ANTONIO CASOLARI

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ANTONIO CASOLARI
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ANTONIO CASOLARI
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Foto in copertina: Cellule vegetative e spore del batterio Clostridium botulinum
62A, a 1.250 ingrandimenti, in contrasto di fase. (Eseguita dall’autore).
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CALORE
Resistenza microbica al calore…5.. Metodi di determinazione della resistenza
termica ….6.. Inoculated pack-test…9..Elementi di calcolo della resistenza
termica …11.. Significato delle curve di sopravvivenza …16..Resistenza termica
e temperatura …20.. Fattori che condizionano la resistenza termica …25..Acqua
..27..pH…32..Tabella pH alimenti…33.. Termoresistenza delle cellule batteriche
vegetative …38.. Termoresistenza delle spore batteriche …44..Trattamenti di
sterilizzazione di riferimento…53.. Valori di Fo applicati agli alimenti …53..
Considerazioni teoriche …56..Aspetti termodinamici dell’inattivazione termica
dei microrganismi …60.. Le cinetiche non-esponenziali d’inattivazione termica
…69.. Osservazioni …81..Pastorizzazione…85..Sterilizzazione uht del latte
…91.. Termoresistenza dei batteri mesofili e termofili …99.. Termoresistenza
virale …107.. Prioni e sterilizzazione …110.
Radiazioni…119
Radiazioni ultraviolette …120.. Radiazioni ionizzanti …127.. Radiazioni e
sistemi biologici …130.. Effetti letali delle radiazioni …132.. Radioresistenza
microbica …135.. Fattori che condizionano la radioresistenza …137.. Modello
dell’inattivazione da radiazioni …140.. Gamma-resistenza microbica …142..
Impiego pratico delle radiazioni …147..Cl. botulinum e raggi gamma …149..
Confronto tra resistenza microbica al calore e alle radiazioni…149.. Il problema
delle 12D …150.. Code nelle curve di radioinattivazione …153.. Dosi frazionate
…153.. Trattamenti combinati calore –radiazioni …154.. Cellule vegetative
radioresistenti …155..Gamma resistenza dei virus …156.. Gamma resistenza
delle tossine microbiche…156.. Radicidazione …157.. Radurizzazione …159..
Radurizzazione e Cl. botulinum tipo E …160.
Disinfezione…162
Pareti e pavimenti …162..Soffitti, illuminazione, ventilazione, servizi…163..
Impianti…164.. Disinfettanti…165.. Cloro…169.. Iodio…171..Bromo…173..
Acqua ossigenata…173.. Acidi…173.. Alcali…174.. Quats…174.. Glutaraldeide,
etanolo…175.. Metalli pesanti…176.. Decontaminazione degli impianti…176..
Tensione superficiale…179.. Controllo contaminazione impianti…183.. Metodi
di valutazione della decontaminazione…186.. Cinetica della decontaminazione…
186.. Fattori che condizionano la velocità di rimozione dei contaminanti…188..
Classificazione dei detergenti…190.. Sequestranti e chelanti…195.. Disperdenti e
deflocculanti…195.. Applicazione pratica di detergenti e disinfettanti…196.
ANNESSI
Pastorizzazione LHT…200.. Parametri LHT…201.. Quality sterilization…207..
Rilevazione delle curve di penetrazione del calore e calcolo del trattamento di
pastorizzazione (F72°) e di sterilizzazione (Fo).
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RESISTENZA MICROBICA AL CALORE
La maggior parte delle specie microbiche è in grado di accrescersi in ambienti
con temperature prossime a 46°C. A temperature superiori, le cellule muoiono
con velocità tanto maggiore quanto più è elevata la temperatura dell'ambiente. I
microrganismi termofili si accrescono normalmente (steno-termofili) solo a
temperature superiori a 45°C (talvolta anche a partire da temperature prossime a
30°C = euritermofili) e comunque fino a 60-75°C.
Le cellule vegetative sono le particelle microbiche più sensibili alle temperature
elevate. Le spore dei lieviti e delle muffe sono quasi altrettanto resistenti delle
cellule vegetative; fanno eccezione le ascospore, che talvolta sono dotate di una
singolare capacità di resistenza (BEUCHAT, 1986). Le spore batteriche, sono le
unità microbiche di gran lunga più resistenti a tutte le condizioni ambientali
sfavorevoli alla sopravvivenza cellulare e quindi anche al calore.
La capacità dei microrganismi di sopravvivere in ambienti con temperature
superiori a quelle di sviluppo, può essere misurata con un soddisfacente grado di
precisione.
Fondamentalmente si è osservato che il grado di contaminazione di un mezzo
qualsivoglia diminuisce con l'aumentare del tempo di permanenza a temperature
sufficientemente elevate. La velocità di morte dei microrganismi può quindi
essere valutata seguendo la diminuzione del numero di cellule vitali all'aumentare
del tempo di trattamento. A tal fine, si eleva la temperatura di un ambiente
contaminato (quale acqua, latte, carne, succo di frutta, o siringa per iniezioni), e a
tempi crescenti si eseguono prelievi di materiale per la determinazione del
numero di cellule ancora vitali per unità di volume o di peso.
Le cellule microbiche non più vitali possono essere definite morte, inattivate,
distrutte, ma sono comunque morfologicamente indistinguibili da quelle ancora
vive, se osservate al microscopio ottico in contrasto di fase o in contrasto
interferenziale.
Per definizione, i microrganismi debbono essere considerati non più vitali
quando non sono in grado di moltiplicarsi in condizioni ambientali ottimali.
Tale condizione è determinata abitualmente utilizzando le tecniche colturali
canoniche. Talvolta, l'impiego di coloranti "vitali" può consentire rapide stime
della resistenza specifica (sono detti "vitali" alcuni composti che assumono
colorazioni differenti in cellule vitali e in cellule morte; la proporzione di unità
vitali può essere stimata al microscopio, oppure determinata con precisione per
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via spettrofotometrica). Tuttavia, i meccanismi biologici che sostengono tale
differenziazione (l'attività respiratoria, ad esempio, che determina la riduzione - e
quindi il cambiamento di colore degli indicatori di ossido-riduzione (blu di
metilene, TTC, ecc.; la denaturazione degli acidi nucleici, che modifica la
fluorescenza di composti di acridina che vi si legano; ecc.) non sono direttamente
e necessariamente collegati alla caratteristica vitale che interessa primariamente
sottrarre ai microrganismi. È infatti solo la perdita della capacità di
moltiplicazione, che interessa, come unico criterio della de-vitalizzazione
cellulare, indipendentemente dallo scopo per il quale si sottopone un ambiente
definito ad un trattamento letale per i microrganismi (impedire la trasmissione di
patogeni, preservare un prodotto dall'alterazione). Infatti, la sopravvivenza di
microrganismi isolati (un virus, una salmonella, un lattobacillo, ecc.) è in tutti i
casi pressocchè priva di qualsiasi interesse clinico, o tecnologico. Solamente i
microrganismi che conservano la capacità di accrescersi numericamente
rappresentano un pericolo reale, poiché la malattia, così come la degradazione di
un substrato, costituiscono entrambe comunque l'effetto ingeneratosi con
l'accrescimento numerico delle particelle coinvolte, indipendentemente dalla loro
patogenicità specifica. Una quantità importante di particelle microbiche può
originare reazioni patologiche rilevanti, anche se le particelle stesse sono morte.
Ma si tratta appunto sempre di quantità importanti, non di pochi elementi. Ed è
impedendo che pochi elementi diventino una moltitudine, che ci si protegge
comunque dalle malattie, come dalla degradazione dei materiali utili
all'alimentazione.
METODI DI DETERMINAZIONE della RESISTENZA
TERMICA.
La termoresistenza dei microrganismi è determinata con misure effettuate ad
almeno quattro temperature (Tc) che differiscano sufficientemente tra loro. Per le
cellule vegetative (e comunque le unità poco resistenti) sospese in substrati ad aw
elevato, tali temperature potranno differire di circa tre gradi centigradi, a partire
da valori di Tc che determinino la inattivazione del 90% delle unità in circa 20-30
minuti; in tal modo, alla temperatura più elevata, il 90% delle unità potrà essere
inattivato in tempi prossimi a 0.5 min (30 sec). Per le spore, le temperature di
trattamento potranno differire, più efficacemente, di circa sei gradi, a partire da
valori di Tc che determinino l'inattivazione del 90% circa delle unità, in 30 min
circa; in tal modo, alla temperatura più elevata, il 90% delle particelle sarà
inattivato in tempi prossimi a 0.5 min.
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1 - MEZZO RISCALDANTE. Le determinazioni di resistenza termica si
possono effettuare inizialmente utilizzando un dispositivo mantenuto a
temperatura controllata, quale un bagno ad acqua o ad olio, oppure un fornetto o
termostato a circolazione d'aria, comunque portati alla temperatura Tc,
necessariamente superiore alla temperatura ambiente Ta.
La termodinamica prevede che per effetto dello scambio termico che intercorre
tra ambienti a temperature differenti (l'isolamento del dispositivo a temperatura
Tc non potrà mai essere perfetto), il valore di Tc non sia costante ma oscilli
continuamente tra i valori di Tc+x e Tc-x, con "x" inoltre non costante nel tempo.
La "costanza" della temperatura Tc è relativa a una quantità di circostanze, tra le
quali (1) la capacità degli elementi termosensibili di avvertire come scostamento
dalla temperatura Tc, un valore di temperatura che sia pari a Tc-Tc/n, oppure
Tc+Tc/n, per valori di Tc/n ragionevolmente bassi; (2) la capacità degli elementi
riscaldanti e refrigeranti di contrastare con la necessaria velocità le variazioni di
temperatura; (3) l'efficienza dell'isolamento del dispositivo a Tc.
Particolare cura deve quindi essere dedicata all'ottenimento di condizioni
termiche di massima costanza, vista la limitata differenza tra le temperature di
trattamento. In condizioni soddisfacenti, le oscillazioni della temperatura di
trattamento saranno inferiori a Tc ± 0.2°C.
2 - MEZZO RISCALDATO. Qualunque substrato con temperatura Ts
immerso in un ambiente alla temperatura Tc>Ts, impiega un certo tempo per
raggiungere una temperatura prossima a Tc. Tale tempo dipenderà dalla
differenza Tc-Ts o gradiente termico; dalle modalità di trasmissione del calore
(conduzione, convezione, irraggiamento) nel mezzo riscaldato; dal volume del
mezzo da riscaldare e dai volumi rispettivi di quello riscaldante e del riscaldato;
dall'efficienza con la quale potrà determinarsi lo scambio termico (in funzione
dell'agitazione dei mezzi riscaldante e ricaldato, ad esempio); ecc.
Analoghi problemi riguardano il raffreddamento.
È necessario quindi mettersi in condizioni sperimentali che consentano di ridurre
al minimo tollerabile questi ritardi nel riscaldamento e nel raffreddamento, in
modo che sussistano le attese corrispondenze tra temperature e tra tempi di
trattamento.
In ogni caso, poiché generalmente non è possibile misurare direttamente la
temperatura raggiunta da ogni elemento contenente i microrganismi da saggiare,
per diversi motivi (ridurre la probabilità di inquinamento con microrganismi
diversi; ridurre la probabilità di diffusione/dispersione di patogeni nell'ambiente;
difficoltà o impossibilità di apprestare dispositivi idonei, e in numero sufficiente;
ecc.), è opportuno configurare condizioni sperimentali che consentano di
prevedere, con un margine tollerabile di incertezza, che il ritardo nel
raggiungimento della temperatura di trattamento, così come quello (anche se
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meno importante) di raffreddamento, sia ridotto a frazioni trascurabili dei tempi
letali per i microrganismi impiegati.
Buoni risultati ci si possono attendere impiegando volumi di liquido riscaldante
sufficientemente grandi rispetto alla quantità di materiale contaminato da trattare.
In tal senso, potranno essere privilegiate tecniche di trattamento che prevedano
l'impiego di piccole quantità di sospensioni microbiche, quali:
A - 0.01 ml in tubi capillari con 0.8 mm Ø int, 0.9 mm Ø est, 90 mm di
lunghezza;
B - 0.1-0.2 ml in piccole provette o fiale con Ø est di 5 mm ca.;
C - 1-3 ml in bustine di plastica trasparente, di circa 7*7cm (con meno di
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1 mm di spessore); immersi a piccoli gruppi (5-10 capillari; 5 tubi piccoli; 5-10
bustine, per ogni tempo di trattamento) in 10-20 L di liquido termostatato.
Molto impiegata (ma più critiche le condizioni operative), è la tecnica che
prevede di riscaldare anzitutto il mezzo nel quale si intende saggiare la
termoresistenza, e solo quando la temperatura è stabilizzata al valore voluto, di
aggiungere la sospensione microbica (sempre in quantità minima (0.5 - 1 ml,
rispetto a 0.5-1.5 L di substrato costantemente in agitazione), che in tal modo
dovrebbe raggiungere pressoché istantaneamente la temperatura di trattamento.
Particolarmente adatta a valutazioni di termoresistenza in prodotti alimentari è la
tecnica che prevede l'impiego di bustine. Infatti, i microrganismi possono essere
inoculati direttamente nei diversi substrati, purché riducibili in strato sottile;
possono essere trattati termicamente direttamente nel prodotto; dopo trattamento
le bustine sono raffreddate agevolmente e poste direttamente ad incubare in cella
termostatica. Le modificazioni indotte nel substrato dallo sviluppo microbico
(produzione di gas, con rigonfiamento delle bustine; accrescimento localizzato;
ecc.), sono agevolmente verificabili dall'esterno, data la trasparenza
dell’involucro. In sostanza, ci si può attendere una elevata verosimiglianza, in tali
condizioni, con quanto si verifica nella pratica industriale.
INOCULATED PACK-TEST
La termoresistenza può essere determinata anche in condizioni quasi del tutto
corrispondenti a quelle di pastorizzazione o sterilizzazione industriale. Una
valutazione di resistenza in condizioni operative del tutto analoghe a quelle
industriali è quellla detta dell’ “inoculated pack-test”-.
La tecnica del pack-test può essere usata vantaggiosamente sia (a) per individuare
i valori di termoresistenza di microrganismi diversi, direttamente contaminanti il
prodotto che interessa; sia (b) per verificare che un trattamento prescelto possa
rivelarsi soddisfacente, in relazione alle attese. Il pack-test può essere considerato
la miglior tecnica di determinazione della resistenza microbica – sia al calore, sia
alle radiazioni – poiché i microrganismi ‘danneggiati/inattivati ‘ sono nello stesso
ambiente che interessa trattare anche dopo il trattamento termico applicato. Sono
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particolarmente attendibili, poiché i valori di sopravvivenza che si ricavano dopo
magazzinaggio alle temperature previste, rappresentano le condizioni ‘reali’ nelle
quali verranno applicati i trattamenti di conservazione (pastorizzazione,
sterilizzazione) e magazzinaggio previsti per i singoli prodotti.
Nell’allestimento del pack-test si può prevedere di impiegare lotti di prodotto con
livelli diversi di contaminazione, ed esporli contemporaneamente ad ogni
temperatura di trattamento che si intende sperimentare.
Dopo il tempo di magazzinaggio previsto – almeno tre mesi a temperatura
ambiente, se si tratta di sperimentare un processo di sterilizzazione dei
microrganismi mesofili, oppure sette giorni a 55°C per valutare l’effetto del
trattamento nei confronti dei microrganismi termofili; oppure per una o poche
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settimane a temperatura di refrigerazione, se si tratta di un processo di
pastorizzazione – si rileva la frazione di contenitori ‘stabili’ e si valuta l’idoneità
dei trattamenti termici applicati. Il valore di Nt si calcola applicando la relazione
di Halvorson & Ziegler:
NË = - Ln (S%)
(HZ)
In cui NË è la migliore stima del numero atteso di organismi vitali per ogni
singola unità (provetta, bustina, bottiglia, vasetto, scatola, ecc.), dopo il tempo di
trattamento Ë applicato.
Il valore di NË si ottiene direttamente anche dalla distribuzione di Poisson .
in cui [1-Po] corrisponde alla frazione di unità sperimentali che hanno ancora il
carattere (biologico, chimico) che interessa non sia più presente (inattivato dal
trattamento applicato) sul numero totale delle unità sperimentali assogettate al
trattamento, ossia la percentuale di unità ‘non pastorizzate’, ‘non sterilizzate’, e
quindi la frazione di unità sperimentali contenenti ancora microrganismi vivi, in
definitiva, è la percentuale di organismi sopravviventi al trattamento applicato.
Mentre il valore di Po rappresenta il n umero di unità sperimentali SENZA il
carattere che interessa (senza microrganismi sopravvissuti al trattamento
applicato) , sul totale delle unità sperimentali impiegate; e poiché Po è la
percentuale di campioni che non contengono mirorganismi vivi, Po equivale alla
percentuale di sterilità raggiunta col trattamento.
ELEMENTI DI CALCOLO DELLA RESISTENZA TERMICA.
Con la rappresentazione grafica dei risultati sperimentali che si ottengono
generalmente per esposizione dei microrganismi ad una temperatura letale, si è
osservato che disponendo in ordinata la concentrazione dei microrganismi ancora
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vitali dopo i tempi di trattamento riportati corrispondentemente in ascissa, si
ottengono delle curve a concavità verso l'alto, tipiche degli andamenti
esponenziali. In effetti, disponendo in ordinata non più il numero ma il logaritmo
del numero dei microrganismi ancora vitali dopo i tempi di trattamento indicati in
ascissa, si ottiene una retta.
Vale a dire che la relazione tra logaritmo dei sopravviventi e tempo di
trattamento, è lineare; o, con lo stesso significato, che la relazione tra
sopravviventi e tempo di trattamento, è logaritmica (o esponenziale; le due
definizioni non differiscono nella sostanza).
Tali curve sono denominate spesso indifferentemente curve di sopravvivenza o
curve di inattivazione, o curve di morte.
Come risultato di una valutazione della resistenza al calore per un
microrganismo qualsiasi, avremo che inizialmente, ossia prima del trattamento e
quindi al tempo to (t zero) il livello di contaminazione sarà No (N zero); dopo un
primo intervallo di tempo di trattamento alla temperatura T, che chiamiamo t1, la
contaminazione sarà scesa al valore N1. Sarà necessariamente N1<No, se la
temperatura T è una temperatura letale, ossia in grado di determinare la morte dei
microrganismi di cui si sta determinando la capacità di sopravvivenza al calore, o,
che è lo stesso, la velocità di morte termica. Dopo un secondo periodo di
permanenza alla temperatura T, che chiamiamo t2, il livello delle cellule vitali
sarà sceso ancora e avrà il valore N2, essendo quindi No>N1>N2, per to<t1<t2.
Dopo il tempo t3, il livello di cellule vitali sarà sceso ad N3, e così via.
Il valore del rapporto Nt/No (valore di N dopo il tempo t di trattamento), e quindi
N1/No, N2/No, N3/No, ecc., tende ovviamente a diminuire, visto che il numero di
cellule vitali Nt tende a diminuire con l'aumentare del tempo di trattamento t ad
una temperatura letale.
Dall’equazione generale della retta:
Yt/Yo = - k * t
(1)
Deriva che:
Yt = Yo - k * t
(2)
che rappresenterà i risultati che si ottengono in esperimenti del tipo indicato,
quando, tenuto conto che si ottiene una retta quando si mette in relazione con i
tempi di trattamento non il numero di cellule sopravviventi, ma il logaritmo del
numero di cellule, la (2) diventerà:
Log Nt = Log No - k' * t
(3)
La relazione (3) potrà rappresentare ad esempio risultati di questo tipo:
6.5 = 7 - 0.1 * 5
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6.0 = 7 - 0.1 * 10
5.5 = 7 - 0.1 * 15
5.0 = 7 - 0.1 * 20
.................
10 = 7 - 0.1 * 60
in cui i valori del logaritmo decimale di Nt (6.5, 6, 5.5, 5, 4.5, etc.) sono ottenuti
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dal logaritmo della contaminazione iniziale No = 10 , meno il prodotto del tempo
di trattamento (5,10,15,20..) per la costante di velocità dell' inattivazione k' = 0.1 .
In realtà, i valori sperimentali di Nt non saranno mai così corrispondenti come
nell'esempio sopra, in cui sono stati ottenuti semplicemente per calcolo
dall'equazione:
Nt = 7 - 0.1 * t
che rappresenta la curva ipotetica di sopravvivenza di un microrganismo trattato
ad una temperatura Tc. Ma in condizioni sperimentali adeguate, i valori
sperimentali di Nt saranno distribuiti a caso attorno (circa per metà saranno
maggiori, e per metà minori) ai valori di Nt ottenuti con un'equazione del tipo (3).
Avendo a disposizione un numero adeguato di valori di sopravvivenza a tempi
crescenti di trattamento ad una temperatura Tc (ossia coppie di valori: ti, Ni), si
puo calcolare il valore dei due parametri che consentono di definire l'equazione
del tipo (3) che rappresenti tali dati (nti, nNi), mediante la tecnica di calcolo
statistico detta dei minimi quadrati (che rende minimo il quadrato della differenza
tra i valori previsti dall'equazione e quelli sperimentali).
In forma esponenziale, la (3) equivale a:
Nt = No * 10 k’ – t
(4)
Avremo così che al tempo t1, sarà:
N1 = No * 10- k’ * t1
(5)
N2 = No * 10 – k’ * t2
(6)
e al tempo t2:
cosicché, facendo il rapporto tra la (6) e la (5) si avrà:
N2 / N1 = No*10 –k’*t2/No*10 –k’*t1
da cui:
(7)
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N2/N1 = 10 [-k’*(t2-t1)]
che in forma logaritmica equivale alla:
(8)
Log (N2/N1) = - k' *(t2-t1)
(9)
Log (N1/N2) = k' * (t2-t1)
(10)
1/k' = (t2-t1) / (Log N1 - Log N2)
(11)
ed alla:
da cui:
Dalla (11) si ricava che quando N2 sarà 10 volte inferiore a N1, Log N1 - Log N2
sarà uguale a 1, cosicché:
1/k' = t2 - t1 = DT
(12)
ed anche, combinando la (11) con la (12):
DT = (t2 - t1) / (Log N1 - Log N2)
(13)
Il parametro DT è detto Tempo di Riduzione Decimale alla temperatura T, e
rappresenta infatti il tempo (t2-t1) di esposizione alla temperatura letale T
necessario per ridurre di 10 volte la concentrazione delle cellule vitali; o, se si
vuole, il tempo necessario per l'inattivazione del 90% delle cellule.
Come si ottiene dalla (12), il valore di DT è il reciproco della costante di velocità
k', quando la relazione tra t ed Nt è espressa mediante i logaritmi decimali.
La (13) consente di stimare DT da solo due valori di concentrazione cellulare.
Ad esempio:
D65°C = (24 - 0) / (Log 6*106 - Log 2*105)
= 24 / (6.78 - 5.3)
= 16.23
dove dopo 24 minuti di trattamento a 65°C la concentrazione cellulare iniziale di
6 milioni di cellule / g si riduce a 200000 unità per g di substrato, poiché il tempo
di riduzione decimale è di 16.23 minuti.
Nell'esempio seguente, sono presentati valori di sopravvivenza ipotetici, dopo
tempi crescenti di trattamento di un microrganismo non sporificato, ad una
temperatura letale prossima a 63°C, con usuale elaborazione per ricavare DT.
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Valori sperimentali
Valori teorici
t
Nt
Log Nt
Nt
Log Nt
--min-----N/g----------------------N/g------------8 6.000.000 6.78 5.780.000 6.76
15 800.000 5.90 1.047.000 6.02
22 200.000 5.30
189.670 5.28
31
30.000 4.48
21.086 4.32
39
3.000 3.48
2.992 3.48
44
700
2.85
883 2.95
--------------------------------------------------I valori teorici sono stati ottenuti impiegando l'equazione seguente
(calcolata mediante la tecnica dei minimi quadrati), per i valori sperimentali
riportati sopra:
Log Nt = 7.61 - 0.106 * t
(coeff. di correlaz.: 0.996)
Il tempo di riduzione decimale risulta, come dalla (12), pari a:
1/0.106 = 9.42 minuti.
Una stima approssimata del valore di DT si può ottenere anche direttamente dal
grafico (invece che dall'equazione), che rappresenta la curva di sopravvivenza in
funzione del tempo di trattamento.
A tal fine si riportano in coordinate semilogaritmiche i valori di sopravvivenza
dopo i tempi di trattamento saggiati; quindi si traccia la retta che meglio interpreta
i punti sperimentali (i punti sperimentali debbono essere distribuiti pressocché
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equamente al disopra e al disotto della retta) (Fig. H1). Si scelgono due valori (S
e 0.1S) di sopravvivenza, sull'ordinata, che differiscano di dieci volte (una unità
logaritmica) e si tracciano, a partire da questi due punti, le due parallele
all'ascissa. Le due rette intercetteranno la curva di sopravvivenza nei punti tS e
t0.1S. Le due parallele all'ordinata, tracciate a partire dai punti S e 0.1S,
intercetteranno l'ascissa dei tempi di trattamento, nei punti tS e t0.1S,
rispettivamente. Il tempo di riduzione decimale sarà, ovviamente:
D(T) = t0.1S - tS
per t0.1S >tS.
SIGNIFICATO delle CURVE di SOPRAVVIVENZA
Dalle curve di sopravvivenza si ricava il primo dei due parametri fondamentali
che definiscono la resistenza microbica al calore: il tempo di riduzione decimale,
appunto. L'analisi del significato di questo parametro consente di definire meglio
il significato anche delle curve di sopravvivenza in generale (si assume per
semplificazione che le curve di sopravvivenza microbica a qualsiasi fattore
ambientale ostile, si possano considerare tutte, almeno agli effetti pratici
immediati, come esponenziali. Come si vedrà in seguito, la realtà è diversa. Ma il
riferimento all'esponenzialità è utile, almeno come pa-radigma).
La Tabella II è la rappresentazione di quanto ci si aspetta necessariamente da una
curva di inattivazione esponenziale, con tempo di riduzione decimale di D minuti
alla temperatura Tc:
Tabella II.
-------------------------------------------------nD
Nt
Log Nt % S.
% I.
-------------------------------------------------0 100 000
5.0 100
0
1D 10 000
4.0
10
90
2D 1 000
3.0
1
99
3D
100
2.0
0.1
99.9
4D
10
1.0
0.01
99.99
5D
1
0.0
0.001
99.999
6D
0.1 -1.0
0.0001
99.9999
7D
0.01 -2.0
0.00001
99.99999
..
..... ....
....... ........
10D
0.00001 -5.0
0.00000001 99.99999999
---------------------------------------------------% S. = % Sopravviventi; % I. = % Inattivati.
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Si può osservare anzitutto che tale rappresentazione è corretta, indipendentemente
dal valore di D, di temperatura, di N, ecc.
Come si può rilevare, per ogni aumento del numero di D (= D minuti) nel tempo
di trattamento:
- la concentrazione di cellule vitali (N) diventa 10 volte minore (e
quindi il Logaritmo di N diminuisce di una unità);
- viene inattivato il 90% della popolazione delle cellule ancora vitali e
quindi la percentuale di inattivazione (%I) aumenta del 90% e quella dei
sopravviventi (%S) si riduce ad un decimo;
- sopravvive il 10 % della popolazione cellulare vitale prima del
trattamento.
Nella Tabella II, il numero N delle cellule vitali al tempo t diventa inferiore a uno
a cominciare da dopo 6D. Il significato di un valore di sopravvivenza inferiore a
uno è dibattuto. È fuori dubbio, che una cellula non può essere morta per il 90%
(N = 0.1), o per il 99.9999% (N = 0.000001), e vitale per la frazione restante. Si
potrebbe tuttalpiù immaginare un danno termico indotto su una frazione più o
meno estesa della popolazione di un tipo di molecole protoplasmatiche (le
proteine, ad es.). Ma il risultato che interessa, come indicato in precedenza, è di
carattere globale, unitario. Ossia una cellula o è in grado di riprodursi, o non la è.
Poco importerebbe che una cellula fosse ancora in grado di respirare, per ipotesi,
e quindi "parzialmente viva", se non fosse più in grado di moltiplicarsi. Perché
una cellula non più in grado di moltiplicarsi, è morta, agli effetti della
sterilizzazione.
L'interpretazione più accreditata, del significato da attribuire ai valori
frazionari di sopravvivenza, è di tipo probabilistico. Vale a dire che 0.1 cellula
sopravvivente per unità di riferimento (di peso o di volume), significherà
sopravvivenza di una cellula su 10 unità di riferimento (0.1 = 1/10); 0.001
sopravviventi, significherà una cellula sopravvivente ogni 1000 unità di
riferimento (0.001 = 1/1000); e così via; cosicché 10-6 sopravviventi (pari a Nt =
0.000001) significherà una cellula sopravvivente ogni milione di unità di
riferimento.
Per quanto riguarda le unità cui riferire il numero di cellule sopravviventi Nt, in
modo da tener conto di concentrazioni cellulari e non di numeri in assoluto, non
ci sono regole fisse. Si può esprimere il valore di Nt in numero di cellule per
grammo di substrato (Nt/g), o per ml (Nt/ml), o per litro, Kg, scatola, bottiglia,
gruppo di 24 scatole o bottiglie, per tonnellata, ecc.
Ciò che è importante, ovviamente, è che le unità impiegate nei calcoli, siano
consistenti.
18
Si riporta di seguito un esempio di calcolo del tempo di trattamento necessario ad
una temperatura ipotetica Tc per pastorizzare latte contaminato con un
microrganismo che ha in latte un DTc = 2 minuti.
Si supponga che No/g, ossia il numero di microrganismi da distruggere
presenti in 1 ml di latte sia di No = 10.000/ml. Si supponga altresì che il latte in
questione sia confezionato in bottiglie da 2 litri; ne deriverà che sarà No =
10.000*2*1000 /bottiglia, vale a dire sarà No = 20.000.000/bottiglia. Per
calcolare il valore Tc del tempo necessario alla temperatura Tc per sterilizzare il
prodotto, occorre fare riferimento all'equazione (13), dalla quale si ottiene:
Tc
= (t2-t1)= DTc * (Log N1 - Log N2)
(14)
Considerando che prima del trattamento termico il valore di t1 zero, e che quindi
la concentrazione cellulare al tempo di trattamento zero (ossia prima del
trattamento termico) sarà No; e che dopo il trattamento termico di entità t, sarà Nt
la concentrazione di cellule sopravvissute; ne deriva che la (14) può essere più
vantaggiosamente convertita nella seguente:
Tc
= t = DTc * (Log No - Log Nt)
(15)
Inserendo nella (15) i parametri noti, si ottiene:
Tc
= 2 * (7.3 - Log Nt)
(16)
essendo DTc = 8 minuti e Log No = Log(20.000.000) = 7.3.
Il valore di Nt può essere scelto sulla base di considerazioni di diverso tipo. Il
minimo valore di Nt può essere considerato 0.9, oppure 0.999, o comunque un
numero immediatamente inferiore a 1, significando che il numero dei
sopravviventi deve comunque essere inferiore a 1 nella bottiglia considerata. In
tal caso la (16) diverrà:
= 2 *(7.3 -(-0.05))
= 2 *(7.3+0.05)
= 14.7
Tc,0.9
oppure:
= 2*(7.3 -(-.0004))
= 2*(7.3+0.0004)
= 14.6
Tc,0.999
19
La sterilizzazione dell'unica bottiglia potrà essere ottenuta quindi in 15 minuti alla
temperatura Tc.
Tuttavia, nella pratica si producono (si intendono sterilizzare) abitualmente molte
unità.
Se, ad esempio, vengono prodotte soltanto 100 bottiglie, può bastare un tempo di
sterilizzazione (Tc) sufficiente a ridurre Nt = 0.001, ossia al valo-re di un
microrganismo sopravvivente ogni 1000 bottiglie (0.001= 1/1000).
La (16) diventerebbe quindi:
= 2*(7.3 -(-3))
= 2*(7.3+3)
= 20.6
Tc,0.001
Se vengono commercializzate 100.000 bottiglie, tale valore di Nt non baste-rà
più, poiché un Nt di 0.001 ci si aspetta che lasci in media 100 bottiglie non sterili,
su centomila, e quindi 100 bottiglie potenzialmente pericolose per il consumatore
(oltre che rappresentare un fallimento della affidabilità produttiva del produttore).
In tal caso quindi occorrerà comunque tenere in considerazione un valore di Nt
almeno di 0.00001 =1/100.000, cosicché si otterrà che il tempo di sterilizzazione
necessario sarà di:
Tc,0.00001 =
2*(7.3-(-5))
= 2*(7.3+5)
= 24.6 minuti.
Tuttavia, le incertezze connesse all'interpretazione del significato da attribuire a
valori di sopravvivenza inferiori all'unità, consigliano di abbondare un poco nel
rimpicciolire Nt, anche se nessuna indicazione precisa può sortire direttamente
dagli aspetti matematici della trattazione proposta dalla termobatteriologia
ortodossa.
Tra le soluzioni possibili, si può considerare ad esempio che in un anno si
producano poniamo 10.000 confezioni per 300 giorni lavorativi, pari a 3.000.000
di confezioni. Si può scegliere come riferimento appunto nessun sopravvivente
nei tre milioni di confezioni, ossia Nt = 1/3.000.000 = 0.0000003, cosicché si
otterrà, sempre dalla (16):
Tc,0000003
= 2*(7.3-(-6.5))
= 2*(7.3+6.5)
= 27.6 min.
In generale si ha che, per la pastorizzazione:
20
- se i microrganismi che si intende distruggere non sono patogeni, è
sufficiente considerare valori di Nt pari a 0.00001 = 10-5;
- se si richiede una buona protezione nei confronti di microrganismi
patogeni, si può fare riferimento alla produzione annua, cosicché Log Nt
diventa prossimo almeno a -7.
La “sterilizzazione” è un processo che comporta trattamenti termici più energici.
La sterilizzazione dei prodotti non acidi richiede infatti (come verrà specificato
successivamente) che il prodotto sia assogettato ad un trattamento termico in
grado di determinare almeno 12 riduzioni decimali delle spore del microrganismo
patogeno più resistente in assoluto, ossia il batterio Clostridium botulinum.
La conseguenza più rilevante, sotto il profilo teorico, che discende direttamente
dalla natura esponenziale delle cinetiche d'inattivazione termica dei
microrganismi, è strettamente connessa al problema della definizione del valore
più idoneo di Nt. Come si è visto, infatti, la probabilità di sopravvivenza si può
ridurre a valori molto piccoli, semplicemente aumentando il tempo di trattamento
(e quindi il numero di D). Ciò significa altresì, che se si accetta l'interpretazione
ortodossa della cinetica esponenziale dell'inattivazione termica dei microrganismi
tutti (virus, batteri, lieviti, muffe, ecc.), il valore di Nt può diventare infinitamente
piccolo, aumentando infinitamente il valore di t, qualunque sia il valore di No e di
k'; che sarà comunque, sempre diverso da zero, come risulta chiaramente
dall'equazione (4). Quindi la probabilità che una cellula sopravviva ad un
trattamento (termico, in questo caso) di durata grande quanto si vuole, ha pur
sempre un valore reale. Ne deriva immediatamente, che non ha senso il concetto,
spesso proclamato o accettato, di "sterilità". La sterilità è un concetto astratto,
nel senso che fa riferimento ad un fenomeno fisico-chimico (la distruzione dei
microrganismi), la cui descrizione compete esclusivamente all'ambito scientifico;
e quindi la sterilità può essere definita esclusivamente in termini probabilistici,
del tipo: la percentuale di campioni non contenenti cellule vegetative di patogeni
7
deve essere inferiore a 1/10 ; i campioni non sterili debbono essere in numero
12
inferiore a 1 su 10 (ossia Nt = 10-12), ma che in termini scientifici appunto non
trova alcuna corrispondenza con il significato convenzionale, non probabilistico,
del termine sterile.
21
RESISTENZA TERMICA e TEMPERATURA
La velocità di inattivazione dei microrganismi (k') aumenta sempre
all'aumentare della temperatura; il tempo di riduzione decimale (DT = 1/k')
quindi, diminuisce all'aumentare della temperatura.
Si è rilevato sperimentalmente che la relazione tra il tempo di riduzione
decimale e la temperatura è usualmente logaritmica e del tipo:
Log DT = Log a - b * T
(17)
dove "b" esprime la rapidità con la quale aumenta la velocità d'inattivazione
all'aumentare della temperatura.
La temperatura è generalmente espressa in gradi Centigradi; ma ancora molta
parte della letteratura, soprattutto anglosassone, fa riferimento ai gradi Fahrenheit
(°F = 1.8*°C + 32).
In forma esponenziale, la (17) diventa:
a
DT = 10 * 10 -b*T
(18)
Dalla (18) si ha che alla temperatura T1 sarà:
a
DT1 = 10 * 10 -b*T1
e alla temperatura T2:
(19)
22
a
DT2 = 10 * 10 -b*T2
(20)
Dal rapporto tra la (20) e la (19) si ottiene:
a
a
DT2/DT1 = 10 * 10 -b*T2 / 10 * 10 -b*T1
(21)
da cui:
DT2/DT1 = 10[-b*(T2-T1)]
(22)
La (22) può essere espressa nella forma logaritmica:
Log DT2 - Log DT1 = -b * (T2-T1)
(23)
dalla quale si isola facilmente "b":
b = ( Log DT1 - Log DT2 /(T2-T1)
(24)
da cui:
1/b = (T2-T1) / (Log DT1 - Log DT2)
(25)
Alle temperature alle quali Log DT2 è dieci volte inferiore a Log DT1, la
differenza dei due logaritmi sarà pari a 1, e quindi sarà:
z = 1/b = T2 - T1
(26)
cosicché:
"z" indica di quanti gradi deve variare la temperatura perché il tempo di
riduzione decimale sia 10 volte maggiore o minore.
Si può quindi porre la relazione:
0.1*D (T-z) = DT = 10*D (T+z)
(27)
La conoscenza del valore di z completa, assieme a D, la definizione delle
caratteristiche di resistenza al calore dei singoli microrganismi.
Infatti, conoscendo almeno un valore di D(T) e lo z di un microrganismo sospeso
nel mezzo che interessa, si può calcolare molto semplicemente il tempo di
sterilizzazione per questo microrganismo, a qualunque temperatura.
23
Posto, ad esempio, che valgano i seguenti valori:
No = 25.000; Nt = 0.00001; D90°C = 14; z = 10°C
si avrà che il tempo di sterilizzazione a 90°C,
90°C = 14 * (4.4 + 5) = 131.57 minuti,
90°C,
sarà:
e poiché a temperature superiori di z °C il tempo di riduzione decimale
diminuisce di 10 volte, si avrà:
100°C
= 1.4 * 9.4 = 13.157 min
ed anche, naturalmente:
= 0.14 * 9.4 = 1.3157
120°C = 0.13157
130°C = 0.013157 min
110°C
come pure:
80°C
= 140 * 9.4 = 1316 min
ossia circa 22 ore.
24
Conoscendo quindi un valore di DT e lo z per i microrganismi che interessano, si
ottiene il tempo di sterilizzazione in modo immediato, per qualunque temperatura
differisca esattamente di z°C dalla temperatura alla quale è noto il D.
Se invece la temperatura per la quale si intende conoscere il tempo di sterilizzazione non è un multiplo intero di z, è necessario fare riferimento
all'equazione (22), dalla quale:
DTx = DTr * 10[(Tr-Tx)/z]
(28)
in cui DTx è il tempo di riduzione decimale incognito alla temperatura Tx
appunto; DTr invece è il tempo di riduzione decimale noto, a una qualsiasi
temperatura di riferimento Tr.
Dalla (28) si ottiene la relazione che intercorre tra tempi di sterilizzazione a
differenti temperature:
Tx
=
Tr
* 10[(Tr-Tx)/z]
(29)
dove Tx e Tr sono sempre, rispettivamente, la temperatura per la quale si desidera
conoscere il tempo di sterilizzazione Tx, e quella di riferimento Tr, per la quale
già si conosce il tempo di sterilizzazione Tr.
Quindi, con riferimento all'esempio di cui sopra:
Tx
= 131.57 * 10[(90-Tx)/10]
(30)
da cui si può ottenere il tempo di sterilizzazione a qualunque temperatura, come,
ad esempio:
= 131.6 *10[(90-121.1)/10]
= 131.6 * 10(-31.1/10)
= 131.6 * 10-3.11
= 131.6 * 0.00078
= 0.1 minuti
121.1°C
oppure a 115°C:
= 131.6 * 10[(90-115)/10]
= 131.6 * 10-2.5
= 131.6 * 0.0032
= 0.42 min
115°C
La relazione più generale che collega le diverse variabili che interessano, si
ottiene dalla (15) con la (29):
25
Tx
= DTr*(Log No - Log Nt)*10[(Tr-Tx)/z]
(31)
FATTORI che CONDIZIONANO la RESISTENZA
MICROBICA al CALORE
La capacità di resistere all'azione letale esercitata dal calore, è una proprietà
specifica. Le diverse specie microbiche hanno diversa resistenza termica. Si
ritiene abitualmente (ma non è stato sufficientemente dimostrato) che anche il
carattere termoresistenza sia distribuito normalmente tra i ceppi, all'interno quindi
della specie.
Differenze di maggiore rilevanza si possono riscontrare all'interno dei singoli
Generi e delle Famiglie di microrganismi.
La resistenza varia comunque in funzione delle condizioni fisiologiche delle
cellule e delle caratteristiche fisico-chimiche dell'ambiente.
Quando si intendono quindi definire dei parametri di sterilizzazione, si debbono
individuare le specie più resistenti, tra quelle che possono contaminare - e
soprattutto tra quelle che possono alterare - il substrato che interessa.
Il confronto della termoresistenza tra ceppi, specie, generi, famiglie, ecc.,
differenti è abitualmente effettuato sulla base del tempo di riduzione decimale
alla stessa temperatura. Non esiste, come rilevato più sopra, un parametro
attendibile che inglobi entrambi i tipi di informazione più importanti, D e z.
Ovviamente, in funzione del tipo di acquisizione che interessa raggiungere, si
dovrà tenere maggiore o minor conto del valore di z. Vale a dire che se interessa
valutare il tempo di pastorizzazione a 70°C, ad esempio, e sono noti i valori di
D70°C per i microrganismi che interessano, il confronto è presto fatto, e sarà
agevole individuare il microrganismo più resistente e quindi quello cui fare
riferimento nella definizione del parametro 70°C. Mentre qualora si intenda
pervenire alla definizione di a temperature piuttosto differenti da quelle alle
quali si conosce DTr, ossia il D ad una temperatura di riferimento, si dovrà
necessariamente tener conto dello z dei diversi microrganismi.
