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CONVEGNO NAZIONALE DIRIGENTI SCOLASTICI
Bologna, 25-26, febbraio, 2014
Roberto Serpieri
Dipartimento di Scienze Sociali, Università Federico II, Napoli
Leadership democratica o management distribuito?
La costruzione del dirigente scolastico in Italia1
Nel promuovere la riforma della scuola italiana a cavallo del millennio come ‘scuola dell’
autonomia’, l’allora Ministro Luigi Berlinguer espose chiaramente le ragioni che richiedevano allo
stesso tempo una nuova ‘formazione’ del dirigente scolastico che accompagnasse e sostenesse quella
riforma.
La struttura centralistica ha oberato i dirigenti scolastici con compiti ed obblighi di natura burocratica, mentre la
scuola autonoma ha bisogno di dirigenti scolastici che siano in grado di assumersi responsabilità, programmare
ed implementare nuovi progetti ed attività, organizzare e stimolare il lavoro degli insegnanti, ascoltare gli
studenti, coinvolgere le famiglie, gestire le risorse ed interagire con attori esterni (Berlinguer, 2001, pp. 111112).
L’obiettivo era, e per molti versi rimane, quello di rimodellare la figura professionale delle
Direttrici Didattiche2 (per la scuola primaria) e dei Presidi (per la scuola secondaria), attenuandone
le competenze burocratiche in cerca di un nuovo profilo professionale3. In quest’articolo si intende
osservare come, in linea con la ambiguità contenuta nella retorica dello stesso Berlinguer, a quindici
1
In quest’articolo si riprendono una serie di tematiche e risultati di ricerche empiriche che hanno accompagnato la mia
produzione scientifica negli ultimi anni. Ad altre recenti pubblicazioni si rimanda per i necessari approfondimenti ed, in
particolare, al volume Senza Leadership: la costruzione del dirigente scolastico. Dirigenti e autonomia nella scuola italiana,
Milano: FrancoAngeli, 2012, e ad una serie di articoli che ho pubblicato insieme con Emiliano Grimaldi, ricercatore presso il
mio stesso Dipartimento: Grimaldi, E., Serpieri, R., 2012; 2013a; 2013b; 2014.
2 Ci riferiamo ad una connotazione anche di genere delle due figure che ha accompagnato la formazione professionale delle
stesse: quella prevalentemente psico-pedagogico della prima e quella sostanzialmente disciplinare della seconda. Oggi,
come si vedrà, sempre più la dirigenza scolastica sta comunque mostrando, nel nostro Paese, una evidente tendenza alla
femminilizzazione della professione: in che misura ciò comporta delle conseguenze rispetto alla sua ‘formazione’?
3 La richiesta di una più esplicita delineazione del profilo professionale è ancora oggi al centro del dibattito e delle
rivendicazioni di categoria (cfr., Treellle, 2013).
Leadership democratica o management distribuito? La costruzione del dirigente scolastico in Italia
anni dalla riforma ci si trovi ancora di fronte a quella che altrove ho definito una “guerra di discorsi”
(Serpieri, 2009; 2012) e che può essere anche vista come una appropriazione della dirigenza
scolastica da parte di forze, logiche e politiche in-tensione per prevalere l’una sull’altra.
Più specificamente si intende sostenere che, così come per la educazione nel suo complesso,
il dirigente scolastico diviene S-Oggetto di attenzioni e ‘cura’ non solo della politica e della
amministrazione e delle rappresentanze sindacali e professionali di categoria, come del resto è
lecito attendersi. Sempre più spesso e con maggiore insistenza, inoltre, attori definibili come “non
educational” (Gunter, 2012; cm.) si affacciano sulla arena politico-amministrativo tentando di
sottomettere ad una sorta di ‘privatizzazione’ (cfr., Ball, 2007; 2012) implicita (talvolta anche
esplicita) sia le politiche scolastiche, che le scelte strategiche, nonché le opzioni valoriali, riguardanti
le Scuole e la sua stessa Dirigenza. La “guerra” che si è, pertanto, scatenata ha finito per produrre una
figura ibrida.
