
tutti esperienze di vita nei paesi più poveri, per ragioni anagrafiche o di
studio, e osservavamo come il progetto dello sviluppo, secondo il quale
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«Lo sviluppo non è né auspicabile
né sostenibile. Non auspicabile
perché potremmo vivere meglio
ed essere più felici in un mondo
organizzato su basi differenti. Non
sostenibile poiché, come hanno
dimostrato gli ecologisti, la crisi
ambientale è causata dalla crescita:
ogni progresso dell’uomo avviene a
scapito delle risorse naturali»
i paesi più ricchi si impegnano ad aiutare quelli più poveri, in realtà portasse alla distruzione di società fondate sull’auto-organizzazione e sulla
solidarietà. Questi popoli non sono in grado di adattarsi alle strutture
capitalistiche importate dai paesi occidentali e la prova sta nel fatto che,
da quando dopo la seconda guerra mondiale, il presidente americano
Truman lanciò la teoria dello sviluppo, il divario economico tra Nord e
Sud del mondo è aumentato».
La decrescita conviviale
La decrescita nasce proprio da queste prime esperienze, dal fatto di avere
conosciuto mondi e società perfettamente funzionanti ma non fondati sul
principio della crescita economica esasperata. «La caduta del muro di Berlino ha evidenziato con maggiore chiarezza le contraddizioni dell’Occidente. Sono sparite le distinzioni tra primo, secondo e terzo mondo, e siamo
entrati nella fase del pensiero unico; molte persone, però, hanno iniziato
ad accorgersi che i progressi della scienza e della tecnica non sono simbolo di benessere e felicità. Si è affacciato il problema della crisi ecologica
a cui si è pensato di rispondere con il concetto di sviluppo sostenibile:
l’espressione più evidente della schizofrenia del nostro mondo. Si tratta di
un ossimoro, di un puro e semplice slogan, poiché lo sviluppo, per sua definizione, non può essere sostenibile. E così, per rispondere a tutti coloro
che mi chiedevano un’alternativa, ho creato anch’io uno slogan chiamato
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“decrescita conviviale”». Ecco la ricetta della decrescita: la critica allo
sviluppo di Ivan Illich sapientemente mescolata con studi antropologici in
Africa e condita con posizioni ambientaliste è lievitata in una forma che
incontra i gusti di un numero sempre crescente di persone.
«La crescita è paranoica, dissociata, ma strenuamente protetta da tutti
i poteri. Quando Ratzinger si scaglia contro il relativismo culturale, si
schiera a difesa dei modelli che permettono all’Occidente cristiano di
dominare il mondo. Per fortuna sta nascendo tra la gente una nuova
consapevolezza dei problemi anche se le scelte personali degli individui possono dare l’esempio e lanciare un messaggio, ma non potranno
certo cambiare il mondo. Per esempio, in Francia la domanda di prodotti
biologici è salita al 10% del mercato, ma soltanto il 2% del biologico è
prodotto nel nostro paese a causa delle norme comunitarie. I francesi
sono quindi costretti a importare alimenti bio dall’estero, dalla Sicilia
in particolare. Ma che senso ha mangiare verdure biologiche che hanno percorso migliaia di chilometri sui tir quando potremmo coltivarcele
dietro casa? E come è possibile pensare di andare a colonizzare altri
pianeti perché noi stessi stiamo distruggendo il nostro? La società della
decrescita è un’utopia, ma si contrappone a un’ideologia che ci sta conducendo all’auto-annientamento. Bisogna decisamente cambiare strada
perché ormai non siamo più in tempo per rallentare questo bolide destinato a schiantarsi». .