SPORE BATTERICHE. Le spore batteriche sono le particelle microbiche
provviste della maggiore capacità di resistenza all'inattivazione termica. Le
cellule vegetative sono molto più sensibili. Alla stessa temperatura, il tempo di
26
riduzione decimale può differire di 100 milioni di volte, a favore delle spore
batteriche.
Le spore batteriche più termoresistenti sono circa 100 mila volte più resistenti
delle spore più sensibili.
I batteri che formano le spore dotate della maggiore resistenza appartengono alle
specie Bacillus subtilis, Bacillus stearothermophilus, Clostridium sporogenes
(spesso identificato con la specie prototipica denominata Putrefattivo Anaerobio
3679), Clostridium thermosaccharolyticum, Desulfotomaculum nigrificans.
Generalmente, le cellule vegetative hanno valori di z compresi tra 3 e 10°C. Le
spore batteriche, valori compresi tra 7 e 11°C. Nella pratica tecnologica, si
considera un valore di z = 5°C per le cellule vegetative (e quindi per la
pastorizzazione) e z = 10°C per le spore batteriche (in relazione alla
sterilizzazione). Le distribuzioni dei valori di z per i due gruppi di microrganismi
si approssimano infatti a quella normale, con gli z indicati, come valori medi
(CASOLARI, 1986).
Corrispondentemente, i valori di Q10 sono pari in media a 100 per le cellule
vegetative e Q10 = 10 per le spore.
(Per le reazioni chimiche, Q10 = 2-3).
I diversi microrganismi possono avere una termoresistenza molto diversa, in
funzione delle condizioni ambientali in cui si trovano.
27
I fattori fisico-chimici che influenzano maggiormente la resistenza termica sono il
grado di idratazione del mezzo, il pH, e le caratteristiche specifiche.
ACQUA. La resistenza dei microrganismi al calore aumenta all'aumentare
della forza di legame cui sono assogettate le molecole d'acqua presenti
nell'ambiente.
Non è infatti la quantità d'acqua in assoluto a condizionare la termoresistenza.
Infatti, mentre in olio privo d'acqua la resistenza è elevata praticamente al
massimo grado, basta l'aggiunta dello 0.1-0.3 % di acqua per ricondurre i livelli di
termoresistenza ai valori che si osservano in acqua pura. Infatti, olio e acqua non
essendo miscibili, anche se in concentrazione molto bassa nella miscela, l’acqua è
praticamente del tutto ‘libera’, senza legami con le molecole dell’altro
componente della miscela. Si esprime correntemente questo concetto affermando
che la termoresistenza aumenta al diminuire dell'attività dell'acqua nell'ambiente.
ACQUA. L'attività di una sostanza è stata definita da Lewis e Randell (1961)
come il rapporto tra la sua fugacità in una condizione definita e la fugacità in
condizioni standard:
attività = f/fo
La fugacità dell'acqua, fw, può essere sostituita, a tutti i fini pratici, dalla
pressione parziale di vapore, visto che a temperatura ambiente il rapporto tra
fugacità e pressione (o coefficiente di fugacità: f/p) è poco diverso da uno. Ne
deriva così che l'attività dell'acqua, indicata con “aw”, può essere espressa dalla
relazione:
aw = fw /fwo = pw /pwo
in cui pw è la tensione di vapore della soluzione e pwo è la tensione di vapore
dell'acqua pura, nelle stesse condizioni di temperatura e pressione.
Poiché anche l'umidità relativa d'equilibrio ERH è data dal rapporto tra le due
tensioni di vapore (nel mezzo, e nell'acqua pura), ne deriva che i due valori sono
numericamente equivalenti:
ERH % = aw * 100
La legge di Raoult, applicabile alle soluzioni ideali, stabilisce la relazione che
intercorre tra le tensioni di vapore e la frazione molare dell'acqua:
pw / pwo = Wf
cosicchè l'aw sarebbe numericamente equivalente alla frazione molare dell'acqua:
28
pw /pwo = Nw / (Nw + Ns) = aw
dove Nw e Ns sono ovviamente il numero di moli (o molecole) di acqua e di
soluto, rispettivamente. Quindi il valore di aw di un substrato qualsivoglia è
compreso tra uno e zero (1>aw>0);ossia, in assenza di soluto, quindi in acqua
pura, essendo Ns =0, l’aw (aw=Ns/Ns) è pari a uno; mentre in assenza di acqua
(aw=0/Ns), l’aw =0.
Nella pratica, peraltro, il valore di aw di una soluzione si discosta in diversa
misura dalla relazione di Raoult, sia perché il coefficiente di fugacità è
generalmente diverso da 1, per cui:
aw = ϑ * Wf
sia perché in soluzioni contenenti diversi tipi di soluti, le interazioni tra soluti non
sono trascurabili.
In soluzioni relativamente semplici, il valore di attività dell'acqua può essere
soddisfacentemente approssimato da diverse equazioni. Particolarmente utili sono
quella di Norrish (1966), applicabile a soluzioni di uno o pochi
non-elettroliti :
aw = Xa * exp(-K*Xs2 )
dove Xa e Xs sono le frazioni molari dell'acqua e del soluto, rispettivamente e K
una costante dipendente dal tipo di soluto; e l'equazione di Ross (1975):
aw = aw1 * aw2 * aw3 * ...* awn
applicabile a soluzioni contenenti n soluti, e dalla quale si ottiene che l'aw della
soluzione è pari al prodotto dei valori di aw di soluzioni contenenti ognuna i
componenti singoli della miscela. I valori di aw per soluzioni di diversi elettroliti
e non-elettroliti, in funzione della concentrazione, sono riportati nella letteratura.
Per i sistemi complessi quali gli alimenti, tali relazioni forniscono valori di aw
non molto dissimili dalla realtà quando uno o più soluti (sale, carboidrati) sono
contenuti a concentrazioni sufficientemente elevate da soverchiare l'effetto degli
altri componenti. Diversamente, il valore di aw deve essere determinato
strumentalmente.
Si può anche fare ricorso utilmente alle cosiddette isoterme di assorbimento. Per
ogni prodotto, è possibile infatti ricavare sperimentalmente la relazione
intercorrente tra aw e contenuto percentuale di acqua, a temperatura costante
(generalmente 25°C). Si ottengono curve sigmoidi, costituite caratteristicamente
(anche se non sempre) da tre parti, corrispondenti a diversi strati di idratazione:
1 - Ai minori contenuti di acqua e di aw, una prima parte, detta dello "strato
monomolecolare", è rappresentata dalle molecole d'acqua così strettamente
29
vincolate ai gruppi polari da non poter essere allontanate nè con l'essiccamento,
nè con il congelamento.
2 - Una parte intermedia, nella quale di contro a modeste variazioni del
contenuto acquoso, si riscontrano importanti aumenti dell'attività dell'acqua, e che
corrisponde allo strato intermedio del guscio di idratazione, nel quale le molecole
d'acqua non sono più fortemente vincolate ai gruppi polari, ma ancora non sono
così libere da potersi aggregare a formare le strutture tipiche dell'acqua pura.
3 - Una terza parte, corrispondente ai valori più elevati di aw e di contenuto
acquoso, in cui l'aw aumenta di poco malgrado il notevole aumento del contenuto
acquoso. Tale comportamento è giustificato dal fatto che questa parte
dell'isoterma corrisponde agli strati di acqua che si allontanano progressivamente
sempre di più dai gruppi polari, e quindi a quelli che tendono sempre più ad
assumere una struttura che meno si discosta da quella dell'acqua pura. Si è in
presenza della cosiddetta "acqua libera", che è infine quella più disponibile per
tutti i fenomeni fisico-chimici e biologici.
Conoscere l'isoterma di assorbimento di un alimento - e di qualsiasi substrato - è
di pregiudiziale rilievo per ogni considerazione sulla sua stabilità chimica e
biologica.
L'acqua ha una straordinaria influenza nel condizionare la probabilità di
funzionamento dei sistemi biologici. Molte cellule sono costituite per più del 90%
da acqua; una cellula batterica tipica (E. coli, 70% circa di acqua) è costituita da
3-4*1010 molecole d'acqua e circa 109 molecole diverse (per gran parte - su base
molare - polari). Potendosi quindi considerare già una soluzione piuttosto
concentrata, la cellula batterica non può che essere particolarmente sensibile
all'alterazione della disponibilità acquosa dell'ambiente.
30
L'aumento di termoresistenza che si determina con l’abbassarsi del valore di
aw può essere rilevantissimo.
Le cellule vegetative, che risentono ovviamente in misura maggiore dell'effetto
della disidratazione, possono acquisire, in ambienti ad aw basso, una
termoresistenza 100.000 volte superiore a quella posseduta in substrati con aw
elevato (quali acqua, latte, carne, ecc.). Il Saccharomyces cerevisiae, ad esempio,
che in ambiente umido ha una termoresistenza misurabile a 60°C, in ambiente
secco può mostrare valori di D126.7°C pari a 4-5 minuti, quindi circa 100 milioni di
volte superiore a quella in ambiente umido. Tale aumento di resistenza si riflette
sia sui valori del tempo di riduzione decimale che sullo z. Vale a dire che con la
disidratazione aumenta anche il valore di z, che può raggiungere i 20-50°C.
Anche la resistenza sporale aumenta al diminuire dell'aw e raggiunge valori
massimi intorno ad aw=0.3. In ambienti con aw inferiore a 0.3, la termoresistenza
31
tende a diminuire. In linea generale si può ritenere che il DT aumenti di circa 10
volte per un abbassamento di aw di 0.2-0.3 unità. Le spore batteriche sono già di
per se stesse molto resistenti, e forse proprio perché - o forse anche perché - il
processo di sporificazione ha comportato una parziale disidratazione del
protoplasma. Ne consegue, che la resistenza in ambiente disidratato o comunque
a bassi valori di attività dell'acqua aumenta in misura importante per le spore
meno resistenti e di poco per quelle più resistenti. Infatti, la termoresistenza delle
spore del Cl. botulinum tipo E (D70°C=2-10 minuti) aumenta di più di 10.000 volte
con la disidratazione; mentre quella del B. megatherium (D100°C= ...) aumenta di
solo 3.000 volte e quella del B. stearothermophilus (D100°C intorno a 3.000 minuti)
di solo 10 volte circa.
In ambiente disidratato, acquista molta rilevanza il supporto sul quale si trovano
le spore. Si è osservato, infatti, che il D125°C delle spore di B. subtilis var. niger (in
ambiente ad aw= 0.2-0.4) varia da 8.6 a 102, 198, 318 minuti, a seconda che le
spore siano su acciaio inossidabile, carta, metilmetacrilato, resina epossidica,
rispettivamente. Ne risente anche il valore di z, che varia tra 12.9 e 21.4°C.
Particolarmente interessanti sono le variazioni osservate nella termoresistenza a
secco, in funzione della velocità dell'aria: valori di D124°C di 383 minuti in aria
ferma, si riducono a 216 minuti ad una velocità dell'aria di 0.04 m3/min, e a 169
min ad una velocità di 0.1 m3/min. Il valore di z diminuisce, nelle stesse
condizioni, da 55.5 a 28.4, a 17.5 °C.
32
Termoresistenza delle spore di B. subtlis in aria ferma)
Termoresistenza delle spore di B. subtlis in flusso d’aria a 112 litri/min)
pH. Generalmente i massimi valori di termoresistenza si riscontrano nei
substrati con pH prossimo alla neutralità, almeno per i batteri. Lieviti e muffe
hanno la massima resistenza a valori di pH inferiori alla neutralità, e prossimi a
5.5 . Per i batteri – e in generale per ogni microrganismo - la resistenza
diminuisce sia a pH inferiori che a pH superiori a quello di massima resistenza,
anche se in modo asimmetrico. Con riferimento ai pH inferiori a quelli di
massima resistenza, si indica come regola generale (e quindi molto approssimata)
che il tempo di riduzione decimale delle cellule vegetative diminuisce di circa 10
volte per ogni diminuzione di 2 unità di pH. Per le spore batteriche vale la
33
seguente relazione approssimata tra pH e tempo di riduzione decimale, per valori
di pH inferiori a 7:
DpH = DpH=7 *(.95 - 0.22*(7 - pH))
dove DpH è il valore di D al pH che interessa, e DpH=7 è il D a pH=7. Ne deriva che
D varia di dieci volte per una diminuzione di circa 3.8 unità di pH.
Le esperienze di XEZONES e HUTCHINGS (1965) con spore di Cl. botulinum
62A indicano che lo z non è influenzato in modo inequivocabile dal pH ambiente,
e comunque in misura modesta.
Nella tabella di seguito sonpo riportati i valori usuali di pH dei diversi alimenti,
come riportati nel software ‘Microbiofood’ (Casolari, 2000).
34
35
36
37
…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………
ALIMENTI. La maggior parte degli alimenti ha aw prossimo ad 1, quindi
le differenze che si riscontrano nella termoresistenza microbica sono dovute
pressochè esclusivamente al diverso pH. Possono influire sulla termoresistenza i
38
componenti lipidici, gli oli e i grassi animali, che in qualche modo possono
simulare le condizioni di disidratazione. Ma in ambienti a due fasi, i
microrganismi tendono comunque ad occupare quella acquosa; solo pratiche
tecnologiche di triturazione, omogenizzazione, possono indurre l'inglobamento
dei microrganismi nelle fasi grasse. Tuttavia, lo stato di normale idratazione dei
prodotti alimentari, non consente alla termoresistenza in oli o grassi di assumere
valori particolarmente elevati.
ALTRI
Particolarmente interessante il moltiplicarsi delle osservazioni sull’influenza di
brevi permanenze – shock di circa 30 minuti – a temperature immediatamente
superiori a quelle massime di sviluppo, sulla termoresistenza. Questi shock
termici possono aumentare la resistenza delle cellule vegetative di 2 – 20 volte.
Si è visto altresì che a base velocità di salita della temperatura verso i valori letali
della pastorizzazione, la termoresistenza aumenta in misura rilevante.
Osserevazioni di questo tipo sono finora state condotte con un numero poco
rilevante di microrganismi, ma rivestono certamente un interesse particolare,
anche se il fenomeno non fosse generalizzabile.
Nella Tabella seguente sono riportati gran parte dei valori di termoresistenza delle
cellule vegetative, in funzione dell’ambiente di trattamento – e quindi anche di
pH e aw - riportati nella letteratura. Nella Tabella successiva, sono riportati quelli
relativi alle spore batteriche.
Termoresistenza delle cellule microbiche vegetative.
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La Tabella è stata ottenuta mediante il software MicroBioFood (Casolari, 2012), scaricabile
gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce
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Resistenza termica delle spore batteriche.
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56
CONSIDERAZIONI TEORICHE
La cinetica d'inattivazione termica delle particelle microbiche è più correttamente
espressa dalla relazione:
- dC/dt = k*C
(32)
equivalente a:
- dC/C = k*dt
(33)
che, integrata tra Co e Ct, che rappresentano rispettivamente le concentrazioni
cellulari iniziale e dopo il tempo di trattamento t, porta a :
Ct / Co = exp (- k*t)
(34)
In forma logaritmica, la (34) diventa:
Ln (Ct/Co) = - k * t
(35)
e siccome:
Ln (Ct/Co) = 2.303 * Log(Ct/Co)
si avrà, dalla (35):
Log (Ct/Co) = - (k / 2.303) * t
(36)
da cui si ottiene la corrispondenza con il valore di D ottenuto precedentemente,
per via empirica, impiegando i logaritmi decimali:
DT = 2.303 / k
(37)
Anche la velocità delle reazioni chimiche, generalmente aumenta all'aumentare
della temperatura. Il parametro che definisce la rapidità con cui avviene tale
variazione, detto coefficiente di temperatura, e indicato con Q10, e corrisponde a:
57
Q10 = k(T+10) / kT
(38)
La relazione che intercorre tra il valore di Q10 e lo z è la seguente:
z = 10 / Log Q10
(39)
e quindi anche:
Q10 = 1010/z
(40)
La relazione tra velocità di reazione k e temperatura è data, nella cinetica
chimica, dalla equazione di Arrhenius:
K = A * exp(-Ea/R*T)
(41)
in cui A è detto fattore di frequenza o pre-esponenziale, Ea rappresenta l'energia
d'attivazione, R è la costante universale dei gas e T è la temperatura assoluta
(°K).
Dalla (41) ci si aspetta, che alla temperatura T1, sia:
k1 = A * exp(-Ea/R*T1)
(42)
e alla temperatura T2:
k2 = A * exp(-Ea/R*T2)
(43)
con k2>k1, ovviamente.
Facendo il rapporto tra la (42) e la (43):
k1/k2 = A*exp(-Ea/R*T1)/A*exp(-Ea/R*T2)
(44)
da cui:
k1/k2 = exp(-Ea * (1/T1 -1/T2)/R)
(45)
e in forma logaritmica:
Ln(k1/k2) = -(Ea/R)*(T2-T1)/(T2*T1)
(46)
Poiché dalla (37) si ha che:
k = 2.303/DT
dalla (46) si ottiene:
(47)
58
Ln(DT2/DT1) = -(Ea/R)*(T2-T1)/(T1*T2)
(48)
da cui:
Log(DT2/DT1) = -(Ea/2.303*R)*(T2-T1)/(T1*T2)
(49)
Ponendo:
z = 2.303*R*T2*T1/Ea
(50)
e cambiando di segno alla (49), si ottiene:
Log (DT1/DT2) = (T2-T1) / z
(51)
vale a dire:
z = (T2-T1) / (Log DT1 - Log DT2)
(52)
come dalla (24).
La (50) rivela che, dalla cinetica chimica, il valore di z si può considerare
pressoché costante solamente in un ristretto intervallo di temperatura. Ai fini
pratici si può ritenere che z aumenti di circa un grado per un aumento di
temperatura di circa 20°C, almeno per le temperature che interessano nella
pastorizzazione e nella sterilizzazione dei prodotti alimentari, e quindi per
temperature comprese tra 60 e 150 °C.
Anche il valore di A nella relazione di Arrhenius (41) varia con la temperatura.
Dalla teoria delle velocità assolute di reazione (Eyring), di ha:
k = k" * (K*T/h)*Kc
(53)
dove k è la costante di velocità della reazione (di inattivazione microbica, nel ns.
caso) alla temperatura T (°K); k" è il coefficiente di trasmissione (abitualmente
posto pari a 1); K è la costante di Boltzmann e vale
1.38*10-16 erg/grado; h è la costante di Planck: 6.624*10-27 erg.sec; kc è la costante
di equilibrio.
La costante kc può essere espressa in termini di energia standard di attivazione
¤G:
kc = exp (-¤G / R*T)
(54)
e poiché:
59
¤G = ¤H - T *¤S
(55)
in cui ¤H è l'entalpia di attivazione e ¤S è l'entropia di attivazione, la (53)
diventa:
k = (K*T/h) * exp(¤S/R) * exp(-¤H/R*T)
(56)
che è analoga alla relazione di Arrhenius, se si tien conto che:
exp(-¤H/R*T) ÷ exp(-Ea/R*T)
(57)
quando Ea >> R*T, visto che:
¤H = Ea - R*T
(58)
Quindi, dalla (41) e dalla (56) si ha:
A = (K*T/h) * exp(¤S/R)
(59)
Ne deriva così che A varia direttamente con la temperatura T.
Il valore dell'energia di attivazione Ea di Arrhenius può essere ottenuta dalla
(49):
Ea = Log(DT1/DT2)* 2.303*R*T1*T2/(T2-T1)
(60)
oppure dalla (46):
Ea = Ln (k*T2/k*T1)*R*T1*T2/(T2-T1)
(61)
Dalla (58) si può così ottenere il valore di ¤H, quindi dalla (56) il valore di ¤S:
¤S = R*( Ln(2.3/DTc)-Ln(K*T/h) )+¤H/T
(62)
e dalla (55), quello di ¤G.
Malgrado si riscontrino nella letteratura analisi delle cinetiche d'inattivazione
microbica che si spingono fino ad individuare i valori di Ea, ¤G, ¤H e ¤S per le
singole specie, si può ritenere tale presunto approfondimento del tutto inutile,
vista la mancanza di qualsiasi relazione ragionevole tra il valore di tali parametri
e il significato che si vorrebbe loro attribuire (CASOLARI, 1986).
60
ASPETTI TERMODINAMICI DELL'INATTIVAZIONE
TERMICA DEI MICRORGANISMI.
La distribuzione dei valori di zeta per le spore batteriche si può considerare
simmetrica attorno ad un valore medio di circa 10, con il 60% dei valori
compreso all'incirca tra 5 e 15°C.
Per le cellule vegetative e le particelle comunque meno resistenti al calore, i
valori di zeta si concentrano attorno a circa 5°C; ma sono distribuiti
asimmetricamente attorno a tale valore, con estensione verso zeta più elevati, che
possono raggiungere i 16°C.
Apparentemente, i Bacillus hanno zeta leggermente inferiori ai Clostridium (z
medio di 9.7 per i Bacillus, rispetto ad uno zeta medio di 10.45 per i Clostridium).
Ma tale differenza è con ogni probabilità connessa, piuttosto che al Genere, alle
caratteristiche termiche. Si può riscontrare infatti che più del 75% dei valori di
zeta riportati nella letteratura sulla termoresistenza degli sporigeni, riguarda
organismi mesofili, e lo zeta medio risultante è di 10.61; mentre il restante 25%
circa di valori di zeta è dovuto ai termofili, sia Bacillus che Clostridium o
Desulfotomaculum, con zeta medio di 8.17. In effetti, le osservazioni di Warth
(1978) testimoniano che la termoresistenza aumenta all'aumentare della
temperatura di sviluppo, e quindi dalla mesofilia alla termofilia.
Come è noto, nella cinetica chimica il coefficiente di temperatura usuale è il Q10,
che indica di quanto aumenta la velocità di reazione KT per un aumento di 10°C:
Q10 = KT+10 / KT
(63)
Generalmente il valore di Q10 è prossimo a 2-3; vale a
dire che alla temperatura T+10°C la velocità delle reazioni chimiche è
generalmente 2-3 volte superiore alla velocità che si osserva alla temperatura T.
La relazione tra Q10 e z è la seguente:
z = 10 / Log Q10
e quindi anche:
(64)
61
Q10 = 1010/z
(65)
Ne deriva che ai valori di riferimento dello z per la distruzione delle cellule
vegetative e delle spore, corrispondono valori di Q10 pari a :
per z = 5, Q10 = 100
per z = 10, Q10 = 10
Entrambi i valori di Q10 sono nettamente superiori a quelli usuali in cinetica
chimica.
Verrebbe forse da pensare che all'origine di una tale differenza vi possa essere un
maggiore contenuto entropico nelle particelle biologiche e comunque nei
materiali biologici, più in generale. Tuttavia, se si definiscono meglio le
caratteristiche termodinamiche della distruzione termica dei microrganismi, ci si
scontra con tutta una serie di evidenze apparentemente inconcigliabili con il buon
senso.
Energia d'attivazione di Arrhenius, Ea.
Come si è visto precedentemente
dalla relazione (50), il valore di Ea si può ottenere direttamente dal valore di z:
Ea = 2.303*R*T1*T2 / z
(66)
Considerato che la termoresistenza delle cellule vegetative è misurabile
correttamente a temperature comprese tra circa 50 e 80°C, e che gli zeta riportati
nella letteratura sono infatti ottenuti per la quasi totalità nello stesso intervallo di
temperatura, si possono calcolare i valori limite attesi dalla (66) per temperature
di 50-55°C, e 75-80°C (ricordando che T1 e T2 sono temperature in °K),
ottenendo, per un valore medio di z = 5°C:
per T1=323.15 e T2=328.15°K :
Ea = 97 050.6 cal/mole
= 406 205.4 J/mole
per T1=348.15 e T2=353.15°K:
Ea =112 524.6 cal/mole
= 470 971.6 J/mole
La termoresistenza delle spore batteriche è misurabile correttamente in un
intervallo di temperatura più ampio e a temperature comprese generalmente tra 90
e 130°C.
Ne deriva che, facendo lo stesso calcolo per le coppie di temperature di 90-100°C
e 120-130°C, ed utilizzando uno zeta di 10°C, si otterranno i valori:
62
per T1=363.15 e T2=373.15°K:
Ea = 62 009.9 cal/mole
= 259 542.6 J/mole
per T1=393.15 e T2=403.15°K:
Ea = 72 529.8 cal/mole
= 303 573.7 J/mole
Quindi i valori di Ea per le cellule vegetative (particelle più sensibili al calore)
sono comunque superiori a quelli delle spore batteriche (elementi più resistenti al
calore). Questa è una prima apparente anomalia. Ci si aspetterebbe infatti che le
spore, essendo più resistenti al calore, debbano richiedere maggiori valori di Ea,
per la distruzione. Se non altro perché dalla distribuzione di Boltzmann
dell’energia, semplificata:
nEa/n = exp(-Ea/RT)
(67)
ci si aspetta che maggiori densità di molecole con energia elevata si riscontrino ad
alte temperature piuttosto che alle temperature (minori) di inattivazione delle
cellule vegetative; e quindi le molecole coinvolte primariamente nel fenomeno
dell'inattivazione sporale richiedano maggiore energia per degradarsi. Il che non
sarebbe poi illogico, infatti. Invece, la termodinamica classica ci indicherebbe che
occorre maggiore energia per la distruzione degli organismi più sensibili al
calore.
Ma di illogicità ce n'è un certo numero.
Si consideri il valore di Ea = 97 050.6 cal/mole per le cellule vegetative.
Applicando la (67) al valore di T2 considerato nel calcolo precedente, ne deriva
che la frazione di molecole con tale energia è pari a:
nEa/n = exp (-97050/652)
= 2.3 *10- 65
vale a dire che ci si deve attendere una molecola con tale energia ogni 1040 moli
all'incirca, pari a circa 1051 g di cellule (una mole di cellule batteriche pesa
all'incirca 1011 g).
Le molecole essenziali alla vitalità cellulare sono presenti nel singolo
microrganismo alla concentrazione all’incirca di 10-23 (DNA) e 10-17 (proteine)
moli. Nel primo caso ci si potrà aspettare quindi una molecola di DNA con
energia letale Ea = 97 Kcal/mole ogni 1040 moli di cellule, vale a dire ogni 1023 *
63
10-12 * 1040 = 1051 g circa di cellule; nel secondo caso, una molecola di proteina
con energia Ea ogni 1034 moli di cellule, ossia ogni 1045 g di cellule, ossia una
massa dieci volte superiore a quella stimata per la nostra galassia.
Alla maggiore temperatura T2=353.15°K, si ottiene, essendo R*T =
1.987*353.15 = 702:
nEa / n = exp(-112 525/702)
= 2.4 * 10-70
Anche se si considera il valore meno elevato di Ea = 62 kcal/mole, ottenibile per
le spore, la frazione di molecole con tale energia risulta:
nEa/n = exp (-62000/742)
= 5 * 10-37
e quindi una molecola con tale energia ogni circa 1013 moli, pari a circa 1013 *
1011 = 1024 g di spore.
Si consideri, che con la sterilizzazione di 100 mila scatole, al giorno, da 100 g di
prodotto contenente 100.000 spore per g, si ha a che fare con solo 1 g di spore
batteriche. Quindi, solo sterilizzando ogni giorno 100 mila scatole da 1kg, con
una contaminazione di un miliardo di spore/g – ossia costituite solamente da
spore batteriche - ininterrottamente dall'inizio del tempo, posto a 13.7 miliardi di
anni fa, si sarebbe agitata una sola molecola con tale valore Ea, una volta ogni
diecimila bigbang.
Valori ancora più ridotti della probabilità nEa/n = 4.8*10-40 si ottengono con il
più elevato valore di Ea e di T2 proposto per le spore batteriche.
L'assurdità di tali risultati è esageratamente evidente.
Ib - Entropia d'attivazione e Legge di compensazione.
Dalla relazione (56), che deriva direttamente dalla teoria assoluta di reazione, si
può ottenere:
¤S# = R(Ln k - Ln(R*T/N*h) + Ea/R’ *T)
(68)
dove ¤S è l'entropia di attivazione, R = 8.3*1017 erg/mole/°K , N è il numero di
Avogadro, h è la costante di Plank (6.624*10-27 erg/sec), k è la costante di
velocità dell'inattivazione, R’ = 1.987 cal/mole.
Ne deriva che il valore di ¤S si approssima a 200 cal/mole/°K (circa 880
J/mole/°K) per i microrganismi sensibili al calore, mentre rimane su valori
intorno 90 cal/mole/°K (circa 380 J/mole/°K) per le spore batteriche
termoresistenti.
La struttura della (68) è tale da corrispondere in pratica alla seguente:
64
¤S = B + Ea/T
(69)
che è la cosiddetta Legge di compensazione, in cui il valore di:
B = R(Ln k - Ln(R*T/Nh)).
Poiché la diversa temperatura di inattivazione è ininfluente sul valore di "¹" (dove
T compare come logaritmo), si può senz'altro ritenere che il valore di ¤S sia
sostanzialmente condizionato solo da Ea, e in particolare sia tanto più elevato,
quanto maggiore è il valore di Ea.
Si può rilevare quindi anzitutto che la "legge di compensazione" non è altro
che la relazione fondamentale (68) della teoria assoluta di reazione, in forma
differente, e quindi non ha significati aggiuntivi.
(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, Physiological models in Microbiology, Vol. II,
CRC Press Inc., Boca Raton, FL)
Inoltre, se sono richiesti più elevati valori di Energia d'attivazione, per
determinare più rilevanti variazioni di entropia, allora ci si dovrebbe aspettare un
minore livello di entropia nelle particelle termosensibili, piuttosto che nelle più
resistenti. Ma come ci si può aspettare un maggiore contenuto entropico nelle
spore, che sono cellule meno idratate e ad un livello di organizzazione molecolare
più complesso? In ogni caso, posto che l'insieme delle reazioni che portano alla
morte termica delle cellule siano dello stesso tipo, sia nelle cellule termosensibili
sia nelle termoresistenti, i minori valori di Ea che richiederebbe l'inattivazione
delle spore - e la minore variazione di entropia che ne conseguirebbe - dovrebbero
comportare una maggiore "distruttibilità" delle particelle termoresistenti, rispetto
65
a quelle termosensibili. Dalla equazione di distribuzione dell'energia (67), infatti,
ci aspettiamo che minore è il valore di Ea, minore è la temperatura alla quale è
più probabile che le molecole possiedano tale energia. Ma è proprio il contrario di
quanto accade con le particelle termoresistenti, che sono distrutte "solamente" a
temperature elevate e comunque superiori a quelle sufficienti all'inattivazione
delle particelle termolabili. L'opposto vale ovviamente per le particelle sensibili
al calore, che sono distrutte a bassa temperatura, mentre le loro molecole
coinvolte nel processo dovrebbero possedere valori talmente elevati di energia
d'attivazione, che la probabilità che siano raggiunti tali livelli alle relativamente
basse temperature di inattivazione, è pressoché nulla.
In effetti, la relazione (67):
nEa/n = exp (-Ea/R*T)
indica in modo preciso che minore è il valore di Ea, maggiore sarà la probabilità
nEa/n che una molecola possieda tale energia Ea. Indipendentemente dalla
temperatura. E la velocità di reazione è ovviamente in relazione con tale
probabilità. In effetti, a minori valori di Ea ci si aspetta che corrispondano
maggiori valori della costante di velocità delle reazioni, come si ha
dall'Arrhenius:
k = A * exp (- Ea/R*T)
Vale a dire che alla temperatura qualsiasi T, è tanto più probabile che avvengano
quelle reazioni che richiedono valori di Ea meno elevati.
A minore valore di Ea, farà riscontro anche una minore variazione di entropia ¤S,
senza che si invertano i riferimenti logici. Purché i minori valori di Ea e di ¤S
corrispondano pur sempre a velocità di reazione k misurabili a temperature
relativamente basse.
Ma così invece non è.
Dalla relazione (66) ci si aspetta che il valore di Ea diminuisca all'aumentare del
valore di z. Come si è visto precedentemente, la termoresistenza microbica tende
regolarmente ad aumentare con il diminuire della quantità d'acqua nell'ambiente
e/o con il diminuire del valore di attività dell'acqua; e comunque in ambiente
disidratato. Tale aumento di resistenza si manifesta con un innalzamento del
tempo di riduzione decimale alle temperature usuali per le diverse specie
microbiche, ed anche con un aumento, talvolta sorprendente, del valore di zeta.
Mentre, infatti, lo z dei batteri sporigeni è prossimo a 10°C, come s'è visto, in
ambienti ad aw elevato (aw > 0.90), in ambienti disidratati può raggiungere valori
di 20-40°C. Si ripresenta quindi l'ambiguità, analizzata precedentemente nel
confronto fra valori di Ea e ¤S per le particelle termolabili e per quelle
termoresistenti: a maggiore termoresistenza (sia spore batteriche che cellule
66
vegetative, ma in ambienti disidratati, rispetto ad ambienti umidi) fanno riscontro
valori minori sia di Ea, sia di ¤S.
Quindi, si ripresenta l'apparentemente illogica evenienza di una minore
probabilità di inattivazione (maggiore resistenza termica) combinata tuttavia con
valori dell'energia richiesta dal processo, che sono minori di quelli attesi in
condizioni più favorevoli all'inattivazione (ambiente umido).
Infatti, per la distruzione delle spore del PA 3679 in ambiente secco bisogna
raggiungere temperature intorno ai 160°C (D160=3; z = 20°C). Ne deriva che il
valore di Ea sarà di circa 40 945.7 cal/mole (171 378.2 J/mole), e quello di ¤S=
42 cal/mole/°C circa.
Dunque i valori più bassi di Ea e ¤S, sono per le particelle più termoresistenti.
Ma di quanto i valori usuali di Q10, z ed Ea sono inconciliabili con la funzione di
distribuzione dell'energia, che rimane pur sempre un punto fermo irrinunciabile?
Massimo valore accettabile di Q10.
Dalle relazioni precedenti si ottiene che:
Ea = a * Ln Q10
(70)
Posta la probabilità che alla temperatura T vi siano molecole con energia
superiore ad Ea, pari a PEa, si può collegare la (70) con la (67), ottenendo:
PEa = exp (a * Ln Q10/R*T)
(71)
Perché una reazione avvenga alla temperatura T2 ci si può aspettare
ragionevolmente che debba esservi una molecola con l'energia necessaria, nella
quantità totale di molecole (iN) presenti nell’ambiente che si considera, quindi il
valore minimo di PEA = mPEa dovrà essere:
mPEa = 1 / iN
(72)
dove "i" è il numero di moli di reagente nella soluzione ed N è il numero di
Avogadro.
Poiché il valore di mPEa sarà maggiore alla maggiore temperatura T2 considerata,
si avrà:
mPEa = (1/iN) = exp(-a*Ln Q10 / (R*T2) )
e siccome:
a = 0.1 * R + T1 * T2
(73)
67
si avrà:
Ln (1/iN) = - 0.1*T1*Ln Q10
(74)
cosicché il valore massimo di Q10 = MQ10 sarà:
MQ10 = (iN)10/T1
(75)
Poniamo che in ognuna delle particelle considerate vi siano in media 1011 legami
chimici che possono essere
coinvolti nell'inattivazione cellulare, e che si operi con una quantità di cellule pari
a 1 Kg. Si otterrà un numero di legami chimici critici pari a circa 1026, ossia di
circa mille moli. Alle temperature di 50 °C (per le particelle termolabili) e di
100°C (per quelle termoresistenti) si otterrà, che a 50°C (323.15°K):
MQ10 = (6*1026)(10/323.15)
= 6.74
e a 100°C (373.15°K):
MQ10 = (6*1026)(10/373.15)
= 5.22
(i valori corrispondenti di zeta sono 12.1 e 13.9, rispettivamente).
Quindi circa il 98% dei valori di Q10 riportati per l'inattivazione termica dei
microrganismi, sono superiori a quelli massimi ragionevolmente tollerabili.
Si può calcolare che i valori di Q10 pari a 2-3, che sono più tipici delle cinetiche
chimiche, si possano ottenere in soluzioni contenenti circa 10 -6, 10-12 moli di
reagente (i = MQ10 (T1/10))/N ).
(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, in Mathematical models in Microbiology.Vol. II,
68
Physiological models in Microbiology, Vol. II, CRC Press Inc., Boca Raton, FL)
Minimo valore accettabile di “z”
Si può calcolare anche il valore minimo di zeta (zm)giustificabile. Si ha dalla
(75):
(iN)(10/T1) = 1010/zm
e quindi:
zm = T1 / Log(iN)
(76)
poste le stesse condizioni (iN=6*1026) adottate per il (Q10), si ottengono valori
minimi tollerabili di z = 13.93 °C per T1 = 100°C e z = 15.06°C per T1=130°C.
Anche in questo caso, la quasi totalità dei valori di z per l'inattivazione delle
spore batteriche sono inferiori ai valori minimi che sarebbero tollerabili secondo
la teoria assoluta della velocità di rezione.
Massimo valore accettabile di Ea.
Si può calcolare anche qual'è il massimo valore di Ea=MEa, al disopra del quale
la probabilità PEa è troppo bassa per essere accettabile.
Dalla (71) si ha:
P(Mea) = exp (-MEa / R*T2)
(77)
dove con P(Mea) è indicata la probabilità che il valore di Ea sia massimo.
Dalla (77) si ottiene:
MEa = R*T2*(-Ln P(MEa)
e quindi:
MEa = R*T2*(-Ln (1/(iN)))
MEa = R*T2*Ln(iN)
(78)
Dalla (78), sempre assumendo iN = 6*1026, si ottiene che a 50°C il valore di MEa
= 39 591 cal/mole (165 708 J/mole). A 130°C, MEa = 49 715.6 cal/mole (208
084.8 J/mole). Quindi sia per le particelle termolabili sia per quelle
69
termoresistenti, i valori dell'energia d'attivazione sono sempre irragionevolmente
superiori a quelli massimi tollerabili secondo la teoria assoluta di reazione.
Si consideri inoltre che i valori di iN = 1026 sono enormemente superiori a quelli
impiegati nella pratica. Si può infatti ritenere che la totalità dei risultati
sperimentali descritti in letteratura, siano stati ottenuti impiegando una quantità
massima di particelle 100-1000 volte inferiore almeno.
Apparentemente, quindi, la discordanza tra ciò che si ottiene con l'analisi
convenzionale delle cinetiche d'inattivazione delle particelle microbiche, e ciò che
ci si può attendere ragionevolmente, è totale.
Ritengo che almeno in parte ciò sia dovuto alla specifica circostanza che le
cinetiche d'inattivazione non sono esponenziali.
Le cinetiche non-esponenziali d'inattivazione
microbica.
E’ dalle prime osservazioni sulla cinetica di inattivazione dei microrganismi
da agenti chimici (disinfettanti) e fisici (calore soprattutto), che si continua a far
riferimento alle cinetiche di primo ordine. Seguendo le indicazioni di Madsen e
Nyman (1907) e della Chick (1908), si è adottata la teoria dell'urto singolo come
espressione fondamentale del meccanismo di morte dei microrganismi: è
sufficiente che sia modificata una sola molecola o struttura cellulare, perché la
particella biologica sia inattivata. Rhan (1910) ha addotto argomentazioni
contrarie alla cinetica del primo ordine; ma solo in un primo tempo. In seguito,
ha sostenuto che le curve di inattivazione sono sostanzialmente esponenziali.
La teoria del bersaglio è stata sviluppata per giustificare le curve d'inattivazione
da radiazioni, che con particolare evidenza non sono riconducibili alla forma
esponenziale.
Due sono le formulazioni fondamentali:
(1) il bersaglio (la cellula o una particolare struttura cellulare) deve essere
colpito N volte dalla radiazione perché si abbia l'inattivazione;
(2) vi sono N bersagli cellulari che debbono essere colpiti prima che la
cellula sia inattivata.
70
Entrambe le interpretazioni possono descrivere le curve di inattivazione.
La limitata accuratezza dei risultati sperimentali non consente di discriminare tra
le due ipotesi.
Con l'accumularsi delle osservazioni sperimentali è sempre più evidente che la
cinetica di primo ordine non può essere considerata di validità generale. Tre tipi
di osservazioni vi si oppongono:
(A) le curve concave di sopravvivenza, in coordinate semilogaritmiche, che
sono così spesso riscontrate nella pratica;
(B) le prolungate "code" alle dosi maggiori di applicazione degli agenti
letali;
(C) la incerta distinguibilità tra particelle vitali e non vitali, sostenuta
dall'evidenza di danni metabolici parziali.
Le curve concave di sopravvivenza possono essere giustificate, almeno in prima
approssimazione, sulla base delle caratteristiche della distribuzione di frequenza
del carattere resistenza in una popolazione di particelle. Il terzo tipo di
osservazioni sperimentali rivela invece senza possibilità apparente di dubbio la
realtà di un danno parziale alla funzionalità cellulare.
La prima interpretazione può essere conciliata invece con la visione
esponenziale: tutte le frazioni con diversa resistenza, presenti nella popolazione
trattata, possono essere inattivate con una cinetica di primo ordine; essendo
ogni frazione provvista di una propria velocità di morte, la curva di sopravvivenza
dell'intera popolazione deve necessariamente essere un riflesso, prima delle
frazioni a più elevato k di morte, poi di quelle più resistenti.
Resta da dimostrare che il carattere resistenza segue una distribuzione statistica
nota.
Al contrario, l'ipotesi di un danno parziale, riparabile, è assolutamente
inconciliabile con la teoria dell'urto singolo, secondo la quale il bersaglio colpito
è per definizione inattivato.
Inutile dire che le code non hanno trovato altra spiegazione possibile che la
ipotizzata presenza, in una popolazione di particelle, di individui provvisti di una
resistenza eccezionalmente superiore a quella della maggioranza degli individui.
La generalità degli autori ha accettato senza esitazione l'ipotesi della presenza
di una particolare distribuzione statistica della resistenza in una popolazione
naturale di particelle biologiche. Alla prova dei fatti, tale ipotesi si è rivelata
inconsistente. Due ordini di osservazioni la contraddicono:
(a) non è stato dimostrato che gli individui che sopravvivono ai
trattamenti letali più energici (siano virus, cellule batteriche vegetative o
sporificate) abbiano una resistenza talmente più elevata di quella che si riscontra
nella generalità della popolazione, da giustificare la formazione delle code;
71
quindi, o il carattere resistenza non è geneticamente stabile, oppure la
distribuzione statistica di tale carattere nella popolazione non è tale da influire
sulla cinetica d'inattivazione.