E se questa ibridazione veniva già fuori nell’immaginario discorsivo di un Ministro di ‘sinistra’, la
spinta verso una chiara svolta imprenditoriale e manageriale del dirigente scolastico è stata da sempre
e subito portata dai più rilevanti esponenti del discorso managerialista come alcune associazioni
professionali, partiti del centro-destra, rappresentanti del mondo imprenditoriale, ecc. insieme con
alcune espressioni ‘filantropiche’ (cfr., per l’uso di tale concetto, Ball, 2007, 2012) di questo stesso
mondo, ovvero le Fondazioni. Si veda quanto sostenuto ‘ufficialmente’ in uno dei documenti una
Associazione, che ha assunto un peso sempre più rilevante nelle politiche scolastiche soprattutto
grazie al ruolo rivestito come ‘consulenza’ nell’ultimo Governo di Centro-Destra (2008-2011),
insieme con altre due Fondazioni per promuovere politiche di valutazione delle scuole, dei dirigenti e
degli insegnanti, sui cui si tornerà in seguito.
Il primo aspetto critico sta nel fatto che il profilo professionale è stato costruito su quello della dirigenza burocratica
e non sul modello manageriale (potere e responsabilità), per cui invece di essere rivolta alla direzione di un servizio
finalizzato all’educazione e alla formazione, esse rimane rivolta al vertice burocratico e amministrativo del Centro. […]
A questo si aggiungono i seguenti elementi critici:
- il dirigente non esercita autonomi poteri decisionali, se non su aree marginali della gestione, e, comunque, non
sul personale, che non valuta e non contribuisce né a reclutare, né a selezionare, né a sanzionare positivamente o
negativamente. Eppure formalmente egli viene considerato responsabile dei loro risultati;
- il dirigente può scegliersi due collaboratori, ma solo per l’espletamento delle sue funzioni amministrativo-burocratiche,
non certo per orientare, coordinare e incidere sul funzionamento didattico e pedagogico della scuola, presidiato da figure di
sistema elette dall’assemblea del personale docente (Collegio dei docenti);
- il dirigente, infine, ha poteri di contrattazione con le istanze sindacali, ma con margini quantitativi e qualitativi ristrettissimi
dettagliatamente definiti dal contratto nazionale (Treellle, 2006, p. 50; c.m.).
Esplicita la richiesta in senso managerialista del profilo professionale del dirigente e questa
diventerà sempre più chiara ed evidente con gli anni, sebbene via via ‘ammantata’ sotto il retorico
richiamo ad una funzione di leadership distribuita e/o condivisa che è stata ri-scoperta, sia pure con
ritardo, anche in Italia come una sorta di ‘cavallo di troia’ (su cui anche si ritornerà) per l’invasione
dei ‘nuovi barbari’ del discorso managerialista per la conquista del campo dell’istruzione pubblica.
E la discesa in campo delle Fondazioni non è che l’ultimo atto di questa sempre più ampia
e pervasiva ‘invasione’ di attori provenienti dal campo del privato e da quello, in senso
lato, ‘economico’, a seguito della estensione delle varie forme di “privatizzazione” (Ball, 2007, 2012)
comportate dalle politiche scolastiche fino a pervenire ad una sorta di privatizzazione delle stesse
politiche, quando gli attori privati sono stati chiamati sempre più dentro le politiche dell’educazione.
Appare evidente, dunque, che con la riforma dell’autonomia a cavallo del millennio, il ruolo
del dirigente scolastico in Italia si sia tentato di ridisegnare, per superare le componenti soprattutto
burocratiche che erano state prima prevalenti (Cavalli, 2012), pur senza dimenticare quelle
professionali di primus inter pares che pure erano presenti, anche se agite a ‘macchia di leopardo’.
