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Cultura e Società
10 martedì 31 agosto 2010
l'Adige
Cultura e Società
l'Adige
martedì 31 agosto 2010
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LA STORIA. Ministri e altri esponenti della repubblica filonazista ospitati a villa Fontanasanta
Quei collaborazionisti di Vichy
nascosti per anni a Cognola
La drammatica vicenda
del partigiano impiccato
a Belluno come occasione
per riflettere su una serie
di amnesie storiografiche
rovarono rifugio anche
a Trento gli esponenti
del governo filonazista
francese di Vichy che
scamparono all’arresto alla
fine della guerra. Della
vicenda si è occupato lo
storico austriaco Gerald
Steinacher, che ne riferisce
nella rivista «Südtiroler
Landesarchiv».
Nella seconda metà del 1945
ripararono nel «tranquillo»
Sudtirolo circa 500 esponenti
della repubblica di Vichy.
Alcuni vi rimasero, altri si
aggregarono ai fuggitivi verso
le mete esotiche del
Sudamerica, come Jaques de
Mathieu, della sezione
francese delle Waffen Ss, che
si imbarcò nel 1947 per
l’Argentina, dove divenne
consigliere governativo di
Peron.
T
ZENONE SOVILLA
M
S
olo pochi anni prima della
Costituente, le due province
assieme a Belluno furono
annesse al Terzo Reich,
dopo l’8 settembre ‘43. Nel
capoluogo sudtirolese l’arrivo dei
tedeschi fu largamente vissuto con
sentimento quasi liberatorio e a
Trento le autorità cercarono quanto
meno il quieto vivere con gli
occupanti nazisti: si veda in
proposito l’interessante
documentazione menzionata da
Giuseppe Sittoni in «Uomini e fatti del
Gherlenda. La Resistenza nella
Valsugana orientale e nel Bellunese»
(edizioni Croxarie e Mosaico,
Strigno, 2005) circa l’attività del
commissario prefetto de Bertolini e
le intese con i tedeschi, un’altra
pagina meritevole di uno sforzo
orientamenti politici».
Durante il conflitto si trattava
di perseguitati da Hitler, ma
nel dopoguerra erano nazisti.
Lo stesso Karl von Lutterotti
patì come oppositore la
repressione nazista, tuttavia
trasformò «in senso cristiano»
la casa in un rifugio per gli
uomini di Vichy, politici e non
solo. «A Fontanasanta ricorda lo storico approdarono dalla Francia
alcuni noti scrittori e
giornalisti. Tra di loro
Georges Blond, che scrisse
durante il periodo di Vichy per
le riviste di destra e
antisemite “Action française”
e “Revue française”. (...)
Assieme ad altri scrittori
nazionalfascisti, venne
invitato e ospitato in più
occasioni in Germania da
Goebbels». Blond fu poi molti
anni a Merano e pubblicò
sulla stampa locale, con lo
pseudonimo Giorgio Blondel,
vari articoli; in uno auspicava
un’amnistia generale in
Francia.
Anche un altro ricercato, Marcel Mienville, fu fra gli ospiti a
Cognola: se ne andò solo nel
1953 lasciando una breve lettera di ringraziamento. «Quest’ultima sera a Fontanasanta mi fa
coltivare la speranza e lascio
l’Italia con molti ricordi e con fiducia». Nel foglio, ricorda Steinacher, c’è un piccolo disegno:
un uomo dietro le sbarre. «Mienville - scrive lo studioso - aveva di che essere ottimista: grazie all’amnistia in Francia non
poteva più essere perseguitato
come filonazista. Per lui come
per molti altri, era valsa la pena eclissarsi otto anni». Z. S.
(ha collaborato Stefano Ischia)
La serenità degli aguzzini di Mario Pasi
storiografico che ci assicuri un
guado oltre le amnesie e il
pressapochismo di convenienza.
Nel Bellunese era invece diffuso (fin
dalla Grande Guerra e prima ancora)
un atteggiamento di ostilità nei
riguardi degli austro-tedeschi e dei
loro fiancheggiatori, tanto che qui diversamente da Trento e Bolzano fallì miseramente il tentativo di
formare un corpo locale di polizia
nazista: la chiamata alle armi fu
boicottata in varie forme dagli
autoctoni e molti giovani
raggiunsero invece i partigiani,
rapidamente organizzatisi in
montagna anche grazie all’arrivo di
molti ex militari che scelsero
l’antifascismo trovando sostegno
materiale fra la popolazione civile.