(b) Decine di osservazioni sperimentali testimoniano che la
velocità di morte, in una popolazione di individui, è tanto minore quanto minore è
la concentrazione di particelle trattate. Tale osservazione è particolarmente
rilevante, poiché:
(1) indica che è tanto più difficile inattivare le unità biologiche, quanto
minore è il loro numero; e ciò sia che si impieghino agenti letali chimici
(disinfettanti) che fisici (calore, radiazioni ionizzanti, UV, ecc.);
(2) è in grado di fornire una giustificazione alle curve concave di
sopravvivenza, come dovute appunto alla difficoltà crescente di inattivare
concentrazioni progressivamente decrescenti di particelle di una popolazione.
E’ proprio sulla base di quest'ultimo tipo di osservazioni, che si è sviluppata la
teoria generale della cinetica di morte dei microrganismi (Casolari,1981; Casolari,
1988).
Già BALL e OLSON (1957), riflettendo sul possibile meccanismo
dell'inattivazione termica dei microrganismi, giudicavano che a livello
microscopico (quando si oss ervano i moti Browniani) i concetti di temperatura e
trasferimento del calore non hanno più senso e debbono essere sostituiti da
considerazioni energetiche che coinvolgano le molecole come unità discrete e non
come insiemi statistici. Pur non formulando alcun modello preciso di morte
termica, BALL e OLSON (1957) suggerivano che la morte dei microrganismi
deve essere provocata da una o più molecole esterne alla cellula, presenti
nell'ambiente, e provviste di elevata energia cinetica, in accordo con la curva di
distribuzione Boltzmanniana dell’energia.
Le basi del modello generale contengono il suggerimento di BALL e OLSON
(1957). Le molecole attive nel processo d'urto letale sono quelle dell'acqua
presente nell'ambiente e provviste di energia sufficiente (energia letale), in
accordo con la distribuzione dell’energia di Boltzmann.
La relazione fondamentale è la seguente:
Ct = Co exp(1/(1 + t * exp(94.52 + 2 Ln W - 2 Ed/RT)))
(79)
72
dove Ct e Co sono le concentrazioni cellulari (N/ml, N/g; etc.) dopo il tempo t
(min) di trattamento e quella iniziale, rispettivamente; W sono i gr di acqua
presenti in100 gr di substrato; 94.52 è il Ln del quadrato della quantità di
molecole d'acqua contenute in 1 g; Ed è l'energia letale; R è la costante universale
dei gas (1.987 cal/mole) e T è la temperatura assoluta (gradi Kelvin).
Tale Modello è detto generale, poiché è in grado di descrivere praticamente
tutti i tipi di curve di sopravvivenza ottenute sperimentalmente, sia per azione di
agenti letali chimici che fisici (attiene anche alla generalità della teoria, la
capacità di descrivere le curve di accrescimento dei microrganismi, dell'embrione
umano e dei tumori umani e animali, sulle stesse semplici basi).
Il risultato più rilevante del modello generale dell'inattivazione è il seguente:
“ le curve d'inattivazione delle particelle biologiche sono fondamentalmente
concave in coordinate semilogaritmiche, indipendentemente dall'agente
chimico-fisico letale considerato.
In condizioni ambientali particolari (in funzione della resistenza specifica delle
unità considerate, della concentrazione cellulare, della quantità di acqua
nell'ambiente, ecc.), le curve di inattivazione non si discostano in misura
statisticamente significativa dall'esponenzialità.”
Per quanto riguarda l'effetto del calore nei confronti dei microrganismi, si può
rilevare:
1 - Un unico parametro fondamentale caratterizza la resistenza dei singoli
microrganismi: l'energia E che debbono possedere le molecole d'acqua per essere
letali.
2 - La probabilità d'inattivazione è tanto minore quanto minore è la
concentrazione cellulare nel mezzo (quindi le code sono fenomeni che la teoria
considera reali).
3 - La velocità d'inattivazione a qualsiasi temperatura è tanto minore quanto
minore è il contenuto d'acqua nell'ambiente.
4 - La velocità di morte è proporzionale al quadrato della concentrazione delle
molecole d'acqua provviste di
73
energia letale, presenti nell'ambiente.
5 - La velocità d'inattivazione è tanto maggiore quanto più è elevata la
temperatura; in particolare tale velocità cambia di Q10 volte ogni 10 gradi C
poiché il quadrato della concentrazione delle molecole con energia letale
cambia di Q10 volte ogni 10 gradi C, cosi' come cambia di 10 volte ogni z
gradi C. Viene così attribuito un significato preciso ai parametri Q10 e “z”.
Per applicare il modello generale nella pratica, basta conoscere la concentrazione
iniziale delle particelle biologiche, quella dopo il tempo t, la temperatura di
trattamento e il contenuto d'acqua nel mezzo. Noti tali parametri, si può prevedere
la curva di sopravvivenza a qualsiasi temperatura, a qualunque concentrazione
cellulare, in ambienti a qualsiasi contenuto d'acqua, ecc.
Dalla (79) semplificata, si può ottenere che la probabilità di sopravvivenza
microbica Ct/Co dopo ‘t’ minuti di esposizione ad una temperatura letale è:
Ct/Co = Ct -M*t
(80)
da cui, dividendo per Ct:
Co = Ct (1+M*t)
Ossia:
Ct = Co 1/(1+M*t)
(81)
dalla quale si ottiene la (83), tenendo in considerazione che il valore di M è dato
dal quadrato del numero (nEd) di molecole d’acqua ambiente con energia
superiore al valore letale, Ed (come dall’equazione di Boltzman: nEd /no= Ed/RT):
M = (6.02295*1023/18) exp (- Ed/RT)
Da cui:
M = exp (103.7293 – 2 Ed/R*T)
(82)
dove 103.7293 è il logaritmo naturale del quadrato del numero di molecole
d’acqua contenute in un grammo d’acqua, Ed è l’energia letale, R = 1.987
cal/mole e T la temperatura assoluta (°K). Si ottiene così dall’(81) e dalla (82):
Ct = Co 1/(1+ M t)
che per esteso equivale a:
(83)
74
Ct = Co [(1+t) exp(103.7293 – 2Ed/R*T)]-1
(83bis)
Conoscendo i valori di Co e Ct dopo il tempo t di trattamento alla temperatura T,
si ottiene dalla (81):
M = ((Ln Co / Ln Ct) – 1)/t
(84)
Da cui si può stimare il valore dell’energia letale Ed, per il microrganismo
considerato:
Ed = 0.5 R * T (103.7293 – Ln M)
(85)
E così pure l’andamento delle curve di inattivazione a qualsiasi temperatura e
stato di idratazione del mezzo.
I diversi microrganismi sono inattivati dall’urto con molecole d’acqua provviste
di differente energia letale Ed.
(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, in Mathematical Models in Microbiology.
Vol II. ,Physiological models in Microbiology, CRC Press Inc., Boca Raton, FL)
Nella figura rappresentata sopra, sono riportate le curve d’inattivazione di
microrganismi aventi una resistenza termica decrescente – ad una temperatura T ossia con valori di Ed decrescenti da 36 (batteri più resistenti) a 34 (meno
resistenti) kcal/mole.
Il valore del coefficiente di correlazione, calcolato per la regressione lineare tra
valori di Log Ct e tempo di trattamento termico, è abbastanza elevato per le prime
tre curve d’inattivazione rappresentate nel grafico soprariportato (ad es., per
valori di Ed pari a 36, 35.4 e 35 kcal/mole); ma ha già valori critici per la quinta
curva rappresentata sopra (per Ed pari a 35 kcal/moli), indicandone la già di per
sé evidente deviazione dalla linearità, che aumenta al diminuire del valore di Ed.
Tale rappresentazione è quella tipicamente attesa dal modello generale
75
dell’inattivazione microbica; vale a dire che le curve d’inattivazione a
qualunque temperatura T possono risultare poco discoste dalla linearità per
i microrganismi più resistenti a tale temperatura (e in genere a tali
condizioni di esposizione al calore); mentre deviano dalla linearità
progressivamente sempre di più, al diminuire della resistenza alla stessa
temperatura.
Allo stesso modo, le curve d’inattivazione di qualunque microrganismo possono
essere rappresentate da curve statisticamente indistinguibili dalla linearità (il
coefficiente di correlazione della regressione lineare calcolata sulla base dei
valori sperimentali, è sufficientemente elevato) per temperature sufficientemente
ridotte; ma da curve progressivamente sempre meno lineari (coefficienti di
correlazione lineare sempre più ridotti) e sempre più concave, all’aumentare della
temperatura.
(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, in Mathematical Models in Microbiology.
Vol. II. Physiological models in Microbiology, CRC Press Inc., Boca Raton, FL)
Come riportato nella figura sopra, per un microrganismo che abbia un valore di
Ed = 35 kcal/mole, le curve d’inattivazione si discostano poco dalla linearità per
temperature di trattamento comprese all’incirca tra 53 e 57°C; ma per temperature
superiori, la deviazione dalla linearità è sempre più evidente, all’aumentare della
temperatura.
Tuttavia, come risulta anche da entrambe le ultime due figure riportate sopra, le
deviazioni dalla linearità delle curve d’inattivazione sono tanto più evidenti in
generale, quanto più estesamente ampi sono i tempi di esposizione al calore; così
come le curve sono tanto meno indistinguibili dalla linearità quanto più i
trattamenti sono brevi, o quanto più sono estesi.
Da entrambe le rappresentazioni soprariportate, si può rilevare come le maggiori
deviazioni dalla linearità delle curve d’inattivazione – ossia le cosiddette ‘code’ –
si manifestino soprattutto ai minori valori di Ct. Ossia, quando la contaminazione
76
di particelle vitali è particolarmente ridotta – perché il tempo di trattamento è
sufficientemente esteso, in relazione alla letalità della temperatura di esposizione
– e la distruzione delle cellule risulta sempre meno probabile; la velocità di morte,
è sempre minore all’aumentare del tempo di esposizione al trattamento letale.
Addirittura, secondo il teoria del modello generale, l’ultima particella microbica è
distrutta con sempre minore probabilità, per quanto esteso possa essere il tempo
di trattamento.
Secondo tale modello quindi, le ‘code’ delle curve d’inattivazioni – che si
manifestano sempre alle minori concemntrazioni di particelle vitali - sono un
fenomeno reale, non un artificio dovuto ad inaccuratezze nelle operazioni
sperimentali di esecuzione delle prove di termoresistenza microbica. Vale a dire
quindi, che secondo il modello presentato, la velocità di morte diminuisce al
diminuire della concentrazione delle cellule vitali; e che tale fenomeno dà
origine alle ‘code’.
Questo comportamento è apparentemente giustificato dalle premesse che hanno
portato alla formulazione del modello – ossia che la probabilità di collisione tra
particelle microbiche e molecole d’acqua provviste di energia letale (Ed), è tanto
minore quanto minore è la concentrazione di tali molecole energetiche nel mezzo
di trattamento, ossia quanto minore è la letalità della temperatura per ogni
specifico microrganismo; o quanto minore è la concentrazione di cellule vitali, sia
che si tratti di contaminazione iniziale (Co) o di sopravviventi al tempo di
trattamento ‘t’ (Ct).
Attribuendo al Q10 il significato indicato precedentemente, di rapporto tra velocità
di reazione a due temperature che differiscono di 10° (Q10 = KT+10/KT), il
modello prevede che sia:
Q10 = exp ((2*Ed/R)(10/(T+10)T)
(85)
Dalla (80) si può ottenere un parametro analogo al tempo di riduzione decimale,
indicato di seguito con P10 , in quanto il tempo di trattamento richiesto perché sia
Ct = 0.1 Co:
Log Ct – Log Co = - M * P10 *Log Ct
da cui:
-1 = - M * P10 *Log Ct
1 = M * P10 * Log Ct
77
(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, in Mathematical Models in Microbiology.
Vol. II. Physiological models in Microbiology, CRC Press Inc., Boca Raton, FL)
E quindi :
P10 = 1 / M Log Ct
(86)
Ne deriva, in accordo con la (63), essendo la costante di velocità di reazione K =
1 / D10, sarà anche K = 1/P10 , cosicché:
Q10 = P10(T+10) / P10(T)
= MT+10 *Log Ct / MT *Log Ct
Da cui:
Q10 = MT+10 / MT
(87)
E dalla (82):
Q10 = exp((2 Ed/R)(10/(T+10)T))
(88)
Ed anche:
Ln Q10 = (2 Ed/R)(10/(T+10)T
(89)
Dalla quale si può ottenere il valore di:
Ed = Ln Q10 /10)(R/2)((T+10)T
(90)
E poiché :
z = 10 / Log Q10
(91)
78
sarà:
Q10 = exp (23.03/z)
(92)
da cui:
Ln Q10 = 23.03 / z
Cosicché:
Ed = (Ln 10) R T (T+10)/2z
(93)
Ed = RT(T+10) Ln Q10 / 20
(94)
ed anche :
Ciò comporta anzitutto che, secondo il modello generale, si può attribuire un
significato molto preciso ai due parametri caratterizzanti le cinetiche
d’inattivazione termica, in relazione alla temperatura di trattamento: il Q10 e lo
‘z’. Infatti, mentre dalla cinetica convenzionale i due parametri hanno un valore
decisamente astratto, corrispondente all’entità della variazione – Q10 volte - della
K di reazione per una variazione di 10°C; e lo zeta, rappresenta di quanti gradi
deve variare la temperatura perché la velocità di reazione cambi di dieci volte; nel
modello generale entrambi i valori di Q10 e di z sono direttamente collegati alla
concentrazione delle molecole attive nell’inattivazione cellulare, in quanto al
variare di dieci gradi di temperatura, la velocità di reazione cambia di Q10 volte
perché la concentrazione delle molecole con energia Ed cambia proprio di Q10
volte; e allo stesso modo, la velocità di reazione cambia di dieci volte per una
variazione di z gradi, perché a tale variazione di temperatura corrisponde una
variazione di dieci volte della concentrazione delle molecole con energia letale
Ed.
Quindi, se poniamo Q10 =10 nella (90), oppure z = 10 nella (93), si ottiene
comunque – nell’intervallo di temperatura di 110 – 120 °C - che il valore di Ed =
34459.6348 cal/mole. Ne deriva che – dalla (82) – a 110°C il valore di M – ossia
del quadrato del numero di molecole con energia Ed – che è M110°C =
5.4208*105, sarà di z = Q10 = 10 volte inferiore al valore di M a 120°C: M120°C =
5.4208*106 .
Allo stesso modo, posto ad esempio Q10 = 22 (da cui z = 7.4449) alle temperature
60°≤T≤70°C si avrà – dalla (90) come dalla (93) - che Ed = 3507.2379 cal/mole,
per cui il valore di M70°C = 2.1196 è Q10 = 22 volte maggiore di M60°C = 0.096.
Oppure, posto Q10 = 16 (e quindi z = 8.305) nell’intervallo di temperatura 110°≤
T ≤ 120°C si ottiene, sempre dalla (90) e (93), che Ed = 41493.5348 cal/mole;
quindi si avrà che M120°C = 0.082, che è esattamente Q10 = 16 volte il valore di
M110°C = 5.1178*10-3 .
79
Si può verificare parimenti che – nel primo caso - alla temperatura di 60°C + z =
60 + 7.4449 = 67.449°C la concentrazione attesa di M = 0.963 è 10 volte
maggiore di M60°C. Nel secondo caso (Ed=41493.5348 cal/mole), alla temperatura
T = 120 - z = 111.695°C il valore di M111.695°C = 0.0082 è 10 volte inferiore al
valore di M120-z .
Il v alore di z cambia in funzione di Ed e della temperatura, secondo la relazione:
z = (Ln 10)(T+10)*T*R/(2*Ed)
(95)
Inoltre:
Dall’applicazione del modello generale si ricava che il valore dell’energia Ed
delle molecole d’acqua in grado di inattivare i microrganismi sensibili, è
inferiore al valore dell’energia Ed richiesto per l’inattivazione dei microrganismi
più resistenti. I microrganismi termosensibili – le cellule vegetative batteriche,
lieviti, muffe – che sono inattivati a temperature 60°≤T≤70°C hanno valori di
energia letale 33≤ Ed ≤ 37 kcal/mole; mentre le spore batteriche, che sono i
microrganismi più resistenti al calore, e che sono distrutte a temperature
110°≤T≤120°C, richiedono valori di energia più elevati, 38≤Ed≤44 kcal / mole.
Questo risultato è completamente opposto a quello che si ottiene analizzando le
cinetiche d’inattivazione microbica secondo la cinetica chimica convenzionale,
che – come esaminato precedentemente – prevede al contrario – e in evidente
contrasto con la logica più immediata - che occorra più energia per inattivare le
cellule meno resistenti, e meno energia per inattivare le spore batteriche.
Quindi tale risultanza del modello generale meglio si accorda con le attese più
ragionevoli.
Velocità dell’inattivazione termica e contenuto d’acqua nel mezzo di trattamento.
La velocità d’inattivazione dei microrganismi diminuisce al diminuire del
contenuto acquoso del mezzo di trattamento.
Anche secondo il modello proposto, la velocità d’inattivazione diminuisce al
diminuire della temperatura, perché al diminuire della temperatura, diminuisce il
valore di M (83). Siccome il valore di M dipende dalla quantità d’acqua presente
nell’ambiente di trattamento (82), va da sé che una diminuzione della quantità
d’acqua nel mezzo avrà come conseguenza diretta una diminuzione del valore di
M, ciò che equi vale necessariamente ad una diminuzione di temperatura.
Infatti, la (82) è più esattamente equivalente alla:
M = exp (A – 2 Ed/RT)
In cui:
(96)
80
A = 94.5190 + 2 Ln W
(97)
dove 94.519 è il logaritmo naturale del quadrato del numero di molecole d’acqua
per gr di substrato contenente 1 gr d’acqua e W = gr di acqua contenuti in 100g di
substrato.
Mediante la (96) e la (97) si può calcolare il valore di M per qualunque valore di
W≤100. Unendo la (96) e la (97) si ottiene come varia il valore di M in funzione
dell’energia Ed e della temperatura, in mezzi a differente contenuto acquoso:
Ln Mw = = 54.519 + 2 Ln W – 2 Ed/RT
(98)
in cui Mw è appunto il diverso valore che assume M in funzione del valore di W.
Visto che la diminuzione del valore di M corrisponde nella pratica ad un
abbasssamento della temperatura, si può calcolare qual è il valore di temperatura
Tc equivalente ad un abbassamento di M per effetto della diminuzione del
contenuto acquoso del mezzo:
Tc = 2 Ed / R(103.7293 – LnMw)
(99)
Come risulta dalla Figure seguente, ad una temperatura di, ad esempio,120°C in
ambiente completamente idratato, corrisponde una temperatura Tc = 87.6 nello
stesso tipo di substrato, contenente solamente 1gr d’acqua / 100 gr di substrato.
Ne consegue con la massima evidenza, che mentre alla temperatura di 120°C
sono distrutte in tempi brevi una quantità di spore batteriche, alla temperatura di
87.6 non si avrà alcuna distruzione termica, se non in tempi di trattamento
esageratamente elevati.
Come evidenziato in precedenza, il contenuto acquoso del mezzo è il fattore che
influenza con la massima rilevanza la termoresistenza microbica – e non solo
quella microbica; quindi, il fatto che il modello generale individui con tanta
precisione anche tale fondamentale caratteristica del fenomeno d’inattivazione,
gli conferisce un livello d’attendibilità del tutto singolare.
Con riferimento alle variazioni indotte sui valori di Q10 e z, da un abbasamento
del contenuto acquoso da 100 a 1gr/100 gr di substrato alla temperatura T, si
ottiene che la velocità di inattivazione per le cellule sensibili come per quelle
resistenti, diminuisce di circa 1.000 volte.
Per calcolare la temperatura T’ che occorre raggiungere per ottenere un tempo di
inattivazione P10 pari a quello ottenibile alla temperatura T in un substrato
completamente idratato, si può utilizzare la relazione seguente:
T’ = 2 Ed (R(54.519 + 2 Ln W – Ln MT))
(100)
81
dove MT è ovviamente il valore di M alla temperatura T. Come si ottiene dalla
Figura successiva, per un valore di Ed pari a 40 kcal/mole, una variazione di 100
volte nel valore di W, comporta una variazione di circa 40°C. La corrispondenza
con i risultati sperimentali è pressocché totale (Casolari, 1988).
(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, in Mathematical Models in Microbiology. Vol. II.
Physiological models in Microbiology, CRC Press Inc., Boca Raton, FL)
OSSERVAZIONI
Sul piano teorico, la tesi dell'esponenzialità non è in grado di giustificare una
quantità di osservazioni sperimentali (relazione tra concentrazione microbica e
velocità d'inattivazione, code alle curve d'inattivazione, fenomeni di danno
parziale, relazione tra contenuto d'acqua e letalità dei trattamenti applicati, ecc.);
conduce a risultanze termodinamiche assolutamente inaccettabili (Vedere Nota
sugli aspetti termodinamici dell'inattivazione termica dei microrganismi); non è in
grado di suggerire un possibile meccanismo di morte dei microrganismi.
Il modello generale, che basa su un processo di collisioni casuali tra unità
82
discrete (le molecole d'acqua provviste di energia sufficiente) e i microrganismi,
il meccanismo fondamentale d'interazione cellula-ambiente, è in grado
apparentemente di giustificare tutte le osservazioni sperimentali più rilevanti;
configura l' inattivazione come lo stadio conclusivo di un processo di
accumulazione di danni parziali; è applicabile alle cinetiche d'inattivazione da
agenti letali sia chimici che fisici; prevede la relazione tra contenuto ambientale
d'acqua e velocità di morte termica; giustifica la relazione tra coefficienti di
temperatura e velocità d'inattivazione; suggerisce il tipo di gruppi molecolari più
direttamente coinvolti nei fenomeni di radio-inattivazione; si presta ad ulteriori
miglioramenti.
Poiché il modello generale prevede che solamente a temperature
sufficientemente basse o sufficientemente elevate, in relazione alla resistenza
specifica dei microrganismi tratta, la cinetica di inattivazione non si discosti in
misura statisticamente significativa dall'esponenzialita, pur essendo comunque
caratterizzata da velocità di morte decrescente al diminuire della concentrazione
cellulare, ne deriva che l'efficienza dei trattamenti termici di sterilizzazione è
tanto maggiore quanto maggiore è la temperatura applicata.
Generalmente, sia la stabilizzazione dei prodotti acidi, sia la sterilizzazione di
quelli non acidi, vengono ottenute con l'applicazione di temperature
sufficientemente elevate, relativamente ai microrganismi che si debbono
inattivare, e per tempi sufficientemente lunghi, perché le cinetiche di
inattivazione si possano considerare sostanzialmente esponenziali, almeno ai fini
pratici. Tale scelta è imposta dal minore valore del Q10 ( e quindi maggiore
valore corrispondente di z) per i composti a maggiore contenuto nutrizionale e
qualitativo in generale, rispetto al coefficiente di temperatura che compete
all'inattivazione microbica.
Ciò che differenzia in modo fondamentale, sia sul piano teorico che pratico, i
portati del modello generale rispetto a quelli del trattamento teorico
convenzionale (inattivazione esponenziale) (Stumbo, 1973) dei processi di
sterilizzazione, è il problema dell'equivalenza dei trattamenti.
La teoria convenzionale, assumendo che l'inattivazione sia esponenziale e la
relazione tra tempo di trattamento e temperatura sia regolata dallo z (poco
importa alla fine che tale dogma sia errato sulla stessa base termodinamica),
impone comunque il concetto di trattamento equivalente: a tempi brevi di
trattamento ad alta temperatura si possono sempre far corrispondere tempi più
lunghi a temperature inferiori, assolutamente equivalenti – in accordo con
l’ortodossia della cimnetia esponenziale - sotto il profilo dell'effetto letale nei
confronti dei microrganismi.
Secondo il modello generale, invece, non vi sono trattamenti termici equivalenti,
se non in misura limitata e in un ristretto intervallo di temperature
sufficientemente elevate, relativamente ai microrganismi che si debbono
83
distruggere.
Qualora esigenze produttive particolari inducano ad alterare imprudentemente i
parametri di sterilizzazione o stabilizzazione consolidati (sulla base - errata dell'equivalenza dei trattamenti, in accordo con la teoria convenzionale
dell'inattivazione esponenziale), le conseguenze possono essere inattese.
84
85
PARTE SECONDA.
Aspetti pratici connessi alla termoresistenza
microbica.
PASTORIZZAZIONE
Abitualmente il processo di pastorizzazione viene identificato con trattamenti
termici di limitata entità, sufficienti (almeno nelle attese) a ridurre il livello di
contaminazione di prodotti "freschi" (tipicamente il latte) e quindi ad aumentarne
la durata soprattutto a temperature di refrigerazione. Ci si aspetta altresì che la
pastorizzazione riduca a livelli tollerabili il contenuto possibile di microrganismi
patogeni, e soprattutto Salmonella, Listeria, virus, etc.
……….………………………………………………………..
……………………………………………………………………..
La Tabella è stata ottenuta mediante il software Microbiofood (Casolari, 2012), scaricabile
gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce
.
Trattamenti termici di limitata entità possono essere applicati con maggiore
vantaggio ai prodotti cosiddetti "acidi" [con pH < 4.5] o ai prodotti con attivita'
86
dell'acqua sufficientemente ridotta [Aw < 0.93]. Infatti, entrambi i tipi di prodotti
(oltre naturalmente tutti quelli con caratteristiche intermedie, di pH e di aw, ma
equivalenti sotto il profilo microbiologico), possono essere alterati solamente da
microrganismi non sporificati, quindi poco resistenti al calore. Ne deriva che la
pastorizzazione può inattivare tutti i tipi dei microrganismi di alterazione usuali
per tali prodotti e determinare una condizione di "stabilita'" indipendente dalla
temperatura di magazzinaggio. Abitualmente invece, anche a questo tipo di
prodotti vengono spesso applicati trattamenti termici inutilmente molto più
elevati del necessario.
Malgrado gli obbiettivi della pastorizzazione siano quindi di non trascurabile
rilevanza, manca una teoria appropriata della pastorizzazione, paragonabile a
quella della sterilizzazione.
I tempi e le temperature di trattamento sono tratti dalla tradizione, nella maggior
parte dei casi. Anche le codificazioni di riferimento con maggiore richiamo,
La Tabella è stata ottenuta mediante il software Microbiofood (Casolari, 2012), scaricabile
.
gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce
inserite nella normativa internazionale, per latte e derivati, uova, ecc. non sono
prive di apparenti contraddizioni, e denunciano un'origine altrettanto
"tradizionale". Infatti, i parametri adottati si possono con difficoltà raccogliere in
poche relazioni, come indicato di seguito. Nella Tabella (P1) successiva sono
riportati i tempi richiesti per la pastorizzazione del latte, ottenuti dalla relazione:
Log Psec = 15.21 - 0.1724 * °C
z = 5.8
(P1)
87
che descrive i parametri autorizzati da FDA e USDA ("Recommended
Guidelines...", 1987), per temperature comprese tra 88.33 e 100°C. Per
trattamenti di pastorizzazione a temperature inferiori, i tempi consigliati (FDA e
USDA) possono essere descritti da questa seconda relazione:
Log Psec = 17.95 - 0.234 * C
z = 4.3
(P2)
dalla quale si ottengono tempi di trattamento molto inferiori a quelli previsti
dalla prima relazione.
Tale situazione è del tutto ingiustificata, visto che in ogni caso alle minori
temperature di trattamento, è comunque opportuno impiegare valori di zeta
inferiori (che portano quindi, per temperature inferiori a quelle di riferimento, a tempi superiori).
In realtà, i valori impiegati più frequentemente sono di 63°C per 30 min, 72°C
per 15 sec e 88°C per 1 sec. Nella Tabella P1 sono confrontati i tempi di
trattamento necessari per determinare 8D dei patogeni di maggiore rilievo, con
entrambe le relazioni P1 e P2. Come si può rilevare, i tempi di pastorizzazione
indicati per le temperature superiori a 80°C sono molto bassi.
Tenendo conto delle tecniche di determinazione della termoresistenza, si può
ritenere senz'altro che nella definizione di tali valori ci si sia basati su indicazioni
sperimentali ottenute a temperature inferiori a 80°C.
Sarebbe stato quindi più prudente adottare un valore di z più elevato, per
definire i tempi di trattamento a temperature superiori a quelle sperimentate. In
effetti, tutti i microrganismi presi in considerazione nella Tabella P1 hanno
valori di zeta superiori a 5.8, eccetto il Mycobacterium tuberculosis (che peraltro
è sensibilissimo al calore). I batteri non sporigeni capaci di resistere a temperature
superiori a 70°C hanno necessariamente valori di z più elevati che per la
maggioranza delle cellule vegetative, normalmente dotate di una scarsissima
resistenza termica, associata appunto a bassi valori di zeta.
Ma è appunto dei microrganismi più resistenti, che ci si deve occupare nella
definizione di parametri di stabilizzazione- sanificazione; e soprattutto dei più
resistenti tra i patogeni. In tal senso, visto che la S. senftenberg risulta il più
resistente dei batteri non sporigeni patogeni, si dovrebbe tener conto in misura
preponderante dei parametri di termoresistenza più elevati, riscontrati con ceppi
di questa specie. In tal senso, la resistenza del ceppo di S. senftenberg meno
termolabile in diversi substrati (latte, brodo, carne di pollo) è descritta dalla
seguente relazione:
Log (8D,sec) = 9.1345 - 0.09091 * °C
(P3)
88
Ciò significa, che per temperature superiori a 74.55°C i tempi di pastorizzazione
previsti dalla relazione (P1) sono insufficienti per ottenere 8D di questo batterio
patogeno.
A temperature inferiori a 74.55°C, i tempi di pastorizzazione previsti dalla
relazione (P1) sono superiori a quelli attesi per la distruzione della S. senftenberg
e quindi potrebbero essere adottati con maggiore vantaggio, ma solo
apparentemente. I batteri non sporigeni più resistenti (Streptococcus faecalis, ad.
es.) tendono ad avere cinetiche d'inattivazione non-esponenziali (caratterizzate
da lunghe "code" nelle curve di sopravvivenza) soprattutto a basse temperature di
trattamento. E i maggiori tempi di trattamento non sono di alcuna utilità in tali
condizioni. Diventa anzi imperativo orientarsi verso soluzioni che possano
aumentare la probabilità di riscontrare cinetiche esponenziali, e a tal fine quindi
prevedere temperature di pastorizzazione più elevate.
Si possono anzitutto prevedere quattro tipi di pastorizzazione: CHILL-Past
treatment, PATH-Past, ACID-Past e HARD-Past treatment.
Tab. P1. Tempi di pastorizzazione (Psec ) previsti dalle relazioni P1 e P2 e tempi necessari per
determinare 8D dei microrganismi che interessano la pastorizzazione convenzionale.
-----------------------------------------------------------------------------------------------Temperatura P1
Salm. E.coli Lysteria FMDV M.tuberc.
P2
°C
Psec ---------------------8 D ----------------------------Psec
-----------------------------------------------------------------------------------------------65
10059 1682 891
226
173
31
552
70
1382
590 211
54
48
3.4
37
75
190
207
50
13
13
0.4
2.5
80
26
73
12
3
4
0.04
0.17
85
3.6
26
3
0.7
1
0.004
0.01
90
0.5
9
0.7
0.17
0.3
0.0005
……
95
0.07
3
0.16
0.04
0.08
……..
…….
_______________________________________________________________
z =
5.8
11
8
8
9
5.2
4.27
-------------------------------------------------------------------------------------------------* Salm.= Salmonella senftenberg 775 w; E.coli = Escherichia coli; Lysteria = Listeria
monocytogenes; FMVD = Foot-Mouth-Disease-Virus; M.tuberc. = Mycobacterium
tuberculosis.
Il trattamento CHILL Past è di entità tale da assicurare la distruzione dei batteri
patogeni non sporificati e consentire due settimane di stabilità a temperature di
refrigerazione. Il patogeno più resistente alle temperature di pastorizzazione
meno elevate (60-90°C) è lo Staphylococcus aureus: D60°C = 27 min, z = 5.1°C
89
(Evans et alt., 1970). Alle temperature più elevate, il patogeno più resistente è la
Listeria monocytogenes: D90°C = 0.56 sec, z = 10°C (Schoeni et al., 1991).
Unendo questi due valori estremi di termoresistenza, si ottiene la relazione :
Log Dsec = 10.1 – 0.115*T
(P4)
Poiché si ritiene generalmente che bastino 7D per ottenere una pastorizzazione
efficiente, dalla (P4) si ha la relazione (P5):
Log CHILL.Past, min = 9.16 – 0.115 *T
(P5)
dalla quale si ottengono i seguenti valori del tempo di pastorizzazione CHILLPast:
Il trattamento di pastorizzazione ondicato come PATH-Past è configurato in
modo da assicurare la distruzione di tutti i batteri patogeni, comprese le spore del
Clostridium botulinum dei tipi non proteolitici B, E ed F (Casolari, 1998), in
modo da poter ottenere almeno 2-3 mesi di stabilità microbiologica a temperature
di refrigerazione. Le spore più termoresistenti delle specie di Cl. botulinum capaci
di svilupparsi a temperature di refrigerazione, sono quelle del Cl. botulinum non
proteolitici di tipo B: D90°C = 20.3 min, z = 7.4 (Peck et al., 1993). Cosicché si
ottiene la (P6):
Log D,min = 13.46 – 0.135 *T
(P7)
E tenedo conto delle necessarie 7D, si ha la relazione (P8):
Log PATH-Past, min = 14.3- 0.135 *T
(P8)
Dalla quale si ottengono i seguenti tempi di pastorizzazione PATH Past:
90
La pastorizzazione ACID-Past è in grado di ridurre a livelli talmente bassi la
probabilità di sopravvivenza dei microrganismi più termoresistenti, in grado di
alterare i prodotti acidi, con pH < 3.8, che consente di ottenere la stabilità al
magazzinaggio a temperatura ambiente. Il trattamento ACID-Past si basa sul fatto
che i due microrganismi più termoresistenti capaci di accrescersi in ambienti con
pH<3.8 sono le due muffe Neosartoria fischeri e il Talaromyces flavus. Le
ascospore di N. fischeri sono più resistenti a 85°C: D85°C = 112 min, z = 3.6
(Beuchat, 1986); le ascospore di T. flavus, a temperatura più elevata: D97.5°C = 0.4
min, z = 5.4°C (Scott e Bernard, 1987). Unendo i due valori di termoresistenza,
si ottiene la (P9):
Log D, min = 18.69 – 0.196 *T
(P9)
Da cui, per ottenere le 7D consigliate come sufficiente livello di inattivazione, si
ottiene la (P10):
Log ACID-Past, min = 19.54 – 0.1956 *T
(P10)
E i seguenti trattamenti equivalenti:
Il trattamento di pastorizzazione HARD-Past consente di distruggere tutti i
microrganismi di alterazione dei prodotti con pH < 4.7, in modo che sia ottenuta
la stabilità indefinita a temperatura ambiente. Il trattamento si basa sulla
termoresistenza dei due sporigeni più termoresistenti: il Bacillus coagulans
(D100°C = 5 min, z = 6.4 (Kosker et al., 1951)) e il Clostridium pasteurianum
91
(D100°C = 1 min, z = 10 (Casolari 6 Giannone, 1966)). Si ottiene così la relazione
(P11):
Log Dmin = 14.81 – 0.14 *T
(P11)
Dalla quale si ottiene, per le 7D prescritte, la (P12):
Log ACID-Past, min = 15.66 – 0.14 *T
(P12)
Da cui si hanno i seguenti tempi equivalenti di HARD-Past:
………………………………………………………………………………….
STERILIZZAZIONE UHT del LATTE
I parametri di sterilizzazione del latte con il procedimento UHT, sono definibili
sulla base delle considerazioni riportate di seguito.
Le particelle microbiche più resistenti all'inattivazione termica e che
contaminano con maggiore frequenza
il latte sono le spore del Bacillus stearothermophilus: il ceppo più termoresistente
è denominato TH24 (Franklin, 1970).
92
Si ritiene che il Cl. thermosaccharolyticum – batterio anaerobio molto più
termoresistente - contamini cosi' raramente il latte (una spora ogni circa 10
milioni di L) da poter essere trascurato.
Tali batteri sono comunque entrambi termofili e non patogeni. La loro
sopravvivenza ai processi di sterilizzazione può compromettere esclusivamente la
stabilità del prodotto (danno commerciale) immagazzinato ad elevate
temperature.
Nella Tabella 1 sono riportati i valori di D e di z ottenuti da diversi autori con il
trattamento termico delle spore del B. stearothermophilus. I valori riportati nelle
colonne 1, 2, 3 ed 5 sono stati ottenuti sospendendo le spore in latte; quelli in 4,
sono valori standard di riferimento.
I trattamenti UHT sono più spesso effettuati alla temperatura di 138°C
(McGarrahan, 1982).
Come si può rilevare dalla Tabella M1 i valori di D138°C ottenuti dai diversi autori
sono simili, e compresi tra 2.5 e 5.5 secondi, fatta eccezione per il valore di 15.8
ottenuto da Burton et al.(1977) riportato in colonna 3. I valori di D riportati nelle
colonne 2, 3 e 5 sono stati ottenuti direttamente trattando le spore in impianti
UHT e quindi hanno una particolare rilevanza.
Per ragioni di sicurezza si dovrebbe scartare il valore più basso (D = 2.5 sec) e
scegliere quello più elevato: D138°C = 15.8 sec. In alternativa, si può scegliere il
valore medio dei cinque D138°C = 6.54 sec, tempo che è superiore, anche se di
poco, a quello di riferimento (B. stearothermophilus NCA 1518), a quello dello
stesso ceppo trattato in impianto UHT (Busta, 1967) e a quello del ceppo più
termoresistente (TH24) trattato in capillari. Come si può riscontrare dalla Tab.
M1, i valori di z ottenuti sperimentalmente nell'intervallo di temperature di
maggiore interesse per il trattamento UHT sono compresi tra 5.6 e 10.75 C.
L'ampiezza di tale intervallo di valori è rilevante e può influire notevolmente
nella definizione di FT , soprattutto per temperature inferiori al range termico
entro il quale è stato determinato sperimentalmente lo z. È opinione diffusa,
comunque, che anche per valori di temperatura compresi tra circa 135°C e 150°C
si debba considerare un valore di z = 10°C (McGarrahan, 1982).
Il livello di contaminazione del latte tende ad essere più elevato nel periodo
invernale, con punte di massima contaminazione da spore termoresistenti
prossime a 1/ml di latte (Franklin et al., 1956). Si ritiene accettabile (Franklin,
1970; Reuter, 1980) un livello di sopravvivenza inferiore a 1 spora ogni 1000
confezioni da 1 L e quindi prossimo a 1 spora sopravvivente ogni 10.000 L.
Si tenga conto comunque:
A - In ogni caso il trattamento di sterilizzazione deve comportare almeno 12
riduzioni decimali per le spore più termoresistenti del Cl. botulinum, che hanno
D121°C = 0.25 minuti e z = 10°C.
Il valore minimo di Fo ( = F121.1°C = F250°F) deve quindi essere superiore o
uguale a 3 (Fo = D121°C * 12 ).
Nella Tabella di seguito sono riportati i tempi di trattamento FT a diverse
temperature, equivalenti a Fo=3.
93
Tab.M1 - Tempo di riduzione decimale DT delle spore di
B. stearothermophilus sospese in latte.
……………………………………………………
T
D (sec)
……………………………………………………
°C
A
B
C
D
E
________________________________________
120 550.0 1943.7
309.2 117.4
122 329.7 977.5
195.1
76.5
124 197.7 491.6
123.1
49.8
126 118.5 247.2
77.7
32.4
128
71.0 124.3
49.0
21.1
130
42.6 62.5
30.9
13.8
132
25.5 31.5
19.5
9.0
134
15.3 15.8
12.3
5.8
136
9.2
8.0
7.8
3.8
138
5.5
4.0 15.8
4.9
2.5
140
3.3
2.0 6.9
3.1
1.6
142
2.0
1.0 3.1
2.0
1.1
144 (1.2) 1.3
1.2
0.7
146 (0.7) 0.6
0.8
0.5
148 (0.4) 0.3
0.5
0.3
150 (0.3) 0.1
0.3
0.2
___________________________________________
z = 9.0
6.7
5.6
10
10.75
___________________________________________
A = Davies et al.,1977 (capillaries)
B = Busta, 1967 (UHT)
C = Burton et al., 1977 (UHT)
D = Conventional data (D121.1°C=4 min, z=10°C).
E = Konietzko & Reuter, 1986 (direct UHT).
_______________________________
FT
FT
__°C__ min _______°C___ sec ___
118 6.13
136 5.83
120 3.87
138 3.68
122 2.44
140 2.32
124 1.54
142 1.46
126 0.97
144 0.92
128 0.61
146 0.58
130 0.39
148 0.37
132 0.24
150 0.23
134 0.15
152 0.15
_______________________________
FT equivalenti a Fo=3.
B - Per quanto riguarda le considerazioni svolte sopra in merito alle spore del B.
stearothermophilus, la relazione tra FT e tempo di riduzione decimale alla
temperatura T (FT) potrebbe essere così impostata:
94
FT = DT * Log (103 /10-4)
corrispondente a:
FT = DT * 7
(101)
Considerando quindi un valore di D138°C = 6.54 sec e uno z di 10°C, dalla (101) si
ha:
F138°C = 6.54 * 7
= 45.78 secondi
= 0.76 minuti
Poiché dalla ( ) si ha:
Fo = FT /10 (121.1- T)/z
Si avrà che il trattamento di 0.76 minuti a 138°C equivarrà ad un trattamento a
121.1°C pari a:
Fo = 0.76 / 10(121.1 -138)/10
Fo = 37.37 minuti
Tale valore di Fo è molto elevato.
Si consideri infatti che le seguenti circostanze lo confermano:
a - nella sterilizzazione degli alimenti non si superano mai, in pratica, valori di
Fo superiori a 20. Generalmente si impiegano valori di Fo compresi tra 5 e 18,
con massima frequenza intorno a 7.5-8 (Stumbo e al., 1975; 1983).
b - Valori di Fo prossimi a 8 offrono garanzie già eccezionali nei confronti del
microrganismo patogeno più difficilmente sterilizzabile (Cl. botulinum). Basti
considerare che con tali valori di Fo si determinano circa 32 riduzioni decimali
delle spore più termoresistenti di Cl. botulinum, vale a dire che la probabilità di
sopravvivenza è pressoche di una spora in una massa di prodotto (10 32 gr)
all'incirca pari a quella del sole.
c - Con un Fo = 8 si determinano circa 8 riduzioni decimali delle spore più
termoresistenti del microrganismo mesofilo (e quindi in grado eventualmente di
alterare il prodotto a temperatura ambiente) più resistente al calore, il Cl.
sporogenes.