Nel ridisegnare questa figura, mentre molte speranze dell’autonomia venivano ‘frenate’ dalla
complessa e intricata matassa degli interessi, dei discorsi, delle alleanze e delle path-dependencies,
in molti hanno visto la dirigenza come una ‘leva’ di cambiamento, spesso tratteggiata secondo la
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mitologia del leader ‘eroico’ e “trasformazionale” (Leithwood, 1992; per una critica, cfr., Newman,
2005). La dirigenza stessa è stava vista, in altri termini, come un “dispositivo” (Deleuze, 1992)
privilegiato per indirizzare la nuova emergente e contraddittoria governance dell’autonomia che,
come si è visto, ha portato ad una sorta di “decentralizzazzione centralizzata” (Karlsen, 2000).
In questo senso, molte istanze discorsive e molti attori in gioco hanno tentato di imporre una
visione derivata dall’immaginario neo-liberale, cui non è estranea neanche la cosiddetta ‘TerzaVia’, attraverso processi ‘automatici’ ed acritici di importazione di politiche centrate sul ruolo
della leadership come tentato in Inghilterra (Gunter, 2012) o altri sistemi scolastici profondamente
“ristrutturati” (Blackmore, Sachs, 2007). Al di là dell’uso retorico e iper-semplificato del termine,
la leadership educativa si è rivelata, tuttavia, un dispositivo di “govermentalità” (Bailey, 2013)
complesso, frammentato, dove le sedimentazioni si accompagnano a dis-continuità, le omogeneità
a fratture, come accade attraverso una adozione attenta e sofisticata del concetto di dispositivo
(Deleuze, 1992).
Il risultato, per così dire, è che il dirigente scolastico in Italia è tuttora un ibrido, sia nella disposizione formale del suo profilo professionale, paradossalmente, ancora poco definita e dove
l’aumento formale dei poteri e delle responsabilità, come spesso si lamenta da più fronti, non è
stata accompagnata da una una effettiva re-distribuzione dei poteri dal centro per realizzare una
sostanziale autonomia scolastica. Sia nella effettiva pratica della dirigenza del nostro Paese, come
ricordato dalle ricerche che hanno accompagnato lo sviluppo della nuova dirigenza dall’autonomia
di Fischer e colleghi (Fischer, Masuelli, 1998; Fischer et al, 2002; Cavalli, Fischer, 2012), che hanno
mostrato una tipologia di comportamenti dirigenziali e ‘stili’ di leadership, molto diversificati, anche
con riferimento al consistente ricambio generazionale e alla progressiva femminilizzazione della
professione.
Così, da un lato, tutte le istanze discorsive neo-managerialisti degli attori che hanno
inteso sostenere la dimensione prevalentemente manageriale – sia pur, come si è detto,
retoricamente ‘ammantata’ di una qualche forma di leadership educativa – sono rimaste fin qui in
larga parte insoddisfatte come per il sostanziale fallimento dei dispositivi di selezione, reclutamento,
formazione e valutazione. Senza contare, inoltre, il perdurare di rivendicazioni salariali e di carriera
per dei dirigenti di cui si contesta lo statuto ‘minore’ rispetto agli altri dirigenti pubblici, innanzitutto
quelli dello stesso Ministero dell’Istruzione (per alcune ‘voci’ sindacal-professionali, cfr., Serpieri,
2012). E d’altro lato, anche le forme di resistenza ‘puntuale’ nell’ “enactement” (Ball et al, 2012)
delle scuole di cultura professionali innovative, in alcuni territori di tradizione democratica e in alcuni
contesti ‘difficili’ di cui pure è ben documentata la presenza nel nostro Paese (cfr., Serpieri, 2002;
Grimaldi, Romano, Serpieri, 2011; Serpieri, Grimaldi, 2013), come quelle istituzionali e politicosindacali, continuano a insistere per non smantellare l’impianto democratico di una scuola comunità
professionale e locale. Come viene mostrato dalla resistenza dell’impianto di governance interna delle
scuole (i suoi Organi Collegiali) che non è stato ancora modificato e di cui si susseguono i tentativi di
riforma attraverso confronti e scontri tra forze politiche e sigle sindacali e professionali 4, ancora senza
esiti.