C
on quei partigiani fu per
diversi mesi anche un
disertore della Luftwaffe:
il pusterese Ludwig Karl
Ratschiller, «Ludi», che si
unì alla resistenza in Cadore, terra
bellunese confinante con Sudtirolo e
Austria, dove riconobbe fra chi lo
braccava in divisa nazista anche
suoi ex compagni di scuola. Nel
novembre 1944 fu arrestato e
rinchiuso a Belluno, in una cella
vicina a quella di Pasi. Nel suo diario
«Il compagno Ludi» (Quaderni della
memoria, Anpi Bolzano, 2005)
ricorda: «Con raccapriccio ho
dovuto sentire per interminabili ore
i suoi lamenti per le lesioni inflittegli.
Passando in fretta davanti alla sua
cella quando i militari di guardia
(tutti anzianotti) ci permettevano di
andare ai lavabi, dovetti ogni
qualvolta portarmi la mano al naso
per non sentire l’odore di putrefatto
che proveniva dalla sua cella.
Voltando lo sguardo furtivamente
verso le sbarre della sua cella,
potevo intravedere un coso
raggomitolato sul tavolaccio che
emetteva rantoli continui».
Pasi era stato catturato dalle Ss la
notte del 10 dicembre e affidato alla
Gestapo che lo interrogò
torturandolo per quattro mesi.
Inutilmente. Montagna non parlò e
fu impiccato moribondo e con le
gambe in cancrena.
Il diario di «Ludi» ci aiuta a ricordare
chi furono gli aguzzini di Pasi: il
regista del terrore era il tenente
Georg Karl, e fra i suoi più solerti e
crudeli assistenti c’erano sudtirolesi
come Karl Tribus, Karl Lanznaster e
Ludwig Pallua.
Così come altoatesini erano
probabilmente la gran parte dei
soldati che scortarono Pasi e gli altri
al Bosco delle castagne per
impiccarli. In provincia di Belluno,
infatti, dall’aprile 1944, il nucleo
delle forze occupanti era composto
dal secondo battaglione dell’Ss
Polizei Regiment «Bozen»
comandato dal maggiore Otto
Schröder (fu lui a esigere dalla
Gestapo i prigionieri da giustiziare,
per vendicare un’imboscata subita
dai suoi militari).
Pare escluso, invece, che quel
scatenava la violenza delle Ss e della
Wehrmacht.
La sua testimonianza evoca anche i
roghi e le uccisioni: «Il fuoco divenne
immenso e l’intero paese [Caviola,
ndr] presto fu in fiamme. Mi
spostarono lungo la strada che
portava da Caviola a Falcade in
direzione del torrente Biois, ad una
certa distanza da dove avevano
concentrato un numeroso gruppo di
civili (escludo la presenza di donne
e bambini) e partigiani, catturati
nelle ore precedenti.
LA RESISTENZA NEL DIARIO DI SARZI AMADÈ
I giorni di «Polenta e sassi»
Q
uel 10 marzo 1945, i nazisti, con
Mario Pasi, ormai moribondo e gli
altri nove compagni (fra i quali un
soldato francese rimasto ignoto),
percorsero con calma la via più lunga per
il Bosco delle castagne, attraversando tutte
le frazioni a nord della collina (Vezzano,
Bolzano bellunese, Tisoi). Volevano
ingannare i partigiani che osservavano la
scena dai monti verso le prime vette
dolomitiche del gruppo dello Schiara.
Era un agguato teso dopo aver nascosto
molti uomini con le mitragliatrici, saliti dal
versante opposto: se i «ribelli» fossero
scesi per liberare i prigionieri, sarebbero
stati sopraffatti e falciati senza pietà. Ma
dai partigiani era salita di corsa una
staffetta, la giovane Anna, ad avvisarli
dell’imboscata: «Attenti, è una trappola.
Non muovetevi di qui».
