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Sunniti e sciiti: le differenze e l'origine dell'antica frattura di Martino Diez
oasiscenter.eu/ - ottobre 2015
Per disarmare il conflitto all'interno del mondo islamico occorre rinunciare all'identificazione tra
sfera secolare e religiosa
I numeri non sono ancora certi. Le cifre ufficiali rilasciate dal regno saudita parlano di 769
morti, eppure report della stampa internazionale e i conti dei Paesi islamici che hanno riportato
vittime gonfiano il tragico bilancio: oltre 2.100. A settembre, una ressa durante il
pellegrinaggio islamico alla Mecca ha portato alla morte di centinaia di persone. L’Iran sarebbe
il Paese più colpito: il governo di Teheran, nazione sciita, parla di oltre 450 morti accertati. La
strage ha creato un’ulteriore frattura nella storica rivalità regionale tra sunniti e sciiti. Riyad,
dove regna la casa dei Saud, monarchia sunnita, “deve assumersi le responsabilità per questo
grave incidente porgendo scuse alla nazione islamica e alle sue famiglie in lutto, e agire come
necessario”, ha detto la Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei. L’Iran è arrivato fino
a richiedere una trasformazione nella gestione dell’Hajj, il pellegrinaggio rituale islamico, da
parte delle autorità saudite. La storica rivalità regionale si declina oggi in conflitti indiretti in
Yemen, dove l’Arabia Saudita porta avanti una campagna militare in favore delle forze del
presidente Ali Abdullah Saleh contro i ribelli sciiti Houthi appoggiati dall’Iran. Anche nel
conflitto in Siria e Iraq, Arabia Saudita e Iran si trovano su fronti opposti: Teheran sostiene da
sempre il regime di Bashar al-Asad mentre Riyad appoggia militarmente e finanziariamente
alcuni dei gruppi armati che combattono contro Damasco. Le tensioni e l’annosa rivalità tra
sunniti e sciiti che oggi dà forma a tanta politica regionale in Medio Oriente hanno origini
lontane nella storia dell’Islam. Chi sono dunque sunniti e sciiti e perché gli equilibri della
regione passano spesso attraverso le loro difficili relazioni? Lo spieghiamo rispondendo ad
alcune semplici domande che in questi mesi ci è capitato di ascoltare o leggere.
-Sunniti e sciiti costituiscono oggi rispettivamente l’85% e il 15% del mondo islamico. Qual è la
differenza di fondo che li separa?
Prima di parlare delle differenze, è bene premettere che sono tutti musulmani: credono nel
Corano come definitiva rivelazione di Dio all’umanità e in Muhammad (Maometto) come suo
ultimo Profeta, pregano cinque volte al giorno, digiunano nel mese di Ramadan, fanno
l’elemosina, vanno in pellegrinaggio alla Mecca etc. Ma hanno una diversa concezione
dell’autorità religiosa. Per gli sciiti questa autorità, alla morte di Muhammad, si è trasmessa al
cugino e genero ‘Alî e di lì alla sua famiglia. Per i sunniti invece l’autorità è rimasta nel Corano
e nell’esempio del Profeta e dei suoi primi compagni (la sunna), interpretati dalla comunità e
dai suoi esperti religiosi. Teologicamente gli sciiti sostengono perciò che la rivelazione coranica
si compone di un senso esteriore, letterale, e di un nucleo interiore, spirituale, e che
quest’ultimo è insegnato da ‘Alî e dai suoi discendenti, gli imam: se si vuole comprendere il
Corano fino in fondo bisogna quindi passare dalle loro persone, perché “c’è qualcuno tra voi
che combatte per l’interiorità della rivelazione come io – avrebbe detto Muhammad – combatto
per la sua esteriorità. E questo qualcuno è ‘Alî”. Per i sunniti invece “la mano di Dio è con la
comunità”: Muhammad resta il testimone originario della rivelazione e il credente accede
direttamente al Testo Sacro attraverso l’imitazione del suo comportamento, nella catena delle
generazioni.
-Quindi è tutta una questione religiosa?
No, almeno non nel senso che noi diamo oggi alla parola “religione” in Occidente. Nella
comunità islamica delle origini, autorità religiosa e politica si confondevano. Perciò la
divergenza ha avuto un’immediata implicazione politica. Per gli sciiti Muhammad avrebbe
designato ‘Alî come suo successore (califfo) alla guida della comunità islamica, mentre per i
sunniti Muhammad non avrebbe dato nessuna disposizione specifica e i suoi Compagni
avrebbero liberamente scelto un capo per la comunità, con funzioni puramente
“amministrative”: prima Abû Bakr, poi ‘Umar, quindi ‘Uthmân. Gli sciiti perciò sono
politicamente il partito di ‘Alî (e questo tra l’altro è il significato della parola araba shî‘a).