In definitiva, dunque, si può tentare di riassumere il carattere ibrido del dirigente scolastico
italiano, per ipotizzare quali possono esserne le configurazioni future a seconda che prevalgano
le istanze managerialista, rispetto a quelle di ‘resistenza’ democratica. Per le prime, attraverso
un necessario processo di semplificazione si riprenderanno, a titolo esemplificativo, le principali
richieste contenute in una recente pubblicazione di alcune espressioni ‘filantropiche’ più attive nel
nostro Paese, la Associazione Treellle e la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo
che ha raccolto gli atti di un seminario su “I dirigenti scolastici” (2013), raccogliendo anche pareri
internazionali sui sistemi francese, inglese e tedesco e alcune voci dal dibattito italiano 5. In sintesi,
4
Con addirittura alcune ‘voci’, come quella dell’Associazione Nazionale Docenti (http://www.associazionedocenti.it.it) che
ripropongono l’ipotesi di un Preside eletto dai docenti, come avviene d’altrone di altri sistemi scolastici (cfr, Barzanò, 2011).
5 Non appare superfluo sottolineare come nel seminario-volume non sia presente alcun esponente ‘critico’ sia delle politiche,
che dei discorsi managerialisti in Italia e nel mondo, con la sola eccezione del Presidente Iannaccone dell’associazione
professionale ANDIS (Associazione Nazionale Dirigenti Scolstici).
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dunque, il discorso managerialista vede il dirigente come un dispositivo di direzione e controllo che:
• attiva una comunità di insegnanti vista come essenzialmente passiva, se non ‘recalcitrante’,
rispetto a quanto dis-posto dal Centro;
• distribuisce la leadership attraverso la costituzione di un middle management ‘dedicato’, perché
“nessuno crede più nel preside monarca […] e la leadership distribuita non è solo un modo per
ridurre il potenziale di autoritarismo del preside di cui tutti hanno timore”, come afferma Oliva,
Presidente di Treellle (p. 133; cm.);
• gestisce il ciclo delle risorse umane per il personale scolastico, e in particolare gli insegnanti, di
cui valuta i più ‘meritevoli’;
• è organo decisionale monocratico, mentre gli organi collegiali rivestono un mero carattere
consultivo, come sostenuto dal Capo Dipartimento Istruzione del Ministero, Stellacci;
• garantisce il raggiungimento degli obiettivi di apprendimento così come definiti e valutati dal
Centro e su questo viene valutato, perché “disconnettere il tema della valutazione dei dirigenti da
quello della scuola è un errore logico”, come sostiene il Presidente dell’INVALSI, Sestito (ivi, p.
123; cm.);
• promuove il ‘miglioramento’ della scuola, in linea con quelle che sono le disposizioni contenute
nelle politiche del Governo e le indicazioni fornite dal Ministero e le sue agenzie, l’INVALSI in
primo luogo.
Che, naturalmente, si faccia ampio riferimento ad una retorica di managerializzazione non deve
certo stupire. Così, ad es., mentre si sostiene, soprattutto da Sestito-INVALSI la somministrazione
sull’intero universo nazionale dei test di apprendimento, rispetto alle voci ‘critiche’ come Vertecchi
(2012) che ritengono più che adeguato un campionamento delle scuole, viene giustificato da una
logica comparativa di ‘neutro’ benchmarking, ma finisce col coprirne una sanzionatoria rispetto
alle migliori e alle peggiori scuole. Allo stesso tempo, paradossalmente, si sostiene la necessità
per le finalità delle scuole di “migliorare gli esiti formativi, da intendere in senso ampio, dei loro
alunni” (p. 126; cm.), addirittura, “di crescita personale e civile degli studenti” (p.20), rinviando
a logiche di accountability sostanziale e, dovremmo aggiungere, oltre quindi la valutazione degli
apprendimenti solo attraverso test. In teoria favorevoli, dunque, a “valorizzare le informazioni di
natura soft disponibili localmente – e quindi il momento auto-valutativo ma non per ricadere in una
deriva autoreferenziale” (p. 126). Contrastando, tuttavia, il rischio dell’autoreferenzialità – col solito
refrain tipico della retorica managerialista – con il ‘supporto’ dell’INVALSI, magari utilizzando a tale
fine anche la subordinazione di ciò che rimane del corpo professionale degli ispettori.
