di Valentina Frigerio

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di Valentina Frigerio
di Valentina Frigerio
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C
hiara, Lawrence, Ivone e Maria Grazia, Enrico e
Giovanna, Vito e Anna, Caroline, Mauro e Marisa,
Pippo e Luciana, Denis, Francesco, Giorgio e Pupa,
Fausto e Francesca, Rufina, Claudio e Annalisa,
Eugenio, Andrea, Adolf e Mary Joe, Theresa, Padre Grau,
Giuliano e Cristina, Brother Daniele, Alberto e Patrizia, Chiara,
Padre Alfonso, Enza, Chandongwa, Obita, Sara, Samuele, Alex,
Margaret, Matthew, padre Giuseppe, suor Liberata, GeorgeWilliam, Lucia, Mons Kihangire, Brother Elio. Uomini e donne.
Medici, infermieri, pazienti. Sono i protagonisti, ma se ne
potrebbero elencare anche tanti altri, di quel miracolo in terra
d’Africa che è il St Joseph’s. Un miracolo d’efficienza per un
piccolo ospedale nel cuore dell’Acholiland, in nord Uganda.
In occasione dei suoi primi cinquanta anni di attività, la
Fondazione AVSI, da sempre partner privilegiato della struttura,
ha scelto di raccogliere alcune delle tante storie che rendono
l’ospedale un punto di riferimento per tutta la popolazione del
Nord Uganda.
L’albero di tamarindo
A
Luciana brillano gli occhi: “Quando penso al St
Joseph’s, la prima cosa che mi viene in mente è
il grande albero di tamarindo vicino al reparto
di Medicina, sotto il quale i pazienti, da sempre,
aspettano il turno per le visite, cercando refrigerio al fresco
della sua ombra”. Ricorda bene la dottoressa Bassani, che ha
lavorato presso il St Joseph’s durante gli anni Ottanta.
P
roprio all’ombra di un albero è nato l’ospedale.
Prima in forma di piccola clinica, nel novembre del
1925, ad opera delle suore comboniane. Per corpore
et salutem animae salus era il loro motto: mentre
curiamo il corpo, prendiamoci cura dell’anima. All’inizio
veniva applicato quasi alla lettera. Le suore ci tenevano che
tutti i bambini e gli adulti, in punto di morte, ricevessero il
battesimo. Mai motto è stato più azzeccato per una realtà come
l’ospedale St Joseph’s di Kitgum. Il remoto distretto situato nel
Nord Uganda, patria degli acholi, etnia guerriera e cattolica,
è stato, negli ultimi trent’anni, teatro e vittima di numerose
atrocità. Partendo dalle dittature di Obote e Amin, è passato per
la guerra civile, portata avanti dai ribelli, con lo sfollamento in
campi protetti di un milione di acholi e l’arruolamento forzato
di quasi 20mila bambini soldato. Infine - quasi una beffa - un
altro nemico, ben più subdolo del conflitto, l’epidemia di AIDS,
che ha colpito l’Uganda uccidendo più di 900 mila persone e
lasciando dietro di sé due milioni di orfani.
U
na sfida continua, una corsa verso lo sviluppo
continuamente bloccata e, anzi, sovvertita da fatti
eccezionali. Eccezionalmente tragici. Che per gli
acholi, ormai, sono diventati quasi normali. La
morte fa parte del quotidiano. A Kitgum non si piange quasi più
per un caro che se ne va. Ma non perché non lo si ami. La fede,
per fortuna, insegna la speranza. E questo le suore che hanno
costruito il St Joseph’s lo sapevano bene.
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la storia
I
l piccolo dispensario, nato nel 1925 all’ombra di un
albero di mango, si evolve in un centro di salute, grazie
all’introduzione, nel 1938, dei servizi di maternità.
La costruzione della Pediatria e della sala operatoria,
danno il via a una crescita nella struttura e nei servizi offerti,
che permettono al St Joseph’s di essere promosso, da parte
del Ministero della Salute ugandese, al grado di ospedale nel
1960. Oggi l’ospedale St Joseph’s è uno dei più efficienti nel
Nord Uganda, con 21 dipartimenti, 350 posti letto e un “parco
clienti” di circa 50mila pazienti all’anno. La sua direzione è
gestita dall’Arcidiocesi di Gulu, a cui è stato affidata nel 1973.