Una lettura predominante tra gli studiosi occidentali si spinge oltre e sostiene che la divergenza
tra sunniti e sciiti sia nata come puramente politica e solo dopo sia stata caricata di un colore
teologico. Cioè: prima i musulmani avrebbero disputato su chi dovesse succedere a
Muhammad, poi il partito di ‘Alî, essendo stato sconfitto sul campo, avrebbe cercato una
rivincita teologica, accrescendo sempre di più l’importanza spirituale degli imam. Questa
spiegazione però sembra proiettare in modo anacronistico la nostra divisione concettuale tra
politica e religione in un contesto molto diverso.
-Geograficamente come sono ripartite queste due comunità?
Gli sciiti si concentrano nelle aree centrali del mondo islamico. Il loro cuore è in Iran, dove lo
sciismo è religione di Stato dal XVI secolo. Anche in Iraq sono maggioritari, mentre in Libano
costituiscono la maggioranza relativa. Consistenti minoranze sciite sono inoltre presenti in
Afghanistan, Pakistan, nel Golfo e anche in Arabia Saudita. I sunniti invece predominano
largamente in Nord Africa e nell’Africa subsahariana, in Egitto e Turchia (dove pure è presente
una consistente minoranza alevita), in Asia Centrale e nell’Estremo Oriente.
-Nessuno nel mondo islamico ha mai provato a superare questa divisione?
Al contrario, ci sono stati momenti in cui si è andati vicini a risolverla. Una prima occasione si
presentò alla morte del terzo califfo ‘Uthmân, assassinato nel 656. Infatti la comunità islamica
scelse come suo successore proprio ‘Alî. In questo modo la spaccatura sembrava sanata. Però
un parente di ‘Uthmân, di nome Mu‘âwiya, governatore della Siria, accusò ‘Alî di essere stato
implicato nell’assassinio di ‘Uthmân e perciò gli rifiutò obbedienza. Dopo la morte di ‘Alî
Mu‘âwiya, rimasto solo, si proclamò califfo. È l’inizio della dinastia omayyade, che durò fino al
750 e perseguitò duramente i partigiani di ‘Alî, in particolare uccidendo il terzo imam Hussein.
Per gli sciiti Hussein è il martire per eccellenza, commemorato annualmente nella festa di
‘Âshûrâ’.
Dopo la fine degli omayyadi, una seconda occasione di ravvicinamento si ebbe durante la
dinastia abbaside (750-1258). Nell’818 infatti il califfo al-Ma’mûn designò come suo successore
l’ottavo imam sciita ‘Alî al-Ridâ. Tuttavia poco dopo l’imam morì in circostanze misteriose e da
quel momento la famiglia di ‘Alî dovette rinunciare a ogni pretesa politica diretta.
Anche nel Novecento si sono avuti diversi tentativi di “avvicinamento” tra sunniti e sciiti, tra cui
spicca da ultimo il Messaggio di Amman del 2004. Questi tentativi sono basati sul fatto che le
due comunità sono molto simili a livello di comportamenti pratici. Per quanto riguarda la legge
religiosa infatti gli sciiti potrebbero essere considerati come un’ulteriore “scuola giuridica”
accanto alle quattro già ammesse nel sunnismo. A livello teologico però le differenze sono
maggiori e la divisione permane.
-Chi è oggi l’imam degli sciiti?
La maggior parte degli sciiti riconosce una catena di 12 imam.
L’ultimo di essi però, a causa della crescente ostilità dei califfi abbasidi, si sarebbe nascosto
nell’874 o, come dicono gli sciiti, sarebbe entrato in Occultamento. Inizialmente avrebbe
continuato a comunicare con i fedeli attraverso intermediari, poi però anche questo legame si
sarebbe interrotto. Perciò oggi gli sciiti credono, nella grande maggioranza, che il dodicesimo
imam sia vivo, ma nascosto e che tornerà alla fine del mondo per riportare la giustizia sulla
terra. Altri gruppi come gli ismailiti si riconoscono in diverse catene di imam o, come gli zayditi
in Yemen, interpretano questa figura in un senso più vicino al concetto sunnita di califfo.
-Quindi per la maggioranza degli sciiti la catena visibile si è interrotta?
Proprio così. E come si può immaginare, questo fatto ha avuto un effetto destabilizzante su
una comunità che si era costruita proprio attorno alla devozione alla persona fisica dell’imam.
Una corrente minoritaria sostiene che, dopo l’Occultamento, lo sciismo debba diventare
totalmente spirituale: il fedele è chiamato a vivere nel proprio cuore il rapporto con l’Imam
nascosto, nell’attesa della sua manifestazione, in particolare mantenendosi lontano dalla
politica. Ma la corrente maggioritaria ha gradualmente trasferito le prerogative degli imam
sugli esperti di scienze religiose, creando così un po’ alla volta un clero, con una sua gerarchia.
È un processo che è durato più di un millennio e di cui si può vedere l’esito ultimo nella figura
di Khomeini. Per il padre della Repubblica islamica infatti tutta l’autorità dell’Imam, durante il
suo Occultamento, passa agli esperti di Legge religiosa (e praticamente alla persona della
Guida Suprema). È la wilâyat al-faqîh, fondamento dottrinale dell’Iran attuale. È interessante
osservare però che questa dottrina è contestata non solo dagli oppositori laici, ma anche da
una parte del clero sciita come per esempio l’ayatollah iracheno Ali al-Sistani.