La più palese espressione dell’adesione alle logiche di valutazione di stampo managerialista è
stata rappresentata nel nostro Paese dal coinvolgimento di attori ‘privati’ nel promuovere una nuova
cultura valutativa centrata, in particolare, sull’uso della valutazione degli apprendimenti. Come si è
dimostrato altrove (Serpieri, 2012), infatti, si sono incontrate in questa logica le istanze politiche e
ministeriali con quelle del mondo dell’imprenditoria in uno spirito di ‘sperimentazione’. Da un lato, la
Fondazione Agnelli che ha puntato sulla tecnica del ‘valore aggiunto’ apportato dalle scuole in
termini di risultati degli studenti, tecnica che ha contato sull’appoggio di alcuni economisti e dello
stesso INVALSI e che, per sua filosofia intrinseca, lascia in sospeso la determinazione di tale valore
imputabile direttamente al dirigente e agli insegnanti. I fautori di questa tecnica credono che sia
possibile misurare della dirigenza il valore diretto ed indiretto, in omaggio alla scuola della leadership
for learning (cfr., Hallinger, 2012), cui affidare il compito di indirizzare, supportare e monitorare gli
insegnanti per ottenere miglioramenti in termini di valore aggiunto della scuola, in una tipica logica di
benchmarking. Dall’altro lato, le Fondazioni per la Scuola e Treellle che hanno puntato decisamente
verso una valutazione meritocratica del corpo degli insegnanti, attraverso una metodologia
reputazionale. Anche in questo caso il dirigente non viene valutato, sebbene intervenga direttamente
nella valutazione degli insegnanti come uno dei tre componenti di un team di valutazione creato ad
hoc nella scuola.
Questa logica valutativa ha finito per dismettere i panni sperimentali per rivestire pienamente
quelli istituzionali con il nuovo Sistema Nazionale, quando l’INVALSI ha fatto partire l’insieme
degli attuali dispositivi di valutazione dagli apprendimenti alla dirigenza (VALES, ecc.), per cui
a quest’ultima si cerca di imputare una qualche forma di influenza diretta o indiretta sui risultati
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Leadership democratica o management distribuito? La costruzione del dirigente scolastico in Italia
degli studenti. Non è un caso che alla figura di Hallinger (2012), uno dei più prestigiosi promotori
della leadership for learning, viene affidato il compito di legittimare questa logica invitandolo nei
seminari ministeriali (come si evince anche nei materiali riportati nel sito dello stesso INVALSI) a
presentare le sue idee e le sue autorevoli slide di PowerPoint (sic!) a supporto della nuova valutazione
della dirigenza scolastica. Il ‘trucco’ di questa logica valutativa è riconvertire tutto il contributo
della dirigenza a dimensioni quantificabili ed imputabili ad una logica di causalità (correlazioni,
regressioni, ecc.): l’agire di leadership si riduce ad azioni segmentali e quantificabili al fine ed al
costo di ridurne la complessità in misure quali quelle, ad es., della customer satisfaction e della
human resource management.