“L’efficienza del St Joseph’s è legata alla nascita di un soggetto,
di una persona che si assume le sue responsabilità e le declina
nelle sue professionalità specifiche”, commenta Alberto Piatti,
Segretario Generale della Fondazione AVSI.
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orari e turni
D
urante gli anni Settanta i primi medici italiani
arrivano a Kitgum. La maggior parte lavora presso
l’ospedale governativo, altri al distretto sanitario.
Ma ben presto anche il St Joseph’s fa richiesta
di medici espatriati. C’era carenza di medici ugandesi in tutta
Uganda. Figurarsi a Kitgum. “I primi anni avevamo il problema
di andare in vacanza”, ricorda Filippo Ciantia, direttore del St
Joseph’s dal 1982 al 1989. “Non c’era nessun medico che poteva
sostituirci, neanche per un mese”. Anche i ritmi di lavoro erano
diversi. “L’ospedale lavorava al mattino e staccava fino alle 16”,
ricorda sua moglie Luciana. “Molti pazienti però arrivavano
da villaggi lontani e venivano così visitati solo verso sera,
rischiando di dover rientrare a casa affrontando il buio della
notte. Pian piano riuscimmo a convincere lo staff a fare i turni,
permettendo visite continue. Era un processo duro e lento ma,
se accompagnato, era sempre accettato di buon grado”. Così
anche l’amicizia con le infermiere e lo staff medico cresce.
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“Auguro al St Joseph’s che ognuno dei
suoi staff comprenda che l’ospedale
è un luogo sacro, dove, attraverso
la cura dei malati , ogni giorno è
possibile incontrare Dio. E auguro a
tutti i malati che, nelle mani di chi
li cura, Lo possano riconoscere”.
Robert Ochola
amministratore presso il St Joseph’s
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Dal morbillo all’AIDS
I
primi anni non sono semplici. “Li combattevamo
soprattutto in pediatria”, ricorda Filippo Ciantia. “Prima
lottando contro le epidemie di morbillo e il tetano
neontale, principali cause di morte infantile. Una volta
sconfitte le epidemie con le vaccinazioni, è stata la volta della
guerra, che ha portato povertà, e quindi malnutrizione, fino
a quel momento sconosciuta in Nord Uganda”. Il sorghum,
alimento principale degli acholi, è infatti più ricco del mais da
un punto di vista nutrizionale. Accompagnato dalla cassava,
che apporta carboidrati, offre un pasto completo. Con la guerra
però, questi alimenti diventano inaccessibili. E chi ne paga di
più le conseguenze sono i bambini, che riempiono la Nutrition
Unit. “Poi è stata la volta dell’AIDS, forse uno dei nemici più
terribili”.
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Salvata ogni giorno
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ell’86, il tasso di sieropositivi in Uganda
raggiunge il 21%. Da poco si era scoperto che
l’allora definita slim disease (per la sistematicità
con cui procura ingenti perdite di peso) era
una malattia che si trasmetteva principalmente attraverso
rapporti sessuali. Finalmente si dà un nome a tutte quelle morti
apparentemente provocate da disturbi non letali. Ma l’AIDS non
è curabile. Si possono solo curare le infezioni provocate dal
virus che causa un forte abbattimento delle difese immunitarie.
Il forte stigma nei confronti dei malati di AIDS, che si riteneva
avessero contratto il virus come punizione divina per aver
commesso particolari peccati, impedisce a molti di recarsi in
ospedale per farsi curare. C’è addirittura chi preferisce morire
piuttosto che farsi curare. Come Rufina.
R
ufina arriva al St Joseph’s esanime, accompagnata
da Padre Poppi, dopo aver ingoiato 23 pastiglie di
Clorochina. Sperava che una morte immediata le
avrebbe risparmiato le sofferenze della malattia,
ereditata da un marito sieropositivo e infedele. “Perdonami”:
sono le uniche parole che riesce a dire a chi l’ha salvata.