95
d - Con un Fo di 8 si determinano solo 2 riduzioni decimali delle spore
termoresistenti (D121.1°C = 4 ) di Bacillus stearothermophilus, ma che si possono
predisporre interventi idonei a ridurre in misura determinante la contaminazione
del latte, eseguendo tutte le operazioni - dalla mungitura alla raccolta, al
magazzinaggio, al trasporto - in condizioni di massima igiene e protezione
ambientale, e impiegando temperature di refrigerazione in tutte le fasi che lo
consentono.
Rimane comunque di rilevante interesse stabilire trattamenti sterilizzanti che
preservino al massimo grado le caratteristiche nutrizionali e organolettiche del
prodotto.
Come è noto, infatti, anche la degradazione termica dei componenti nutritivi e
le modificazioni delle caratteristiche organolettiche (colore, odore, sapore, ecc.) si
assume che avvengano con andamento esponenziale e siano descritti con
parametri corrispondenti a D e z.
Come si può rilevare dalla Tabella 2, i valori dei principali parametri di
sterilizzazione possono essere molto simili a quelli richiesti per la distruzione dei
microrganismi.
Tali circostanze impongono l'individuazione di trattamenti sterilizzanti di entità
tale che, fatte salve le condizioni di carattere sanitario irrinunciabili (12 D per le
spore termoresistenti del Cl. botulinum), consentano di preservare ai livelli
opportuni le qualità nutrizionali e organolettiche del prodotto e garantiscano un
accettabile livello di sterilità commerciale (distruzione dei microrganismi non
patogeni, ma in grado di alterare il prodotto).
Tab. 2 - Resistenza termica dei principali componenti alimentari.
_________________________________________________________
Composti e reazioni
D121°C
z
_________________________________________________________
Vitamine
10 - 1000
24 - 37
Acido ascorbico
246
50.5
Tiamina
158
31
Carotene
43.6
25.5
Caratteri organolettici
5 - 500
24 - 74
Clorofilla
13.2
38.8
Imbrunimento (latte)
12.5
26.0
Denaturazione proteica
1 - 10
7 - 60
_________________________________________________________
Generalmente si procede in tre fasi:
(1) si definisce il valore minimo accettabile di Fo;
96
(2) si stima il valore di FT corrispondente; e quindi
(3) si inizia la fase di sperimentazione che conduce alla scelta definitiva del
trattamento di sterilizzazione.
1 - Per definire il valore del trattamento termico atto a garantire il richiesto
livello di sterilità commerciale, si fa riferimento a considerazioni del tipo
riportato nella Tabella 3, e si individua, sulla base di accurati controlli analitici
delle condizioni microbiologiche di lavorazione, l'Fo in grado di offrire le
richieste garanzie di sterilità.
Generalmente, a tale valore di Fo si aggiunge qualche minuto per tener conto di
imprevedibili scostamenti delle condizioni operative (di origine strumentale,
impiantistica, microbiologica, umana) da quelle standard di processo.
2 - La temperatura di trattamento T e il valore di FT corrispondente al prescelto
valore di Fo, vengono definiti sulla base di informazioni del tipo riportato nelle
Tabelle 4-6, che consentono di stimare l'entità della degradazione dei componenti
nutrizionali e organolettici (colore, odore, sapore, ecc.) di maggiore rilevanza, al
variare delle possibili combinazioni tempo/temperatura corrispondenti al valore di
Fo prescelto.
Tale operazione è resa possibile dalla circostanza che i valori di z per la
distruzione dei più importanti componenti nutrizionali sono nettamente superiori
(come risulta anche dalla Tab. 2) a quelli dei microrganismi. È così possibile
ottenere, in brevi trattamenti ad alta temperatura, una pari inattivazione microbica
percentuale e una minore degradazione chimica in generale.
Tab. 3 - Distruzione delle spore batteriche e valore di Fo.
____________________________________________________
Fo
nD
nD
nD
Cl. botulinum. B. stearothermophilus Cl. sporogenes
_____________________________________________________
3
12
0.75
3
5
20
1.25
5
7
28
1.75
7
9
36
2.25
9
11
44
2.75
11
13
52
3.25
13
15
60
3.75
15
17
68
4.25
17
19
76
4.75
19
21
84
5.25
21
_____________________________________________________
nD = numero di riduzioni decimali.
97
Il processo di sterilizzazione denominato UHT si basa proprio su tale circostanza:
ad elevata temperatura la probabilità di inattivazione dei microrganismi è molto
superiore a quella di degradazione dei componenti nutrizionali e quantitativi.
3 - La fase di cosiddetta sperimentazione è di notevole complessità; coinvolge
competenze di carattere impiantistico, tecnologico, statistico, microbiologico,
chimico- analitico, ecc., e tende a valutare con la massima attenzione l'influenza
determinata da tutte le variabili di processo sulla qualità del prodotto; l'affidabilità
degli impianti e della strumentazione; le implicazioni microbiologiche e chimiche
connesse alle singole operazioni; ecc.
Attraverso approssimazioni successive si perviene alla caratterizzazione finale
della tecnologia di trasformazione, e quindi di sterilizzazione, e alla sua
implementazione.
È spesso presente, nei valori di Fo e di FT adottati dalle singole Aziende (e nella
tecnologia di trasformazione nel suo complesso) una componente qualificante,
che è un riflesso dell'ambiente culturale in cui ne è avvenuta la definizione (oltre
che di circostanze contingenti). Ed è così che in pratica vengono impiegati valori
di Fo che vanno da 6 a 18, e non è adottato da tutte le aziende un analogo valore
di Fo.
Tab.4 - Trattamenti termici FT equivalenti (per z=10°C) a
diversi valori di Fo.
………………………………………………………………
Temperature, °C
Fo 120 125 130 135 140 145 150
_________________________________________________
5 6.4 2.0 0.6 0.2 0.06 0.02 0.006
7 9.0 2.9 0.9 0.3 0.09 0.03 0.009
9 11.6 3.7 1.2 0.4 0.12 0.04 0.012
11 14.2 4.5 1.4 0.5 0.14 0.05 0.014
13 16.8 5.3 1.7 0.53 0.17 0.053 0.017
15 19.3 6.1 1.9 0.61 0.19 0.061 0.019
17 21.9 6.9 2.2 0.69 0.22 0.069 0.022
19 24.5 7.7 2.5 0.77 0.24 0.077 0.024
21 27.1 8.6 2.7 0.86 0.27 0.086 0.027
_____________________________________________
D121.1°C = 4; z = 10°C.
98
Tab. 5 - Frazioni del tempo di riduzione decimale della tiamina
che si ottengono con i valori di FT riportati nella Tab. 4 .
_________________________________________________________
Temperatura, °C
Fo 120 125 130
135 140 145 150
_________________________________________________________
5 0.06 0.03 0.01 0.006 0.003 0.001 0.0007
9 0.11 0.05 0.025 0.013 0.006 0.003 0.0013
13 0.15 0.07 0.035 0.017 0.008 0.004 0.0019
17 0.20 0.10 0.046 0.022 0.011 0.005 0.0024
21 0.25 0.12 0.056 0.027 0.013 0.006 0.0030
_________________________________________________________
D121°C =100; z = 28.
Tab. 6 - Multipli e frazioni del tempo di riduzione decimale
per la degradazione dei caratteri organolettici (colore,
odore, sapore), che si ottengono con i valori di FT riportati
nella Tab. 4 .
_______________________________________________________
__
Temperatura, °C
Fo 120 125 130 135 140 145 150
_______________________________________________________
__
5 1.18 0.54 0.24 0.12 0.051 0.025 0.011
9 2.13 1.00 0.48 0.23 0.103 0.050 0.022
13 3.09 1.43 0.68 0.31 0.145 0.066 0.032
17 4.03 1.86 0.88 0.40 0.188 0.086 0.041
21 4.98 2.32 1.08 0.50 0.231 0.108 0.050
_______________________________________________
D121°C = 5; z = 30.
99
CONSIDERAZIONI sulla Diversa
TERMORESISTENZA dei Microrganismi
MESOFILI e di quelli TERMOFILI.
Sono detti Mesofili i batteri che si accrescono a temperature comprese tra circa 10
e 46 gradi Centigradi. Sono detti termofili, quelli che possono accrescersi anche a
temperature prossime a 75°C.
La termoresistenza sporale aumenta all'aumentare della temperatura massima alla
quale il batterio è in grado di accrescersi (WART, 1978), e quindi è maggiore nei
termofili che nei mesofili.
Il batterio mesofilo più termoresistente può senz'altro essere considerato il
Clostridium sporogenes. Il ceppo di riferimento nei riguardi della sterilizzazione
termica degli alimenti è denominato Putrefattivo Anaerobio 3679 (o più
semplicemente PA 3679). Il tempo di riduzione decimale a 121.1°C (D121.1) al
quale si fa riferimento, e che riguarda ovviamente le spore di tale ceppo, è di 1.5
minuti, con il valore usuale di riferimento di z = 10°C = 18°F.
Si considera sufficientemente stabile o commercialmente sterile, un prodotto che
abbia subito un trattamento termico tale d'aver indotto 5-7 riduzioni decimali (nD
= 5-7) delle spore del PA 3679. Tale tempo corrisponde quindi a 7.5 - 10.5 minuti
effettivi a 121.1, ossia 7.5 < Fo < 10.5 .
I batteri termofili che possono contaminare con una certa frequenza i prodotti
alimentari, hanno generalmente una termoresistenza superiore a quella del PA
3679. Possono avere una resistenza cento volte superiore.
Le specie più termoresistenti sono indicate di seguito:
Desulfotomaculum nigrificans
2.0<D121.1<3.0
Clostridium thermosaccharolyticum 3.0<D121.1<4.0
Bacillus stearothermophilus
4.0<D121.1<5.0
I valori di Fo che determinano 5-7 D delle spore del PA 3679, possono dunque
determinare solamente da 1.5 D a 2.1 D delle spore dei termofili più resistenti .
In considerazione del fatto che non sono mai stati riportati eventi di tossinfezione
imputabili a batteri termofili, esiste una diffusa tendenza (concettuale, ma anche
da parte delle Istituzioni di Controllo) alla tol=
leranza di sopravvivenze percentuali di termofili superiori a quelle dei mesofili.
Si ritiene generalmente che il massimo livello di contaminazione da spore
termoresistenti di mesofili sia di una per grammo. Quindi trattamenti termici di
100
Fo = 5-7 determinano probabilità di sopravvivenza prossime a 0.1 - 0.001 per
cento:
Log Ct = Log Co - nD
= Log 100 - 5
=2-5
= -3
da cui:
Ct = 10-3 = 0.001
ed essendo le concentrazioni sporali espresse in numero di spore / campione, Ct=
0.001 equivale a una spora sopravvivente ogni mille campioni (= 0.1 % ).
Ma trattamenti termici della stessa entità non modificano in misura altrettanto
rilevante la probabilità di sopravvivenza dei termofili. Infatti, considerato della
stessa entità il livello massimo di contaminazione iniziale dei prodotti, la
sopravvivenza percentuale ad un Fo di 7.5 sarà ininfluente sulla percentuale di
campioni potenzialmente instabili (visto che ci si attende la sopravvivenza di più
di 3 spore per unità da 100 g, e con più di una spora per campione ci si aspetta
che tutti i campioni si alterino), infatti:
Log Ct = Log 100 - Fo/D
= 2 - 7.5/5
= 0.5
da cui:
Ct = 100.5 = 3.16
oppure, nel caso di Fo=10.5, sarà di Ct = 0.8 spore per campione:
Ct = 102-2.1 = 10-0.1 = .794
con una frequenza attesa di alterazione (ESF) prossima al 55 per cento:
ESF = 1- e-Ct
Tale situazione sarebbe accettabile, almeno nelle zone temperate del globo se i
batteri termofili si accrescessero (e quindi alterassero i prodotti) solamente nel
corso del magazzinaggio a temperature superiori a quelle usuali appunto nei climi
temperati, e che sono più spesso nell'ambito delle temperature di sviluppo dei
mesofili.
Malauguratamente, una frazione non trascurabile delle specie termofile può
accrescersi da temperature prossime a 70°C, fino a 28-30°C. Ciò significa che un
prodotto trattato termicamente con Fo sufficiente a ridurre ragionevolmente la
probabilità che sia alterato da batteri mesofili (e comunque assolutamente sicuro
per quanto concerne la pericolosità potenziale per la sopravvivenza di batteri
101
patogeni), può tuttavia essere alterato dai termofili "facoltativi", vale a dire capaci
di accrescersi anche a temperature più adatte ai batteri mesofili.
Apparentemente, non ci sono alternative: per stabilizzare un prodotto anche nei
confronti dei termofili, è necessario aumentare l'entità del trattamento termico.
Per determinare un numero di D analogo a quello previsto per il PA 3679, e
quindi per nD compreso tra 5 e 7, il valore di Fo dovrebbe essere elevato a 25 35 minuti, rispettivamente. Tali valori di Fo non sarebbero nemmeno
impraticabili, visto che la maggior parte dei prodotti può sopportare (sotto il
profilo chimico-fisico e organolettico) trattamenti di tale entità. Purchè si
raggiungessero effettivamente i livelli di stabilizazione attesi. In realtà, alcuni
batteri termofili appartenenti alle specie Desulfotomaculum nigrificans e
Clostridium thermosaccharolyticum, hanno mostrato di poter formare spore
provviste di resistenza termica enormemente elevata. In più di un'occasione
sospensioni sporali di tali specie batteriche hanno mostrato valori di tempo di
riduzione decimale pari a 10 - 15 minuti a 127 - 129 °C (XEZONES et. al., 1965;
DEIS, 1979; DONNELLY e BUSTA, 1980). Si consideri che sulla base di uno
"z" = 10, tali resistenze corrispondono a D121°C di 60 minuti e oltre, e quindi anche
solo 5 D richiederebbero più di 5 ore di trattamento sterilizzante a 121°C.
Prodotti contenenti spore così resistenti, sarebbero quindi in-sterilizzabili. Si
tenga conto, inoltre, che gran parte dei ceppi appartenenti a queste due specie,
sono in grado di svilupparsi a 28-30°C e di alterare un prodotto immagazzinato a
temperatura ambiente in climi temperati.
Fortunatamente, le osservazioni dei diversi autori sembrano concordare su una
circostanza del massimo interesse. I valori più elevati di D delle spore dei batteri
termofili più resistenti tendono ad essere associati a valori di "z" particolarmente
bassi e prossimi a 4°C.
Il valore di "z" indica, come è noto, di quanto deve variare la temperatura di
trattamento perché il tempo di riduzione decimale D cambi di 10 volte (…).
Nella Tab. 7 sono riportati i valori dei trattamenti termici di uguale entità, alle
differenti temperature, sulla base del valore di "z". Come si può rilevare, un
tempo utile di 12 minuti a 121°C (Fo = 12; oppure D=12 minuti, oppure 12
secondi, ecc.) è esattamente equivalente ad un trattamento di 3 minuti a 127°C,
1.2 minuti a 131°C, 0.76 minuti a 133°C, e cosi' via, se si considera uno z = 10,
come è la norma nella sterilizzazione termica. Ma se si considera uno z = 4, ad
esempio, i trattamenti termici richiesti a temperature superiori a quella di
riferimento, e comunque equivalenti ad un trattamento di 12 (min, sec, h, etc.),
sono pari a 0.378, 0.038 e 0.012 per le temperature di 127°C, 131°C e 133°C,
rispettivamente.
102
Tabella 7. Influenza dello "z" sulla letalità a diverse
temperature.
……………………………………………………..
TEMPERATURA °C
"z" 119 121 123 125 127 129 131 133
…………………………………………………….
4
38 12 3.8 1.2 .38 .12 .04 .012
10
19 12 7.6 4.8 3
1.9 1.2 .76
------------------------------------------------------------nD= z=10/ z=4
0.5 1 2
4 7.9 15.8 30 63
……………………………………………………
Due microrganismi, entrambi con D121 = 12 , ma uno con z di 4 e l'altro con z di
10, sono inattivati con diversa facilità a temperature diverse da questa di
riferimento. Con uno z minore, il valore di D aumenterà molto più rapidamente
abbassando la temperatura (e quindi il microrganismo sarà distrutto con sempre
maggiore difficoltà) e diminuirà invece molto rapidamente innalzando la
temperatura. Si verifica dunque la condizione che, tenendo conto dell'ortodossia
termo-batteriologica e quindi confrontando i tempi di sterilizzazione equivalenti
sempre sulla base di z=10,
la probabilità di sterilizzazione dei microrganismi con z=10 sarà sempre
equivalente a tutte le temperature, ma la probabilità di sterilizzazione dei
microrganismi con z diversi da 10 sarà differente. In particolare, sarà minore
all'abbassarsi della temperatura, e maggiore all'innalzarsi della temperatura.
Nell'ultima riga della Tabella 1, è indicato appunto un set di tali corrispondenze,
per un Fo = 12, a titolo illustrativo. Come si può rilevare, ad una temperatura di
131°C, superiore di z = 10°C a quella di riferimento, con un tempo di
sterilizzazione di 1.2, esattamente corrispondente a 12 minuti a 121°C (Fo=12), si
possono ottenere 30 D di un microrganismo che abbia una elevata resistenza a
121°C ( D121=12, ad esempio) e che quindi possa subire solo una D, se il
trattamento di sterilizzazione è effettuato a 121°C, anche se il tempo è
esattamente equivalente (su base convenzionale di z=10°C).
Come si riscontra dalla Tabella 8, per determinare una riduzione decimale di un
microrganismo con D127=15 minuti, o si aumenta in misura intollerabile (circa 8
ore) il tempo di trattamento a 121 (Fo=474), oppure, con procedura enormemente
più efficace e razionale, si aumenta la temperatura di trattamento. Come si può
rilevare infatti dalla Tabella 2, con un F(133)=3.8 si ottengono ben 8 D del
103
presunto termofilo con z=4. Un trattamento equivalente sarebbe assolutamente
inefficace se applicato a 121°C, come si vede (Fo=60, determina solo .12 D), per
effetto del valore estremamente diverso del tempo di riduzione decimale alle due
temperature.
Tabella 8 - Trattamenti termici corrispondenti
a 15 minuti a 127°C, sulla base di z differenti.
………………………………………………………
TEMPERATURA = °C
" z " 121 123 125 127 129 131 133 135
………………………………………………………
4
474 150 47 15 4.7 1.5 .47 .15
10
60 38 24 15 9.5 6
3.8 2.4
--------------------------------------------------------nD = z=10/ z=4
.12 .25 .51 1 2 4 8 16
……………………………………………………….
Un Fo = 60 potrebbe rivelarsi comunque troppo elevato, indipendentemente dalla
temperatura di applicazione.
A questo punto ci si chiede allora a quale temperatura, superiore a quella usuale
di riferimento, si può applicare il valore di Fo che si intende comunque applicare
in ossequio alle note considerazioni riguardanti i mesofili patogeni, affinché
anche la percentuale di inattivazione dei termofili raggiunga i livelli più
soddisfacenti.
Tenendo conto della cinetica esponenziale d'inattivazione, si ha che il tempo q
di trattamento ad una temperatura qualsiasi Tq, che sia equivalente ad un tempo
fissato r ad una temperatura di riferimento Tr, è dato, dalla (…):
q = r * 10((Tr-Tq)/z)
Si può calcolare il valore di temperatura alla quale, applicando il valore di Fo
desiderato, si ottenga una distruzione almeno pari a quella che si ottiene per i
mesofili, e comunque la temperatura di trattamento che consente di ottenere il
valore desiderato, ottimale, o possibile (in base alle apparecchiature disponibili
per effettuare la sterilizzazione) del rapporto:
104
mes/
term
tra letalità per i mesofili e letalità per i termofili, alla temperatura Tq ricercata.
Posto:
(102)
mes/ term = "
ed anche :
R(mes) /
R(term)
=º
(103)
dove :
e R(term) rappresentano il valore dello stesso rapporto ma alla
temperatura Tr di riferimento, cosicchè:
R(mes)
" = º * 10(Tr-Tq)/z(mes)*10(-(Tr-Tq)/z(term))
(104)
equivalente a:
Log " = Log º + (Tr-Tq)*ϑ
(105)
dove :
ϑ = (zRmes - zRterm) / (zmes*zterm)
(106)
si ottiene, scelti i valori di z e di Tr, che la temperatura richiesta Tq è pari a:
Tq = Tr - (Log " - Log º) / ϑ
(107)
Posto quindi, in accordo con quanto detto sopra e a titolo esemplificativo:
zmes = 10°C
zterm = 4 °C
Tr = 121.1 °C
cosicchè:
R(mes)
e
R(term)
sono i trattamenti termici di riferimento a 121.1°C e
quindi:
R(mes) =
ne deriva che:
Fo e
R(term)=474
105
Tq = 121.1 - (Log ¹ + 1.6)/(-0.15)
(108)
da cui:
Tq = 131.7 + 6.67*Log "
(109)
dalla quale si ottiene subito che tempi uguali di trattamento (sulla base sia di z=10
che di z=4), si potranno praticare alla temperatura Tq = 131.7°C, poiché in questo
caso il valore di ¹ = 1, ossia i due valori di sono uguali. Tale temperatura è
quella che consente di ottenere una inattivazione pari a quella che si sarebbe
ottenuta a 121°C, ossia a Tr, con un trattamento pari a term. E’ chiaro quindi che
pur mantenendo costante il valore di Fo, a 121°C non si sarebbe ottenuta alcuna
distruzione dei termofili, mentre a Tq si ottiene 1D, visto che si è considerato
Rterm= 1 D = 474 min.
Ovviamente, poiché il valore di z=10/ z=4 aumenta all'aumentare della
temperatura, sempre più rapidamente a temperature superiori a Tq, aumenterà
anche sempre di più il numero di riduzioni decimali dei termofili che si
otterranno, a parità di Fo.
Dalla (E9) si può ottenere la seguente tabella di corrispondenze tra tempi e
temperature di trattamento equivalenti in base ad uno z=10 (e quindi in accordo
con le vigenti convenzioni), ma che consentono, a parità di Fo, di ottenere diversi
livelli di distruzione dei termofili termoresistenti con z=4, a temperature
differenti.
In (109) Tq è la temperatura di un qualunque trattamento termico (D, nD, , ecc.)
al quale la letalità per i termofili è ¹ volte quella per i mesofili. Come dalla
Tabella 1, si è assunto Rterm= 474, sulla base di un valore di D127°C =15 minuti,
cosicchè, dalla (105):
106
" = (12/474) * 10((Tr-Tq)/ϑ)
A questo punto, ci si rende conto di come possa essere di determinante interesse
l'applicabilità pratica di trattamenti di sterilizzazione anche di usuale entità (su
base Fo) ma a temperature molto elevate.
Poiché i tempi di trattamento diminuiscono all'aumentare della temperatura, la
produttività degli sterilizzatori non potrebbe che aumentare. Di fatto, le
temperature Tq che si ottengono dall'equazione E9, sono piuttosto elevate. Ma gli
sporigeni termofili che si possono inattivare a tali temperature, sono anche i più
termoresistenti che si conoscano.
Se si fa riferimento invece ai termofili di più normale termoresistenza, e si
considera ad esempio un D
massimo a 121°C pari a 5 minuti, allora si avrà, come risulta anche dalla Tabella
3, che mentre un Fo=12 determina solamente 2.4D se applicato a 121°C, ne
determinerà un numero sempre maggiore all'aumentare della temperatura di
trattamento, e viceversa, al diminuire della temperatura di trattamento.
Tabella 3 - Trattamenti termici equivalenti sulla base
di z=10 e z=4, per Fo=12 e D121°C =5 minuti.
…………………………………………………….
"z"
temperatura °C
117 119 121 123 125 127 129 131
…………………………………………………….
4 50 16 5 1.6 .5 .16 .05 .02
10 30 19 12
7.6 4.8 3
1.9 1.2
-------------------------------------------------------" 0.6 1.2 2.4 4.8 9.6 18.8 38 60
Malauguratamente, peraltro, lo zeta dei termofili tende verso valori tanto più bassi
quanto più è elevata la termoresistenza, e si approssima invece al valore 10 tanto
di più quanto minore è la termoresistenza. Rimanendo tuttavia la suddetta una
tendenza consolidata, conviene in ogni caso aumentare quanto possibile non
tanto lo Fo, e quindi l'entità del trattamento termico, quanto invece la
temperatura di applicazione del valore prescelto di Fo.
Queste, perlomeno, sono le conclusioni suggerite dal rapporto tra termoresistenza
dei mesofili (z più spesso prossimo a 10) e termoresistenza dei termofili (z tanto
minore quanto maggiore è la termoresistenza).
107
TERMORESISTENZA VIRALE
Le indicazioni fornite dalla letteratura sulla termoresistenza delle particelle virali
sono apparentemente contraddittorie. Di contro a numerose testimonianze di
scarsa, scarsissima resistenza,ve ne sono altre di inquietante evidenza opposta.
I virus più resistenti appartengono più spesso alle famiglie dei Parvoviridae
(ssDNA), Papoviridae (dsDNA), Picornaviridae (ssRNA), Adenoviridae
(dsDNA) e Reoviridae (dsRNA). Appartengono a tali gruppi anche quelli più
importanti per la salute pubblica. Le prove di termoresistenza sono state eseguite
più spesso adottando le tecniche convenzionali impiegate in bateriologia:
sospensioni in acqua, siero, latte, ecc. in capillari, provette, o recipienti di
maggiori dimensioni, sono stati esposti per tempi crescenti a temperature letali,
quindi si è proceduto a rilevare la infettività residua delle particelle. Date
dimensioni e densità delle particelle virali, le concentrazioni impiegata più spesso
sono molto più elevate di quelle impiegabili in batteriologia. Raramente si
riscontrano nella letteratura descrizioni di cinetiche d'inattivazione (esemplari
quelle di Kaplan sul virus vaccinico) sullo schema e con le proposizioni abituali
in batteriologia. Più spesso si riportano tempi di sopravvivenza, o di distruzione,
semplicemente, senza un'indicazione della concentrazione iniziale delle particelle
virali.
Talvolta, sospensioni che apparentemente non contengono virus sopravviventi ai
saggi colturali con sistemi di cellule, si rivelano ancora infettanti per inoculazione
diretta negli animali. Eventi di questo tipo sono stati riscontrati più spesso con
virus ascrivibili alle cinque famiglie indicate sopra, aventi appunto acidi nucleici
infettanti.
Le temperature usualmente impiegate nelle prove di resistenza termica sono
comprese tra 40 e 60°C e i tempi di riduzione decimale e i valori di z
(generalmente ricavabili con difficoltà dai documenti pubblicati) sono dello stesso
ordine di grandezza che si è visto per le cellule batteriche vegetative. Come si può
rilevare peraltro anche dalla Tabella TRV 1, i valori di D sono molto dispersi.
Accanto a D50°C di 4 minuti (Herpes simplex, Poliovirus 1), si trovano valori di
D60°C compresi tra 2 e 30 minuti e D80°C di 5 min (Poliovirus 1); di solito comunque
non si superano valori di D a 100°C pari a 10 minuti.
Si ottengono valori rappresentativi di DT per gran parte dei gruppi virali, in
relazione alla sopravvivenza determinata in colture cellulari, mediante le
seguenti relazioni, in alimenti fluidi:
Log DT = 19.2 - .3 * T
z = 3.3
in alimenti solidi:
108
Log DT = 24.1 - .34 * T
z = 2.9
dove T è la temperatura in °C.
Dall'infettività degli acidi nucleici si ottengono invece equazioni generali che
descrivono resistenze più elevate:
per DNA virale:
Log DT = 6.96 - 0.059 * T
z = 17
per RNA virale:
Log DT = 5.1 - 0.042 * T
z = 24
Dalle prime due relazioni si ricava che il trattamento necessario per ottenere 12D
a 71°C è di circa 3 secondi nei mezzi fluidi, e di circa 12 minuti nei substrati che
si riscaldano prevalentemente per conduzione.
Le relazioni per DNA e RNA virale portano ai valori di D100°C intorno a 10 minuti
(2 ore per 12D) e D121°C di .6-1 minuto, con tempi di 7.5-12.5 per 12D.
Tale diversità è dovuta sia ai valori di D estremamente elevati per i DNA e gli
RNA infettanti, sia ai valori di zeta.
Ne deriva che i tempi di pastorizzazione comunemente impiegati si possono
considerare sufficienti, in relazione alla resistenza virale (e soprattutto se applicati
alle temperature più alte previste), ma nettamente inadeguati in relazione
all'infettività virale. I valori di Fo applicati normalmente nella sterilizzazione
degli alimenti invece, prossimi appunto, o superiori, a Fo= 7 - 12, sono invece del
tutto soddisfacenti, in quanto tali da determinare almeno 12D anche per gli acidi
nucleici infettanti.
I valori eccezionalmente elevati ( D138°C di alcuni minuti) che si riscontrano per
particelle sub-virali di tipo Scrapie, richiedono considerazioni particolari.
(Vedere Nota sulla distruzione termica dei virus-non-convenzionali).
È certamente documentato che in diversi prodotti alimentari la resistenza virale
all'inattivazione aumenta apparentemente in misura vistosa rispetto agli ambienti
modello (tamponi, substrati colturali). Si può ritenere ragionevolmente infatti che
tutta una serie di condizioni fisico-chimiche che possono interferire con la
probabilità d'inattivazione cellulare in generale, esercitino in misura più evidente
tali loro caratteristiche nei confronti di particelle di cosi' ridotte dimensioni.
Ma si può ritenere che il fenomeno più rilevante riguardante la termoinattivazione
virale sia rappresentato dalle deviazioni delle cinetiche d'inattivazione
dall'esponenzialità. (Vedere Nota sul tailing-off)
109
Tali deviazioni sono rappresentate massimamente da curve d'inattivazione
caratterizzate da rapide decrescite delle concentrazioni di particelle virali infettive
già ai trattamenti di minore entità, seguite da bassi livelli di sopravvivenza che
apparentemente non sono più sensibili all'aumentare dei tempi di esposizione a
temperature "letali". Le prolungate sopravvivenze che si osservano quando la
concentrazione virale è sufficientemente bassa, sono comunemente dette "code".
Le "code" si presentano a concentrazioni virali tanto più elevate (anche a 10 5
particelle/ml o gr) quanto meno letale è la temperatura di trattamento. Con
l'aumentare della temperatura di trattamento, le curve d'inattivazione tendono a
divenire esponenziali e comunque le code si presentano a concentrazioni molto
inferiori di particelle.
Tale fenomeno di tailing, noto anche in batteriologia (Casolari, 1981), è stato
osservato, anche con i virus, nelle cinetiche d'inattivazione sia da agenti fisici
(radiazioni ionizzanti e ultraviolette; ultrasuoni, ecc.), che chimici (disinfettanti,
ecc.), ed è connesso al meccanismo dell'inattivazione termica.
Due considerazioni sono di particolare rilievo in relazione ai fenomeni di tailing.
Tab. VHR - Termoresistenza virale.
___________________________________________
VIRUS
Substrato
T °C
Dmin
____________________________________________
Herpes simplex
Tris Buf.
50
4
Cytomegalovirus
Tris Buf.
50
16
Influenza A
Biol.fluids
45
2.3
Measles
Culture
56
7.2
Vaccinia
Citr.buff.
60
1.3
Vaccinia
Citr.buff.
60
45
Herpes simplex
Ice cream
65
0.007
Newcastle dis. V. Whole egg
64.4
.3
Leukemia
Ice cream
55
.028
Rous sarcoma
Ice cream
55
.008
Swine fever
Ham
65
4.4
Tickborne enceph. Milk
72
.045
Adenovirus
Icecream
65
.008
Swine vesic. dis.
Milk
56
.12
Poliovirus I
Beef ground
80
.9
Coxsackievirus A9 Sausage
49
120
Poliovirus 1
Sausage
60
30
Echovirus
Sausage
60
30
Poliovirus
Milk
61.7
8.6
Coxsackievirus
Milk
71.6
.07
FMDV
Milk
72
.07
FMDV
Tissue
80
40
Echovirus 6
Egg White
56.7
.9
Poliovirus 1
Egg White
57.8
.29
Echovirus
Egg Yolk
56.7
4.55
Poliovirus 1
Egg Yolk
60
.48
FMDV
Milk
72
.06
Reovirus 1
Ice Cream
65
.06
__________________________________________
110
1 - Generalmente, il livello di contaminazione residua di un prodotto alimentare
deve essere piuttosto elevato perché gli organismi sopravvissuti alle pratiche della
pastorizzazione e della sterilizzazione siano in grado di provocare la malattia
nell'individuo che li ingerisce.
Tale circostanza tende ad attenuare gli effetti dovuti normalmente al tailing-off.
2 - In ogni caso, come per i batteri, cosi' anche per i virus si riscontra la tendenza
generale alla scomparsa delle code all'aumentare della temperatura di trattamento
(esponenzializzazione delle cinetiche). Da quì ancora una conferma
dell'importanza prevalente della temperatura di trattamento, sull'entità
complessiva del trattamento stesso. Vale a dire, che saranno comunque da
privilegiare i trattamenti termici alle temperature più elevate, indipendentemente
dal valore di F71 o Fo.
PRIONI.
ENCEFALOPATIE SPONGIFORMI
E STERILIZZAZIONE TERMICA.
Sono meglio note tre malattie degenerative del sistema nervoso centrale: il
kuru, la malattia di Creutzfeldt-Jacob (CJD) e la scrapie; sono note anche
l'encefalopatia trasmissibile del visone (TME) e la malattia devastante dei cervi
(CWD). A queste si è aggiunta recentemente l'encefalopatia spongiforme dei
bovini (BSE)(Wells et al., 1985). Le preminenti caratteristiche comuni sono:
(i) lungo periodo d'incubazione (4-10 mesi, 20-30 anni);
(ii) degenerazione spongiforme del sistema nervoso centrale, con
manifestazioni neurologiche diverse;
(iii) esito invariabilmente fatale in tempi brevi (generalmente 4 mesi - 2 anni);
111
Le encefalopatie spongiformi (ES) sono provocate da agenti trasmissibili
molto simili tra loro, spesso definiti virus lenti non-convenzionali, e più
recentemente ‘prioni’ (Prusiner, 1994), una classe di particelle infettive capaci di
autoriprodursi, prive di DNA, resistenti alle proteasi.
Apparentemente i prioni sono così resistenti ai comuni agenti fisico-chimici letali,
da rendere le usuali tecniche di sterilizzazione del tutto inefficaci.
RESISTENZA TERMICA DEI PRIONI.
Le osservazioni sulla resistenza termica degli agenti dell' ES hanno indotto il
Department of Health and Social Security (DHSS) UK a raccomandare (1984)
trattamenti sterilizzanti pari a:
18 minuti a 134°C,
oppure:
6 cicli di 3 minuti a 134°C
In precedenza (1981) la stessa DHSS aveva proposto quattro trattamenti dichiarati
"equivalenti":
121-124°C * 90 min
126-129°C * 60 min
136-138°C * 18 min
136-138°C * 3 min * 6 volte
per oggetti e materiali contaminati da CJD, o sospetti.
L'American Neurological Association (ANA) ha proposto invece 132°C per
un'ora e, come procedura parzialmente efficace, 15-30 minuti a 121°C (1986).
Si può rilevare che non sono proprio la stessa cosa 121 o 124 gradi, ecc., tanto
è vero che 90 minuti a 121°C corrispondono a un Fo di 89, mentre 90 minuti a
124°C corrispondono ad un Fo di 125.6, tenendo conto di un valore di z pari a 20
circa, come deriva dai due tempi di 90 e 18 minuti.
Tali Fo sono comunque molto superiori a quelli attualmente applicati (intorno a
15 minuti) ai ns. prodotti. Non solo, ma sono molto superiori a tutti i valori di Fo
attualmente applicati agli alimenti, in tutto il mondo.
Le raccomandazioni del DHSS e dell'ANA furono originate da una serie di
osservazioni sperimentali secondo le quali in un'ora a 121°C l'infettività (LD50)
dello scrapie sospeso in cervello si riduce da 1010.11 a 102.56 (≈7.55 D) (Brown et
112
al., 1982). Altri autori hanno rilevato l'insufficienza di trattamenti di 10 minuti a
118°C (Hunter e Millson, 1964), o di un'ora a 124°C (Mould e Dawson, 1970).
Una-due ore di autoclave a 126°C riducono l'infettività di 3-7 cicli logaritmici, a
seconda del ceppo, pur rimanendo sempre un'infettività residua. Dopo 4-32
minuti a 136°C non si ottiene ancora la completa sterilità(Kimberlin et al.,
1983).
Finalmente nel 1984, Rohwer presenta dei risultati di termoresistenza dello
scrapie, nei quali si riconosce chiaramente la presenza di fenomeni di "coda" nelle
cinetiche d'inattivazione: in un minuto di trattamento a 121°C si determinano più
di sei riduzioni decimali, e praticamente nessuna inattivazione nei successivi 10
minuti.
Pochi mesi dopo, lo stesso autore mostra curve concave di inattivazione da
disinfettanti (ipoclorito, metaperiodato, iodio, formaldeide) per lo stesso scrapie.
Rohwer si esprime chiaramente in entrambi i casi: "...the majority of scrapie
infectivity is inactivated by brief exposure to temperatures of 100°C or greater..",
"...scrapies resistance to many inactivants "(disinfettanti)" is limited to small
subpopulations ...the majority population being highly sensitive to inactivation."
I virus sono abitualmente inattivati a temperature di pastorizzazione (60-90°C) in
tempi brevi (vedi Tabella sulla termoresistenza virale). Fenomeni di "coda" nella
curva di inattivazione dei virus sono considerati peraltro piuttosto frequenti
(Ginoza, 1968; Filppi et al., 1974; DiGirolamo et al., 1970).
In microbiologia il fenomeno delle "code", o tailing off della letteratura
anglosassone, è caratterizzato da curve di inattivazione (da qualsiasi agente fisico
o chimico letale) che si discostano dall'esponenzialità. Generalmente si
manifesta appunto con rapida inattivazione di una frazione importante della
popolazione microbica nelle prime fasi del trattamento, seguita da una fase in cui
la velocità di morte si riduce progressivamente all'aumentare del tempo di
trattamento, fino a raggiungere velocità prossima a zero.
Comportamenti di questo tipo sono stati riscontrati con tutti i microrganismi
(Casolari, 1988). In tutti i casi esaminati, le cinetiche di inattivazione termica dei
batteri divengono di nuovo esponenziali a temperature sufficientemente elevate.
È molto probabile che ciò possa verificarsi anche con gli agenti patogeni delle
encefalopatie spongiformi. In effetti, dai risultati ottenuti da Rohwer a 100°C e
121°C, si ottiene un valore di z = 44°C; dalle prime tre serie di trattamenti
proposti dal DHSS (che sono stati suggeriti dalle osservazioni sperimentali di
diversi autori) si può calcolare che tra la prima coppia di temperature (121124°C) e la seconda (126.129°C), z sia pari a 28 °C, mentre tra la seconda e la
terza (136-138°C), lo z sia di circa 10 gradi inferiore. È proprio, quindi, come se
l'inattivazione divenisse più probabile (la velocità di morte, maggiore = le "code"
si accorciassero) all'aumentare della temperatura di trattamento.
Malauguratamente, occorrerebbero anni per verificarlo sperimentalmente.
113
Le stesse considerazioni, sul fenomeno del tailing off, si possono fare per
quanto concerne le cinetiche d'inattivazione da disinfettanti o comunque agenti
chimici letali. La maggior parte della popolazione infettante è distrutta
rapidamente in condizioni paragonabili a quelle attive nei confronti dei virus; una
ridotta frazione resiste invece a condizioni più drastiche (Rohwer, 1984).
È molto probabile che le stesse considerazioni valgano anche per le cinetiche
d'inattivazione da radiazioni ultraviolette (Rohwer, 1984) e radiazioni ionizzanti
(Gibbs et al., 1978), ma le esperienze non sono descritte con sufficienti dettagli.
Con il termine di ipersterilizzazione (Laurita, com. pers.), impiegato di seguito,
si intende un trattamento termico (da applicare al cervello - ed eventualmente alle
carni in generale - prima dell'immissione alla lavorazione) di Fo così elevato da
offrire le necessarie garanzie nei confronti degli prioni responsabili delle
encefalopatie spongiformi (ES).
La distruzione degli agenti delle ES può essere programmata sulla base delle
combinazioni tempo / temperatura raccomandate dal Departement of Health and
Social Security (DHSS) del Regno Unito o dall'American Neurological
Association (ANA), oppure direttamente sulla base dei risultati sperimentali
pubblicati.
Comunque, le indicazioni disponibili sono tutt'altro che univoche. Nel 1984, il
DHSS raccomandava, per la decontaminazione di materiali infetti da CJD, un
trattamento di 18 minuti a 134 °C; l'ANA proponeva, nel 1986:
60 minuti a 132 °C .
Si può scegliere un trattamento che soddisfi le raccomandazioni sia del DHSS, sia
dell'ANA. In tal caso, si ottengono trattamenti equivalenti ad entrambe,
impiegando l'equazione (110):
Log IPST = 36.288 - 0.26 * T
(110)
Dove IPST sta per "tempo di ipersterilizzazione", in minuti.
Nella Tabella seguente sono indicati i valori di IPST a temperature comprese tra
100 e 150°C. Si potrebbe scegliere qualunque tempo ottenuto dalla (110), per
essere in accordo con ANA e DHSS.
In realtà il trattamento Raccomandato dal DHSS non è basato su alcun dato
sperimentale inequivocabile. Si fa riferimento infatti al lavoro di Kimberlin et al.
(1983), che però hanno sperimentato trattamenti a 126 e a 136°C, osservando che
anche dopo il tempo più breve di trattamento a 136°C (4 minuti) non c'erano
sopravviventi. Ci si chiede quindi, su quali basi sia stato raccomandato il
trattamento di "18 minuti" a 134°C, da nessuno sperimentato.
114
z = 3.82498 °C; Fo = 42446.36 min .
Il trattamento proposto dall'ANA (60 minuti a 132°C) si basa sulle osservazioni
di BROWN et al. (1986), che hanno rilevato come dopo un'ora a 132°C si
ottengano più di 5D per il CJD e più di 8.8 D per lo scrapie (ceppo 263K); ma
identico risultato è stato ottenuto anche a 121°C, come riportato nello stesso
lavoro.