A raccontarcelo è il diario di uno di quei
partigiani che dall’alto osservarono col
binocolo i dieci cadaveri appesi ai
castagni nel tramonto di quel 10 marzo
1945, accanto a una vasta chiazza di neve
Da medico
al «Santa Chiara»
a comandante
di una divisione
garibaldina
sui monti bellunesi
dove si concentrava
l’opposizione armata
all’occupante nazista
Oppose per mesi
il silenzio alle torture
del tenente Karl
e dei suoi crudeli
assistenti sudtirolesi
tutti tranquillamente
sfuggiti alla giustizia
nel dopoguerra
che resisteva all’avvicinarsi della
primavera. Si tratta di Emilio Sarzi Amadè,
(1925-1989), nel dopoguerra noto
giornalista de «l’Unità», che pubblicò
tardivamente, nel 1977 per Einaudi, quei
suoi ricordi della resistenza sulle
montagne bellunesi, scritti nel 1945, ora
riproposti dalle edizioni Cierre con lo
stesso titolo: «Polenta e sassi» e una
prefazione dello storico bellunese
Ferruccio Vendramini.
Pagine aspre dalle quali emergono il
dramma ma anche la leggerezza d’animo
di chi aveva scelto di stare dalla parte
giusta e per questo sapeva di rischiare
tutto.
Tutte quelle vite calpestate dal
nazifascismo segnarono profondamente la
coscienza collettiva e il Bosco delle
castagne oggi è un commovente parco
storico nella città medaglia d’oro della
Resistenza. Assai più sbiadita rimane la
memoria delle colpe e delle
responsabilità: dei nomi e cognomi dei
Z. S.
carnefici e dei complici.
giorno avessero assistito anche
membri del Corpo di sicurezza
trentino (Cst) che era stato presente
nella zona e fu chiamato accanto ai
nazisti anche in varie operazioni
antipartigiane e rappresaglie sulla
popolazione. Nel Bellunese, fra
l’altro, furono incendiati interi paesi
«rei» di aiutare i «ribelli» e alla fine, il
contributo di sangue di questa terra
alla Liberazione fu notevole: un
migliaio i morti, circa trecento i
feriti, 1600 deportati e 7000 internati.
R
isalire alle responsabilità
individuali, specie per le
figure «minori», non è
agevole, anche perché i
tedeschi in ritirata fecero
sparire i documenti militari.
Nel caso dei torturatori di Pasi, un
nome rispunta nell’ottima indagine
svolta dallo storico Gerald
Steinacher e riportata nel suo
volume «La via segreta dei nazisti.
Come l’Italia e il Vaticano salvarono i
criminali di guerra» (Rizzoli, 2010,
431 pagine, 24 euro).
Si tratta di Karl Tribus, nato a Lana
nel 1914, che finita la guerra scappò
«con l’aiuto di un francescano
bolzanino seguendo la ben nota
rotta argentina» dopo un periodo di
clandestinità in Alto Adige (il sereno
soggiorno dolomitico prima della
fuga accomunò anche figure ben più
note, come Eichmann, Priebke e
Mengele). Nel 1957, si spacciò per
defunto con un telegramma inviato
da Buenos Aires al Comune di Lana.
Il suo fascicolo era tra quelli trovati
quindici anni fa dall’«armadio della
vergogna» e fu avviato un
procedimento penale; ma
l’imputato, a quanto pare, stavolta è
morto davvero.
Del maresciallo Pallua, invece, ci
narra Ratschiller: morì nel 1972 a
Brunico, dove probabilmente lo
ricordano come un brav’uomo.
Quanto al sadico regista delle
torture su Pasi e gli altri prigionieri,
il tenente Karl, pare si sia
volatilizzato subito dopo la guerra.
«Non siamo riusciti a saperne più
nulla; a parte la notizia, quasi
certamente falsa, della sua morte,
diffusasi nel primo dopoguerra»,
spiega Ferruccio Vendramini
dell’Istituto storico bellunese della
Resistenza e dell’età
contemporanea.
Da Bolzano, invece, il presidente
dell’Anpi, Lionello Bertoldi, ricorda
che l’aguzzino fu segnalato in Alto
Adige ma poi risultò irrintracciabile,
il che fa desumere un’altra fuga
verso l’esilio dorato in Sud America
o in Spagna passando
dall’affollatissimo crocevia
bolzanino.
Dovunque sia finito, di Georg Karl si
è sempre ritenuto che fosse a sua
volta altoatesino (anche Mario
Tobino in una poesia dedicata a Pasi
lo evoca così). In realtà, stando ai
primi risultati di un’indagine che sta
svolgendo Gerald Steinacher
(docente all’Università di Innsbruck
e attualmente ricercatore ad
Harvard), si può ipotizzare che il
comandante della Gestapo a Belluno
fosse nato nel 1906 a Norimberga.