Padre Poppi ha da poco iniziato a Kitgum l’esperienza del
Meeting Point, un gruppo di amici che vanno a trovare a casa
i malati di AIDS per offrire consigli medici e sanitari, qualche
antidolorifico e, soprattutto, tanto conforto. Rufina, una volta
uscita dall’ospedale, vuole subito entrare a far parte del gruppo.
Per sei anni aveva accumulato esperienza lavorando come
infermiera presso il St Joseph’s. “Avevo imparato dalle suore a
prendermi cura del paziente guardandolo come persona, prima
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che come malato”, racconta. “Quando ho visto quello sguardo
su di me, non ho potuto fare a meno di volerlo offrire a tutti
quelli che stavano affrontando le mie stesse pene”. Dal 2005
Rufina ha ricominciato a lavorare all’ospedale St Joseph’s, in
collaborazione con il Meeting Point. “Aiuto i malati di AIDS che
hanno iniziato la cura antiretrovirale offerta dal St Joseph’s.
La cura, infatti, provoca molti effetti collaterali e richiede
costanza e precisione nell’assunzione delle medicine, per
evitare resistenza. Qui mi sento a casa. È dove sono stata salvata
la prima volta. E dove continuo ad essere salvata ogni giorno.
Commossa da tutte le vite che quotidianamente rinascono”.
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Il Sostegno a Distanza
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no dei maggiori problemi che le prime morti
di AIDS portano con sè, è il numero di orfani.
“Alcuni di loro venivano accolti dai familiari,
beneficiando
del
fenomeno,
tipicamente
africano, della famiglia allargata”, racconta Luciana. “Quando
il numero però iniziò ad aumentare esponenzialmente (dall’86
sono più di due milioni gli orfani ugandesi a causa dell’AIDS),
decidemmo di provare a rispondere a questo dramma.
Cominciammo a fornire un aiuto materiale ai bambini africani.
Per sostenere la generosità delle famiglie che accoglievano
gli orfani. E, allo stesso tempo, rispondesse al desiderio di
molte famiglie italiane di fornire un aiuto concreto ai bambini
dell’Africa. Nacque il Sostegno a Distanza”.
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“Auguro al St Joseph’s che possa
continuare ad essere un punto di
riferimento per la popolazione del
Nord Uganda, in particolare per i più
vulnerabili, i meno privilegiati e i più
poveri della comunità, sostenendoli
in tutti i loro bisogni”.
Onena Denis
M&E Officer presso il St Joseph’s
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PMTCT
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e la principale causa di trasmissione del virus
dell’HIV sono i rapporti sessuali (80%), per il 15% la
trasmissione avviene da madre a figlio. “La maggior
parte delle madri, in Nord Uganda, partorisce a
casa, a volte con l’aiuto di un’ostetrica, spesso da sole. Molte
non sanno di essere sieropositive, e così, ignare, trasmettono
il virus al proprio figlio”, racconta Sister Liberata Amito, a
capo delle infermiere del St Joseph’s. “Da quando qui è stato
introdotto il programma di prevenzione materno fetale, sempre
più donne incinte raggiungono l’ospedale e, se risultano
sieropositive, aderiscono al progetto che permette di ridurre
del 70% la possibilità di trasmissione del virus. In più permette
a queste donne di curarsi, in caso di positività al test, riducendo
l’intensità della malattia. Allo stesso tempo entrano a far parte
di una comunità, tra di loro e con le infermiere che le seguono,
dove possono condividere qualunque bisogno. E’ evidente che
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quando vengono qui le mamme si sentono protette e serene”.
“Auguro al St Joseph’s che possa
riuscire a realizzare gli obiettivi
prefissati per i sui prossimi 50
anni: creare maggiori opportunità di
specializzazione per i suoi medici e
riuscire a aprire reparti fondamentali
per un ospedale: il reparto oculistico
e la clinica dentale”.