Precedentemente (1981), le raccomandazioni del DHSS proponevano le
alternative:
90 minuti a 121 - 124 °C
60 minuti a 126 - 129 °C
18 minuti a 136 - 138 °C
Da questi parametri è possibile ottenere un valore di z pari a 21.09 dalle tre
temperature inferiori e uno z = 19.65°C, dalle tre temperature maggiori. Ciò
significa anzitutto che i trattamenti raccomandati non sono equivalenti.
Comunque, prescelte le due temperature intermedie come riferimento (126 e
129°C rispettivamente), si possono calcolare le coppie tempo/temperatura
equivalenti, utilizzando le due equazioni:
Log IPST = 7.715 - 0.04741 * °C
(111)
Log IPST = 8.297 - 0.05899 * °C
(112)
e
ottenute dalle tre temperature inferiori delle coppie, e dalle tre maggiori,
rispettivamente.
Nella Tabelle (ES3 e ES4) sono riportati i valori ottenibili a temperature
comprese tra 100 e 150°C.
115
Poiché i tre trattamenti raccomandati non sono equivalenti, ne deriva che un
tempo qualunque tra quelli ottenuti dalla (112) ), o dalla (111), non è
necessariamente equivalente a tutti e tre quelli raccomandati dal DHSS.
Le scelte possibili (cautelative, in relazione ad eventuali confronti con Organi di
controllo) sono limitate ai valori ottenibili dalla equazione (112), che
praticamente sono tutti superiori ai valori raccomandati.
Dagli stessi parametri proposti nel 1981 dal DHSS, si possono ottenere valori di z
compresi tra circa 28°C (tra 121°C e 126°C; tra 124°C e 129°C) e circa 18°C (tra
le temperature più elevate). È così possibile calcolare il valore dei trattamenti
equivalenti sulla base di almeno due valori di z, uno per ogni serie di valori delle
coppie. Tuttavia, in situazioni di relativa incertezza (come questa), conviene fare
le necessarie interpolazioni impiegando valori di z maggiori per le temperature
maggiori e valori di z inferiori alle temperature inferiori a quella di riferimento.
Tale operazione ha condotto alle seguenti due equazioni, ottenute appunto dalla
serie di temperature inferiori e superiori, rispettivamente:
Log IPST = 7.059 - 0.04119 * °C
(113)
e
Log IPST = 7.565 - 0.04408 * °C
(114)
I valori di Fo corrispondenti ai trattamenti termici previsti dalle quattro equazioni
(111),(112),(113),(114) sono pari a 94.1, 14.2, 117.7 e 168.6, rispettivamente.
Delle sette combinazioni tempo/temperatura raccomandate da DHSS e ANA,
l'equazione (114) le soddisfa praticamente tutte, le equazioni (112) e (113) ne
soddisfano cinque e la (111) solo due.
Le combinazioni meno soddisfatte dalle equazioni ottenute, sono 132°C*60
minuti (ANA) e 129°C*60 minuti (DHSS).
Le combinazioni tempo/temperatura ottenibili dalle equazioni (111)-(114),
rappresentano COMUNQUE parametri ritenuti sufficienti per la
decontaminazione delle quantità relativamente modeste di cervello impiegate
nelle esperienze dei diversi Autori.
Tenendo conto che il cervello impiegato conteneva all'incirca 1011 particelle ES
infettanti /gr e che solitamente sono state impiegate una decina di sospensioni di
10 ml di omogenizzato al 10%, le combinazioni tempo / temperatura
raccomandate sono sufficenti per circa 12D. Volendo applicare altre 12D, per
"analogia" con il discorso "minimum botulinum cook", basta raddoppiare i tempi
ottenibili dalle quattro equazioni indicate sopra.
116
IN TAL MODO, ANCHE I TEMPI MINIMI DI IPST, CHE SI OTTENGONO
appunto RADDOPPIANDO QUELLI OTTENIBILI CON L'EQUAZIONE (101)
(quella cioè che determina l'Fo minimo di 94.2), SONO pur SEMPRE
SUPERIORI A TUTTE LE SETTE COMBINAZIONI DI PARAMETRI
"RACCOMANDATI" in UK e USA.
Tra i parametri attesi da quest'ultima relazione (115) potrebbe essere fatta la
scelta più opportuna, in relazione alla "ipersterilizzabilità" del cervello in
particolare e delle carni in generale.
Di seguito è riportata l’equazione (115), corrispondente alla (101), che fornisce
direttamente i parametri tempo/temperatura per 24D:
Log IPST = 8.0163 – 0.04741 * T
(115)
Valori di IPST ottenibili dalla (115) a diverse temperature, sono riportati nella
Tabella seguente:
CURVE D’INATTIVAZIONE NON ESPONENZIALI
Anche le curve d’inattivazione degli agenti delle ES non sono esponenziali. Per
applicare il modello che consente di analizzare anche le cinetiche non
esponenziali (Casolari, 1981, 1988) occorre conoscere almeno il valore della
concentrazione iniziale e finale del fenomeno in esame, dopo un tempo t di
trattamento ad una temperatura nota.
I valori che ritengo più attendibili, sia per le indicazioni riportate nella descrizione
delle modalità sperimentali, sia per le conferme ottenute direttamente dal Prof.
Brown (com. pers.), sono che in 60 minuti di autoclave a 121°C il titolo infettante
11
2.56
dello scrapie scende da 10 a 10
(Brown et al., 1986). Se ne può ottenere, in
relazione al modella generale, il valore di energia letale Ed = 41797.54 cal/
mole, e che per ottenere 12D occorre applicare la relazione (116):
IPST = 12/ exp (103.7293 – 42071/T)
(116)
Nella Tabella successiva sono riportati i valori di IPST ottenibili dalla (116).
Come si può rilevare, a 126°C e temperature inferiori i tempi di IPST sono
superiori a quelli raccomandati da DHSS e ANA; mentre a temperature superiori ,
sono inferiori.
117
Da notare che la (116) prevede che a 136°C bastino poco più di 4 minuti di IPST,
in accordo con quanto riscontrato sperimentalmente da Kimberlin et al., (1983).
…………………………………..
Temperatura IPST, min
°C
…………………………………..
110
5211.17
112
2946.51
114
1675.87
116
958.71
118
551.59
120
319.15
122
185.68
124
108.62
126
63.89
128
37.77
130
22.45
132
13.41
134
8.05
136
4.86
138
2.95
140
1.80
142
1.10
144
0.68
146
0.42
148
0.26
150
0.16
…………………………………..
Ed = 41797.54 cal/mole
CONCLUSIONI.
Ritengo che i trattamenti di IPST attesi dalla relazione (115) (Tab. ES5) possano
ritenersi soddisfacenti, poiché (a) sono comunque superiori a tutti quelli
raccomandati (UK e USA), (b) sono ottenuti attraverso un' elaborazione di
tutte le informazioni disponibili (alle quali si è acceduto anche direttamente Gajdusek, Brown, com. pers.), (c) assolvono anche ad un imperativo tipico della
termobatteriologia, quello delle 12D.
In seconda istanza, si dovrebbe operare una scelta tra i valori di IPST attesi dalla
relazione (114) (Tab. ES4), che più delle altre offre protezione nei confronti delle
raccomandazioni UK e USA.
118
Entrambe le relazioni comportano valori di Fo elevati, poco dissimili.
I valori di Fo che la IPST imporrebbe, sono più elevati in misura così rilevante,
rispetto a quelli attualmente adottati, da suscitare sconcerto o comunque attivare
perplessità.
Tuttavia dobbiamo riconoscere che nel corso degli ultimi decenni si sono
determinati approfondimenti rilevanti nell'ambitodella sterilizzazione termica. Il
livello di conoscenza che è stato raggiunto ci pone quasi improvvisamente davanti
ad una situazione nuova. Abbiamo davvero raggiunto il livello molecolare. Le
dimensioni delle particelle che dobbiamo distruggere, sono dello stesso ordine di
grandezza delle molecole alimentari che intendiamo proteggere. Entrambe le
categorie di oggetti possono essere descritte con gli stessi termini, che usiamo per
descrivere le molecole, appunto. La termoresistenza di entrambe le categorie di
oggetti, è del tutto paragonabile.
Considerata tale identità, forse, non è più tempo di distinguere Fo da Co. Forse
non è più tempo di fare riferimento al primo come misura della letalità nei
confronti dei microrganismi, e al secondo come misura del danno indotto sui
componenti non microbici, nutrizionali.
Oggi sappiamo che le strutture che dobbiamo proteggere hanno necessariamente
gli stessi valori di zeta delle strutture-particelle che dobbiamo distruggere. Forse
è tempo di ricercare una base nuova sulla quale rifondare
la teoria e la pratica della sterilizzazione.
Le indicazioni che emergono da diverse parti (IPST, termofili anaerobi,
composti nutrizionali) sembrano orientare decisamente verso una maggiore
opportunità dei trattamenti sterilizzanti effettuati a temperature molto
elevate, per tempi relativamente brevi.
La praticabilità di trattamenti equivalenti sarebbe molto contenuta.
Cambiamenti nella tecnologia sarebbero, ad un primo esame, indispensabili.
119
RADIAZIONI
I sistemi biologici convivono da sempre con un ampio spettro di radiazioni
elettromagnetiche che li investono dallo spazio e dall'ambiente. La radiazione
elettromagnetica è caratterizzata da una frequenza ν e da una lunghezza d'onda λ:
λ=C*ν
(117)
in cui c = velocità di propagazione della radiazione = velocita' di propagazione
della luce (più comunemente) = 2.998 * 1010 cm/sec. La frequenza è
generalmente espressa in cicli/sec. La lunghezza d'onda λ, in cm (0.01 m),
Angstrom (10-10 m, 10-8 cm), nm (10-9 m).
Ad ogni radiazione e' associata anche un'energia E, piu' specificamente riferita ad
una unita', un "quanto" di radiazione:
E=h*ν
(118)
E=h*c/λ
(119)
e quindi anche:
in cui l'energia E /quanto, è espressa in erg; h è la costante di Plank = 6.62 * 10-27
erg-sec e λ è espressa in cm .
La radiazione elettromagnetica si propaga liberamente nello spazio vuoto ed è
assorbita in misura diversa dalla materia.
Ci si aspetta comunemente che la radiazione sia assorbita in accordo con una
legge esponenziale del tipo di Lambert-Beer. Ma nella pratica se ne discosta per
effetto di diversi fattori, tra i quali piu' spesso la mancanza di monocromaticità, la
diversa energia della radiazione, la capacità di riflessione del materiale, ecc. Le
radiazioni che vanno dal visibile verso lunghezze d'onda maggiori, sono assorbite
con produzione di calore ma senza che si determinino modificazioni chimiche
permanenti.
120
Le radiazioni ultraviolette sono assorbite dal materiale proteico e soprattutto dagli
acidi nucleici (lunghezza d'onda di massimo asorbimento = 260 nm), nei quali
dimerizzano la timina. Sono radiazioni poco energetiche (5 ev), e non ci si puo'
aspettare che determinino danni chimici particolarmente rilevanti. Tuttavia, gli
UV possono danneggiare gli acidi nucleici dei microrganismi, quanto basta
perché questi perdano la capacità di riprodursi. L'energia delle radiazioni con più
di 1.02 Mev (raggi X duri, raggi gamma) viene assorbita da un gran numero di
atomi e di molecole, attraversando la materia, con la formazione di un gran
numero di atomi e molecole eccitate e ionizzate (per assorbimento o perdita di
elettroni), particolarmente adatte a determinare trasformazioni chimiche
permanenti. Solo le radiazioni con energia superiore a 10 Mev possono indurre
radioattività nel materiale attraversato.
Nella Tabella di seguito sono riportate alcune caratteristiche delle radiazioni di
maggiore interesse.
…………………………………………………………………………………….
Tipo di
Frequenza
Lunghezza d'onda
Energia
Radiazione
ν cicli/sec
λAngstrom
Eev
……………………………………………………………………………………
Onde Sonore
102
3*1016
4
Onde Radio, Lunghe
10
3*1014
Onde Radio, Corte
107
3*1011
8
Microonde
10
3*1010
Radar
109
3*109
Infrarosso
1013-1014
105 - 104
1
Visibile
rosso
4.6*1014
6.500
1.9
giallo
5.1*1014
5. 800
2.2
verde
5.8*1014
5.200
2
blu
6.4*1014
4.700
2.7
14
violetto
7.3*10
4.100
3.1
Ultravioletto
4.000-1.500
3.1 - 8.3
microbicida 1.2*1015
2.537
5
Raggi X , molli
1017
30
1 kev
medi
1018
3
10 kev
duri
< 1019
< 0.3
> 100 kev
Raggi γ, X
1020-1021
0.03 - 0.003
1 - 10 Mev
……………………………………………………………………………………
1 kev = 1.000 ev; 1 Mev = 106 ev.
121
RADIAZIONE U L T R A V I O L E T T A
La radiazione ultravioletta più efficace nel danneggiamento dei sistemi biologici
ha una lunghezza d'onda pari a 253.7 nm. Tale valore, peraltro, non va
considerato in assoluto, ma in relazione alle sorgenti di radiazione UV. Le
sorgenti sono costituite da lampade in quarzo o vetro di speciale formulazione
(trasparente alle lunghezze d'onda alle quali si è interessati), contenenti
generalmente vapori di mercurio a bassa pressione (0.004 - 0.02 torr), o gas inerti
ad elevata pressione (0.5 - 75 atm). Lo spettro di emissione di tali lampade è
discontinuo.
L'energia di risonanza dell'atomo di mercurio a 254 nm è emessa con elevata
efficienza (≈ 85 %). Di seguito sono riportate le unità utili per la definizione
delle caratteristiche della radiazione UV.
P = P O T E N Z A = erg sec-1 = 10-7 watts
1 erg = 10-7 joules ; 1 mW = 104 erg sec-1 ; 1 watt= 1J/sec
I = INTENSITÀ
D = DOSE
= P * cm-2 = erg sec-1 cm-2 = mWatt cm-2
= I * sec = erg sec-1 cm-2 sec = erg cm-2
Nella Tabella successiva sono riportate le dosi di riduzione decimale per diversi
microrganismi. Quasi costantemente tali valori rappresentano generalmente le
dosi richieste per la prima inattivazione del 90% delle cellule. L'azione letale
degli UV infatti non si attua generalmente secondo la classica legge di
decadimento esponenziale:
Nd / No = exp ( - k * doseUV )
da cui si può ottenere appunto la dose di riduzione decimale DUV :
(117)
122
Log10 Nd - Log10 No = - k' * doseUV
(118)
Log10 No - Log10 Nd = k' * doseUV
1/k' = doseUV / [Log10 No - Log10 Nd)
(119)
(120)
= DUV
L'inattivazione esponenziale (117) si riscontra con una certa frequenza quasi
esclusivamente con i batteri più sensibili.
Generalmente, infatti, le curve di sopravvivenza alla radiazione UV sono bi- o
poli- fasiche; vale a dire che anzicchè lineari in coordinate semilogaritmiche,
sono più spesso concave. Manca un'interpretazione attendibile di tale tipo di
cinetica d'inattivazione da UV. Il Modello Casolari (Casolari, 1981-1988)
prevede, per le curve di sopravvivenza alle radiazioni, la relazione:
Cd = Co (1/( 1 + S * d2 ))
(121)
in cui Cd è la concentrazione cellulare che sopravvive alla dose d di radiazione.
S è un parametro specifico della resistenza di ogni microrganismo, e ci si può
attendere – nel caso delle tradiazioni ultraviolette microbicide - che sia in
rapporto alla concentrazione microbica di timina nel DNA, e in particolare sia
pari al rapporto:
S = THYcell/THYmax
(122)
tra la concentrazione di timina (THYcell = numero di molecole di timina /cellula)
dei singoli organismi e la concentrazione massima di timina (THYmax = massimo
numero di molecole di timina / cellula ÷ 108 ) che si può prevedere possa essere
presente in una cellula microbica.
Generalmente il valore di S è compreso tra 0.1 e 10-8 . I microrganismi più
resistenti hanno ovviamente valori inferiori di S, essendo meno vulnerabili dalla
radiazione UV, e soprattutto, essendo:
S = 1 / (Log Cd * dUV 2 )
(123)
La (121) equivale anche a:
Log Cd = Log Co /( 1 + S * dUV2 )
(124)
Dalla (121) non si ottiene un'unica dose di riduzione decimale (DUV) ma tante
DUV , una per ogni concentrazione cellulare Cn che interessa:
123
DUV = f(Cn)
cosicchè:
DUV (Cn) = Q * DUV (Cn ±i)
con Q diverso da zero.
La prima riduzione decimale si otterrebbe comunque dalla seguente relazione:
P(DUV) = [(Log Co / Log (Co/10)) - 1] / S
(125)
e le successive dosi di riduzione decimale, dalla relazione più generale:
DUV = 1 / (S*Log Cd) 0.5
(126)
La sensibilità microbica alla radiazione UV aumenta al diminuire della umidità
relativa dell'ambiente, e quindi dell'attività dell'acqua, fino a raggiungere valori
minimi intorno a RH = 50 %, (aw = 0.5), con:
DUV (aw ≤ 0.5) ÷ 0.1 * DUV (aw=.99)
(127)
La radiazione ultravioletta ha un'energia di solo 5 ev, come si è visto, e non può
quindi attraversare se non limitati spessori di materia. Non attraversa il vetro
comune, fogli di plastica spessi, carta, fogli di metallo. Attraversa diversi metri
di aria e sottili strati di acqua o altri fluidi.
Potere di Penetrazione della radiazione UV.
SUBSTRATO
PENETRAZIONE (spessore in cm)
……………………………………………………………………..
ARIA
300 -500
ACQUA
30
VETRO
< 0.1
P L A S T I C A, fogli < 0.01
F R U T T A, succo
< 0.1
L A T T E, fluido
0.01
……………………………………………………………….
Essendo quindi efficaci nell'inattivazione dei microrganismi "nudi", non
schermati da polveri, liquidi, ecc., gli UV trovano utilmente impiego quasi
esclusivamente nel trattamento delle superfici, dell'aria e dell'acqua.
124
Resistenza microbica agli ultravioletti.
125
……………………………………………………………………………………
La Tabella è stata ottenuta mediante il software Microbiofood (Casolari, 2012), scaricabile
gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce
.
Le applicazioni industriali più diffuse possono essere considerate:
- gli impianti di potabilizzazione delle acque industriali e comunali (400 m3
/h);
- la sanificazione delle acque effluenti dagli impianti di depurazione;
- la creazione e il mantenimento di ambienti a basso-bassissimo livello di
contaminazione aerea e superficiale:
nei laboratori di virologia e batteriologia;
126
nell'industria farmaceutica;
nell'industria dietetica e per l'infanzia;
nelle sale operatori
- la sanificazione superficiale dei contenitori di plastica, metallo, o vetro,
indifferentemente, utilizzati nelle tecnologie di confezionamento asettico;
- nella sterilizzazione dell'aria degli impianti di condizionamento, o
direttamente dell'aria ambiente nei locali delle produzioni alimentari e
industriali in genere; nelle cabine sterili a flusso d'aria laminare;
- per scopi meno generali, nell'industria cosmetica e chimica.
Tutte le superfici che riflettono la luce, riflettono anche la Radiazione
ultravioletta; alcune superfici, con maggiore efficienza, come riportato di seguito.
Potere riflettente gli UV con lunghezza d'onda di 253.7 nm:
MATERIALE
% UV RIFLESSO
………………………………………………
Alluminio
50 - 80
Superficie cromata
50
Acciaio inox
25
Vetro
5
Pittura murale
(4)
………………………………………………
Essendo dannosa per tutti i sistemi biologici, la Radiazione UV microbicida non
deve raggiungere il derma (nel quale può provocare infiammazioni-ustioni
fastidiose) e soprattutto le mucose e gli occhi, nei quali provocherebbe
congiuntiviti acute, fastidiosissime (anche se si risolvono generalmente senza
postumi, in pochi giorni).
La radiazione ultravioletta che determina l'abbronzatura ha lunghezze d'onda
superiori a quelle battericide (e quindi è meno energetica), e sono comprese tra
320 e 400 nm, circa.
La radiazione UV con lunghezza d'onda inferiore a 250 nm circa, determina la
formazione di ozono.
127
RADIAZIONI
IONIZZANTI
Il potenziale di ionizzazione molecolare è in media di 10 ev, con valori compresi
tra 6 e 13 ev. Tutte le radiazioni con energia superiore a 10 ev (per convenzione)
sono in grado quindi di produrre ionizzazioni nel materiale attraversato, e perciò
dette radiazioni ionizzanti.
Nella pratica, si considera che la radiazione produca una frazione importante di
ionizzazioni quando ha un'energia superiore a 1 Kev.
L'energia di un quanto o fotone di radiazione elettromagnetica si ottiene dalla
relazione (119):
E = h*c/λ
ed essendo la costante di Planck:
h = 6.62 * 10-27 erg-sec
il valore di E in erg sarà:
E = [(6.62 * 10-27) * (2.998 * 1010 )] / λ
= 1.985 * 10-16 / λ
(128)
(129)
Cosicchè, se λ = 30 Angstrom, l'energia del fotone sarà Eerg = 6.53 * 10-10 ergs.
L'energia della radiazione è più spesso espressa in elettron volt. Poiché:
1 ev = 1.59 * 10-12 ergs
il valore di E in elettron volt sarà:
Eev = 1.248 * 10-4 / λ
(130)
cosicchè il valore dell'energia dei fotoni con λ =30 diverrà Eev = 416 ev.
Se l'energia del fotone è modesta, un elettrone del guscio più esterno di un atomo
l'assorbe e si allontana dal nucleo (effetto fotoelettrico). La collisione tra elettroni
e fotoni con eneregia intermedia determina una deviazione di entrambi dal loro
percorso, e l'emersione di un fotone con maggiore lunghezza d'onda
¤λ = (1 - cos φ) * h /(m*c)
(131)
128
e minore energia (effetto Compton). A livelli energetici superiori a 1.02 Mev
(raggi X duri, raggi gamma) i fotoni possono scomparire con la collisione e sono
sostituiti da due particelle, un elettrone e un positrone, a vita breve, che si
annichilano con emissione di due raggi gamma da 0.51 Mev (produzione di
coppia). Fotoni con energia superiore a 10 Mev possono espellere un protone o un
neutrone dal nucleo, e rendere l'atomo radioattivo.
Le sorgenti più comuni di radiazioni ionizzanti sono i Raggi X, i raggi catodici,
gli acceleratori di particelle e i radionuclidi.
Applicando una differenza di potenziale a due elettrodi in un tubo di vetro con
alto vuoto, il catodo emette elettroni che si dirigono verso l'anodo con velocità
proporzionale alla tensione applicata. Se tale sciame di elettroni colpisce una
lastra di metallo, molta energia è dispersa con vari meccanismi, ma una frazione
dell'energia è emessa sotto forma di radiazione non corpuscolata, con energia
uguale o inferiore a quella degli elettroni incidenti, e comunque contenuta in un
ampio spettro. La relazione tra lunghezza d'onda minima di tale radiazione e il
voltaggio V applicato è dato da:
λmin = 12.400 / V
(132)
per cui una tensione di accelerazione di 100 KV produrrà:
λmin = 12.400 / 100.000
= 0.124
Nella (132), la lunghezza d'onda è espressa in Angstrom.
Dalla (130), si può poi descrivere lo spettro di energia della radiazione X.
Dall'esempio precedente, l'energia minima della radiazione X ottenuta sara:
Eev = 1.248-4 / 0.124-8
= 100.645 ev
= 100 kev
quindi, il valore in Kev è praticamente equivalente numericamente alla tensione
di accelerazione in KV.
Gli acceleratori di particelle sono stati impiegati negli anni '40, ma attualmente si
ritiene poco vantaggioso il loro impiego.
I raggi catodici sono fasci di elettroni emessi dal catodo affacciato ad un anodo,
entrambi inseriti in un tubo ad alto vuoto; sono alquanto manovrabili, e con
energia modulabile, come per i raggi X, in relazione alla tensione di accelerazione
applicata.
Più adatti all'irraggiamento dei prodotti alimentari sono i radionuclidi, tra i quali
hanno trovato largo impiego sperimentale e pratico il Co-60 e il Cesio-137.
Con la disintegrazione del nucleo atomico si producono diversi tipi di radiazioni,
tra i quali i raggi alfa e beta, neutroni e raggi gamma. I raggi alfa sono nuclei di
129
elio con energia di diversi Mev; la grande massa e la relativamente bassa velocità
ne limitano molto il potere di penetrazione e quindi la loro utilizzabilità pratica. I
raggi beta, sono elettroni veloci, come i raggi catodici, con energia massima
compresa tra 0.5 e 3 Mev. Sono poco penetranti.
I neutroni sono particelle pesanti, non cariche e veloci. Possono colpire solo il
nucleo atomico, provocandone l'espulsione di un protone o di un neutrone, sì da
rendere l'atomo colpito, radioattivo. Il cobalto-60 è ottenuto infatti in poche
settimane di permanenza di bacchette di metallo puro, entro una pila atomica.
L'attività aumenta all'aumentare del periodo di permanenza all'interno della pila
(2 mcurie/g dopo 1 settimana, 8 mcurie dopo 4, ecc.). Il Co-60 emette raggi
gamma, con energia di 1.17 e 1.33 Mev, ma anche raggi beta con 0.31 Mev, in
conseguenza della ridistribuzione dei livelli energetici all'interno del nucleo, che
fa seguito all'emissione di particelle beta.
I raggi gamma, che possono essere considerati raggi X di cortissima lunghezza
d'onda, hanno un notevole potere di penetrazione nella materia.
La vita media del cobalto-60 (il tempo richiesto perché si dimezzi la
trasformazione radioattiva) è di 5.27 anni (30 anni per il cesio-137).
U N I T A ' impiegate con le R A D I A Z I O N I I O N I Z Z A N T I:
Becquerel = Bq = Quantità di radionuclide che produce 1 disintegrazione / sec
Curie
= Ci = 3.7 * 1010 Bq
Roentgen = R = Quantità di Radiazione X o Gamma che produce in 1 cm3 di aria
secca a 0°C e 760 mm Hg, ioni di entrambi i segni con 1 unità
elettrostatica di carica.
= Quantità di radiazione che produce in 1 cm3 di aria secca
2.083*109 coppie di ioni.
REP
= Roentgen Equivalent Physical
= Quantità di Radiazione ionizzante che determina l'assorbimento di
93 erg / g di tessuto molle.
= 1 R di Raggi X da 200 KV.
RBE
= Relative Biological Effectiveness
= Capacità della Radiazione Ionizzante di qualunque tipo, di produrre
danni biologici specifici (leucemia, sterilità, carcinigenesi, etc.).
REM
= Roentgen Equivalent Man
= 1 REP / 1 RBE
= 1 rad / RBE
rad
= dose assorbita dal materiale irraggiato.
= 100 erg / g
gray
= dose assorbita
= 100 rad
= 10 000 erg / g
= 1 J / Kg
……………………………………………………………………………
130
LE RADIAZIONI E I SISTEMI BIOLOGICI
In un sistema biologico attraversato da radiazioni ad elevata energia si produce un
gran numero di atomi e molecole eccitate e ionizzate, capaci di determinare, se un
mutamento nello stato fisico-chimico del sistema è possibile, trasformazioni
chimiche permanenti.
L'effetto osservato può derivare da un urto diretto della radiazione con il bersaglio
biologico; ma è più spesso dovuto completamente o in gran parte ad un effetto
indiretto. L'irraggiamento dell'acqua provoca la formazione di radicali liberi H● e
OH●:
HOH → H● + OH●
con radiazioni beta e gamma molti radicali si producono localmente a basse
concentrazioni e la diffusione favorisce la ricombinazione:
H● + OH● → H2O
Se nell'acqua è disciolto ossigeno molecolare, la reazione più probabile:
H● + O2 → ●HO2
lascia liberi i radicali OH●, che formano perossido d'idrogeno ad una velocità
proporzionale alla concentrazione dell'ossigeno:
OH● + OH● → H2O2
ma anche i radicali perossidici, formano perossido:
●
HO2 + ●HO2 → H2O2 + O2
Quando nell'acqua è sospeso materiale biologico, il perossido reagisce con le
molecole più prossime del sistema inattivandone la funzione.
I radicali OH● sono energici ossidanti e probabilmente le specie chimiche più
efficaci nell'inattivare i sistemi biologici.
131
Le cellule batteriche sono costituite per circa l'89% in peso da acqua il cui
spessore medio tra le molecole è di circa 30 Å . Poichè in una soluzione diluita il
solvente è il sistema colpito con la maggiore probabilità dai fotoni, e l'effetto
rilevato sul soluto non può che derivare da quello prodotto sul solvente, si può
prevedere che i radicali H● e OH● che si liberano, molto reattivi anche se di
brevissima durata (10-6-10-5 secondi), diffondano rapidamente all'interno della
cellula fino a raggiungere i componenti con i quali reagiscono. In ogni caso
l'effetto indiretto che si produce all'interno della compagine cellulare, dove la
ionizzazione è sostanzialmente localizzata, di breve durata e dotata di un raggio
d'azione di poche decine di Å, si attua con meccanismi diversi da quelli dovuti
alle soluzioni in cui sono sospese le cellule.
Le osservazioni di ZIRKLE e di altri AA sull'aumento dell'efficacia della
radiazione con l'aumentare della densità di ionizzazione nel substrato, condotte su
spore di B. mesentericus e di Aspergillus, e la relazione inversa ottenuta operando
su E. coli sembrano confermare che almeno una parte degli eventi che
determinano l'effetto finale dell'irraggiamento si verifichi quando la ionizzazione
lungo il percorso delle particelle possiede ancora la sua configurazione (10 -6 – 105
secondi ), prima cioè che gli ioni e le molecole coinvolte diffondano nel mezzo.
Peraltro, mentre questo effetto diretto sembra confermato dalle curve
esponenziali dose-effetto ottenute con radiazioni ad elevato LET (trasferimento
lineare d'energia), le tesi su un modo d'azione unitario delle radiazioni sembrano
compromesse dalle curve di sopravvivenza sigmoidi ricavate con irraggiamento a
basso LET (Linear Energy Transfer) dello stesso microrganismo.
Apparentemente solo gli effetti prodotti dall'irraggiamento in condizioni asfittiche
di cellule disidratate possono essere riferiti a un effetto diretto. ALPER sostiene
che nelle cellule il passaggio di radiazioni ionizzanti attraverso una molecola
determina in questa un particolare stato di reattività, che la coinvolge direttamente
in una reazione detta reazione metionica, che può evolvere in diverse direzioni,
determinare un cambiamento irreversibile della molecola e compromettere la
sopravvivenza cellulare, qualora detta molecola sia un componente essenziale. La
natura delle molecole coinvolte nelle manifestazioni letali di materiale biologico
irradiato non è ancora definita. L'attenzione di diversi AA è stata rivolta ai
complessi molecolari notoriamente essenziali alle manifestazioni vitali delle
cellule (DNA, enzimi, coenzimi, molecole che regolano la selettività delle
membrane cellulari,ecc.), senza che sia stata prodotta peraltro una formulazione
generale.
132
Fin dalle prime osservazioni sugli effetti indotti dallo irraggiamento di cellule
batteriche, sono stati messi in evidenza danni parziali come: persistenza della
mobilità in Pseudomonas incapaci di riprodursi; accrescimento senza
moltiplicazione; induzione del batteriofago in ceppi lisogenici; capacità dell'E.
coli irraggiato con dosi di raggi X sufficienti a bloccare la sintesi del DNA
(160.000 r) di sostenere lo sviluppo del batteriofago non irradiato, con DNA
danneggiato; reversibilità dell'inibizione nella sintesi del DNA; sensibilità dei
sistemi enzimatici coinvolti nel metabolismo fosfatidico; stimolazione di
determinate attività fisiologiche come la fermentazione, la respirazione,
l'induzione di permeasi e riparazione parziale al danno subito, che hanno favorito
l'affermarsi della teoria del bersaglio multiplo.
Il diverso tipo di curve dose-effetto ottenuto per irraggiamento di E. coli B/r
nella fase stazionaria dello accrescimento (curve esponenziali) e nella fase
logaritmica (curve sigmoidi); la concordanza rilevata tra numero di corpi nucleari
osservabili nelle diverse fasi dell'accrescimento e numero dei bersagli stimabili
alla luce della teoria del bersaglio multiplo, potrebbero ricondurre l'effetto letale
delle radiazioni a un danneggiamento primario del DNA. Peraltro
l'irraggiamento di cellule multinucleate può esitare curve di sopravvivenza
esponenziali. È ben noto del resto che nelle cellule si possono riconoscere diversi
complessi molecolari, che sottoposti a irraggiamento, possono determinare gli
effetti letali osservabili.
EFFETTI LETALI della radiazione
L'esposizione dei risultati conseguiti con l'irraggiamento di meteriale biologico
è compiuta abitualmente mediante la rappresentazione grafica di curve di
sopravvivenza, nelle quali le frazioni del materiale non danneggiato dai singoli
trattamenti sono riportate in ordine semi-logaritmiche in funzione delle dosi di
radiazioni applicate.
Sono stati descritti tre tipi principali di curve di sopravvivenza: esponenziale,
sigmoidali e composite.
133
Curve esponenziali sono state ottenute per irraggiamento di B. mesentericus, E.
coli e Staphylococcus aureus [sottoposti a particelle alfa emesse da polonio e
raggi beta emessi da radon, raggi gamma da radium), neutroni, raggi X penetranti
(h = 0,15 A) e raggi X poco penetranti (h = 1.5, 4.1, 8.3 A); con Serratia
marcescens, Sarcina lutea, Achromobacter fischeri, Salmonella typhimurium,
Pseudomonas fluorescens, Phytomonas stewartii, Saccharomyces cerevisiae,
Aspergillus terreus irradiati con protoni e raggi alfa e altri microrganismi.
Curve sigmoidali sono state ottenute per irraggiamento di S. aureus con particelle
beta, Aspergillus terreus con raggi X, Azotobacter agile e S. cerevisiae, E. coli e
altri microrganismi, sottoposti generalmente a raggi X di grande lunghezza d'onda
(h > 0.7 Å) e a raggi gamma.
Curve composite sono state ottenute con E. coli W-1484 e con diversi altri
microrganismi.
Le curve di sopravvivenza esponenziali, linee rette quali risultano dai grafici
costruiti come detto in precedenza, indicano che ogni unità biologica necessita di
un solo urto con un'unità radiante per essere inattivata. Le curve di sopravvivenza
composite possono essere ricondotte a due curve esponenziali intersecantesi;
generalmente si ottengono in substrati biologici non omogenei nei confronti della
radiazione.
Le curve sigmoidi sono ritenute indicative della necessità di più di un urto della
radiazione con il materiale biologico perché si manifesti l'attesa inattivazione; in
134
generale sono fornite dai batteri più radioresistenti. ATWOOD e NORMAN (11)
hanno indicato nell'intercetta sull'ordinata, ottenuta per estrapolazione della parte
esponenziale della curva, a dose zero (figura 2), il numero di urti necessari per
l'inattivazione di ogni singolo elemento irraggiato. Questo comporta l'esistenza,
per ogni microrganismo, di bersagli, zone morfologicamente distinte o entità,
individuate con i termini ‘hit number’, ‘target number’, ‘multiplicity’.
Tale rappresentazione non si accorda peraltro con gran parte delle osservazioni
sperimentali, mostranti chiaramente come tale numero vari entro limiti piuttosto
ampi, in funzione dei fattori che condizionano la sensibilità delle cellule sia
prima, durante, sia dopo l'applicazione delle radiazioni. ALPER e GILLIES (4)
propongono di usare il termine ‘numero di estrapolazione’ quando ci si riferisce
all'intercetta sulle ordinate a dose zero.
La sensibilità dei diversi organismi alle radiazioni è definita con il valore D, che
esprime la dose necessaria per ridurre a un decimo il numero originario di
elementi vitali. Generalmente i valori di D riportati in letteratura sono ricavati da
curve esponenziali o dalla porzione esponenziale delle curve sigmoidi di
sopravvivenza.
Considerazioni spesso di carattere applicativo inducono diversi autori a non tener
conto della soluzione di esponenzialità alle dosi minori e riferiscono
impropriamente D ricavati dalla totalità della curva d'inattivazione.
I valori di D sono in relazione con l'inclinazione della curva esponenziale e
quelli di ɛ (numero di estrapolazione) o Do (numero d'intercetta), con l'entità
della porzione non esponenziale della curva di sopravvivenza.
L'espressione corretta delle curve dose-effetto è rappresentata da equazioni del
tipo:
Nd/No = ɛ * e-dose/D
(133)
dove Nd e No sono le concentrazioni di cellule vitali dopo la dose "dose" di
radiazione e quella a dose zero, ɛ è il numero di estrapolazione e D la dose di
riduzione decimale. Curve di sopravvivenza del tutto particolari, costituite da una
porzione convessa verso l'altro, una logaritmica (fino a circa 2 Mrad) (figura 3) e
una porzione detta coda (da 2 a 5 Mrad e oltre), sono state ottenute da non pochi
AA in funzione della concentrazione di cellule e dell'ambiente in cui sono
irradiate. L'evento di mutanti particolarmente radioresistenti, l'influenza di
135
particolari componenti cellulari ad azione protettiva liberati nel mezzo non hanno
trovato fino ad ora conferma sperimentale.
RADIORESIST ENZA
Le determinazioni di sensibilità alle radiazioni ionizzanti hanno rivelato una
variabilità intragenerica e intraspecifica piuttosto ampia; la resistenza sembra
svilupparsi dai batteri gram-negativi, solitamente poco resistenti, a quelli grampositivi. Tra i gram-positivi si riscontrano i ceppi batterici più resistenti alle
radiazioni ionizzanti, dotati di D paragonabili a quelli ottenuti con le spore meno
sensibili alle radiazioni ionizzanti. I ceppi meno resistenti appartengono alla
specie Staphylococcus aureus; ceppi molto resistenti apPartengono al gruppo
degli streptococchi; il Deinococcus radiodurans (ex Micrococcus radiodurans) è
dotato di una resistenza eccezionale. Altri micrococchi pigmentati radioresistenti
sono stati isolati dall'aria e dal merluzzo. La resistenza di alcuni ceppi di
Streptococcus faecium, trattati a -79°C, è confrontabile (D = 2.8 - 3.1 k Gray) con
quella delle spore resistenti di Clostridium botulinum tipo A irraggiate a
temperatura ambiente; sopravvivenze di Str. faecium sono state riscontrate dopo
irraggiamento con 60 KGray.
ANDERSON e coll. hanno isolato per primi ceppi di micrococchi pigmenti da
carne trattata con 60 KGray; il D. radiodurans R1 è risultato il più resistente di
quattro ceppi saggiati. Meno sensibile in omogeneizzato di carne fresca che in
tampone, questo ceppo possiede una dose di riduzione decimale superiore a
quella di gran parte delle spore. La sua resistenza termica rientra nei limiti
normali riscontrati per le forme vegetative.
La sensibilità del D. radiodurans alle radiazioni ionizzanti è aumentata dalla
presenza, durante il trattamento, di iodoacetamide e di p-idrossimercuri-benzoato
, composti che reagiscono entrambi con il gruppo SH-, ciò che conferma la tesi di
un'azione protettiva esercitata dai composti contenenti zolfo.
L'esame al microscopio elettronico delle cellule di questo ceppo non rivela la
presenza di un numero di nuclei che giustifichi l'interpretazione della curva
sigmoidale d'inattivazione alla luce della tesi dei bersaglimultipli; frammenti di
136
membrana rivelano subunità disposte esagonalmente, come si ritrovano
solamente in altri micrococchi che formano tetradi e in pochi altri gruppi batterici.
Tra gli sporigeni aerobi, diversi isolati di Bacillus pumilus hanno fatto
riscontrare resistenze tra le più elevate; le spore hanno valori di D compresi tra
1.72 KGray e 3.63 KGray.
Confrontando la composizione delle cellule vegetative e delle spore di cinque
ceppi di Bacillus, VINTER ha rilevato che le differenze più evidenti sono a carico
del contenuto in cistina e cisteina, molto maggiore nelle spore che nelle forme
vegetative. Osservazioni successive hanno mostrato un aumento progressivo del
contenuto in amminoacidi solforati con il procedere della trasformazione delle
cellule in spore e di pari passo un aumento della radioresistenza. VINTER
suggerisce che il legame disolfuro della cisteina presente sulla membrana
cellulare si comporti come agente protettivo contro la radiazione; studi precedenti
sull'irraggiamento di materiale proteico hanno indicato che il legame -S-S- può
fornire un elettrone sostitutivo dell'emissione provocata dalle particelle ad elevata
energia in un'altra parte della molecola. È ben nota l'importanza attribuita a
questo stesso legame in relazione ai fenomeni di sonnolenza biologica delle
spore; ma in generale non c'è correlazione tra resistenza al calore e resistenza alle
radiazioni, come riportato nella tabella Ii; tipico esempio è la scarsa resistenza
della tossina botulinica al calore e la sua elevata resistenza alle radiazioni
ionizzanti.
Già con le prime determinazioni di radioresistenza le spore del Clostridium
botulinum hanno rivelato una sensibilità pari o inferiore a quella di altri clostridi
non patogeni; ricerche successive ne hanno precisato la notevole resistenza. Le
spore molto termoresistenti del Cl. sporogenes (P.A. 3679) e del Cl. perfringens
possiedono una radioresistenza intermedia tra quella delle spore del Cl. botulinum
di tipo A e di tipo B. E' stata avanzata l'ipotesi che la maggiore radioresistenza
media delle spore rispetto alle forme vegetative sia da attribuire al minor
contenuto in acqua delle prime.
Le dosi di riduzione decimale dei clostridi sono comprese tra 0.8 e più di 5
KGray; il frazionamento delle dosi di radiazioni applicate, così•come per la
generalità dei microrganismi, è risultato senza effetto sia sulle spore del Cl.
botulinum sia sulle spore del Bacillus pumilus.
La resistenza dei lieviti e delle muffe alle radiazioni ionizzanti non è molto
elevata.
137
FATTORI CHE CONDIZIONANO LA
RADIORESISTENZA
Le tesi che tendono a ridurre o annullare l'utilità delle formulazioni di teorie del
bersaglio, trovano nelle osservazioni condotte sugli agenti modificanti la
sensibilità alle radiazioni un valido contributo di esperienze.
THODAK e REED (158) per primi riportano esperienze sull'influenza
esercitata dall'ossigeno sulle cellule irradiate; HOLLANDER e coll. hanno
definito la relazione esistente tra effetto battericida dei raggi X in presenza e in
assenza di ossigeno, operando su E. coli B/r, una variante radioresistente separata
da WITKIN da colture di E. coli B. L'efficacia dell'irraggiamento sembra
costantemente maggiore in presenza di ossigeno, che diminuisce le dosi
d'inattivazione di tre volte per le forme vegetative e di due volte per le spore.