Ed, inoltre, in linea con l’importazione di idee e politiche del discorso managerialista da Paesi
che, peraltro, stanno almeno in parte già rivedendone la mitologia e le conseguenze, hanno puntato
sull’immaginario di una leadership a volte ‘eroica’ (istruzionale, trasformativa, morale, ecc.) e
talvolta – in un ‘apparente’ rigurgito dell’autoritarismo –, distribuita e condivisa: l’importante è che
questa venga riconosciuta e quantificata. In questo senso, come si è mostrato altrove (Serpieri, 2002,
2008), non vi è alcuna possibilità per il discorso managerialista di ammettere una visione della
leadership che veda oltre la dimensione ontologico-epistemologica – per certi versi, ideologica – di
una competenza, di una qualità, tipicamente lo ‘stile’, del singolo individuo detentore di un ruolo
di ‘vertice o, al massimo, che investa la relazione tra leader e follower e, che li si chiami collaboratori
o middle management, poco interessa. Tacendo, peraltro, sulla ‘gravosità’ dell’enorme carico di
lavoro che i Governi tendono a scaricare sulle spalle di dirigenti auto-regolantisi, sebbene controllati a
distanza (Dean, 2010; Newman, 2001), gravosità che nasconde un processo di dominazione sulla
professione insegnate attraverso il dispositivo della dirigenza-leadership (Gronn, 2003; Thompson.
2009), riducendo la distribuzione ad una mera operazione di delega del potere a ‘fidati’ collaboratori:
infatti, si tratta soprattutto di promuovere un management distribuito. Ovvio, quindi, che le
competenze di leadership (oltre quelle burocratica e manageriale) non possano che essere ridotta ad
uno spazio di azione di influenza e manipolazione del consenso, come la critica della leadership
trasformazionale e distribuita ha chiaramente evidenziato (Serpieri, Grimaldi, Spanò, 2009). Che poi
la leadership intesa come influenza e manipolazione venga presentata come la “vera e propria
funzione di ‘leader’ cioè coordinare e motivare gli attori della sua organizzazione per la realizzazione
di obiettivi comuni” (Treellle, Fondazione per la scuola, 2013, p. 20), o come espressione di
“competenze di tipo relazionale e manageriale” (ivi, p. 121), realizzando una sorta di cortocircuito
ideo-logico, un vero e proprio ‘truismo’, per cui il manager è tale se è leader e il leader è tale se è
manager, questo poco interessa ai fini della legittimazione managerialista del dispositivo dirigenzaleadership.
In tutt’altra direzione, invece, si rivolge un discorso sulla scuola che promuova una leadership
democratica (Serpieri, 2008). In questo caso, infatti, si riconosce nella dirigenza un dipositivo delle
politiche scolastiche caratterizzato da ambiguità e contraddizioni, mentre la letteratura sulla leadership
“democratica” (Woods, 2005), “sostenibile” (Hargreaves, Fink, 2006), “ecologica” (Bottery, 2004),
“ironica-temperata” (Hoyle, Wallace, 2005) e su quella “distribuita” intesa come pratica-processo
(Spillane, 2006), ecc. 6, concepiscono la scuola come una comunità professionale, sociale e ‘locale’.
Ovvero, come una organizzazione non gerarchica (Serpieri, 2002), indirizzata verso finalità di
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Per una presentazione di questi approcci si permetta di rinviare a Serpieri, 2008 e Serpieri, Grimaldi, Spanò, 2009. Risulta,
per certi versi del tutto sorprendente, sebbene per altro del tutto comprensibile, nel dibattito italiano la relativa ‘ignoranza’
in materia di letteratura e politiche della leadership. Laddove, si resta spesso fermi alla peggiore vulgata dei più tradizionali,
quasi obsoleti, approcci, attraverso una importazione parziale e mistificatoria e costantemente ‘in ritardo’ come per la
leadership distribuita, tanto da parte dei protagonisti, organizzati e individuali del discorso managerialista, come nel caso
delle Fondazioni citate, ma anche dei resposabili di importanti istituzioni e associazioni sindacal-professionali, per non
parlare degli ‘accademici’. È vero che la letteratura italiana più aggiornata e ‘critica’ in materia di leadership si risolve in
pochissime voci nel nostro Paese (sostanzialmente, oltre quelli citati di chi scrive, si possono consultare i lavori di Barzanò,
2008; 2011) e, tuttavia, non mancherebbero certo alle agenzie Ministeriali, alle Fondazioni, ai Dipartimenti universitari, ai
centri di ricerca anche sindacal-professionali, ecc., in teoria i ‘fondi’ per garantire un aggiornamento dei loro ricercatori ed
esperti. Ma, parafrasando un noto detto, non c’è cieco peggiore di chi non vuol vedere…
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inclusione e perequazione e non solo di efficacia ed efficienza; per lo sviluppo di capacitazioni ed
aspirazioni di cittadinanza democratica e di una coscienza ‘critica’ sia dei suoi studenti, che del
contesto territoriale, nonché degli stessi professionisti dell’educazione. In questo senso, e rompendo
l’automatismo implicito nella retorica managerialista dell’equazione distribuita-democratica, una
concezione della leadership propria di un discorso “democratco” (Olssen et al, 2004) vede nella
leadership un processo radicato in “un contesto di reti di pratica” (Serpieri, 2008), in una leadership
messa in pratica attraverso una “configurazione di una unicità di insiemi di ruolo” (Gronn, 2010, p.