Ora lo storico tirolese confronterà i
dati dell’archivio Wast di Berlino con
il fascicolo Ss su Georg Karl che ha
già esaminato al National Archives
di Washington. Poi forse, sapremo
P
qualcosa di più di un torturatore
rimasto probabilente impunito.
Di un’altro capo nazista operante
nell’Alpenvorland ci dà indicazioni
precise il libro di Steinacher: si
tratta dell’ufficiale Ss meranese Willy
Niedermayr, che si ritiene sia tuttora
in vita in Cile. Condannato in
contumacia e ricercato, partecipò al
rastrellamento degli ebrei a Merano
nel ‘43 e poi fu il sanguinario
seviziatore e assassino del comando
Ss di Feltre.
Poi compare il maggiore Alois
Schintlholzer, originario di Innsbruck
e arrestato dai carabinieri a Prato
allo Stelvio nel 1947: aveva preso
parte a innumerevoli rappresaglie
contro i partigiani e i civili, ma non
scontò mai la condanna italiana
all’ergastolo. Dopo la precoce
evasione, invecchiò pacificamente a
Innsbruck.
I
l nome di Schintlholzer è legato
anche ai tragici fatti
dell’Agordino e in particolare
all’incendio dei paesi bellunesi di
Caviola, Fregona e Feder e alle
violenze deliberate che causarono
almeno quaranta morti e un numero
imprecisato di feriti.
Nelle truppe che scesero dal San
Pellegrino e dal Valles verso la conca
di Falcade per metterla a ferro e
fuoco c’erano anche i trentini, come
ricorda Attilio Fronza nel suo
interessante diario «La polizia
trentina ai confini del Reich» (Egon,
2008, 142 pagine, 15 euro) in cui
racconta che ai militi del Cst era
affidato il compito di formare un
cordone al limitare dei boschi per
impedire la fuga dai paesi dove si
Nei quasi due anni
dell’Alpenvorland
l’area della vicina
provincia dolomitica
fu controllata
in larga parte
dal Regiment Bozen
e vi operò anche
il Corpo di sicurezza
trentino: una pagina
altamente tragica
che offre rinnovati
spunti di ricerca
nelle pieghe dei fatti
come ricorda
lo storico austriaco
Gerald Steinacher
iazzarono le mitragliatrici:
fu una carneficina, venti o
trenta persone se non di
più giacevano inermi sul
terreno. (…) Mi sentivo
impotente davanti a tanta violenza e
brutalità; le immagini di quel giorno
mi rimarranno per sempre nella
mente».
Furono numerose le operazioni e le
rappresaglie naziste cui partecipò
fuori provincia (oltre a Belluno,
Brescia, Vicenza e Verona) il Corpo
di sicurezza trentino. Fra queste
anche il grande rastrellamento
nell’area del monte Grappa nel
settembre 1944. Circostanze in cui,
accanto ai tedeschi, spesso si
distinguevano per il sadismo le
brigate nere repubblichine (anche la
gran parte dei criminali fascisti
italiani trovo la via di fuga se non
l’amnistia).
Per tornare all’Agordino, di quei
tragici fatti e anche del ruolo di
trentini e altoatesini parla con
rabbia l’antifascista cattolico Pietro
Follador (1882-1963) nel suo diario
scritto «in tempo reale» e pubblicato
postumo solo qualche anno fa nel
bollettino parrocchiale di Falcade
(ora è reperibile online).
A parte le dure accuse per il
collaborazionismo con i nazisti, il
diario insiste spesso sui problemi di
approvvigionamento alimentare,
perché i tedeschi «si vendicano» sui
bellunesi anche «riducendoli alla
fame» mentre «nelle vicine province
di Trento e di Bolzano i generi
tesserati arrivano quasi
regolarmente tanto da poterne fare
mercato nero».
Quelle dei due diari di Follador e
Fronza sono pagine dense di dolore,
voci di due mondi così vicini eppure
drammaticamente separati dalla
guerra. Pagine che ci invitano a
riportare in primo piano la
riflessione storica su quello snodo
epocale e sulla sua proiezione
nell’oggi, davanti all’assedio
revisionista e riduzionista, razzista e
conformista, spesso fiancheggiato
da un silenzio complice.
Nel caso del Trentino,
un’opportunità di emancipazione
collettiva è data
dall’approfondimento di vicende
come quella di Mario Pasi e del suo
contesto, utili a specchiarsi nel
passato fuori dalla ritualità e dalla
retorica che ammantano in misura
pericolosamente crescente
l’esercizio storico istituzionale.