HOWARD-FLANDERS E ALPER hanno stabilito che l'ossigeno è un vero
fattore modificante la dose, che varia in funzione della specie batterica e del LET.
Concentrazioni molto ridotte di ossigeno (4-7 μmoli) sono in grado di
determinare il 50% dell'effetto sensibilizzante massimo; le spore risentono
anch'esse dell'effetto sensibilizzante dell'ossigeno, ma in misura minore; ALPER
(2) rigetta l'ipotesi di un'azione indiretta svolta da radicali OH. e .HO2 o da H2O2 ,
proponendo un meccanismo d'azione basato sulla tesi dell'effetto diretto; peraltro
le osservazioni condotte sull'azione protettiva svolta da determinati componenti
organici (vedi di seguito) contrasta profondamente con un' ipotesi unica del
meccanismo d'azione delle radiazioni.
I composti chimici che determinano nelle cellule batteriche una minore
sensibilità alle radiazioni possono essere distinti in tre gruppi fondamentali, in
rapporto al loro apparente meccanismo d'azione:
138
a _ agenti attivi in presenza di ossigeno;
b _ agenti attivi sia in presenza sia in assenza di ossigeno;
c _ agenti attivi in assenza di ossigeno nel mezzo irradiato.
Solamente questi ultimi possono essere considerati agenti protettori veri e
propri.
a _ Appartengono al primo gruppo gli acidi carbossilici, gli amminoacidi e il
glucosio, che possono essere ossidati dai batteri e che esercitano un'azione
protettiva evidente anche a basse concentrazioni, specialmente se le cellule sono
sottoposte a un periodo d'incubazione precedente l'irraggiamento.
Apparentengono a questo gruppo composti capaci di autoossidarsi, come il solfito
sodico, o di essere coinvolti in reazioni ossidative determinate dallo
irraggiamento, e che comportano sempre una riduzione della tensione d'ossigeno
nel mezzo.
b _ La glicerina (al 10%) esercita un'azione protettiva sia in presenza sia in
assenza di ossigeno, sia sulle cellule vegetative sia sulle spore, anche se l'effetto
protettivo è più evidente quando il materiale è irraggiato in presenza di ossigeno.
Altri composti di questo tipo sono il dimetilsolfossido e la tiourea .
c _ La cisteina aumenta di due volte la resistenza dell'E. coli,
indipendentemente dalla concentrazione d'ossigeno nel mezzo.
L'interesse dedicato allo studio dei composti chimici in grado di abbassare la
radioresistenza dei batteri, anche se potrebbe trovare in futuro giustificazioni
applicative, allo stato attuale delle conoscenze non è che un modo di
avvicinamento alla comprensione del meccanismo d'azione delle radiazioni. La
N-etilmaleimide , l'acido iodoacetico e l'acetato di fenilmercurio, la
iodoacetamide e la vitamina K5 sono i composti chimici meglio noti come
sensibilizzanti alle radiazioni. BRIDGES suggerisce che tali composti reagiscano
con i radicali -S, o con i gruppi solfidrilici derivanti dall'apertura del legami S-S
dei componenti proteici (forse della membrana cellulare) di modo che questi
ultimi non possono riformarsi; ne deriverebbe la compromissione dell'integrità
della proteina coinvolta.
In considerazione delle ipotesi riportate sull'azione mediatrice svolta dai
radicali liberati dall'irraggiamento dell'acqua intracellulare, ci si dovrebbe
attendere un aumento di resistenza nelle cellule disidratate. In effetti, diversi
Autori hanno riportato risultati che si accordano con tale ipotesi, ma è stato
139
osservato che in condizioni asfittiche le cellule di lievito disidratate sono più
sensibili che in sospenzione acquosa. Anche le spore batteriche sembrano più
sensibili se disidratate.
La minore sensibilità dei batteri non sporigeni irradiati a base temperature è
documentata da diversi ricercatori per l'E. coli, Pseudomonas, Staphylococcus
aureus, Streptococcus, Alcaligenes, lieviti, e altri microrganismi. Le spore sono
condizionate in misura minore, o non lo sono affatto, dall'irraggiamento a bassa
temperatura.Si può ritenere in generale che l'irraggiamento abasse temperature
aumenti di 2-3 volte la resistenza delle forme vegetative; l'effetto sensibilizzante
dell'ossigeno persiste anche a - 79, - 196°C. Benché un lieve aumento della
radioresistenza delle spore trattate a temperature molto basse costituisca un
fenomeno generale, PROCTOR e coll. (134) hanno riportato valori di resistenza
inferiori operando su spore di Bacillus subtilis.
In terreni colturali ricchi di sostanza organica sono state spesso riscotrate
maggiori sopravvivenza che in terreni colturali chimicamente definiti; la
maggioranza dei reperti ottenuti sia con batteri sporigeni sia non sporigeni,
testimonia l'assenza di un effetto determinante esercitato dal terreno di subcoltura
impiegato dopo l'irraggiamento. Diversi autori hanno riferito sull'azione protettiva
svolta da sostanze proteiche in generale, talvolta con risultati contrastanti. Sembra
accertato che non tutte le sostanze alimentari agiscono nello stesso senso: talune
(e nei confronti di determinati microrganismi) si comportano da protettrici, talune
da sensibilizzanti . Non è sempre agevole distinguere tra l'effetto determinato
dall'ambiente e l'attività indiretta dei composti liberatisi nel mezzo irraggiato.
Non esistono molte informazioni sull'effetto esercitato dalla temperatura
d'icubazione dopo l'irraggiamento; con E. coli sono state ottenute maggiori
sopravvivenze per incubazioni a temperature inferiori (18-20°C) a quelle ottimali.
OKAZAWA e coll. (126, 96) hanno riscontrato un marcato effetto
sensibilizzante esercitato dal cloruro sodico (E. coli e Cl. botulinum); le forme
vegetative sono generalmente più sensibili delle spore all'azione del cloruro; le
esperienze riferite da ROBERTS e coll. (141) inducono a ritenere che elevate dosi
di radiazioni (> 1 Mrad) sensibilizzino le spore (o le spore germinate) all'azione
del cloruro sodico contenuto nel terreno di subcoltura.
140
NUOVE ACQUISIZIONI SULLA CINETICA
D'INATTIVAZIONE DA RADIAZIONI.
I diversi maccanismi d'azione invocati, soprattutto venti anni or sono, per
chiarire gli effetti delle radiazioni ionizzanti sulle cellule microbiche hanno
perduto di rilievo con l'accentuarsi dell'attenzione sul possibile significato degli
effetti determinati dagli agenti che modificano la sensibilità delle cellule.
L'importanza rivestita dai componenti solforati delle molecole cellulari e dei
composti chimici in grado di condizionarne la stabilità, sembrano implicare, sia
per il Micrococcus radiodurans sia per le spore batteriche, meccanismi d'azione
non necessariamente legati alle strutture nucleari.
È stato proposto infatti, recentemente (Casolari, 1981, 1988), un modello
dell'interazione della radiazione con i sistemi biologici, basato sulla probabilità di
collisione dei radicali ●OH indotti dalla radiazione sull'acqua (del mezzo,
soprattutto) con i bersagli cellulari. Tale modello dell'azione "indiretta" può
rendere conto di tutti i tipi di curve di sopravvivenza osservate con
l'irraggiamento dei microrganismi, attraverso la relazione:
Cd = Co1/(1+S*d*d)
(134)
da cui:
Log Cd = Log Co /(1 + S * d2 )
(135)
dove Cd e Co sono le concentrazioni di cellule vitali dopo la dose "d" e iniziale,
rispettivamente, e S è un parametro legato alla radioresistenza specifica, dato dal
rapporto:
S = 105 / SHS
in cui 105 è il contenuto minimo di gruppi SH in una cellula microbica, e SHS è il
contenuto superficiale in SH, specifico alla cellula che si considera. Il valore di S
è compreso, per la maggior parte dei microrganismi, tra 0.001 (microrganismi più
resistenti) e 1.00, all'incirca.
La dose, è espressa convenientemente in J/g, oppure in K Grey (1 Mrad = 10 J /
gr = 10 KGy).
141
La dose di riduzione decimale, R10 , è un parametro di minore significato,
nel modello generale, visto che non ha un valore costante, ma varia con la
concentrazione cellulare; essa infatti è ottenibile da:
R10 = 1 / (S * Log Cd)0.5
(136)
Più utile è la conoscenza della dose richiesta per ottenere una definita
inattivazione Rn, data da:
Rn = (n/S)0.5
(138)
cosicché per ottenere 12*R10 :
R12 = (12/S)0.5
(139)
Per il Clostridium botulinum, ad esempio, il valore di S è prossimo a 0.02,
cosicche' la (139) diventa:
R12 = (12/0.02)0.5
= 24.5 kGy
Ma il problema non è così semplice, poiché una quantità di fattori ambientali è in
grado di modificare la vulnerabilità dei gruppi SH endocellulari e quindi il valore
apparente di S. La relazione (134) consente di ottenere tutte le forme delle curve
di radio ninattivazione.
(A. Casolari,
1988, ‘Microbial death’,in Physiological models in microbiology. Vol. II.
Mathematical models., CRC Press, Boca Raton, FL.)
142
GAMMA RESISTENZA MICROBICA
143
144
145
146
147
………………………………………………………………………………
La Tabella è stata ottenuta mediante il software Microbiofood (Casolari, 2012), scaricabile
gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce
.
IMPIEGO PRATICO
DELLE R A D I A Z I O N I
IONIZZANTI
Sono indicate di seguito le principli applicazioni delle radiazioni ionizzanti.
La stabilizzazione dei prodotti alimentari mediante l'impiego delle radiazioni
ionizzanti è connessa, per quanto concerne l'aspetto microbiologico, in primo
luogo all'elevata radioresistenza del Cl. botulinum (il più resistente dei batteri
sporigeni) e in secondo luogo dalla resistenza, risultata talvolta abnorme, sia di
microrganismi non patogeni molto diffusi (Deinococcus radiodurans,
enterococchi, Moraxella) e di incerta pericolosità (virus), sia delle tossine
148
microbiche. La relazione tra resistenza microbica alle radiazioni e al calore è
infatti alquanto dissimile.
Impieghi pratici più frequenti delle radiazioni ionizzanti:
Trattamento
Dose (KGy)
………………………………………………………
Sterilizzazione degli alimenti
10 - 60
Sterilizzazione del catgut
25
Sterilizzazione delle ossa
19
Sterilizzazione dei vaccini
13
Inattivazione enzimatica
30 - 200
Trattamento superficiale pollame
5
Eliminazione Salmonella da uova
5
Sterilizzazione sessuale Insetti
0.1 - 0.2
Uccisione Insetti
1-2
Sterilizz. sessuale Trichinella
0.1
Uccisione Trichinella
2
Inibizione germogliazione patate 0.05 - 0.15
"
"
cipolle
0.05 - 0.15
"
"
aglio
0.07 - 0.15
Control. maturaz. mango, banana
0.25 - 0.35
Ritardo maturazione funghi
2.5
Aumento shelf-life aranci, fragole 0.75 - 2.5
Controllo infestazione da Insetti
negli insilati (grano, riso, semi di
cacao)
1
Radicidazione spezie
8 - 10
Radicidazione pollo
7
Radurizzazione asparagi
2
Radurizzazione gamberetti
0.5 - 2
Sterilizzazione prosciutto
35 - 56
Sterilizzazione bacon
45 - 56
Pastorizzazione alimenti
0.2 - 5
…………………………………………………………
149
Confronto tra resistenza microbica al calore e alle radiazioni
ionizzanti.
Caratteristiche
CALORE
RADIAZIONI
……………………………………………………………………………………
Spore più resistenti
B. stearothermoph. Cl. botulinum A/B
D121° = 2-8 min.
D10 = 3.36 KGy
Spore pi sensibili
Cl. botulinum E
Cl. botulinum 51B
D121° = 0,0003'
D10 = 1.29 KGy
Vegetative più resistenti D71° = 40’’
D10 = 16 KGy
Dvres / Dvsens
100
80
Dspore /Dveget
1.000.000
0.3 - 30
Enzimi cellulari
inattivati alla
non inattivati
morte delle spore
Tossina botulinica A D90°C = 0.009'
D10 = 40 KGy
Effetto del pH
importante
trascurabile
Effetto dell'O2
indipendente
molto importante
……………………………………………………………………………………
Cl. botulinum e RAGGI GAMMA.
Il D e il D10 rappresentano (i diversi Autori preferiscono l'una o l'altra
indicazione), in analogia col tempo di riduzione decimale, la dose necessaria alla
inattivazione del 90% delle cellule; il D37 indica la dose necessaria alla
inattivazione del 63% delle cellule (o sopravvivenza del 37%, 0.37 = e-1 ) ed è
usato più correttamente nelle considerazioni teoriche di biofisica delle radiazioni.
Il valore D può essere ricavato dalla porzione logaritmica della curva di
radioinattivazione del microrganismo, oppure da tutta la curva (ma noncorrettamente), senza teneer conto delle soluzioni di logaritmicità che precedono
e/o seguono la porzione esponenziale centrale.
Le curve di radioinattivazione del Clostridium botulinum hanno generalmente
carattere sigmoidale e sono quindi costituite da 3 parti:
a) una spalla (shoulder) iniziale (alle dosi minori) che può rappresentare più dei
3/4 del primo ciclo logaritmico e può estendersi fin oltre i 6 KGy;
b) una porzione esponenziale che può estendersi fin oltre i 20 KGy;
c) una coda (tail), che può prolungarsi oltre i 90 KGy.
L'entità della prima parte della curva sigmoide è indicata con gli indici "Dq" o
"L", generalmente, che sono una misura della dose necessaria perché abbia inizio
la fase esponenziale d'inattivazione; formalmente è ottenuta dall'intersezione del
prolungamento della curva esponenziale di inattivazione con il 100% di
sopravvivenza, a dose zero.
150
Le prime due porzioni iniziali della curva (la spalla e la fase esponenziale) sono
comprese nella seguente relazione:
Dose(S,E) = D*(Log No - Log Nd ) + Dq
(140)
dove No e Nd sono rispettivamente le concentrazioni delle spore iniziali e dopo la
dose d; il D è ricavato dalla porzione esponenziale, e Dose (S,E) comprensiva di
spalla e coda, necessaria per ottenere Log Nd.
La porzione finale o coda, della curva di inattivazione non è abitualmente
interpretata matematicamente.
Nella pratica, la valutazione della D è ottenuta col metodo di SCHMIDT e
NANK (1), in cui si applica la relazione:
D = dose / (Log Tot - Log Surv)
(141)
dove Tot rappresenta il numero Totale di spore (numero di spore contenute
nell'unità campione, moltiplicato per il numero di unità assoggettate alla dose
considerata) e Surv rappresenta un valore connesso alla sopravvivenza. Surv può
essere ricavato:
(a) dal numero di campioni che si gonfiano o:
(b) dal numero di campioni tossici (contenenti concentrazioni letali di tossina
botulinica)- e in questi due casi si assume che ogni campione rigonfiatosi o
contenente tossina (dopo un periodo adeguato - abitualmente 6 mesi - di
incubazione a temperatura idonea - di solito a 30°C) racchiudesse almeno una
spora -; oppure :
(c) dal numero di campioni contenenti spore sopravviventi.
I valori di D ricavati col metodo di SCHMIDT e NANK (DPS = D from Partial
Spoilage data; DVS = D from Viable Spores; DTox = from fraction of Toxic
Samples), tengono conto quindi delle soluzioni di logaritmicità (shoulder e tail)
della curva d' inattivazione e si possono considerare i più adeguati alla
rappresentazione della dose necessaria alla inattivazione del Cl. botulinum.
Il Problema delle 12D
Gli studi di ESTY e MEYER (2) sulla resistenza termica delle spore di Cl.
botulinum in tampone fosfato, hanno indicato che per ridurre 1012 spore di Cl.
botulinum a meno di una spora sopravvivente, è necessario un trattamento di
2,78 min a 121°C = 250°F; successivamente tale tempo è stato portato da
151
TOWNSEND a 2,45, tenendo conto del contributo termico dovuto al
raggiungimento di 121°C, trascurato nei calcoli originari. Un margine addizionale
di sicurezza del 22% ha indotto ad assumere 3 min a 121.1°C come il tempo
minimo di Fo che è necessario/imperativo applicare nella sterilizzazione degli
alimenti non acidi (pH > 4.5), per tener conto dell'eventuale effetto protettivo di
componenti particolari degli alimenti. Tale tempo minimo è detto: "minimumbotulinum-cook".
In analogia con tale norma arbitraria, SCHMIDT suggeriva nel 1957 di adottare
anche per la radio-sterilizzazione il principio delle 12D, che veniva ufficialmente
proposto nel 1960 alla "European meeting on the microbiology of irradiated
foods".
Poiché il massimo D ricavato sperimentalmente in substrati animali e vegetali era
pari a 3.7 KGy, si assumeva come accettabile un valore di 12D pari a 44.5 (o 45)
KGy.
Le osservazioni di ANELLIS e KOCH sulla radioresistenza del Cl. botulinum in
tampone fosfato (in analogia con le esperienze di ESTY e Mayer), hanno indicato
che 12D si ottengono con 40 KGy; ma ufficialmente sono stati assunti i 45 KGy
proposti da SCHMIDT.
Radioresistenza del Cl. botulinum in tampone fosfato (M/16):
Ceppi
D (KGy)
12D (KGy)
……………………………………………………………………
36 A, 33 A, 40 B, 41 B, 53 B
3.36-3.17
40.32 - 38.04
77 A, 12885 A, 9 B, 62 A
2.53-2.24
30.36 - 26.88
E, 51 B
1.34-1.29
16.08 - 15.48
…………………………………………………………..………..
In pratica, sono state ottenute in alcuni alimenti dosi di riduzione decimali
nettamente superiori (come sarà riportato di seguito) o inferiori, in funzione del
substrato alimentare inoculato; ciò comporta necessariamente (e utilmente), per
quanto concerne la radio-sterilizzazione, che per ogni alimento debbano essere
determinati sperimentalmente i parametri indicati (D e/o 12D).
I sostenitori del dogma "12D" sono forti della circostanza che 40 anni di pratica
applicazione (?) di tale concetto ha dato ottimi risultati nella sterilizzazione
termica degli alimenti. A tale posizione si possono opporre alcune
argomentazioni:
1 - Se nella pratica si applicasse esclusivamente tale concetto (12 D), la
sicurezza ottenibile non sarebbe poi tanto soddisfacente o comunque eccessiva :
una industria produce, poniamo, 107 scatole da 100 g/anno; l'applicazione di 12D
ridurrà la probabilità di contaminazione a 1 contenitore su 10.000, quando la
contaminazione iniziale sarà di 10 spore / contenitore (una spora ogni 10 g),
152
oppure a 1 contenitore su 10, quando la contaminazione iniziale sarà di 10.000
spore /contenitore (100 spore / g).
Si può ricordare a tal fine che la contaminazione dei prodotti carnei freschi da
Clostridi putrefattivi di tipo PA 3679 (sono quasi inesistenti i valori per le spore
di Cl. botulinum) è mediamente di 2 - 5 spore/g, con intervalli compresi tra 0.1 e
100 spore/g. Ci si aspetta che la concentrazione "normale" di spore
termoresistenti di Cl. botulinum sia all'incirca un centesimo di quella da clostridi.
2 - In realtà l'industria applica da 5D a 7D per le spore dei clostridi e dei bacilli
più termoresistenti (Cl.sporogenes, P.A. 3679, B. stearothermophilus,
Cl.thermosaccharolyticum), che sempre presenti (gli uni o gli altri) nei prodotti
freschi, sopravviverebbero tutti a trattamenti termici che determinassero
solamente 12D = Fo = 3 min, per le spore del Cl. botulinum, provocando quindi
l'alterazione del prodotto.
Tali valori di Fo= 5 - 7, determinano da 30 a più di 50D per le spore di Cl.
botulinum.
3 - La pratica applicazione di trattamenti termici sub-12D (Fo = 0,05 - 1,5) alle
carni contenenti NaCl, nitrati e nitriti (prosciutti cotti), ha mostrato in 50 anni di
esperienza, di essere più che adeguata. E ciò perché, si è visto, il trattamento
termico sensibilizza le spore (danno metabolico) alle condizioni ambientali limite
(aw, NaCL, nitrato e nitrito), cosicchè una frazione delle spore, pur
sopravvivendo al trattamento termico, non è in grado di accrescersi, alterare il
prodotto e renderlo tossico.
4 - Alcuni Autori infine esprimono seri dubbi sulla correttezza scientifica
dell'interpretazione dell'esponente negativo dell'ordinata delle curve di
sopravvivenza, in termini di "livello della probabilità di sopravvivenza". La
constatata inapplicabilità del dogma 12D alla radiosterilizzazione di diversi
prodotti alimentari, motivata dal deterioramento indotto da 45 KGy sulle
caratteristiche organolettiche, ha suggerito il ricorso ad un concetto analogo, per
certi aspetti, a quello del tempo di morte termica (thermal death time), che si può
esprimere come la dose necessaria "per ridurre a zero il livello di pericolosità".
Ma un discorso realistico in tal senso, potrà farsi quando saranno conosciuti con
la sufficiente precisione:
(a) - la contaminazione specifica delle singole materie prime e l'entità di
tale contaminazione;
(b) - la radioresistenza della flora microbica tipica di ogni prodotto, in
ognuno dei prodotti;
(c) - le interazioni possibili tra ambiente e sopravviventi possibili, oltre che
tra i sopravviventi, dopo l'irraggiamento;
(d) - l'evoluzione della radioresistenza nel corso dell'irraggiamento;
(e) - il volume produttivo complessivo.
153
C O D E (Tails) nelle Curve di Radioinattivazione.
ANELLIS e altri (12) hanno osservato che 30 KGy riducono una sospensione di
9*108 spore di Cl. botulinum 33-A a meno di una spora sopravvivente; ma da 30 a
90 KGy, la sopravvivenza varia tra 0,7 e 7 spore/ml di tampone fosfato M/15 (pH
= 7,0). Le curve di sopravvivenza ottenute con spore pretrattate termicamente, di
solito non hanno la coda.
Esempi di sopravvivenza delle spore di Cl. botulinum B-40 alle dosi maggiori di
raggi gamma:
Dose
Numero di spore vitali / campione
(KGy)
media di 25 test
Range
……………………………………………………
18
2
3,6 - 10,2
20
0,1
0,0 - 0,5
22
0,14
0,0 - 0,7
24
0,04
0,0 - 0,2
26
0,60
0,0 - 3,0
28
0,06
0,0 - 0,3
30
0,12
0,0 - 0,6
……………………………………………………
La concentrazione delle spore non modifica la D (le opinioni in verità, sono
contrastanti) ma modifica significativamente l’estensione della coda: impiegando
37,000 spore in PB, la coda si osserva già dopo 4D + Dq = 10 KGy; impiegando
37 * 109 spore, la coda si rileva dopo 8D + Dq = 20 KGy.
DOSI FRAZIONATE
I diversi Autori non sono concordi sull'effetto delle dosi frazionate. Nella tabella
successiva sono riportate le variazioni del D in funzione del tempo intercorso tra
applicazioni successive di 5 KGy, per spore di Cl. botulinum B-27, in tampone
fosfato.
154
Tempo (h) trascorso
D
tra dosi successive
(KGy)
…………………………………………
0,0
2.3
5,0
2.9
15,0
3.8
28,0
5.5
…………………………………………
I valori di D aumentano in media di 1 KGy ogni 8 ore di intervallo tra dosi
successive. Quindi, l’impiego di dosi frazionate successive, non è vantaggioso.
TRATTAMENTI COMBINATI CALORE - RADIAZIONI
La resistenza termica delle spore pre-irraggiate, diminuisce, se
l’irraggiamento è applicato a temperatura ambiente.
Nella Tabella di seguito sono indicate le variazioni di resistenza termica in spore
di Cl. botulinum 33A in PB (pH = 7,0), per effetto dell'irraggiamento allo stato
liquido (0°C - 25°C) e solido (da -25°C a - 196°C).
Dose
D99°C
D99°C
( KGy )
(spore irraggiate a 0°C-25°C) (spore irraggiate a -25, - 196°C)
…………………………………………………………………………………….
0
23,0
23,0
6
5,5
17,4
8
3,0
13,5
10
2,3
11,5
…………………………………………………………………………………….
D99°C = ≈1 min / 1 KGy; D99°C = D99°C (liquido) - D99°C (solido) = ≈12 min.
La D diminuisce per trattamento contemporaneo a temperature letali o
prossime a quelle letali : D diminuisce di 0.59 KGy ogni 10°C tra 65°C e 95°C
per le spore di CL. botulinum 33A; per temperature comprese tra 25°C e - 196°C,
il valore di D aumenta di 0.14 KGy ogni 10°C (esperienze effettuate in carne di
manzo macinata). Va notato, che i valori di D ottenuti a 95°C e a -196°C, sono
maggiori, minori è la concentrazione di spore impiegata. Comunque, 17 KGy
sono in grado di sterilizzare, se applicati a +95°C, sia carne inquinata
sperimentalmente con 105 spore, sia con 109 spore per contenitore.
155
Cellule Vegetative Radioresistenti.
Isolato la prima volta da carne trattata con 60 KGy ma molto diffuso nei prodotti
carnei (10 - 100/g) e nell'ambiente in generale, il Deinococcus radiodurans è un
tetracocco pigmentato in rosa-rosso, non patogeno, non gasogeno, mesofilo. Sette
KGy inattivano solo il 50% circa delle cellule in tampone fosfato; la tecnica
abitualmente impiegata per isolarlo dai prodotti alimentari è di irraggiarli con 20
KGy: sopravvive, della flora normale, solo il D. radiodurans. In brodo di carne
congelato, possiede un D = 10 KGy. Nella carne di manzo cruda, 7D si ottengono
con 35 KGy, 9D con 40 KGy, 12D con 47 KGy; nella tabella successiva sono
riportati i valori di D calcolati dalla porzione logaritmica della curva di
inattivazione ottenuta in alcuni alimenti.
Valori di D per il D. radiodurans in diversi substrati:
SUBSTRATO
D (K Gy)
……………………………………..
Tampone fosfato
1.92
Manzo crudo
2.50
Manzo cotto
2.34
Pollo
2.36
Pesce
3.39
……………………….……………
Tali valori, apparentemente inconciliabili con quanto detto precedentemente, non
tengono conto della spalla o shoulder, che può essere di 20 KGy (abitualmente è
di 10 - 15 KGy).
La termoresistenza del D. radiodurans è dell'ordine di grandezza delle altre
cellule vegetative ( D60°C = 0.75'; z = 5,1°C). Pretrattamenti o trattamenti
contemporanei a 40 -50°C, riducono la radioresistenza anche di tali
microrganismi. Gli enterococchi (specie Streptococcus faecium) sono provvisti di
radioresistenza analoga a quello del D. radiodurans (D compresi tra 1.70 e 3.50
KGy) ed estese shoulders (fino a 10 KGy). Pretrattamenti con ultrasuoni (20
minuti, 300 kc, 10 w), sensibilizzano sia il D. radiodurans che gli enterococchi.
156
GAMMA RESISTENZA DEI VIRUS
Le regolamentazioni sulle condizioni igieniche dei prodotti alimentari e di quelli
conservati, trascurano spesso il problema della presenza e della sopravvivenza dei
virus e quindi della potenziale pericolosità derivante dal consumo di alimenti
contaminati. E ciò per diversi motivi, tra i quali, preminentemente, le difficoltà
tecniche di isolamento e conteggio di tali microrganismi (solamente pochi
laboratori sono attrezzati per tali tecniche), che non hanno condotto ad un esame
sperimentale sistematico della contaminazione dei diversi alimenti.
Fondamentalmente quindi, tale situazione deriva dalla mancanza di quelle
conoscenze precise, che una volta acquisite (e c'è da augurarsi che avvenga
presto) potrebbero incidere in maniera decisiva sul problema degli alimenti
conservati. La termolabilità di tali elementi microbici non costituisce un problema
negli alimenti che subiscono trattamenti termici anche solo pastorizzanti (fatte
pochissime eccezioni), ma la loro radioresistenza li ha imposti all'attenzione di
diversi ricercatori: la dose di riduzione decimale dei virus si approssima a 10
KGy.
BALDELLI ha determinato una dose di riduzione decimale di 5 KGy, in
ambiente acquoso, e 7 KGy in ambiente secco, per il FMDV ( foot-and-mouth
desease virus); valori analoghi sono stati ottenuti da MASSA (D = 4.81 - 6.26,
rispettivamente in ambiente acquoso e a secco).
Poiché la D dei virus è inversamente proporzionale alla loro dimensione, si può
ritenere che i D riportati rappresentino valori limite, visto che l'FMDV è tra i più
piccoli virus conosciuti. Sembra peraltro che D inferiori siano in grado di privare
i virus della loro infettività.
JOHNSON ha osservato che il peptone, la tiourea, il glutatione, proteggono i
virus nei confronti dei danni subiti con l'irraggiamento.
L'inattivazione (da 6 a 9 D) di diversi virus (Herpes, influenza A e B, Polio,
vaccinico, ecc.) richiede da 20 a 40 KGy.
GAMMA-RESISTENZA DELLE TOSSINE MICROBICHE
Nella Tabella successiva sono riportati i valori di D per le tossine che più
interessano i prodotti alimentari, sia per la frequenza con la quale possono essere
coinvolte in fenomeni tossinfettivi, sia per la radioresistenza.
157
Radioresistenza delle Tossine Microbiche:
Tossina
Purezza
Substrato
D(KGy)
……………………………………………………………..
Enterotossina B purificata
tampone
27
“
"
"
"
latte
97
Neurotossina
botulinica A
"
Tampone F.
0.5 - 2
" "
"
Brodo carne
40
" "
"
Formaggio
60
" E
pura
Tampone F.
0.4
" "
cruda
Brodo carne
21
………………………………………………………………
Come si può rilevare, la resistenza diminuisce con l'aumentare della purezza della
tossina. Mentre la tossina botulinica tipo E ha un D, nell'ambiente colturale in cui
si è formata, pari a 17 KGy, la tossina purificata ha D = 21 KGy, e quella pura D
= 0.4 KGy; in presenza di 600 μg/ml di albumina o cisteina (1,3 x 10-3 M), la D
passa da 0.4 a 3.50 KGy; l'irraggiamento in presenza di caseina ne potenzia la
tossicità (non se ne conosce il meccanismo). L'acido ascorbico sensibilizza la
tossina.
Le esperienze di MISURA e coll. sembrano indicare che difficilmente un
alimento può contenere più di 5 μg di enterotossina stafilococcica/g e che alcune
persone sono sensibili a 1 μg di tossina assunta col pasto; poiché si può ritenere
che in un solo pasto non si assumano più di 250 g di prodotto tossico,
l'irraggiamento dovrebbe portare la concentrazione di tossina a 0.004 μg/g. Per
ridurre 5 μg di tossina/g a 0.004 μg/g, si devono applicare da 3 a 4 D, pari a circa
400 KGy, nel latte.
Le aflatossine sono radioresistenti: non sono distrutte da 300 KGy (in alcole
metilico) e sono parzialmente inattivate (dal 40 all'80%) da 150 KGy in tampone
ftalato (pH = 4,0), fosfato (pH = 7,0) e borato (pH = 9,0).
Per quanto concerne la formazione della tossina botulinica tipo E nel pesce
irraggiato, sembra che i diversi Autori abbiano trovato un accordo: aumenta la
quantità di tossina prodotta, non la velocità di produzione.
RADICIDAZIONE o
RADIOPASTORIZZAZIONE
Con tale processo ci si propone di applicare dosi insufficienti a modificare le
caratteristiche peculari degli alimenti, ma capaci peraltro di diminuire il contenuto
totale di microrganismi e soprattutto di ridurre a livelli sufficientemente bassi la
158
probabilità di sopravvivenza delle Salmonelle (e degli stafilococchi), negli
alimenti che per alcune loro caratteristiche intrinseche (aw, pH) e/o connesse alle
modalità di conservazione (congelati), non consentono la moltiplicazione dei
patogeni.
La radicidazione è prevista per quei prodotti che sono implicati con la maggior
frequenza nelle tossinfezioni da Salmonella (uova, derivati delle uova, pollame e
carni non cotte) e nella disseminazione di tali patogeni non sporigeni(mangimi
composti). Occasionalmente sono state determinate contaminazioni dell'ordine di
500 Salmonella/g; poiché tecnicamente si può assumere esente da Salmonella un
prodotto che non ne contiene in 10 kg, la contaminazione da salmonelle sarà
ridotta sufficientemente da dosi capaci di determinarne 6 - 7 D. La
contaminazione media dei mangimi (1 Salmonella/g) indica che bastano 5D per
ridurre la probabilità di sopravvivenza delle Salmonella, allo stesso livello.
Nella tabella successiva sono riportate le dosi massime equivalenti a 7D per le
Salmonella, in diversi alimenti.
Dose di Radicidazione per alcuni prodotti:
PRODOTTO
DOSE * 7D
(KGy )
…………………………………………………
uova intere liquide
4.40
uova intere congelate
4.80
albume liquido
3.30
albume congelato
5.25
carne di cavallo congelata
8.90
farina di ossa
6.40
farina di pesce
12.20
crabmeat
6.00
…………………………………………………..
Con le uova intere liquide, poiché già dosi inferiori a 2.8 KGy modificano
apprezzabilmente i caratteri organoletici, la radicidazione ha scarse probabilità di
trovare applicazione. Si ritiene, in linea di massima, che per le uova e il pollame
congelati, 5 - 8 KGy rispettivamente, rappresentino dosi utili alla eliminazione
delle salmonelle; per la carne di cavallo, 6.5 KGy si sono dimostrati in pratica
sufficienti; 6 - 3 KGy, per i mangimi secchi. La presenza di "code" rilevata sia
con Salmonella che con stafilococchi (stafilococchi sono stati isolati dopo 18
KGy a cominciare da 4 KGy), non ha eccessivamente preoccupato gli autori che
si sono interessati alla radicidazione.
Tutti gli autori attribuiscono una notevole importanza alle osservazioni di
LICCIARDELLO sulla sensibilizzazione delle Salmonella irraggiate a 55°C (D =
0.75 KGy a 10°C, mentre D = 0.25 KGy a 55°C).
159
RADURIZZAZIONE
La radurizzazione, è un'estensione degli obbiettivi della radicidazione verso i
microrganismi non patogeni, e quindi in relazione alla sopravvivenza dei
microrganismi non patogeni, ma capaci di alterare gli alimenti nel corso del
magazzinaggio. A ciò si aggiunge, soprattutto per il pesce, una definita
probabilità di controllo del Cl. botulinum tipo E.
La radurizzazione determina generalmente un raddoppiamento del periodo
di stabilità al magazzinaggio a temperature di refrigerazione, e modifica le
caratteristiche organolettiche indicative dell'alterazione in atto. Le
osservazioni condotte con filetti di pesce persico (Perca flavescens) hanno
indicato che 1 - 2 KGy riducono la contaminazione iniziale di 1,4 e 3 cicli
logaritmici, rispettivamente, raddoppiando la stabilità a 1°C (da 6 a 12 giorni), ma
senza modificare sensibilmente i rapporti quantitativi tra i diversi gruppi
microbici.
Con 3 KGy tali rapporti si modificano così profondamente, che il prodotto
alterato non presenta le caratteristiche organolettiche (odore di putrido) tipiche,
ingenerate dallo sviluppo di Pseudomonas e allo stesso tempo la stabilità è
prolungata a 43 e 55 giorni, rispettivamente, da 3 e 6 KGy. Le osservazioni
condotte su filetti di sogliola (Petrale sole) confezionati sotto vuoto (in scatola) e
irraggiati con dosi crescenti da 1 a 4 KGy sono chiaramente indicative.
Relazione tra dose di Raggi Gamma e stabilità:
…………………………………………………………….
Dose
I % Talteraz.
Batteri
Caratteri
(KGy)
a 5°C
responsabili Organolettici
(giorni)
…………………………………………………………….
0
0
7
Pseudomonas
putrido
1
85
14
Lactobacillus
e Pseudomonas
putrido
2
99
28
Lactobacillus
NO putrido
3
99
49
Lactobacillus
NO putrido
4
99.2
56
Lactobacillus
NO putrido
……………………………………………………………..
I% = Inattivazione microbica percentuale; Talteraz = Tempo di alterazione per magazzinaggio a 5°C.
Se dopo irraggiamento sotto vuoto (635 mm Hg) i filetti sono confezionati in film
permeabili all'ossigeno, la stabilità al magazzinaggio a 0.5°C, ridotta a 16 giorni
(3 KGy) e 22 giorni (4 KGy), è condizionata da Achromobacter e lieviti
(Trichosporon), che se non conferiscono odori di putrido, modificano comunque
l'accettabilità del prodotto. La stabilità della polpa di granchio (Cancer magister)
e delle ostriche (Crassostrea gigas) è aumentata di 2 - 6 volte con rispettivamente
1- 4 KGy e magazzinaggio a 7°C; in ogni caso, anche nel prodotto non irraggiato,
non sono le Pseudomonas a determinare l'alterazione ma gli Achromobacter.
160
La stabilizzazione del pollo fresco richiede dosi più elevate: a 25°C, il pollo si
altera in 1 giorno; irradiato con 7 KGy, si altera dopo 2 - 5 giorni. Risultati più
soddisfacenti si ottengono per magazzinaggio a 5°C : 5 KGy prolungano la
conservazione da 6 (senza irraggiamento) a 16 - 20 giorni; 7 KGy non aumentano
in modo importante (19 - 24 giorni) la stabilità a 5°C. Interessanti le osservazioni
condotte su pollo macinato, in relazione all'acquisizione di radioresistenza in
ceppi di patogeni, sottoposti a dosi ripetute di raggi gamma. Apparentemente, la
resistenza di Salmonella e stafilococchi ai primi 5 KGy è raddoppiata, da
trattamenti preliminari consistenti in 12 cicli di irraggiamento con 2.5 KGy.
RADURIZZAZIONE e Clostridium botulinum tipo E
La radurizzazione – detta anche rad- appertizzazione - del pesce comporta
un'analisi della potenziale pericolosità derivante dalla estesa contaminazione
(soprattutto in senso geografico) da Cl. botulinum tipo E, che è capace di
accrescersi e produrre tossina alle temperature di refrigerazione. La
contaminazione del pesce è endogena. Il Cl.botulinum può essere isolato dai
visceri dei pesci, nel 40 - 100% dei casi. I pesci possono essere quindi dei
portatori sani di Cl. botulinum E. L'origine del tipo E, come degli altri tipi, è
tellurica. La presenza di tale microrganismo può essere limitata, mediamente, a 1
spore/g.
La radioresistenza dei diversi ceppi di Cl. botulinum tipo E è compresa tra 0.75 e
1.60 KGy in tampone fosfato; valori più elevati sono stati ottenuti in subtrati
differenti, ma sono costantemente inferiori a quelli dei tipi A e B . Segner e
Schmidt hanno constatato che la "shoulder" iniziale può estendersi da 2.9 a 4.3
KGy (per magazzinaggio a 20°C) ed è pari a 2.5 KGy per incubazione a 8°C
(prove condotte in omogeneizzato di haddock); in tampone, sono stati ottenuti
valori compresi tra 1.3 e 3.0 KGy. I valori di D ricavati dalla porzione logaritmica
sono di 2.2 KGy per magazzinaggio a 20°C e 1.1 KGy per magazzinaggio a 8°C;
applicando il metodo di calcolo di Schmidt e Nank, D è uguale a 2.5 KGy; 6D si
ottengono con 15.6 e 8.10 KGy, rispettivamente, a seconda della temperatura di
magazzinaggio successiva all'irraggiamento (20°C, o 8°C).
I trattamenti applicati abitualmente ai prodotti della pesca (2 - 6 KGy) non sono
idonei quindi alla eliminazione delle spore del Cl. botulinum tipo E; le
temperature di refrigerazione (0,5 - 1°C) rivestono, in relazione con la potenziale
pericolosità di tali alimenti, una funzione pregiudiziale.
161
Nella Tabella di seguito sono riportate le dosi ritenute indispensabili per la
stabilizzazione (radappertizzazione) di diversi prodotti.
………………………………………………………………..
Temperatura, °C
D O S E
Prodotto d'irraggiamento
Mrad
kGy
…………………………………………………………
manzo
-30
4.7
47
manzo salato
-30
pollo
-30
4.5
45
prosciutto
-30
3.7
37
prosciutto salato -30
3.3
33
carne di maiale
5.1
51
-30
3.7
37
gamberetti
-30
3.7
37
merluzzo
-30
3.2
32
corned beef
-30
2.4
24
salsiccia porco
-30
2.7
27
manzo
-80
5.7
57
bacon
5-25
2.3
23
prosciutto
5-25
2.9
29
4.6
46
carne di maiale 5-25
……………………………………………………………….
162
D I S I N F E Z I O N E
STRUTTURE, IMPIANTI E IGIENE DI FABBRICA
STRUTTURE ESTERNE.
Le pareti esterne debbono essere prive di cavità o sporgenza, che possano
costituire ricettacoli adatti alla colonizzazione di insetti, roditori, uccelli.
Le superfici esterne debbono essere liscie, chiare, lavabili e facilmente
accessibili.
L'area circostante lo stabilimento deve essere di cemento o altro materiale
resistente ai danneggiamenti meccanici, per almeno 15-30 metri di distanza dalle
pareti esterne, con superficie liscia, lavabile, in pendenza verso fossette per la
raccolta delle acque.
Debbono essere previsti e chiaramente indicati i percorsi obbligati ai parcheggi
dei veicoli, i punti di stazionamento delle materie prime, dei prodotti finiti, dei
pallete, dei barili, ecc.
Si debbono prevedere strutture adeguate all'isolamento dei rifiuti, protette
dall’invasione degli insetti, dei roditori e degli uccelli. I rifiuti debbono essere
rimossi con la maggiore continuità possibile.
PARETI INTERNE.
Le pareti interne debbono essere a superficie liscia, chiara, lavabile. Tutte le
pareti debbono essere trattate con vernici antimuffa.
Le piastrelle di ceramica possono soddisfare le previste esigenze igieniche,
soprattutto se ricoperte con film plastici (PVC, poliuretani, epossidiche)
e le giunzioni ben colmate.
PAVIMENTI.