Caroline Ruth
Clinical Officer presso il St Joseph’s
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I pendolari della notte
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uando la sera scende, a Kitgum, si porta via tutta
la luce del giorno. Quasi a volerla conservare. Per
farla poi esplodere il giorno dopo, nell’azzurro
del cielo mattutino. Quando la sera scende, a
Kitgum, porta a casa i lavoratori, con le loro zappe in spalla. E
le mogli, di ritorno dal mercato, con i figli addormentati sulla
schiena. Quando la sera scende, a Kitgum, qualcuno, invece di
tornare a casa, è costretto a lasciarla, per recarsi a dormire in
un posto più sicuro. E’ il 2005. Li chiamano night commuters,
pendolari della notte: sono bambini tra i cinque e i dodici anni
che, a causa della guerra, ogni notte, per paura di essere rapiti
dai ribelli della Lord Resistance Army, che li trasformerebbero in
bambini soldato, lasciano le loro capanne per andare a dormire
sotto le verande dell’ospedale St Joseph’s. Arrivano a gruppetti
di quattro o cinque, con i vicini di casa o i compagni di scuola.
Una coperta sulle spalle, un sacco di iuta come materasso in
mano: l’occorrente per passare la notte fuori. La mattina dopo,
di buon ora, è tempo di tornare a casa, indossare la divisa
scolastica e recarsi a scuola.
G
iorgio li conosce bene. È un medico di AVSI. Li
vede tutte le sere, tornando a casa dall’ospedale
St Joseph’s dopo una giornata in sala operatoria.
Dieci, dodici lunghe ore a ingessare bambini
caduti dagli alberi dove sono andati a raccogliere manghi
o a operarne altri, colpiti in imboscate o vittime di torture.
Sono lì, seduti nelle verande del reparto di Medicina, sotto
la luce di un faretto, a illuminare le pagine dei loro quaderni
stropicciati. Alcuni di loro, i più grandicelli, approfittano della
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luce della lampadina per fare i compiti. “Nei night commuters
dell’ospedale rivedevo il volto dei miei figli quando, prima di
andare a dormire, chiedevano di leggere insieme una storia”,
racconta Pupa, moglie di Giorgio. “Fu così che iniziammo a
recarci ogni sera in ospedale, raccogliendo, al riparo di una
piccola cappella, tutti i bambini e leggendo loro le favole della
tradizione acholi. Proprio come i loro nonni, con i loro genitori,
prima che scoppiasse la guerra”. Da questa esperienza, una
volta tornati i bambini nelle loro case, è nata la biblioteca del St
Joseph’s: un luogo dove studenti, pazienti e staff dell’ospedale
trovano conforto o informazioni preziose tra le pagine dei libri.
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enza lacwec
S
ono le 3 di notte quando la moglie di Alex dà alla
luce una bambina. “Subito dopo il parto, però, una
forte emorragia la stava portando via,” racconta il
dottor Giorgio Salandini. “All’ospedale governativo
di Kitgum le dissero che sarebbe morta dissanguata. Trasferita
al St Joseph’s, però, nonostante varie trasfusioni di sangue,
la situazione rimaneva critica. Aveva una DIC, sindrome
che causa l’emorragia e la difficoltà del sangue a coagularsi.
Eravamo disperati. Poi, l’intuizione: c’è bisogno di sangue
fresco, che ha ancora il potere coagulante. Posso donarlo io. A
quell’ora di notte, non trovavamo nessun donatore disponibile.
Dopo la trasfusione, Margaret ha iniziato a stare meglio. Sua
madre, seguendo il mio esempio, ha contribuito con il sangue,
accelerando il processo di guarigione. Oggi Margaret e sua
figlia stanno bene. Come da tradizione acholi, Alex mi ha
chiesto di dare il nome a sua figlia: Enza, in memoria di un
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amico recentemente deceduto, e, come nome acholi, Lacwec,
Creatore. In memoria di Chi, se da un parte ci ha tolto una vita,
dall’altra ci ha permesso di salvarne un’altra”.
Castelli medievali
L
’ospedale St Joseph’s, insieme all’ospedale Lacor
di Gulu e all’ospedale Ambrosoli di Kalongo,
rappresentano le tre “eccellenze” del Nord Uganda:
legati
alla
presenza
dei
missionari,
coprono
tutto il territorio dell’Acholiland. Sono da sempre un punto
di riferimento per la salute della popolazione, soprattutto
durante gli anni di conflitto, in cui non hanno mai smesso di
fornire assistenza sanitaria. “Sono come dei castelli medievali”,
sottolinea Filippo Ciantia. Grazie anche al sostegno di AVSI,
che, fin dai primi anni Ottanta, ha garantito la presenza di
medici espatriati e un sostegno in termini di medicinali e di
attrezzature mediche, riuscendo a coprire, per il St Joseph’s, il
40% delle spese. “Il St Joseph’s è saldo, perché è attaccato alla
roccia”, commenta Vito Schimera, medico durante gli anni
Novanta. “Lo si vede nella dedizione del suo staff, che, anche
con uno stipendio irrisorio – e inferiore rispetto a quello
statale – è sempre disponibile. Perché chi lavora al St Joseph’s,
in qualche modo, gli appartiene. E, quando appartieni a
qualcosa, lavori con gusto”.