Nelle foto
dall’alto,
il parco
della memoria
al Bosco
delle
castagne,
il cadavere
di Mario Pasi,
il partigiano
in divisa
d’alpino;
il nazista
suo aguzzino
Georg Karl
all’epoca
dei fatti,
un ritratto
nel fascicolo
probabilmente
attribuibile
al medesimo
militare Ss
al National
Archives di
Washington;
il ramo
cui fu appeso
«Montagna»
così come
appare oggi;
altri impiccati
dai tedeschi
a Belluno
il 10 marzo
del 1945
G0081106
ario Pasi moriva in un
freddo pomeriggio di
marzo sulle colline
sopra Belluno.
Dall’alto dei monti che
cingono a nord la città dolomitica, i
suoi compagni partigiani potevano
osservare i corpi penzolanti del
comandante Alberto Montagna – il
nome di battaglia di Pasi - e di altri
nove giovani. Era una delle
innumerevoli rappresaglie naziste, in
una provincia che viveva una
resistenza particolarmente attiva e
radicata. Quello stesso 10 marzo
1945, mentre al Bosco delle castagne
impiccavano Pasi e compagni, sul
versante opposto della Valbelluna, a
sud della città, venivano massacrati
sulle colline altri otto partigiani fra i
quali i quattro fratelli Schiocchet.
A 65 anni di distanza dall’orrore, la
storiografia ci è debitrice di
parecchie pagine legate alla vicenda
di questo medico ravennate (classe
1913) che, laureatosi in medicina a
Bologna nel 1936, venne a lavorare
all’ospedale «Santa Chiara» e che in
città fu l’anima del partito
comunista. Richiamato al fronte nel
maggio 1940, fu congedato per
malattia alla fine dell’anno dopo:
fece rientro a Trento, riprese il
lavoro in ospedale e l’attività
sovversiva nella città ormai in mano
ai nazisti; ma fu costretto di lì a poco
alla clandestinità. Date le difficoltà a
organizzare un’efficace resistenza
locale, decise con altri compagni di
aggregarsi ai combattenti nel
Bellunese. Qui assunse vari incarichi
di primo piano fra i partigiani
appartenenti alla divisione
garibaldina Nannetti (partecipò fra
l’altro al famoso attacco alle carceri
con la liberazione di tutti i
prigionieri politici), fino a diventare
commissario del Comando unico di
zona del Cln. Una figura, quella di
Pasi, che suggerisce tuttora una
miriade di sentieri di studio nel
tempo andato eppure così presente.
Ma mentre si investono fiumi di
energie economiche e culturali per
celebrare in salsa tardonostalgica il
condottiero anti-illuminista tirolese
Andreas Hofer, l’intellettualità
istituzionale trentina non ci aiuta
gran che a decifrare il contesto della
parabola di Pasi dalla quale,
allargando il raggio d’analisi, si
potrebbero trarre preziose sorgenti
di riflessione anche in fatto di colpe
collettive, responsabilità individuali
e cammino civile.
Eppure a morire per l’antifascismo
non fu Andreas Hofer del quale fra
l’altro la sponsorizzatissima
agiografia delle lotte
antinapoleoniche omette le
sanguinose scorribande schützen
nell’agosto 1809 contro le
popolazioni del vicino Cadore (per
non dire del suo governo
reazionario, maschilista e liberticida
che a Innsbruck ricacciò nel fango
ebrei e protestanti).
A mettere in gioco la vita fu Mario
Pasi, dedicandola a una lotta
democratica nella quale affonda le
radici la Repubblica italiana, madre
anche dell’autonomia speciale del
Trentino Alto-Adige.
Dopo un soggiorno
altoatesino durato diversi
anni, prese la via
d’oltreoceano, con l’aiuto
delle gerarchie cattoliche,
anche l’ex ministro della
cultura William Guyedan de
Roussel.
Un suo collega, Francis Boutde-l’An, viceministro di
polizia, trovò presto riparo
nella tenuta della famiglia
von Lutterotti a villa
Fontanasanta di Cognola. «In
questo podere - scrive
Steinacher - pare siano giunti,
grazie a intermediazioni della
curia di Trento, diversi
fuggitivi, Ss o
collaborazionisti. Il provicario
per il Sudtirolo della diocesi
di Trento, mons. Josef Koegl,
fece da intermediario per far
arrivare ai Lutterotti
fuggiaschi di diversi