425). In tal senso, alcune suggestive interpretazioni dei processi di attivazione delle politiche da parte
di ‘scuole normali’ in Inghilterra (Ball et al, 2012) hanno rinunciato ad evidenziare un unico ruolo
di leader, ma hanno rappresentato la configurazione o le reti di pratica della leadership attraverso
un insieme plurimo e diversificato di ruoli assolti nella logica processuale dell’enactment, ovvero
dell’attivazione, della rap-presentazione delle politiche. Una simile concezione processuale della
leadership, il cui “potenziale” (Gronn, 2009) democratico si esprime non solo nella strutturazione
istituzionale, attraverso ad es., degli organi di governance interna, ma anche in termini di ‘resistenza’.
Riconoscendo, incoraggiando, l’emergenza di punti di resistenza presenti nella “soggettivazione”
(Ball, 2013) procurata dai dispositivi delle politiche, di valutazione e, quindi, della stessa dirigenza
(poco è stato fatto finora nel nostro Paese, per di-mostrare le pratiche di resistenza alle politiche
nazionali – si pensi ai soli testi INVALSI – che hanno visto coinvolti dirigenti e insegnanti e, talvolta
famiglie e studenti in una leadership distribuita e democratica). Ma anche esplorando la possibile
rivitalizzazione di forme di partecipazione democratica (Grimaldi, 2011), da quella degli organi
collegiali a quella della collaborazione tra scuole, rompendo logiche ‘competitive’ di partnership,
nella quale si verrebbe ad instaurare, come pure da alcuni proposto, una sorta di super-leader, un
dirigente più dirigente degli altri come nel caso della system-leadership (Hopkins , 2007). E non da
ultimo, come sostiene Cerini (2012) cercando di sostenere una diversa “idea di valutazione” legata
ad una concezione democratica della scuola, nella misura in cui è capace di sostenere e supportare le
istanze plurime di valutazione ed in primo luogo quelle professionali.
Appare chiaro, in definitiva, che i destini della dirigenza scolastica in Italia si svilupperanno
secondo linee di attrito e conflitto tra i discorsi delle politiche scolastiche, risentendo in parte
dell’alternanza dei cicli politici, ma non del tutto, sulla base di una certa trasversalità discorsiva
della ‘Terza-via’ e di taluni dispositivi come il NPM. Riuscirà il discorso managerialista a erodere i
potenziali democratico e partecipativo che anche nella scuola italiana sono incorporati sia nella
alleanza corporativa, che nei professionisti che hanno sostenuto fin qui il discorso welfarista?
Sapranno quelli e potrà quest’ultimo, reinventandosi come discorso democratico, rispondere alle
istanze di ulteriore democratizzazione dell’educazione intesa come bene “comune” (qui possono
citarsi autori anche molto distanti per formazione e posizioni politiche ed ideologiche come: Gallino,
2013 e Hardt, Negri, 2009), in cui anche le comunità locali e le soggettività non-organizzate
riusciranno a trovare una loro espressione e resistere ai tentativi di appropriazione/privatizzazione
delle istituzioni e delle politiche scolastiche? La dirigenza scolastica, in tal senso, viene e verrà ad
esser un dispositivo dilemmatico di potere e di governo: per una scuola finalizzata all’economico o
per una scuola che privilegi il bene comune?