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Il gate-keeper
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vone Rizzo ha lavorato a Kitgum negli anni Settanta.
“Quando penso all’ospedale missionario St Joseph’s di
Kitgum, penso innanzitutto al suo cancello d’entrata,
quello grande per il passaggio dei veicoli. Sempre chiuso
con una grossa catena d’anelli di ferro serrata da un lucchetto
ancora più grosso. E penso al gate-keeper, un acholi anziano,
alto e forte, che dopo molti anni d’impiego, si era fatta una lunga
esperienza con quel cancello, quella catena e quel lucchetto;
sempre pronto ad aprirlo, a chiuderlo, sotto il sole cocente e la
pioggia torrenziale, di giorno, di notte.
È
il novembre del 1979. Lavoro come medico
all’ospedale governativo. Il Dottor Padre Grau,
che dirige l’ospedale missionario, ha accettato di
assistere mia moglie Maria Grazia nel parto della
nostra secondogenita. Viviamo in città, a circa 3 chilometri dal
St Joseph’s. Alle 2:30 di una notte particolarmente buia, mia
moglie mi sveglia. I dolori sono forti, regolari, frequenti.
Le
acque si rompono. Padre Franzelli (oggi Vescovo della diocesi di
Lira – Uganda) si mette alla guida del pulmino Combi, mentre
io dietro tengo Maria Grazia tra le braccia. Bisogna fare in fretta,
ma le buche della strada non sono mai state così profonde e
così tante. Tre chilometri infernali. Doglie sempre più forti.
“Non spingere”, “Respira”, “Guarda dove vai, mi fai saltare”.
A
rriviamo al cancello chiuso dell’ospedale St
Joseph’s. E’ una notte senza luna. Buio pesto. Padre
Franzelli suona ripetutamente il clacson. Nessuno
si muove. Grida per chiamare il gate-keeper.
Nessuno. Si avvicina al cancello e scuote la catena che lo tiene
chiuso per far rumore. Nessuno. Clacson di nuovo. Finalmente
compare il vecchietto imbacuccato nel suo cappotto grigioverde con berretto in testa. Apre il cancello. “E’ già fuori !” urla
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Maria Grazia sdraiata sul sedile posteriore, e la piccola bimba
emette felice il suo primo pianto vitale. Sul sedile del Combi.
S
O
ara è nata alle 3:15 di una notte buia,
sul sedile
posteriore di un pulmino Volkswagen Combi, fermo
davanti al cancello dell’ospedale St Joseph’s di Kitgum.
Alcuni giorni dopo, le ostetriche dell’ospedale si
consultano con il gate-keeper e aggiungono un nome. Per loro
è Awor: nata di notte”.
ggi, Sara vive in Tanzania con il marito Oliver e
i loro quattro figli. I fratelli Marta ed Emanuele
vivono in Italia. Il primogenito Samuele Otim
Rizzo dal 2005 è tornato a casa, in Uganda, e vive
con la moglie Patricia e i figli a Gulu.
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il Dottor Matthew e il Dottor Lawrence
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bassi stipendi, la mancanza di possibilità formative di
specializzazione dei medici, l’isolamento di Kitgum e
la scarsa offerta di servizi, rendono il St Joseph’s una
meta ben poco ambita tra i medici ugandesi. “E’ stato
così da sempre”, sottolinea Filippo Ciantia. “Gli stessi acholi che
riuscivano a studiare medicina, difficilmente poi tornavano a
Kitgum a lavorare”. Era il 1982. Matthew Lukuwya era ancora
studente quando Ciantia gli propone, una volta finita la sua
internship all’ospedale Lacor di Gulu, di andare a lavorare
al St Joseph’s. “Si vedeva che Matthew aveva una marcia in
più: realmente gli interessava lavorare per i malati. Dopo
l’internship, tuttavia, mi chiese di poter rimanere a lavorare al
Lacor, dove aveva trovato quello che cercava”. Dopo pochi anni,
Matthew sarebbe morto di Ebola. Stroncato da quel male che
aveva combattuto strenuamente fra i “suoi” malati di Gulu.