I pavimenti debbono essere resistenti ai materiali, alle strutture e alle condizioni
operative dei reparti, con superficie liscia ma non sdrucciolevole (si possono
reperire in commercio vernici anti-sdrucciolo); debbono essere facilmente
drenabili, provvisti di pozzetti in ceramica per lo scolamento delle acque,
possibilmente dislocati in prossimità delle pareti laterali ma ben separati dalle
stesse.
I pavimenti debbono formare con le pareti superfici ricurve (r = 10 cm
circa). Le piastrelle di ceramica sono adatte alla pavimentazione, purché siano
resistenti alle sollecitazioni meccaniche, fisiche e chimiche prevedibili, e le
giunzioni tra le singole unità siano colmate con cementi sintetici.
163
SOFFITTI.
I soffitti degli ambienti di lavorazione (le costruzioni ad un solo piano sono
preferibili ai fini dell'illuminazione, della ventilazione, della maggiore
flessibilità nella disposizione delle linee di lavorazione; per la mancanza di
pilastri di sostegno, ecc.) debbono possedere le stesse caratteristiche delle pareti
interne (di colore chiaro, lisci, lavabili), essere sicuramente isolati dal sottotetto
(ispezionabile e mantenuto in adeguate condizioni igieniche) o dal tetto.
ILLUMINAZIONE.
L'illuminazione è particolarmente importante per il controllo delle condizioni
igieniche delle strutture e degli impianti. Una buona illuminazione è premessa
indispensabile ad una corretta condizione igienica dello stabilimento.
L'illuminazione artificiale può accoppiarsi o sostituirsi completamente a quella
naturale, con notevoli vantaggi tra i quali prevalgono l'assenza di finestre, la
possibilità di mantenere livelli di illuminazione costante, la necessaria
installazione di impianti di termo-igro-regolazione, con aria filtrata e
sovrapressione interna.
I tubi al neon da preferire alle lampade a filamento, per la qualità della luce. La
luminosità deve essere di almeno 10-20 lumen per metro quadrato. Le sorgenti
debbono essere:
A - installate in alloggiamenti interni alle pareti e/o ai soffitti, privi di
strutture colonizzabili dagli insetti e facilmente sanificabili;
B - schermate per evitare la diffusione di vetro per rotture occasionali;
C - disposte in modo da non lasciare zone d'ombra, non abbagliare gli
operatori, non determinare contrasti eccessivi da illuminazione differenziale
localizzata.
VENTILAZIONE.
Le zone di lavorazione debbono essere confortevoli.
Le finestre e i ventilatori debbono essere schermati per evitare l'accesso degli
insetti. Le porte non debbono essere usate come aeratori e debbono operare
automaticamente; dovrebbero essere protette con lampade a luce ultravioletta
germicida e, a terra, con fossette contenenti disinfettante.
Il condizionamento di tutto lo stabilimento è la soluzione ideale. In ogni caso il
flusso dell'aria deve avere direzione opposta a quella del prodotto.
SERVIZI ACCESSORI.
In ogni reparto debbono essere dislocate attrezzature idonee al lavaggiodisinfezione delle mani degli operatori. Il numero dei servizi igienici deve essere
di almeno 1 ogni 10-20 operatori, in ogni reparto; i servizi debbono essere
provvisti di doppie porte, massima illuminazione, lampade U.V. germicide,
dispositivi di erogazione a pedale, corredo di sapone-disinfettante e carta per
l'asciugatura (evitare dispositivi ad aria o tessuti), pareti e pavimenti di colore
164
chiaro, lisci, non sdrucciolevoli, senza sovrapressione interna, ma provvisti di
aspiratori.
E' opportuno predisporre dispositivi per la cattura degli insetti (sono
particolarmente efficaci quelli elettrici).
ATTREZZATURE E IMPIANTI.
Tutte le attrezzature e gli impianti debbono essere in materiali resistenti alle
sollecitazioni fisiche e chimiche previste dalle lavorazioni e comunque,
preferibilmente, in acciaio inossidabile, alluminio o materiali plastici, con
superfici liscie e angoli arrotondati. Deve essere evitato nella misura del possibile
l'impiego di materiali di rame, legno o comunque facilmente soggetti ad usare.
Le apparecchiature debbono essere opportunamente separate, distanti dal
pavimento e dalle pareti quanto basta per un'agevole ispezione, lavaggio e
disinfezione.
Le condutture debbono essere ben separate, identificabili facilmente e
agevolmente ispezionabili (possibilmente non a soffitto) e lavabili, di colore
chiaro.
I diversi stadi delle linee di lavorazione debbono essere linearmente consecutivi.
Il contatto tra operatori e prodotti deve essere limitatissimo. Quando è
indispensabile, gli operatori debbono essere in grado di lavorare con il maggiore
confort possibile (spazio, illuminazione, temperatura, prossimità degli attrezzi
necessari e dei servizi di linea, ecc.).
La meccanizzazione di tutte le operazioni è auspicabile.
La disponibilità di acqua, vapore e disinfettante lungo le linee è da ritenersi
essenziale.
LAVAGGIO E DISINFEZIONE DEGLI IMPIANTI.
Con il lavaggio e la disinfezione degli impianti ci si deve proporre di eliminare
più del 99% della contaminazione e comunque di ottenere superfici
2
contaminate al massimo con 1 microrganismo per cm .
Il lavaggio con acqua potabile ha lo scopo di rimuovere la sostanza organica
depositata sugli impianti e facilitare le successive operazioni di pulitura e
disinfezione. Poiché la maggior parte delle spore batteriche è inattivata
efficientemente solo a temperature prossime a 100°C o a temperature inferiori
solo in presenza di disinfettanti (cloro, iodio, ecc.), l'impiego di vapore deve
sempre essere preferito, quando possibile. La sterilizzazione chimica può
essere sufficiente, se condotta correttamente, e più economica.
165
DISINFETTANTI
Si può ritenere che la totalità dei composti chimici, a concentrazione
sufficientemente elevata (>1 molare), sia in grado di esercitare un' azione letale
nei confronti delle cellule microbiche vegetative. Solo un numero relativamente
più ristretto è peraltro in grado di farlo anche a basse concentrazioni (≤ mg/L). È
a questo secondo gruppo di agenti chimici che viene affidato il processo della
disinfezione.
Tuttavia, a concentrazione sufficientemente ridotta (0.01, 0.001 mg/L), qualunque
composto chimico perde le proprietà microbicide.
La curva che descrive la probabilità di sopravvivenza Nc/No in funzione di una
concentrazione crescente di disinfettante è dunque di tipo sigmoidale, in
coordinate semilogaritmiche. È necessario infatti che si raggiunga una
determinata concentrazione - quella letale appunto - perché la probabilità di
sopravvivenza microbica cominci a diminuire (da cui la spalla alla curva
d'inattivazione); quindi, alle concentrazioni letali, la probabilità di morte aumenta
all' aumentare della concentrazione (fase esponenziale decrescente della curva);
infine, aumentando ulteriormente la concentrazione, la probabilità di morte
rimane pressoché‚ costante (coda, alla curva di sopravvivenza). Questa ultima
fase della curva di sopravvivenza ad agenti chimici letali è giustificata sulla base
dell'ipotesi che per essere attivo un composto debba comunque raggiungere il sito
sensibile (alla superficie o all'interno della cellula) e ivi raggiungere la
concentrazione efficace. La velocità di tale processo sarebbe determinata più dalla
velocità di assorbimento della sostanza al sito sensibile, piuttosto che dalla
concentrazione della sostanza attiva.
Ci si può peraltro aspettare che tali considerazioni valgano soprattutto per i
composti il cui sito attivo è situato all'interno della cellula microbica, piuttosto
che alla superficie.
Ne deriva comunque che la probabilità di inattivare i microrganismi è
strettamente connessa – ovviamente - alla concentrazione dell'agente letale
(l’aumento di concentrazione dell’agente letale ha un effetto equivalente, in una
certa misura, ad un aumento di temperatura) .
Il tempo di contatto tra agente letale e microrganismi è il secondo fattore più
rilevante del processo disinfettivo. Si può immaginare che per tempi di contatto
sufficientemente brevi nessun agente chimico possa dimostrarsi letale poiché
non ha il tempo di "accumularsi" al centro sensibile della cellula.
I tempi di contatto efficaci diminuiscono all'aumentare della concentrazione
dell'agente letale, ma non indefinitamente, come si è visto sopra. Sono
considerate efficaci efficaci quelle concentrazioni di disinfettante alle quali
l'effetto microbicida è rilevabile in tempi di contatto piuttosto brevi (secondi,
minuti).
166
L'attività letale della maggior parte dei disinfettanti diminuisce in proporzione
alla quantità di materiale organico presente nell'ambiente. In generale, i composti
organici o inorganici impiegati per la disinfezione sono energici ossidanti, in
grado di agire direttamente con le molecole proteiche (soprattutto, ma anche con
gli acidi nucleici e altri polimeri organici) e determinarne modificazioni tali da
comprometterne la funzionalità.
Ne deriva quindi, che il meccanismo principale al quale si attribuisce l'effetto
letale della disinfezione è più spesso associato alla denaturazione proteica,
intendendo appunto con denaturazione una modificazione in senso non più
funzionale di un certo numero e tipo di molecole enzimatiche o strutturali.
La diminuzione di attività microbicida che si verifica in presenza di sostanza
organica (sporcizia), può derivare anche da fenomeni fisici di adsorbimento, che
portano ad una riduzione della concentrazione ambientale e/o locale di
disinfettante; e inoltre da inglobamento/rivestimento protettivo delle particelle
microbiche da parte del materiale organico, con conseguente riduzione della
possibilità che l'agente letale riesca a raggiungere i microrganismi, prima di
inattivarsi quanto basta, reagendo con la sostanza che li scherma, e comunque per
l'impossibilità che in prossimità della particella si raggiungano concentrazioni
efficaci di disinfettante.
Generalmente, la diminuzione dell'attività microbicida di un disinfettante è tanto
più pronunciata, quanto maggiore è la concentrazione di sostanza organica
nell'ambiente.
Si ritiene comunemente che la concentrazione dei microrganismi nel mezzo da
disinfettare non sia eccessivamente rilevante ai fini dell'efficacia del trattamento,
impiegando concentrazioni sufficientemenete elevate di disinfettante, poiché ci si
aspetta che in tali condizioni la cinetica d'inattivazione sia esponenziale.
In realtà si è riscontrato in numerose occasioni che il fenomeno della disinfezione
tende a fallire con maggiore frequenza quando la concentrazione cellulare
nell'ambiente è relativamente modesta. In tal caso si originano le code alle curve
di sopravvivenza, dovute appunto alla mancanza di inattivazione al crescere del
tempo di contatto microrganismi+disinfettante.
Una teoria della disinfezione che tenga conto adeguatamente di tutti i fenomeni
coinvolti, non è ancora stata formulata. Nella descrizione del fenomeno, si fa
costantemente riferimento alla cinetica di inattivazione esponenziale.
Secondo tale modello, la relazione tra probabilità di sopravvivenza Nt/No e
tempo t di contatto tra una determinata concentrazione di disinfettante C e la
popolazione microbica iniziale No (al tempo zero, t = 0, N = No), è data da:
Nt/No = exp (- kt * t)
(142)
In cui kt è la costante di velocità del processo di disinfezione. Il valore di kt
aumenta all'aumentare della concentrazione, secondo una relazione del tipo:
kt = Bt * e(kc * C)
(143)
167
Generalmente, al posto delle (142) e (143) si impiegano, facendo riferimento alle
potenze di 10, le corrispondenti:
Nt/No = 10(-kt * t)
kt = Bt * 10(kc * C)
(144)
(145)
dalle quali si ottengono direttamente i due parametri di riferimento di particolare
utilità, costituiti dal tempo di contatto :
D10 = 1/kt
(146)
che rappresenta il tempo necessario perché la concentrazione C di disinfettante
determini la distruzione del 90% della popolazione microbica, e:
C10 = 1/kc
(147)
che rappresenta la concentrazione di disinfettante capace di determinare una
variazione di 10 volte nella velocità di inattivazione.
Combinando le relazioni (144 - 147), si ottiene:
Nt/No = e(- t * [B*exp(kc*C)])
(148)
Ln(Nt/No)= - t * [B*exp(kc*C)]
(149)
Nt/No = 10(- t * [B'*10(kc'*C)]
(150)
Log (Nt/No) = - t * [B'*10(kc*C)]
(151)
e quindi:
ed anche:
da cui:
Quando si espone una popolazione microbica No a dosi crescenti di un agente
chimico letale e si rileva il livello di sopravvivenza Nd dopo un tempo fisso di
trattamento (1, 10 min), si ottengono curve d'azione descritte da relazioni del tipo:
Nd / No = e(-kd *Dt)
(152)
in cui Dt è la dose applicata per il tempo t, e da cui si ottiene:
Nd / No = 10(-kd' * Dt)
(153)
168
e quindi:
D10 = 1/kd'
(154)
che rappresenta la concentrazione di disinfettante capace di determinare una
variazione di dieci volte nella probabilità di sopravvivenza dei microrganismi
trattati per t minuti con il disinfettante.
Si ritiene generalmente che kt, kc e kd aumentino tutti all'aumentare della
temperatura, secondo la relazione di Arrhenius, cosicché:
kt,c,d = F * exp (-Ea /R*T)
(155)
dove il fattore di frequenza F è in relazione al tipo di k. Cosicché la (D5') diviene:
Ln(Nt/No) = -t*[B*e(C*(F*exp(-Ea/R*T)))]
(156)
Più spesso, al posto della (156) si impiega la seguente relazione tra la temperatura
e il tempo di riduzione decimale ad una concentrazione definita C di disinfettante:
Log DT = Log DTr - T/z
(157)
così come fra temperatura e concentrazione di riduzione decimale C10 per un
tempo di azione determinato, si impiega la seguente:
Log C10 = Log C10r - T/z
(158)
o, ugualmente:
Log DT = Log DTr - 0.1*T*Log Q10
(159)
Log C10,T = Log C10,Tr - 0.1*T*Log Q10
(160)
e
dalle quali si ricavano agevolmente i valori di z e Q10.
In realtà le relazioni (157-160) dovrebbero interpretare i risultati ottenibili a
temperature T inferiori a 45°C circa nella inattivazione delle cellule vegetative, e
inferiori a circa 100°C per le spore.
A temperature superiori, l'effetto letale proprio del disinfettante si aggiungerebbe
all'effetto letale della sola temperatura.
169
Vi sono comunque pochissime relazioni del tipo (157-160) in letteratura, e quindi
pochi valori di ‘z’ e/o di Q10. Sarebbe invece estremamente interessante
conoscere i valori di Ea, di z e/o di Q10 per i diversi disinfettanti, in modo da
poter scegliere il composto più adatto, in funzione delle condizioni (temperatura,
soprattutto) di impiego.
Le osservazioni condotte con cloro, iodio, acqua ossigenata, formaldeide,
glutaraldeide, º-propiolattone o ossido d'etilene, forniscono valori do Q10
compresi tra 1.6 e 3.3 (quindi valori di z compresi tra circa 20 e 50), per
temperature comprese tra - 10 e +95°C. Ne derivano energie d'attivazione di
Arrhenius comprese tra circa 10 e 27 Kcal / mole. Per trattamento dell'E. coli con
fenolo, a temperature comprese tra 30 e 42°C, sono riportati valori di Ea pari a 52
kcal/mole, corrispondenti ad uno zeta di 8.4°C (Q10 = 15.5). Valori di Q10 = 10
sono stati ottenuti con spore inattivate da acido peracetico, in un ampio intervallo
di temperatura.
Alogeni. Cloro, iodio e bromo sono gli alogeni impiegati più estesamente a
scopo microbicida.
CLORO.
Cloro gassoso (Cl2), ipoclorito di sodio o ipoclorito di calcio, in soluzione
acquosa danno:
+
Cl2 + H2O = HOCl + H + Cl
-
NaOCl + H2O = HOCl + NaOH
Ca(OCl)2 + H2O = 2 HOCl + Ca(OH)2
L'acido ipocloroso può dissociarsi:
+
HOCl = H + OCl
-
in relazione al pH, alla temperatura e alla forza ionica del mezzo. A basso pH
-
predomina HOCl; ad alto pH, OCl .
L'effetto letale del cloro è maggiore a pH basso. È probabile quindi che l'acido
ipocloroso sia la molecola attiva.
Il biossido di cloro non idrolizza in soluzione acquosa.
Le cellule microbiche vegetative sono particolarmente sensibili al cloro, e
inattivate in pochi secondi di contatto con 0.5 ppm di cloro libero. Le spore
richiedono concentrazioni 10-100 volte superiori e anche tempi di contatto
maggiori.
170
Per le cellule microbiche vegetative sospese in una soluzione contenente cloro
attivo (FAC), il tempo necessario per l'inattivazione del 90% delle particelle (D) è
dato approssimativamente da:
Log Dv = - 0.93 - Log (FAC)
(161)
dove Dv è espresso in secondi e FAC in mg/L.
Le spore batteriche sono più resistenti. Per i Bacillus mesofili più sensibili la
velocità d'inattivazione è prossima a :
Log Dbs = 2 - Log (FAC)
(162)
dove Dbs è espresso in minuti di contatto con la concentrazione FAC di cloro.
Per i Clostridi mesofili:
Log Dcs = 0.97 - Log (FAC)
(163)
Il tempo di riduzione decimale delle spore di Cl. botulinum dei tipi A, B (p, np),
C, E, F (p, np) a contatto con 4.5 ppm di cloro attivo, a pH 6.5, a 25°C, è
compreso tra 0.8 e 3 minuti.
I Bacillus e i Clostridium termofili, del tipo B. stearothermophilus e Cl.
thermosaccharolyticum, non sono aggredibili efficacemente con il cloro, a
temperature inferiori a 60°C.
L'attività microbicida del cloro aumenta con la temperatura, con zeta prossimi a
25°C. Per i Bacillus mesofili, la velocità d'inattivazione tende ad aumentare con la
temperatura secondo la relazione:
Log DT = Log DTr +(Tr - T)/25
(164)
quindi Q10 = 2.5 ed Ea = 17 377 cal/mole.
In ambienti contenenti sostanza organica, soprattutto azotata, ioni ferrosi o
manganosi, nitriti, idrogeno solforato, l'attività microbicida del cloro diminuisce
significativamente. Il cloro che ha reagito con materiale inorganico (e parte di
quello che ha reagito con sostanza organica) è privo di attività microbicida.
Quindi, la semplice addizione di cloro ad un'acqua contaminata non ne assicura la
disinfezione e/o potabilizzazione.
Aggiungendo quantità crescenti di cloro ad una soluzione contenente sostanza
azotata, dapprima il cloro si lega labilmente con l'ammoniaca formando monocloro-ammine. A concentrazioni maggiori si lega più stabilmente, cosicché la
concentrazione di cloro libero diminuisce all'aumentare del cloro aggiunto, e si
171
formano di-cloro-ammine maleodoranti. Quindi, quando il rapporto molare tra
ammoniaca e cloro è di 1:2, vale a dire in corrispondenza del cosiddetto "breakpoint", non si avvertono più l'odore di cloro o di cloro-ammine, né è rilevabile
analiticamente l'ammoniaca, né il cloro.
Solo a concentrazioni di cloro superiori al break-point, la soluzione si
comporta come acqua pura, e tutto il cloro aggiunto è libero e quindi
utilizzabile per i processi disinfettivi.
Nell'applicazione pratica della tecnica del break-point occorre tener
conto che l'ossidazione dei componenti azotati non è istantanea, ed è
quindi opportuno lasciare che trascorra qualche tempo (generalmente
almeno 30 minuti) prima di considerare concluso il processo. Va anche
ricordato che oltre il break-point agiranno da microbicide anche
alcune cloramine formatesi durante il processo. Quindi, oltre il breakpoint, anche pochi ppm di cloro libero, o addirittura frazioni di ppm,
offrono garanzie sufficienti. Nel processo di clorazione dell’acqua
impiegata industrialmente (e comunque di potabilizzazione), si
dovrebbe sempre tener conto di questi fenomeni. Aggiungere
semplicemente cloro ad un'acqua, senza stabilire se si è superato il
break-point, non è di alcuna garanzia né di avvenuta potabilizzazione,
né di capacità disinfettante residua.
Il biossido di cloro è più efficace dell'ipoclorito e utilizzabile anche ad alto pH.
FATTORI CHE CONDIZIONANO L'EFFICACIA BATTERICIDA
CLORO
DEL
1 - pH - Poiché la specie attiva è l'acido ipocloroso indissociato, come si è
ripetutamente costatato in soluzioni con cloro gassoso, ipocloriti e cloramine,
l'attività battericida è tanto maggiore quanto minore è il pH.
2 - Concentrazione - Si può ritenere che in generale l'attività aumenti con la
concentrazione di cloro libero; ma mentre aumentando la concentrazione di
cloro disponibile nella soluzione impiegando cloro gassoso il pH diminuisce,
+
Cl2 + H2O → HOCl + H + Cl
-
impiegando ipoclorito o cloramine alcaline, il pH della soluzione aumenta e
l'attività diminuisce:
+
-
NaOCl + H2O → Na + OH + HOCl
172
3 - Temperatura - In generale, il tempo di trattamento necessario per ottenere
una definita inattivazione percentuale, in presenza di una definita concentrazione
di cloro residuo, diminuisce del 60% circa per un aumento di 10°C nella
temperatura di trattamento.
Occorre tener conto peraltro, che la solubilità del cloro gassoso in acqua decresce
all'aumentare della temperatura; cosicché, se l'acqua non ha un contenuto
sufficientemente elevato di sostanze azotate, tale da portare alla formazione di
cloramine, l'efficacia battericida delle soluzioni effettuate con cloro gassoso
diminuisce all'aumentare della temperatura. Le cloramine sono piuttosto stabili
anche a temperature elevate, come pure le soluzioni da ipoclorito.
4 - Sostanza organica - Zuccheri e amidi non modificano l'attività battericida
delle soluzioni di ipoclorito; ma residui di tessuti animali o vegetali, albumina,
amminoacidi, la riducono notevolmente. Naturalmente tale riduzione di attività è
tanto più importante quanto minore è la concentrazione di ipoclorito.
IODIO.
Lo iodio è un battericida veramente molto potente. La concentrazione attiva a
temperatura ambiente nei confronti delle spore di B. stearothermophilus è circa
40 volte inferiore a quella del cloro. Spesso si indica invece il cloro come più
sporicida dello iodio; tale discordanza è dovuta alla tecnica di valutazione
dell'attività sporicida: se dopo il trattamento con l' alogeno la sospensione è
trattata con tiosolfato, il cloro risulta più attivo.
Sia il cloro che lo iodio sono impiegati comunque soprattutto per inattivare la
flora microbica vegetativa, a temperatura ambiente: in tali condizioni,
concentrazioni paragonabili dei due alogeni, determinano un analogo grado
d'inattivazione. Attivo come iodio elementare, come soluzione acquosa (massima
concentrazione 0.03%), assieme a ioduro di potassio, o come soluzione alcolica
(21% di I2 circa) e in altre forme, lo iodio è impiegato più diffusamente, come
disinfettante industriale, in forma di iodoforo, miscela di iodio con tensioattivi
non ionici e con alchil-fenolo-poliglicol-eteri. Essendo un ossidante meno
aspecifico del cloro, lo iodio è inattivato in misura minore dalla sostanza organica
dell'ambiente di disinfezione. Le soluzioni sono tanto più colorate in bruno-viola
quanto maggiore è la concentrazione dell'alogeno, ma solo a concentrazioni
superiori a circa 6 ppm di iodio libero, ciò che ne riduce drasticamente l'interesse
pratico. Non pigmenta le sostanze amidacee, almeno alle basse concentrazioni
d'impiego.
La sensibilità dei lieviti allo iodio è circa 5 volte maggiore di quella delle cellule
vegetative batteriche, che a sua volta è circa 30 volte superiore a quella delle
spore dei Clostridium, che è circa 5 - 30 volte superiore a quella delle spore dei
Bacillus. Le dosi di iodio attivo necessarie per ottenere una riduzione decimale in
un minuto di contatto sono quindi, all'incirca: 0.5, 2.5, 80, 400-2000 ppm,
rispettivamente, per i diversi gruppi microbici indicati. Alla scarsa attività nei
confronti delle spore si può ovviare aumentando la temperatura del trattamento di
173
disinfezione. Si è osservato, infatti, che le concentrazioni di riduzione decimale
cambiano con la temperatura di trattamento, con uno z = 35°C circa (Q10 = 1.9;
Ea = 12 987 cal / mole); quindi, a temperature prossime a 100°C bastano pochi
ppm di iodio attivo per inattivare il 90% delle spore più resistenti.
È vero che innalzando la temperatura delle soluzioni disinfettanti, le
concentrazioni degli alogeni diminuiscono per effetto dell'evaporazione; ma
l'aumento della attività sporicida compensa ampiamente tale fenomeno.
BROMO.
Il bromo è certamente l'alogeno provvisto della più elevata capacità
sporicida soprattutto a temperatura ambiente. Ma è pochissimo impiegato
nella pratica. La dose di riduzione decimale in un minuto nei confronti delle spore
batteriche trattate a temperatura ambiente è intorno a 125 ppm.
Aggiunto al cloro o allo iodio, ne aumenta sensibilmente l'attività disinfettante.
PEROSSIDO D'IDROGENO.
A basse concentrazioni l'acqua ossigenata (HP) è attiva nei confronti delle cellule
microbiche vegetative. Solo a concentrazioni relativamente molto elevate (intorno
al 35%) è attiva nei confronti delle spore batteriche.
Per il B. stearothermophilus vale una relazione del tipo:
Log D = 1.7 - 1.3 * Log (% HP)
(165)
in cui D è il tempo di riduzione decimale in minuti, per trattamento a temperatura
ambiente.
All'aumentare della temperatura, l'attività sporicida del HP aumenta, con z
prossimo a 40°C (Q10 = 1.5-2.5).
ACIDI.
La maggior parte dei microrganismi è incapace di sopravvivere a lungo in
ambiente acido. La velocità di inattivazione aumenta al diminuire del pH
(all’aumentare della concentrazione dell’acido). In ambienti con pH inferiore a
3.8, la velocità di inattivazione delle cellule vegetative, nDv, aumenta di dieci
volte ogni circa 0.3 unità di pH:
nDv = 12.2 - 3.13 * pH
(166)
e quella delle spore, nDs, ogni unità di pH all'incirca:
nDs = 4.06 - 1.04 * pH
(167)
174
La velocità di inattivazione inoltre aumenta all'aumentare del pK dell'acido
prevalente nel mezzo. Più attivi in ordine crescente sono il malico (pK 3.4), il
lattico (pK 3.86), l'acetico (pK 4.75), il propionico (pK 4.87), ecc.
L'acido citrico (pK 3.08), l'acido più diffuso nella frutta, è attivo quanto l'acido
cloridrico; per entrambi, l'attività microbicida è quasi esclusivamente dovuta alla
concentrazione di idrogenioni (quindi, al pH).
ALCALI.
È noto che anche in ambiente alcalino i microrganismi sono inattivati con
probabilità crescente all'aumentare del pH.
Gran parte delle osservazioni sono state condotte con soda. Si ritiene
generalmente che una soluzione di soda allo 0.5% abbia pressoché la stessa
attività microbicida di una soluzione di ipoclorito a 100 ppm.
Tuttavia, la letteratura sull'argomento è scarsa.
COMPOSTI DELL'AMMONIO QUATERNARIO.
La formula generale dei composti dell'ammonio quaternario o QUATS è la
seguente:
_
_
|
R2
|
|
|
|
| R1 - N - R3 | - X
|
|
|
|_
R4 _|
dove R1, R2, R3 e R4 sono radicali organici di vario tipo, da -CH3 a C18H37 o
gruppi fenilici; X è un anione di tipo Cl, Br, CH3COO , ecc.
I QUATS sono microbicidi meno potenti degli alogeni, ma sono anche meno
sensibili al pH e alla sostanza organica, e sono meno tossici.
I gram-positivi sono generalmente più sensibili degli altri microrganismi: La Dc a
25°C è prossima a 5 ppm; i gram negativi richiedono una dose circa 6 volte
superiore. I virus con involucri esterni lipofili (Herpes simplex, Vaccinico, V.
influenzale, Adenovirus) sono sensibili, mentre poco lo sono quelli con maggiori
caratteristiche idrofiliche (Enterovirus, ECHOvirus, Coxackie virus, etc.).
I Quats sono poco efficaci nei confronti delle muffe.
Particolarmente diffuso ed efficace è il benzalkonio-cloruro, alla dose di 0.001 0.2% .
Altri Quats sono la cetrimide, il cloruro di cetil-piridinio, il cloruro di benzetonio.
I Quats sono incompatibili con i tensioattivi non-ionici, quelli anionici e con i
fosfolipidi (lecitina, etc.).
175
Il sodio-lauril-solfato è il più diffuso tensioattivo anionico; buon detergente,
pressoché privo di attività disinfettante, salvo nei confronti dei gram-negativi (ma
solo ad elevata concentrazione).
Sono tensioattivi non-ionici i Tweens (polisorbati), che di per se soli sono
inattivi come microbicidi.
Tra i più noti composti anfolitici con carattere misto anionico-cationico vi è il
Tego, dodecil-di(aminoetil)-glicina. Inattivo a temperatura ambiente nei
confronti delle spore (B. stearothermophilus) è rapidamente (in 5 minuti di
contatto) attivo invece a temperature più elevate:
nD = - 5.87 + 0.083 *T
(168)
dove T è in °C, e da cui si ha che z=12°C (Q10=6.8; e Ea = 48 820 cal/mole).
Questo basso valore di zeta lo candida come disinfettante da usare più
vantaggiosamente ad alte temperature.
Nei confronti delle cellule vegetative, è attivo anche a temperatura ambiente.
GLUTARALDEIDE.
L'aldeide glutarica:
O
O
||
||
HC-CH2-CH2-CH2-CH
è molto reattiva nei confronti delle proteine, soprattutto con l'aumentare del pH
da 4 a 9. In soluzione alcalina la glutaraldeide (al 2%) è in grado di inattivare
anche le spore batteriche, in 10 ore di contatto a temperatura ambiente.
A concentrazioni minori (0.01-0.02%) è attiva, quasi esclusivamente in soluzioni
alcaline (pH 8) sia su cellule vegetative, sia virus, sia miceti.
Non danneggia metalli, vetri e gomme.
ETANOLO.
Soluzioni di etanolo al 60-80% sono rapidamente letali nei confronti della
generalità delle cellule vegetative.
L'attività aumenta all'aumentare del pH. L'etanolo è completamente inattivo nei
confronti delle spore batteriche.
A concentrazione inferiore al 30%, è inattivo anche nei confronti delle cellule
vegetative.
176
METALLI PESANTI.
L'impiego di argento, rame e mercurio, metallici o in derivati organici, è
sempre meno frequente. Pare che un tempo venissero utilizzati recipienti di rame
o argento, con modalità che potrebbero essere riferite in qualche modo ad un
accreditamento del cosiddetto effetto oligodinamico, un processo di disinfezione
che sarebbe determi
nato da concentrazioni di ioni argento pari a 0.01-0.1 ppm.
Il nitrato d'argento promuove la precipitazione delle proteine (è un reattivo
specifico dei gruppi -SH) e come tale ci si può aspettare che sia provvisto di
azione microbicida, almeno nei confronti delle cellule vegetative (molti enzimi
non sono più funzionali se i loro gruppi -SH sono ossidati). È probabile che ad
alta temperatura sia attivo anche sulle spore. L'argento metallico è l'elemento
base del processo "katadin" di sanificazione di liquidi.
Il rame e suoi derivati organici e inorganici, sono considerati efficaci algicidi e
fungicidi, già a concentrazioni di 0.5 - 3 ppm.
OPERAZIONI DI DECONTAMINAZIONE
DEGLI IMPIANTI
Il controllo e la selezione di materie prime di elevata qualità e il loro
magazzinaggio in condizioni tali da preservarne quanto possibile le
caratteristiche originali, sono pratiche che possono essere completamente
vanificate da impianti di trasformazione in scadenti condizioni igieniche.
Una superficie si considera contaminata se vi aderiscono sostanze proteiche,
carboidrati, grassi o oli, frammenti di prodotto, depositi minerali, ecc. Tali
superfici sono un richiamo per gli insetti e un substrato per lo sviluppo dei
microrganismi.
Una superficie si "contamina" per un processo essenzialmente spontaneo, che
avviene con una diminuzione dell'energia libera del sistema, ¤G (e che può
essere rappresentato sostanzialmente da:particelle libere → particelle depositate
su una struttura -- energia):
¤G = (¤H – T¤S)
(168)
177
Per invertire il processo col quale una superficie si contamina, ossia per
"pulire" una superficie, occorre quindi fornire energia al sistema. Tale
energia Ea è solitamente meccanica (spazzole, abrasivi) e/o termica. I detergenti
sono molto utili nel processo di decontaminazione, perché modificano la quantità
di energia (lavoro) che occorre somministrare al sistema per invertire il processo
di insudiciamento.
Processo fisico-chimico della contaminazione.
Si può ragionevolmente ritenere che almeno parte dello stato di minore energia
delle particelle sedimentate possa essere attribuita all'attrazione tra particella e
substrato. I sistemi caratterizzati così da maggiori forze di attrazione (fisiche
e/o chimiche) si contaminano più facilmente.
In effetti, alla superficie di un materiale qualsiasi, gli atomi e le molecole esposte
hanno valenze e altre forze di attrazione che sono meno completamente
soddisfatte di quelle degli atomi e delle molecole situate "dentro" il materiale.
Queste forze attraggono, vincolano, in misura diversa, sostanze differenti, per
un fenomeno detto "adsorbimento", di origine fisica (forze di Van Der Waals) o
di natura chimica. Quando una particella si approssima ad un substrato, le
molecole che più vi si avvicinano (il primo strato molecolare) probabilmente sono
polarizzate dai movimenti elettronici del substrato e dal campo elettrico che va
modificandosi. La polarizzazione del primo strato molecolare induce una
polarizzazione di segno opposto, e minore, sullo strato successivo, e così di
seguito, coinvolgendo diversi strati; il primo strato comunque rimane legato più
tenacemente dei successivi, e tale tenacia dipende dal tipo di substrato e di
particella: quanto più il primo è in grado di indurre polarizzazione nelle seconde,
quanto più la particella si polarizza in risposta al campo del substrato. I bordi, gli
angoli, e comunque le zone che hanno subito abrasioni di recente, hanno
maggiore potere adsorbente, probabilmente perché relativamente più ricche di
strutture ioniche non soddisfatte.
Decontaminazione
Fondamentalmente, (Harris, 1979) "… nel processo di decontaminazione, ha
luogo la solubilizzazione delle sostanze suscettibili,segue l'emulsificazione della
contaminazione liquida, e i solidi sono sospesi di modo che il processo di
risciaquo li trascini via.”
I processi di "decontaminazione" consistono principalmente di tre fasi:
a - separazione dei contaminanti dalla superficie,
178
b - dispersione dei contaminanti in un mezzo detergente,
c - prevenzione della rideposizione dei contaminanti sulla superficie.
Le tre fasi comportano fenomeni meccanici, fisici e chimici.
L'applicazione di una spazzola è un esempio di azione meccanica, ma lo è anche
l'erosione che si attua con la circolazione di un liquido alla sua superficie. La
dissoluzione operata da un solvente (solubilizzazione di residui zuccherini con
acqua) e l'azione bagnante di un tensioattivo sono esempi di azione fisica. La
formazione di ioni complessi mediante polifosfati e l'azione chelante sono esempi
di reattività chimica.
La contaminazione costituita da sostanze facilmente solubili in acqua (zuccheri,
ad es.) può essere rimossa semplicemente per solubilizzazione; quella costituita
da materiali non completamente solubili in acqua, richiede processi di rimozione
diversificati.
Generalmente le soluzioni detergenti contengono tensioattivi. Tali composti si
combinano col materiale contaminante e col substrato, determinando la
dissoluzione del deposito. In ogni caso la composizione della soluzione
detergente può favorire decisamente il processo di rimozione, ma non è
dissociabile, perché il trattamento abbia l'efficacia richiesta, dall'impiego di
energia meccanica fornita sotto forma di turbolenza attuata con la circolazione,
getti d'aria e di soluzione sotto pressione, azione pulente di spazzole, ultrasuoni,
ecc.
Il processo di detersione richiede la disintegrazione del materiale depositato sulle
strutture, con la formazione di una dispersione di particelle minute da trasportare
via con la soluzione detergente.
Jennings (1965) richiama l'attenzione sulla relazione tra volume e superficie delle
particelle, in relazione alle loro dimensioni. Una particella sferica di 1 cm di
3
diametro (olio, o altro materiale insolubile) ha un volume di 0,524 cm e
2
un'area superficiale di 3,14 cm , con la suddivisione di tale particelle in altre con
3
diametro di 0,1 cm, si otterranno 1000 particelle con un volume di 0.000524 cm
2
2
e con un'area di 0,0314 cm , per una superficie totale di 31,4 cm , ovviamente;
6
se poi si ottengono particelle con diametro pari 0,01 cm, si avranno 10 particelle
2
con un'area complessiva di 314 cm . Suddividendo quindi una particella di
materiale si è aumentata grandemente l'interfaccia particella-acqua, cosicché
l'energia libera totale superficiale del sistema è aumentata. Tale energia deve
essere fornita al sistema, che diversamente riformerà minori aree interfacciali,
con una diminuzione della energia totale libera superficiale. Un livello
appropriato di agitazione potrà mantenere la condizione dispersa; in presenza
di un idoneo tensioattivo, l'energia necessaria per preservare la dispersione
potrà ridursi al 2-4 % di quella richiesta.
Una sospensione di materiale finemente disperso è caratterizzato dalla proprietà
di adsorbire ioni e molecole appropriate dalla soluzione. Con l'adsorbimento di
un tensioattivo ionico si ha la formazione di uno strato carico elettricamente alla
179
superficie della particella. Questo strato richiama dalla soluzione ioni di carica
opposta. Una frazione di questi ultimi, quelli più prossimi allo strato superficiale
della particella, sono certamente soggetti a restrizioni elettrocinetiche e si
muovono con la particella (doppio strato di Helmholtz).
L'influenza della carica superficiale della particella si fa risentire a distanza
superiore al diametro dei controioni, cosicché in prossimità del doppio strato vi
sarà una densità di ioni superiori a quella esistente all'interno della soluzione, e
tale densità diminuirà all'aumentare della distanza dalla superficie, fino a ridursi
a zero.
Questo terzo strato è costituito da ioni mobili; il potenziale che attraversa il
secondo e terzo strato è detto potenziale zeta. Esiste una precisa correlazione tra
sospendibilità particellare e potenziale zeta. Le particelle rimarrebbero sospese in
una soluzione per effetto delle cariche repulsive dei doppi strati ugualmente
carichi.
Il meccanismo di rimozione dei grassi da una superficie può essere configurato
come costituito da un processo di bagnatura preferenziale seguito da
emulsificazione. La soluzione acquosa di detergente sarebbe attratta dalla
superficie del substrato più di quanto non lo sia il grasso, che sarebbe così
rimosso; la porzione idrofobica delle molecole di tensioattivo si orienterebbero
verso il globulo di grasso, disciogliendovisi e lasciando i gruppi polari a contratto
con l'acqua.
Questa struttura idratata e carica attirerebbe controioni dalla soluzione, si
formerebbe un maggior strato di cariche che stabilizzerebbe l'emulsione e
impedirebbe la rideposizione sul substrato.
TENSIONE SUPERFICIALE
Si consideri un solido composto da molecolare sferiche strettamente aggregate.
Le molecole sono legate da una energia di coesione E/mole e φ = E/N per
molecola.
Ogni molecola è legata poniamo ad altre dodici, e la forza di legame sarà φ/12.
Se lo strato superficiale di molecole è anch'esso strettamente aggregato ogni
molecola superficiale è legata a nove molecole adiacenti, quindi l'energia totale
di legame di ognuna è pari a 9 = φ/12 = 3/4φ. Quindi ogni molecola superficiale
si può grossolanamente ritenere che sia legata per una quantità di energia che
è solo il 75% di quella coinvolta nei legami delle molecole all’interno del solido.
L'energia di una molecola superficiale è dunque maggiore di quella delle
molecole non superficiali.
Questo eccesso di energia delle molecole superficiali non ha una gran rilevanza
nei sistemi di dimensioni ordinari, poiché il numero di molecole superficiali è
una minima frazione del numero di molecole totali.
180
Si consideri un cubo con 1 cm di lato e il diametro delle molecole costitutive pari
-8
8
a 10 cm: su uno spigolo vi saranno dunque 10 molecole. Il numero totale di
8*3
24
molecole del cubo considerato sarà pari a 10 = 10 ; su ogni faccia del cubo, vi
8*2
16
saranno 10 = 10 molecole ed essendo sei le facce del cubo, alla superficie vi
16
16
saranno 6*10 molecole. La frazione delle molecole superficiali è pari a 6 *10
/ 1024 = 6 *10-8, ossia solo 6 molecole su 100 milioni di molecole, sono alla
superficie. Se non si è particolarmente interessati all'energia superficiale, le
carateristiche di tali molecole possono essere trascurate. Ma se il rapporto
superficie/volume è molto elevato, occorrerà prendere in considerazione l'energia
superficiale.
Poniamo che l'energia totale sia:
Etot = Ev * V + Es * S
(169)
in cui V e S sono rispettivamente il volume e la superficie, Ev ed Es l'energia
per unità di volume e di superficie, rispettivamente. Poiché Ev = φv + Nv, ed Es
= φs + Ns, essendo φ le energie per molecola, la relazione precedente può essere
indicata nella forma:
Etot = Ev * V ( 1+ Es*S/Ev * V)
(170)
e si avrà:
Etot = Ev * V [1+ (Ns *Es *S)/(Nv * Ev *V)]
(171)
Da quanto visto precedentemente, si può considerare il rapporto φs/φv ÷
-8
1, e il rapporto Ns/Nv ÷ 6 x 10 , cosicché:
-8
Etot = Ev * V [ 1 + 6*10 * S/V]
(172)
Se ci interessa sapere quale dimensione deve avere una particella di sostanza
perché, ad esempio, l'energia superficiale sia almeno l'1% dell'energia totale, si
può porre:
-8
0,01 = 6 * 10 * S/V
5
2
da cui S/V ÷ 2 * 10 . In un cubo di lato "a", la superficie totale sarà: 6* a , e il
3
2
3
5
volume: a , cosicché S/V = 6 a / a = 6/a; se quindi 6/a = S/V = 2.10 , si avrà
-5
che: a ÷ 3 x 10 cm. Le massime dimensioni di una particella che consentono di
far emergere l'influenza dell'energia di superficie sul sistema, sono infatti di
quest'ordine di grandezza; nella pratica, gli effetti di superficie sono già rilevanti
-4
per particelle con diametro inferiore a 10 cm (Castellan, G.W., Physical
chemistry, 1972, Addison-Wesley Publ. Co, MA).