-E i sunniti quando nascono?
Le loro radici remote affondano in quella parte maggioritaria della prima comunità che scelse
Abû Bakr come successore di Muhammad e che, dopo la morte di ‘Alî, accettò Mu‘âwiya come
califfo, principalmente per porre fine alle discordie civili. Oggi gli studiosi li chiamano “protosunniti”, per sottolineare che il sunnismo vero e proprio nasce più tardi, verso il IX secolo,
intorno agli esperti delle tradizioni relative a Muhammad.
Lo studioso americano Jonathan Brown usa in proposito una bella immagine: parla del
sunnismo come di una tenda che si è allargata nel corso dei secoli. Nasce, come si è detto,
attorno allo studio dei detti di Muhammad, gli hadîth. Poi da questo nucleo si estende a
comprendere anche altre scuole giuridiche e teologiche che davano maggior peso all’uso della
ragione, asceti di varie provenienze e in un secondo momento anche i mistici sufi e numerose
forme di religiosità popolare. Anche il riconoscimento di ‘Alî come quarto califfo legittimo (“ben
guidato”) e come figura religiosa di primo piano va in questa stessa direzione, che oggi
potremmo chiamare “ecumenica”. Tuttavia a partire dal XVIII secolo questa tendenza s’inverte
e la tenda torna a restringersi. I cosiddetti movimenti riformisti, a partire dal wahhabismo
saudita, insistono sul ritorno al nucleo essenziale del sunnismo: nascono così i moderni gruppi
salafiti, che, gradualmente, espellono il misticismo sufi e tornano a concentrarsi in modo
esclusivo sugli hadîth.
-Perciò lo scontro attuale è l’esito di una parabola lunga secoli?
Certamente. Da una parte abbiamo tutto il movimento che sfocia nella rivoluzione di Khomeini
e che comporta l’abbandono del tradizionale quietismo sciita per una militanza aggressiva. E
dall’altra abbiamo un progressivo restringersi della “tenda del sunnismo”, che fa sì che questo
tipo di Islam, almeno nella sua versione salafita, sia oggi molto meno tollerante verso la
diversità, anche la diversità interna.
Ma il quadro resterebbe molto incompleto se non aggiungessimo un terzo fattore: l’emergere,
dagli anni Sessanta in avanti, dell’Islam politico, cioè di una forma di militanza in cui la
religione è vista come un sistema politico onnicomprensivo, capace di fondare un modello di
Stato moderno alternativo a quello occidentale. Questa idea ha affascinato pensatori sia sunniti
che sciiti e nella sua versione violenta ha dato origine a gruppi radicali come le Jamâ‘at
islamiche o Hezbollah, tra l’altro generando un travaso di idee e pratiche come il culto del
martire (tradizionalmente sciita, ma ora centrale anche nel radicalismo sunnita) o la nuova
importanza del concetto di jihâd anche in ambito sciita.
Il travaso “mimetico” tra i gruppi radicali sunniti e sciiti peraltro è andato di pari passo con il
crescere della reciproca ostilità, come si vede già nell’azione di al-Qâ‘ida in Iraq e oggi nello
Stato Islamico. Non c’è nulla di sorprendente in questo: aver portato la divergenza dottrinale
direttamente sul terreno politico rende molto più difficile la sua risoluzione. Non è esagerato
dire che siamo tornati a una commistione tra religione e politica paragonabile a quella della
comunità nascente, con l’aggiunta però della moderna tecnologia con il suo potenziale
distruttivo.
-La divisione sunniti-sciiti quindi basta a spiegare tutto quello che sta avvenendo in Medio
Oriente?
No, è una semplificazione. All’inizio delle rivolte arabe i commentatori parlavano di un nuovo
Medio Oriente, fatto di Facebook e Twitter, e in cui il passato religioso era definitivamente
archiviato. Sono bastati sei mesi in Siria a mostrare che era un’illusione. Ma oggi non si deve
cadere nell’errore contrario e pensare che tutto sia spiegabile con la rivalità tra ‘Alî e ‘Uthmân
alla metà del settimo secolo. Storicamente queste comunità hanno alternato momenti di
convivenza più o meno stabile a periodi di forte contrapposizione e questo è avvenuto, oltre
che per la libera scelta dei singoli, anche in funzione del mutare delle condizioni politiche.
Ma se questo ragionamento è esatto, occorre trarne la logica conseguenza: per disarmare il
conflitto religioso tra sunniti e sciiti è necessario depotenziarlo privandolo della sua
componente politica e quindi rinunciare, da entrambe le parti, a quell’identificazione tra sfera
secolare e religiosa che rappresenta da sempre il cavallo di battaglia dell’Islam politico. Magari
scoprendo che questa commistione non produce un’utopica religione-mondo, ma piuttosto una
politica sacralizzata, che rende i conflitti per definizione non negoziabili.