A
nche il dottor Lawrence Ojom è uno studente
quando arriva al St Joseph’s. Non è un acholi e
apparentemente non ha motivi per voler rimanere
a Kitgum. “Con lui nacque una profonda amicizia”,
ricorda Ciantia. “Lawrence decise di rimanere. Dal 2003 è
direttore dell’ospedale”. Se è vero che la forza di un’istituzione
sono le persone, il rapporto del dottor Lawrence con il St
Joseph’s ne è il paradigma. “Un uomo che non si ferma al fatto
di essere direttore dell’ospedale, perchè ha a cuore l’uomo e la
sua dignità”, così lo descrive Samuele Rizzo, team leader di AVSI
a Gulu. “Ricordo quando, di fronte ad un bambino abbandonato
dalla madre in ospedale, Lawrence decise di aprire un
orfanotrofio, pagando di tasca sua le prime badanti e curando
di sua iniziativa quelli più ammalati e malnutriti”. “Sono questi
gli uomini di cui ha bisogno l’Africa”, conferma Vito Schimera.
In un Paese dove tutta l’intelligentia è stata sistematicamente
fatta fuori dai suoi dittatori, è difficile trovare dei leader.
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“Uomini virtuosi, capaci di tener saldo un progetto. E di entrare
nel cuore della gente. Il dottor Lawrence ne è l’esempio”.
“auguro al St Joseph’s che possa
offrire servizi sempre più di qualità
agli abitanti di Kitgum e che sia
in grado di attrarre e mantenere
giovani dottori, grazie all’offerta di
opportunità formative”.
Dott. Lawrence Ojom
direttore dell’ospedale St Joseph’s
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Q
uando penso al St Joseph’s, la prima cosa che
mi viene in mente è l’odore del disinfettante
misto a quello dei fagioli che bollono in pentola.
Un odore quasi esagerato, come tutto del resto
in Uganda. Mi chiamo Valentina e ci sono stata per tre anni, a
Kitgum. Lavoravo come Project Officer per AVSI e al St Joseph’s
ero di casa. Ricordo anche i fiori, sempre curati, che adornano
l’ingresso. Le mamme in coda al reparto pediatria. Le infermiere
perfette nella loro divisa verde che attraversano il compound. I
parenti, che cucinano per i pazienti nel cortile dell’ospedale. Un
gruppetto di persone che recita un rosario in acholi, attorno al
letto di Scovia, con un sarcoma che tra pochi giorni la porterà
in Cielo. L’imbronciato Obita, che gira con le sue stampelle
in attesa dell’operazione che gli amputerà quella gambetta
maciullata e troppo infetta. Il piccolo Candongwa, venuto con
la sorellina dalla doctor Chiara - come la chiama lui - a ritirare
le sue medicine antiretrovirali. E poi… ancora tanto altro. Con
tutti i problemi di chi, lavorando con AVSI, ogni giorno cerca di
risolvere: organizzare corsi di formazione per motivare gli staff,
coprire le spese dei medicinali e delle attrezzature mediche,
acquistare il latte in polvere per le mamme malate di AIDS.
I
l 50% del sostentamento dell’ospedale dipende da
donazioni esterne. E gli aiuti internazionali, da quando
il conflitto è terminato, sono diminuiti drasticamente.
Ogni giorno è una sfida, per permettere a questo miracolo
di efficienza di vivere. E a chiunque vi entri di continuare a
respirare quell’atmosfera che da sempre lo contraddistingue.
Fedeli a quel motto iniziale: Per corpore et salutem animae
salus.
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Per sostenere l’ospedale St Joseph’s visita il sito www.avsi.org
Oppure chiedi come al nostro indirizzo [email protected]
www.avsi.org