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Leadership democratica o management distribuito? La costruzione del dirigente scolastico in Italia
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CONVEGNO NAZIONALE
DIRIGENTI SCOLASTICI
Bologna, 25-26, febbraio, 2014
Roberto Serpieri
Dipartimento di Scienze Sociali
Università Federico II, Napoli
Leadership democratica
o management distribuito?
La costruzione del dirigente scolastico in Italia
• Valutazione come tecnica del ministero non serve
all'autonomia delle scuole
• Scuola monoteista per una valutazione accentrata
incapace e incosciente del politeismo delle scuole
• Valutare la diversità di ciascuna qualità di ciascuna
struttura di ciascun prodotto di ciascun processo
• Senza autonomia concettuale di ricerca e sperimentazione
si ha una valutazione da monoteismo e quindi un inganno
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Leadership o management?
• Leadership
managerialista
• Leadership
democratica
– Trasformazionale
– For learning
– Distribuita
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– Dalle
micropolitiche…
– …ai processi nella
pratica della scuola
democratica
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Premessa
Leadership o management?
• Obiettivi
• Discorsi e politiche
• Concezioni
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?
•
•
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equità
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Parte I
Leadership managerialista
• Trasformazionale
• For learning
• Distribuita
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Le dimensioni della leadership trasformazionale
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Modello degli effetti mediati con cause
antecedenti
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Philip Hallinger and Ronald H. Heck
Conceptual and methodological issues in studying school leadership effects as a
reciprocal process
School Effectiveness and School Improvement Vol. 22, No. 2, June 2011, 149–173
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Leadership distribuita come una concezione funzionale
dell’interazione tra leader e followers:
•
formali (middle management)
• ed informali (i collaboratori “fidati”)
• portatori di “pezzetti” (piccole risorse di potere) di
leadership
• per un esplicito e desirabile processo di design e
ristrutturazione organizzativi.
Leadership distribuita come un dispositivo manageriale di
delega focalizzato su aspetti posizionali di struttura, ruoli
e procedure, esplicitamente estraneo a questioni di
gerarchia, potere e di politiche.
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Linee guida per i valutatori esterni dei progetti VALES e Valutazione e Miglioramento
Nel quadro di riferimento teorico:
(p. 8) Identità strategica e capacità di direzione della scuola (leadership) Identificazione e condivisione della missione, dei valori e della visione di sviluppo
dell’istituto. Stile di direzione, modalità di gestione della scuola da parte del
dirigente e dei suoi collaboratori. Promozione di una comunità professionale che
cerca il coinvolgimento e l’impegno pro-attivo del personale.
Nella AUTOCOMPILAZIONE più che nella autovalutazione:
Dimensione 6. Identità strategica e capacità di direzione della scuola (leadership)
Identificazione e condivisione della missione, dei valori e della visione di sviluppo
dell’istituto. Stile di direzione, modalità di gestione della scuola da parte del
dirigente e dei suoi collaboratori. Promozione di una comunità professionale che
cerca il coinvolgimento e l’impegno pro-attivo del personale.
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es. di leadership eccellente
La missione della scuola e le priorità strategiche sono chiaramente
individuate e condivise dall'intera comunità scolastica. La dirigenza
contribuisce in modo decisivo a trasmettere un forte senso di
appartenenza alla comunità.
La dirigenza coordina con grande efficacia sia gli aspetti
amministrativi sia quelli didattici, definendo con le diverse
componenti scolastiche chiare responsabilità e compiti. Le diverse
componenti incontrate riconoscono alla dirigenza un ruolo
strategico nel coinvolgere e motivare la comunità scolastica al
raggiungimento di obiettivi comuni.
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Parte II
Leadership democratica
• Dalle micropolitiche…
• …ai processi nella pratica
della scuola democratica
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Leadership procesuale
(modello trialettico delle dinamiche sociali)
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...per concludere
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