181
All'interno di un liquido, la distanza intermolecolare è sufficientemente ridotta
perché le molecole siano soggette alle forze di attrazione di Van Der Waal e solo
un numero molto limitato di unità se ne sottragga e passi allo stato di vapore. Le
molecole alla superficie di un liquido, non essendo completamente circondate
dalle molecole della fase liquida sono soggette ad un effetto attrattivo non
equilibrato, diretto verso l'interno della soluzione. Tale forza di attrazione è
tanto minore quanto minore è la superficie, ovviamente, cosicché ad una minore
superficie corrisponde una minore energia e la superficie del liquido tende a
"contrarsi". La superficie di un liquido può quindi essere assimilata (Young,
1805) ad una membrana di spessore infinitesimo, in uno stato di "tensione". La
tensione è una pressione negativa; la pressione è una forza per unità di area e
quindi la "tensione superficiale" è una forza per unità di lunghezza (unità SI =
-1
-1
Newton * m , dine cm ).
Comunemente si indica la tensione superficiale con la lettera gamma, γ che,
2
fisicamente, è definita come la forza necessaria per generare 1cm di superficie.
In generale, la tensione superficiale diminuisce all'aumentare della temperatura.
In effetti, aumentando l'energia cinetica delle molecole superficiali divengono
meno vincolanti le forze di attrazione da parte delle molecole all'interno del
liquido e si potrà individuare una temperatura critica Tc alla quale le forze di
coesione fra le molecole sarà prossima a zero e così pure la tensione superficiale.
La relazione tra γ , Tc e T è data dalla relazione:
γ *(M*v) 2/3 = K (Tc - T - 6)
(173)
di Ramsay - Shields - Eötvös, in cui M è il peso molecolare, v il volume
specifico, T la temperatura e K una costante che ha il valore di 2,1 per un gran
numero di liquidi. Teoricamente, quando un liquido è posto a contatto con la
superficie piana di un solido, vi sono tre interfaccie e quindi tre tensioni
superficiali o meglio interfacciali: γs, tra superficie e fase gassosa, γL tra liquidi e
fase gassosa e γSL tra liquido e superficie.
Le fasi si incontrano in un punto in cui si può difinire un "angolo di contratto" ɛ
tra liquido e solido. Se ɛ è finito, il liquido forma una goccia alla superficie del
solido; se ɛ = 0 il liquido diffonde sul solido vale a dire lo "bagna" .
All'equilibrio:
γS = γSL + γL*cos ɛ
(174)
L'angolo ɛ è evidentemente un indice dell'affinità relativa del liquido per la
superficie solida, ed interessa quindi sia la deposizione di un contaminante
liquido su una superficie solida sia la bagnabilità della superficie da parte delle
soluzioni detergenti. La forza di attrazione tra superficie solida e liquida può
essere valutata misurando il lavoro necessario per separare il liquido dalla
182
superficie solida. Il lavoro necessario per separare le due componenti sarà pari al
"lavoro di adesione" tra le due superfici (WLS); ossia al lavoro richiesto per
separare la fase solida dalla fase liquida, e quindi l’energia libera associata
all’adesione della fase solida e di quella liquida:
WLS = γL + γS - γSL
(175)
e sostituendo γS con :
γs = γSL + γL cos ɛ
(176)
si avrà:
WLS = γL (1 + cos ɛ)
(177)
(Relazione di Dupré)
Tuttavia l'angolo ɛ misurato in un liquido a riposo su una superficie solida varia a
seconda che il liquido abbia raggiunto la posizione di riposo avanzando o
retrocedendo sulla superficie; nel primo caso ɛ è maggiore che nel secondo, fino
a più di 50°, e il fenomeno è detto isteresi superficiale.
Nella pratica, le discordanze dal comportamento ideale sono diversamente
importanti. Basti ricordare che non vi è completo accordo su cosa si deve
intendere per "bagnabilità" o "bagnante".
Considerando le variazioni di energia libera superficiale (¤F) del sistema, si
possono distinguere comunque (1) una "bagnabilità per adesione", quando
una superficie viene a contatto con la superficie di un liquido, con la formazione
di un'interfaccia liquido-solido; (2) una "bagnatura per estensione", quando con la
scomparsa della superficie solida si forma una superficie liquida e un'interfaccia
liquido-solido (ad es. per la salita di un liquido in un capillare); (3) "bagnatura
per immersione", quando la superficie solida scompare con la formazione di una
interfaccia liquido-solido senza che cambi la superficie liquida.
Nei tre casi, la variazione di energia libera superficiale sarà data:
(1) ¤ F = γS + γL - γLS
(2) ¤ F = γS - γLS - γL
(3) ¤ F = γS - γLS
I tre tipi di "bagnatura" possono in realtà essere coinvolti, nella successione
indicata, in un processo bagnante. Valori negativi di ¤F indicano che il
contenuto energetico del processo diminuisce e quindi è favorito per il primo tipo
da una diminuzione di γS o γL, o un aumento di γLS; per il secondo tipo da
una diminuzione di γS o un aumento di γL o γLS; nel terzo tipo da una
riduzione di γS o un aumento di γLS.
183
Nella pratica raramente si ha a che fare con una superficie solida perfettamente
pulita, e le quantità indicate come γS e γSL non coinvolgono, con ogni
probabilità, la superficie solida reale, ma sono influenzati da tutto ciò che può
essere adsorbito alla superficie (strati di ossigeno o acqua, ecc.), unitamente alla
minore o maggiore levigatezza della superficie stessa. Così, mentre si può
prevedere (Wanzel, 1936) che per una superficie non levigata sia:
WLS (r) = γL (1 + r * cos ɛ)
(178)
in cui "r" è una fattore connesso al grado di levigatezza, in pratica non vi è
corrispondenza con le attese.
Le forze coinvolte nel processo di bagnatura sono in buona misura assimilabili a
quelle che interessano il complesso substrato-contaminante e la soluzione
detergente, poiché la rimozione del contaminante comporta (a) stretto contatto tra
substrato, contaminante e liquido detergente, (b) penetrazione del liquido nelle
microstruttura contaminante e (c) rimozione preferenziale della contaminazione.
Peraltro, la corrispondenza tra le proprietà bagnanti e quelle detergenti non è
assoluta. I migliori agenti bagnanti non sono necessariamente buoni detergenti, e
viceversa.
Si è osservato, impiegando serie omologhe di detergenti (saponi, alchil solfati,
alchil-aril-solfonati), che i migliori agenti bagnanti hanno catena più corta dei
migliori detergenti della stessa serie.
CONTROLLO DELLA CONTAMINAZIONE
MICROBICA DEGLI IMPIANTI
La contaminazione degli impianti da parte dei microrganismi comporta (1) la
deposizione dei microrganismi sulla superficie, (2) l'adesione delle cellule alla
superficie, (3) la riduzione della contaminazione operata dai trattamenti di
sanificazione, (4) l'aumento della contaminazione tra trattamenti sucessivi di
sanificazione, (5) la contaminazione microbica del prodotto al contatto con
superfici contaminate.
Le maggiori fonti di contaminazione microbica delle superfici degli impianti
sono il prodotto stesso, l'aria, il personale e gli insetti, oltre alle soluzioni
detergenti stesse; l'importanza relativa dei tali fattori è diversa, in funzione del
tipo di struttura, di prodotto, di esposizione, ecc.
184
I microrganismi aderiscono alle superfici con meccanismi differenti: ancoraggio
diretto alla superficie, ancoraggio al materiale organico o inorganico che già
contamina la superficie, inclusione in particelle di contaminanti che aderiscono
poi alla superficie.
Ovviamente il primo meccanismo di ancoraggio diretto è più probabile sulle
superfici poco o nulla contaminate.
Si è osservato che per alcuni batteri (E. aerogenes ad esempio) un ancoraggio
stabile sulle superfici (vetro, acciaio inossidabile) richiede 6-12 h di
incubazione; durante tale periodo il batterio produce polisaccaridi extracellulari
che favoriscono il processo di adesione. Per altri batteri (E.coli, Pseudomonas,
Micrococcaceae), l'ancoraggio è immediato, o richiede comunque tempi inferiori
a quelli necessari all'E.aerogenes. I microrganismi che richiedono tempi lunghi
per perfezionare il processo di adesione alle superfici, sono riscontrati più
frequentemente (i tempi di adesione sono minori) su quelle contaminate da
materiale organico.
Tra i fattori che condizionano la velocità di ancoraggio alle superfici vi sono,
oltre al tipo di organismo, la fase di accrescimento in cui si trova la cellula, il
livello di contaminazione della fonte di microrganismi, il tempo e la
temperatura di esposizione della superficie alla contaminazione, il pH e la
concentrazione di elettroliti nella sospensione, l'eventuale presenza sulla
superficie di strutture fisiche e/o sostanze chimiche che favoriscono l'ancoraggio.
Quando le condizioni ambientali sono favorevoli i microrganismi depositati sulle
superfici degli impianti, si accrescono. Nelle zone di accumulazione dei residui
di prodotto e della contaminazione in generale, la temperatura subisce
certamente delle fluttuazioni diversamente importanti, in relazione alla durata e
alla temperatura dei trattamenti di lavaggio, alla temperatura del prodotto, e a
quella ambiente, nelle soste di lavorazione. L'attività dell'acqua varierà in
funzione anche della struttura dello strato di contaminazione: nei film di materiale
organico l'aw risentirà rapidamente dell'umidità ambiente, mentre negli strati di
maggior spessore, o irregolari il rapporto superficie/volume dell'agglomerato
inglobante i microrganismi sarà minore, e l'umidità si equilibrerà meno
rapidamente con l'ambiente. Il pH delle particelle di contaminazione risentirà
particolarmente delle soluzioni finali di risciacquo, e non dovrebbe costituire un
ostacolo all'accrescimento. Il potenziale di ossido-riduzione dipenderà in gran
parte dalla struttura delle particelle di contaminazione, e consentirà più spesso
l'accrescimento di specie aerobiche o facoltative, ma nei depositi meno accessibili
(e al loro interno in particolare) potranno svilupparsi anche anaerobi.
Naturalmente, tutte le situazioni sfavorevoli in cui vengono a trovarsi i
microrganismi presenti sulle superfici degli impianti, per effetto della
lavorazione, dei trattamenti di sanificazione e delle condizioni in cui vengono
lasciati gli impianti negli intervalli tra lavorazioni successive, determina
sulle cellule danni metabolici diversamente importanti. Basti ricordare gli stress
osmotici che subiscono le cellule per effetto dei lavaggi e dei successivi
185
asciugamenti delle superfici con l'interuzione dell'utilizzo degli impianti; gli
stress termici determinati dalle soluzioni calde impiegate per i lavaggi; quelli
chimici dovuti ai detergenti e ai disinfettanti; quelli nutrizionali, all'atto della
deposizione su superfici pulite.
Tuttavia, i microrganismi sono generalmente in grado di riparare gran parte dei
danni subiti in tali condizioni ambientali sfavorevoli. Comunque, spesso si
assiste alla selezione di una flora microbica particolarmente resistente alle
condizioni fisico-chimiche ambientali che si determinano abitualmente in un
impianto, quali determinate oscillazioni del grado di umidità relativa, temperatura
delle soluzioni di lavaggio, tipo di detergente e sanificante, ecc.
La decontaminazione delle superfici è ottenibile con la rimozione fisica delle
cellule microbiche operata dalle soluzioni di lavaggio e detersione; oppure con
l'inattivazione termica o chimica, e almeno in parte, per effetto delle condizioni
sfavorevoli alla sopravvivenza, che si instaurano tra cicli sucessivi di lavaggio,
disinfezione o utilizzazione degli impianti.
Si è osservato che gran parte (99.9%) della contaminazione (organica e
microbica) delle superfici può essere rimossa dal solo trattamento con detergente,
senza impiego di sanificanti (cloro, iodio,ecc.).
Naturalmente l'efficacia dei detergenti è inversamente proporzionale al livello di
contaminazione e dipende altresì dal tipo di detergente.
L'efficacia dei disinfettanti e in generale dei prodotti per la sanificazione, è
condizionata dal substrato, dal tipo e dall'entità della contaminazione, dalla
formulazione del prodotto e dalla tecnica di applicazione. Le gomme consunte,
le strutture di plastica con abrasioni, i metalli corrosi, limitano notevolmente
l'efficienza dei trattamenti con battericidi chimici.
La formulazione del prodotto, e infine della soluzione, condiziona la velocità
dell'azione battericida, la penetrazione nelle particelle contaminanti e quindi la
possibilità che i composti attivi raggiungano le cellule microbiche.
I diversi metodi di applicazione delle soluzioni disinfettanti non sono
ugualmente efficaci su tutte le superfici (immersione, spray, aereosol, flusso
continuo), né la successione dei trattamenti (pre-lavaggio, lavaggio con
detergenti, trattamento sanitizzante) è ugualmente efficace con tutti i composti
sanitizzanti.
Si è osservato ad esempio che composti a base di cloro sono molti più efficaci se
applicati prima della ripresa della lavorazione, piuttosto che alla fine delle
operazioni di decontaminazione eseguite alla sospensione della lavorazione;
mentre soluzioni a base di iodofori sono risultate molto più efficaci se applicate
dopo le operazioni di prelavaggio e lavaggio con detergenti. I trattamenti di
risciacquo con sola acqua sono particolarmente utili nel trattamento con
detergenti, per la quantità di materiale organico che asportano, ma pressocché di
nessun effetto sulla contaminazione microbica; se applicati prima della ripresa
della lavorazione, servono a diffondere l'eventuale contaminazione delle superfici
avvenuta durante la sosta della lavorazione.
186
METODI DI VALUTAZIONE DELLA DECONTAMINAZIONE
Spesso vengono impiegate tecniche diversamente affinate, riferibili
comunque allo "swab-test". Tale test consiste nel raccogliere, con batufoli di
alginato di calcio fissati all'estremità di una bacchetta cilindrica, i microrganismi
che sono alla superficie di una struttura; l'alginato è quindi disciolto in soluzioni
di citrato sodico al 2% e il conteggio dei microrganismi è effettuato sulla
sospensione ottenuta. Tali metodi ovviamente forniscono un'indicazione
dell'efficacia dei trattamenti nella eliminazione e/o inattivazione cellulare, ma
non sul grado di decontaminazione in genere (residui alimentari, microrganismi
non vitali, soluti. ecc.). Impiegando microrganismi accresciutesi in un mezzo
contenente composti radioattivi assimilabili, inglobando le cellule in un tipo
particolare di contaminante (proteina, sale polisaccaridi, ecc.). contaminare una
struttura e seguire il decrescere della radioattività in funzione dei trattamenti di
decontaminazione applicati, è già un perfezionamento dello swab-test. Tuttavia,
irisultati che se ne ottengono possono essere generalizzati con molta cautela,
poiché occorre presumere che la cinetica di contaminazione sia indipendente dal
tipo di contaminante, ciò che non è necessariamente corrispondente alla realtà.
L'impiego di radioisotopi inglobati in contaminanti sintetici o naturali e la
valutazione della decrescita della radioattività a seguito dell'applicazione di
sistemi diversi di decontaminazione, è stato sperimentato con successo. Anche
con tale metodica, come per la precedente, si assume necessariamente che la
contaminazione e la radioattività siano rimosse con la stessa velocità dai
trattamenti applicati. Per alcuni tipi di contaminanti si è osservato che i due
fenomeni sono strettamente correlati.
CINETICA DELLA DECONTAMINAZIONE
Sono state proposte diverse espressioni matematiche per descrivere il
processo di decontaminazione; quella più generalmente accettata è stata suggerita
da Jennings (1959). Perché le molecole di detergente rimuovano una particella di
contaminante, per semplice trascinamento oppure per solubilzzazione,
degradazione chimica o altri fenomeni, è necessario comunque che vengano a
contatto con la particella o con il substrato sul quale è depositata, prima che
abbia luogo la rimozione. La probabilità che molecole di detergente raggiungano
le particelle di contaminante o la superficie sottostante, dovrebbe aumentare
187
all'aumentare della concentrazione di detergente. Anche la velocità di rimozione
del contaminante dovrebbe essere proporzionale alla concentrazione di
quest'ultimo.
Si è verificato in pratica che la relazione tra percentuale di contaminante (c) che
rimane sulla superficie e tempo (t) di trattamento è esponenziale:
- dc/dt = k*c
così come è esponenziale la relazione tra velocità di rimozione (k) e
concentrazione di detergente (D):
Log (K/k1) = ¹ * D
(179)
Ne consegue che per quanto protratto nel tempo possa essere un trattamento di
decontaminazione o elevata la concentrazione di detergente, la probabilità che la
superficie non sia completamente decontaminata avrà sempre un valore definito,
seppure molto ridotto.
Si è osservato peraltro che le curve di rimozione dei contaminanti deviano
dall'esponenzialità quando la frazione di contaminante rimasto sulle superfici è
sufficientememte ridotta. Anderson e altri (1959) suggeriscono che la frazione
di contaminante meno agevolmente asportabile dal detergente, e che determina
una diminuzione della velocità di rimozione delle particelle, sia uno strato
monomolecolare saldamente ancorato al substrato da forze di adesione. In realtà
si è calcolato che per certe combinazioni di substrato-contaminante tale strato può
avere uno spessore di oltre 10 diametri molecolari.
Osservazioni in tal senso sono state compiute impiegando tristearina, saccarosio,
latte, sia su acciaio inossidabile sia su vetro e su materiali diversi. Sopratutto le
esperienze condotte con tristearina contaminante diversi tipi di superficie, hanno
consentito di stabilire che la frazioni più difficilmente asportabili non hanno
caratteristiche fisico-chimiche distinguibili da quelle rimosse più agevolmente e
rapidamente.
In ogni caso, diverse esperienze hanno dimostrato che aumentando la
concentrazione del detergente la rimozione percentuale delle sostanze
contaminanti aumenta, ma rimane sempre inferiore al 100%.
Probabilmente il contaminante che non è rimosso dalla superficie è strutturato in
maniera ordinata e coerente, priva di siti d'attacco per il detergente.
Si ritiene infatti che il meccanismo di rimozione del contaminante ("rimozione
preferenziale") si attui attraverso la saturazione da parte del detergente dei siti di
adesione o attrazione presenti sulle particelle e sul substrato.
In diversi casi del resto, il processo di rimozione consiste essenzialmente in una
sostituzione del contaminante adeso alla superficie, con il detergente stesso, che
diventa a sua volta un contaminante.
Tale sostituzione può rivestire un interesse non trascurabile, ovviamente, quando
il detergente è provvisto di attività antimicrobica.
188
I tensioattivi anionici e non-ionici sono così adsorbiti sul vetro, l'acciaio,
l'alluminio, la porcellana, con un meccanismo di scambio ionico; e tale
fenomeno è diversamente influenzato dai pretrattamenti applicati alla superficie.
FATTORI CHE CONDIZIONANO LA VELOCITA'
RIMOZIONE DELLA CONTAMINAZIONE
DI
Tra i fattori predominanti che condizionano la velocità di decontaminazione di
una superficie, così come l'efficienza del processo, si possono individuare:
1) tempo di contatto fra contaminante e superficie;
2) tempo di contatto tra superficie contaminante e detergente ;
3) tipo di detergente;
4) concentrazione del detergente;
5) temperatura della soluzione detergente;
6) turbolenza provocata dal processo di lavaggio;
7) estensione del contatto con l'aria.
1 - E' nozione comunemente sperimentata che la contaminazione di un
substrato è soggetta ad un "effetto invecchiamento", che riduce la
possibilità di rimizione della contaminazione. Si è dimostrato che la stearina
depositata su superfici di acciaio inossidabile esiste in due forme chimicamente
dentiche che vengono rimosse dai detergenti con diversa velocità e che,
all'aumentare del tempo di contatto con la superficie, la forma rimossa più
rapidamente si trasforma progressivamente in quella che è rimossa più
lentamente. Poiché per molte sostanze contaminanti si possono riconoscere due
specie, rimovibili con diversa efficienza dalle superfici, si ritiene che la
trasformazione indicata per la stearina possa costituire un fenomeno generale, a
giustificazione dell""effetto invecchiamento".
2 - Si può ritenere che all'aumentare del tempo di contatto con la soluzione
decontaminante aumenti anche la quantità di sostanze estranee rimosse, almeno
per tempi relativamente brevi.
Certamente la rimozione di certe sostanze non dipende dal tempo di contatto,
sopratutto se si tratta di minime quantità e, oltre un certo tempo di trattamento, si
può prevedere che la velocità di rimozione eguagli quella di rideposizione dei
materiali estranei da parte della stessa soluzione detergente.
Tuttavia, l'efficienza dei detergenti può essere confrontata, sulla base della
relazione di BACON e SMITH (1948):
189
C = K(D*F*t)n
(180)
in cui C rappresenta il livello percentuale di decontaminazione, D è la
concentrazione percentuale del detergente, F la forza meccanica applicata nel
processo della durata di t minuti; k ed n variano in funzione del detergente
impiegato e della struttura trattata.
3 - Non tutti i detergenti sono ugualmente efficaci nei confronti dei differenti
inquinanti; alcuni sono più adatti alla rimozione di sostanze grasse e altri di
materiali proteici.
I tensiattivi sono ritenuti più efficaci nella rimozione dei grassi; quelli a catena
lineare, più efficaci di quelli a catena ramificata.
4 - In generale, l'azione decontaminante aumenta con la concentrazione del
detergente ma fino ad una concentrazione limite (diversa per ogni composto) oltre
la quale la percentuale di inquinamento rimossa non aumenta significativamente
con la concentrazione.
5 - I diversi autori non concordano sull'influenza positiva esercitata dalla
temperatura sul processo di decontaminazione; alcuni suggeriscono l'impiego di
basse temperature, non comunque superiori a 45°C, altri
temperature elevate. Tali discordanze derivano probabilmente anche da
osservazioni condotte con detergenti termolabili. Diverse esperienze indicano che
il potere decontaminante dell'acqua, della soda e di tensioattivi non-ionici
aumenta con la temperatura, e la relazione tra velocità di rimozione e
emperatura si accorda con la funzione di Arrhenius. Osservazioni eseguite con
stearina come contaminante hanno indicato che aumentando la temperatura
diminuisce la velocità di rimozione della frazione rimossa più facilmente e
aumenta quella della frazione più strettamente legata al substrato. Non si può
escludere quindi che in presenza di determinati contaminanti con prevalente
frazione a rimozione veloce, l'aumento della temperatura rallenti il processo di
decontaminazione.
6 - Anche l'effetto esercitato dall'aria disciolta nella soluzione detergente, sotto
forma di bolle o nella schiuma, non è definito inequivocabilmente. Diversi autori
ritengono che la schiuma non abbia alcun effetto detergente, ciò che sarebbe
confermato dall'inalterata efficienza dei tensioattivi addizionati di composti
antischiuma.
Altri, che nel lavaggio degli impianti attuato facendo circolare acqua nelle
tubazioni, la schiuma diminuisca l'efficienza del processo.
Sembra accertato comunque che lavaggi ripetuti, anche di brevissima durata,
siano più efficaci di una immersione continua in soluzione detergente: la
rimozione dei grassi contaminanti l'acciaio inossidabile è tanto maggiore quanto
maggiore è il numero di volte che la superficie viene a contatto con l'interfaccia
aria detergente (EFFETTO DUPRE').
L'effetto detergente generalmente aumenta all'aumentare della turbolenza,
probabilmente anche per un effetto DUPRE'.
190
CLASSIFICAZIONE DEI DETERGENTI
Molti detergenti del commercio hanno una composizione complessa, evidente
riflesso della varietà di fattori da tenere in considerazione nella scelta di un
prodotto adatto alla rimozione di un certo tipo di contaminazione da un certo tipo
di substrato, oltre che dall'intenzione più o meno scoperta di fornire un preparato
adatto ad ogni situazione.
Si possono classificare i detergenti in relazione a loro caratteristiche preminenti,
quali l'alcalinità, l'acidità, le proprietà tensioattive, sequestranti o chelanti, ecc..
1 - ALCALI FORTI: Si possono comprendere in tale categoria i
composti che in soluzione all'1% hanno un pH >12, quali gli idrossidi di
sodio e di potassio, il sodio metasilicato [Na2SiO3 . 5H2O] , il sodio
ortosilicato [2Na2O.SiO2.(5.5)H2O )] e il sodio sesquisilicato [(1.51.6) Na2O.SiO2.(5.5)H2O]; appartengono a tale categoria anche l'ammoniaca e
altre ammine.
Tali composti corrodono il vetro, l'alluminio, lo zinco, lo stagno e molte vernici.
Hanno un potere di dissoluzione della contaminazione, relativamente elevato;
una capacità di frammentare le particelle di contaminazione, più che accettabile.
Sono efficaci pulenti, per la rimozione di grassi, oli, materiali proteici e sostanze
organiche in generale.
Reagiscono con calcio e magnesio
-
Mg++(o Ca++) + 2 OH → Mg (o Ca)(OH)2
intorbidando la soluzione, che deposita uno strato di precipitati insolubili, sugli
impianti; vanno quindi addizionati opportunamente di agenti seguestranti o
chelanti. Differiscono per attitudine a "bagnare" la superficie e ad essere
asportabili dai risciacqui (vedi Tabella di seguito). Debbono essere usati con
cautela.
2 - ALCALI DEBOLI: Si possono comprendere in tale categoria il carbonato di
odio (Na2CO3), il trisodio ortofosfato o TSP (Na3PO4.10H2O), il tetrasodio
pirofosfato o TSPP (Na4P2O7) e il sodio tripoli-fosfato (Na5P3O10).
191
Sono spesso impiegati per allontanare calcio e magnesio; meno pericolosi degli
alcali forti, da maneggiare, sono anche meno efficienti.
3 - COMPOSTO ACIDI: Le incrostazioni di calcio determinate da acqua ad
elevata durezza, i precipitati di Ca++ e Mg++ che si possono formare impiegando
alcali o fosfati semplici, ossalati di calcio (spinaci, rabarbaro), debbono subire un
trattamento con sostanze chelanti o con acidi. Particolare attenzione deve essere
dedicata alla scelta dell'acido da impiegare, poiché parallelamente alla proprietà
dissolvente e detergente, gli acidi corrodono il substrato, essendo tali
caratteristiche tutte connesse agli ioni idrogeno. Basi azotate eterocicliche o
tensioattivi particolari, possono essere impiegati assieme agli acidi per ridurre
l'attività corrosiva; tali composti, pare che siano attratti preferenzialmente
all'interfaccia metallo pulito-soluzione, piuttosto che all'interfaccia contaminantesoluzione. Gli acidi minerali forti (solforico, cloridrico, fosforico, nitrico) sono
troppo corrosivi perché possano essere impiegati, comunque additivati di "acidoinibitori", se non da personale particolarmente competente e per rimuovere
contaminazioni particolarmente resistenti alla detersione.
Più vantaggiosamente, per il personale e per gli impianti, si possono impiegare
acidi deboli (gluconico, succinico, idrossiacetico, ecc.) aggiunti di tensioattivi
acido-resistenti e di composti "acido inibitori".
4 - TENSIOATTIVI
La tensione superficiale di una soluzione acquosa di NaOH aumenta,
seppure lentamente, all'aumentare della concentrazione del soluto. Al
contrario, aggiungendo all'acqua dell'oleato sodico la tensione superficiale si
abbassa rapidamente e raggiunge valori minimi, che ulteriori aggiunte di oleato
non modificano significativamente. Le sostanze che si comportano come l'oleato
sono denominate tensioattivi.
Le molecole dei tensioattivi sono caratterizzate dal possedere gruppi idrofili e
gruppi idrofobi o lipofili. I gruppi idrofili più frequenti sono idrossili (OH),
carbossili (-COOH, COO-), ammine (-NR2), solfonati (-SO2-ONa), solfati (-OSO2-ONa) e catene di ossido di etilene ((CH2-O-CH2O)nH). La porzione
idrofoba della molecola è generalmente una catena idrocarburica, più spesso
lineare, che ramificata, o un idrocarburo aromatico sostituito.
La sola presenza di gruppi idrofobi e idrofili nella stessa molecola non è
sufficente per modificare la tensione superficiale; è necessario un idoneo
equilibrio tra i due tipi di gruppi.
Tale equilibrio è individuato nella letteratura anglosassone come HYDROPHILE
- LIPOPHILE BALANCE o semplicemente HLB. Attribuendo arbitrariamente
il valore HLB = 1 all'acido oleico e HLB = 20 all'oleato sodico, i detergenti hanno
valori di HLB compresi tra 13 e 18.
Si consideri un sapone, costituito dal sale sodico di un acido grasso saturo. Il
gruppo carbossilico rappresenta la porzione idrofila della molecola (o ione); la
192
catena idrocarburica R è la porzione idrofoba e la idrofobicità varierà in funzione
della lunghezza della catena.
In soluzione acquosa, il gruppo idrofilo -COO- tenderà a inserirsi e solubilizzarsi
nella fase acquosa. Se la catena idrocarburica R è sufficientemente corta (C1-3),
O
O
//
//
R - C → R - C + Na
\
\
O Na
Oil gruppo ionizzato determinerà la solubilizzazione di tutta la molecola, che non
si comporterà quindi come un tensioattivo. Aumentando la lunghezza della
catena idrocarburica fino a valori di R = C13-15, i due caratteri (idrofobicità e
idrofilia) andranno equilibrandosi e la molecola si comporterà come tensioattiva.
Aumentando ulteriormente la lunghezza di R = C18, il carattere idrofobico
prevarrà nella molecola, che diverrà insolubile e si disporrà alla superficie
dell'acqua, in un film sottile, come un acido grasso o comunque un grasso
insolubile.
Parimenti, se il gruppo carbossilico non è ionizzato :
O
//
R-C
\
OH
la molecola considerata sopra (R = C15) non si comporterà come tensioattivo in
ambiente acido, poiché il carattere idrofilo del carbossile non ionizzato è molto
inferiore a quello dello ionizzato.
L'esclusione delle catene idrofobiche dalla soluzione acquosa non è tanto dovuta
a un effetto repulsivo dell'acqua nei confronti dei gruppi idrofobi, quanto
piuttosto dalla grande tendenza associativa tra molecole d'acqua, che porta
all'espulsione delle molecole idrofobe.
In soluzione le molecole dei tensioattivi sono quindi disposte ai margini o
interfacce tra solvente e ambiente (pareti del recipiente, e aria).
Ovviamente, le interfacce si saturano all'aumentare della concentrazione di
tensioattivo, cosicché oltre una definita concentrazione, la struttura della
soluzione cambia. Se si misura la variazione della tensione superficiale o di altra
proprietà colligativa delle soluzioni in cui vengono sciolte quantità crescenti di
tensioattivi, si riscontra che la proprietà considerata varia in modo prevedibile
fino a che non si raggiunge una ben precisa concentrazione, oltre la quale il
comportamento della soluzione cambia drasticamente. Si ritiene che a tale
193
concentrazione il tensioattivo presente nella soluzione si agglomeri a formare
delle unità strutturali dette "micelle". La concentrazione di tensioattivo alla quale
si produce la formazione di micelle, è detta "CMC = concentrazione micellare
critica".
A concentrazioni inferiori il tensioattivo si troverebbe in forma di ioni o molecole
o agglomerati submicellari. Le aggregazioni submicellari consistono di
associazioni di molecole di tensioattivo attraverso le loro porzioni idrofobiche;
la superficie delle molecole idrocarburiche diminuisce e i gruppi idrofili riescono
a controbilanciare la tendenza ad associarsi tra molecole di solvente. Tali strutture
inoltre costituiscono nuove interfacce col solvente, alle quali possono associarsi
altre molecole di tensioattivo con le loro porzioni idrofobe.
La micella è una struttura che si può considerare sferica, costituita
dall'aggregazione della porzione idrofobica delle molecole di tensioattivi, con i
gruppi polari alla superficie, a contatto con l'acqua. Il numero N di molecole
coinvolte in una micella, posto il raggio della micella inferiore di 1 angstron alla
lunghezza della catena idrocarburica del tensioattivo, la densità micellare pari a
0.77 e la distanza tra carboni periferici pari a 2.5 A, è data da :
N = 0.139/n(1.25 n - 1)
3
dove "n" è il numero di atomi di carbonio della catena idrocarburica.
Le micelle legano un gran numero di ioni posotivi alla loro superficie, come
contro-ioni, ma generalmente non un numero equivalente alle cariche
negative superficiali. Tale circostanza spiega, tra l'altro, una delle proprietà
colligative della CMC, quali la drastica riduzione della conducibilità elettrica che
si osserva alla concentrazione micellare critica.
Se in presenza di 100 ioni sodio e 100 ioni stearato, gli ioni stearato si aggregano
in micelle e le micelle legano 70 ioni Na+ come contro-ioni, rimarranno in
+
totale 1 ioni micellari con carica - 30 e 30 ioni Na , ossia 31 ioni, invece dei
200 ioni singoli. La drastica diminuzione di ioni in soluzione che si produce con
la formazione di micelle, provoca quindi una drastica diminuzione della
conducibilità elettrica.
I principali fattori che condizionano la formazione di micelle e la CMC sono i
seguenti:
1 - La CMC aumenta all'aumentare della temperatura.
2 - La CMC diminuisce per aggiunta di elettroliti alla soluzione o per aggiunta di
solventi polari.
3 - L'aggiunta di alcali monoidrissolici diminuisce la CMC in proporzione alla
lunghezza della catena carboniosa dell'alcole.
4 - Il logaritmo della CMC di un tensioattivo anionico (sapone) è correlato
linearmente col logaritmo della concentrazione cationica del sale aggiunto.
Più elevata è la valenza del catione, minore è la concentrazione cationica richiesta
per abbassare la CMC di un tensioattivo anionico.
194
6 - La CMC è praticamente dipendente solo dalla lunghezza dello ione
tensioattivo, e non dal tipo di elettrolita (i tensioattivi che hanno una catena
carboniosa satura nella lunghezza hanno all'incirca la stessa CMC).
7 - Per ogni diminuzione di un atomo di carbonio dello ione tensioattivo la CMC
si raddoppia.
8 - Piccoli gruppi aggiuntivi in prossimità della testa idrofila della molecola non
influenzano la CMC.
9 - Gruppi polari lungo la catena alchilica aumentano fortemente la solubilità e
quindi la CMC.
10 - I saponi di acidi grassi insaturi hanno CMC più elevate di quelli saturi; il
doppio legame ha un carattere idrofobico meno pronunciato.
11 - Per i detergenti non-ionici, nei quali i gruppi idrofili sono corte catene di
poliossietilene, la CMC aumenta all'aumentare dei gruppi poliossietilenici.
12 - Per i detergenti non-ionici, a parità di lunghezza della catena poliossietilenica
la CMC diminuisce all'aumentare della idrofobicità della catena idrocarburica.
13 - Composti aventi la stessa CMC sono tensioattivi ugualmente efficaci, ma
non hanno necessariamente la stessa attività detergente.
I tensioattivi sintetici provvisti di attività microbicida possono essere distinti in
anionici, cationici e non ionici.
"R" rappresenta un gruppo lipofilo, quali una lunga catena alchilica o policiclica.
"A" rappresenta uno ione positivo, quale Na, K, NK4, ecc.
I radicali R sono legati alla porzione idrofila della molecola.
–
"X" rappresenta uno ione negativo di solito Cl Br o J , e RI, R2 e R3 sono H,
gruppi alchilici, arilici o eterociclici.
I tensioattivi anionici sono i saponi, sali di sodio o potassio di acidi organici
superiori, gli alchilsolfati e i solfonati. Sono provvisti di attività
antimicrobica modesta e quasi esclusivamente nei confronti dei batteri
gram-positivi. I saponi con catena idrocarburica a 12 - 18 atomi di carbonio,
sono ottimi detergenti, ma sono inattivati da calcio e magnesio e, in misura
minore, da ferro e alluminio; sono inattivati anche in soluzioni saline concentrate,
e a basso pH.
Gli alchil-aril-solfonati sono detergenti eccellenti, resistono bene agli acidi, agli
alcali, al calcio e al magnesio; formano molta schiuma. Tra gli alchil-arilsolfonati vi sono i componenti principali dei comuni detergenti sintetici del
commercio: tetrapropilene-benzen-solfonato e dodecil-benzen-solfonato.
Quest'ultimo, biodegradabile, è un ottimo detergente, quasi quando i saponi; è
stabile agli acidi, agli alcali, agli ossidanti; forma molta schiuma.
I tensioattivi cationici si dissociano in soluzione acquosa dando uno ione
tensioattivo carico positivamente. A tale classe di tensioattivi appartengono i
composti dell'ammonio quaternario, indicati per brevità QUATS. La struttura è
quella del cloruro d'ammonio, in cui uno o più idrogeni sono sostituiti da gruppi
195
alchilici o da radicali fenilici e un idrogeno è sostituito da un gruppo alchilico a 8
- 18 atomi di carbonio.
I QUATS sono attivi sia nei confronti dei batteri gram-positivi che gramnegativi. L'attività battericida è compromessa dalla contemporanea presenza di
tensioattivi anionici.
Come detergenti, sono poco efficaci e perdono d'attività in acqua a durezza
elevata.
Spesso sono associati a tensioattivi non-ionici, che non si ionizzano in soluzione
acquosa, e sono efficienti detergenti. I tensioattivi non-ionici sono composti
poliidrossilici ottenuti dalla reazione dell'ossido di etilene con una quantità di
composti idrofobici provvisti di un gruppo carbossilico, idrossilico, imido o
mono – o di-idro sostituito. I più comuni (polietenossieteri, condensati di acidi
grassi e etilene, ecc.) sono liquidi, non producono molta schiuma, sono buoni
detergenti e pressoché privi di attività antimicrobica.
SEQUESTRANTI E CHELANTI
I depositi calcarei che si formano negli impianti per effetto della durezza
dell'acqua o dell'azione di agenti alcalini, rappresentano un substrato
particolarmente favorevole all'ancoraggio di contaminanti, proteggono i batteri
inclusi nei confronti del calore e soprattutto delle soluzioni sanificanti, riducono
la trasmissione del calore, interferiscono con l'attività di molti tensioattivi
anionici.
++
Si è osservato da tempo che i polifosfati formano con Ca complessi solubili. Si
usano spesso sodio tripolifosfato (Na5P3O10), tetrasodio pirofosfato (Na4P2O7),
sodio tetrafosfato (Na4P2O7), sodio tetrafosfato (Na8P6O19; Na2O/P2O5 1.33),
sodio esametafosfato (Na16P14O43; Na2O/P2O5 1.14), e tetrapotassio pirofosfato
(K4P2O7). La maggior parte di tali composti sono dei detergenti; abbassano la
CMC.
Gli agenti sequestranti organici (acido citrico, gluconico, glucuronico,
etilendiaminotetraacetico-EDTA-) formano con certi metalli complessi termostabili, detti"chelati".
DISPERDENTI E DEFLOCCULANTI - Sia le particelle di contaminante
che la superficie del substrato sul quale sono depositate, tendono ad adsorbire ioni
polifosfato dalla soluzione detergente, caricandosi negativamente; ne conseguono
forze repulsive sia tra particelle cariche, che tra particelle e substrato, ciò che
favorisce la suddivisione e la dispersione della contaminazione.
Molto simile è il modo d'azione di gran parte dei tensioattivi.
196
ALTRI ADDITIVI
Diversi composti sono generalmente aggiunti ai detergenti, per limitarne la
corrosività (silicati), ridurre la CMC, come riserva di alcalinità, ecc.
APPLICAZIONE PRATICA DEI DETERGENTI
DISINFETTANTI
Col termine "in-place cleaning" si intendono le tecniche di lavaggiodisinfezione applicate ad un impianto completo nelle sue parti.
L'applicazione delle soluzioni detergenti può essere fatta a bassa pressione,
impiegando notevoli volumi di soluzione (spray-cleaning); elevate pressioni e
volumi ridotti di soluzione (jet-cleaning); oppure facendo circolare il detergente
nelle tubazioni, scambiatori di calore, ecc. (circulation cleaning). Le operazioni
sono generalmente controllate automaticamente, per quanto attiene la selezione
dei detergenti, la corretta successione dei trattamenti, l'asciugamento finale con
aria filtrata.
Le pompe di circolazione del detergente debbono creare una turbolenza tale
da assicurare la richiesta rimozione della contaminazione.
La quantità di soluzione che viene scaricata all'estremità dell'impianto dove
essere almeno di 100L/min per una tubazione da 1.5 pollici, o equivalente.
La velocità di circolazione del detergente, deve essere di almeno 0.5 m/sec.
Tutte le parti dell'impianto che non sono attraversate dalla soluzione
detergente debbono essere smontate e trattate separatamente.
Tutte le parti dell'impianto debbono avere un'inclinazione che consenta il
drenaggio completo delle soluzioni.
I serbatoi di grandi dimensioni debbono avere un'inclinazione, verso la
valvola di scarico, di circa 25cm/m e lo scarico deve essere ad almeno 25 cm
dal pavimento.
197
Se il trattamento è eseguito a caldo, debbono essere previsti lungo la linea
opportuni rilevatori di temperatura e, sopratutto nei trattamenti con vapore, le
necessarie valvole ad aria filtrata per impedire che la depressione che si
determina, soprattutto all'interno dei serbatoi, col raffreddamento, provochi
indesiderate deformazioni delle strutture.
Oltre al lavaggio con detergenti si debbono eseguire opportunamente
trattamenti con soluzioni "sanificanti".
Per trattamento di "sanificazione" si intende un trattamento che riduca a livelli
accettabili la contaminazione microbica di una superficie.
Si considera idoneo un trattamento che riduce la contaminazione a meno di 1
2
microrganismo /cm .
Il trattamento di sanificazione più efficace è quello termico.
Il calore è efficace nei confronti di tutti i microrganismi; raggiunge ogni zona
dell'impianto, fessure, screpolature, depositi di contaminante; non lascia residui.
Il trattamento deve essere effettuato con acqua calda, generalmente tra 75° C e
95°C, per tempi compresi tra 5' e 50', a seconda del materiale, della presunta
contaminazione, ecc.
I serbatoi sono riempiti; le piccole strutture, immerse; tubazioni, scambiatori di
calore, ecc., per circolazione continua. Il vapore può essere impiegato con
vantaggio nella sanificazione delle strutture combinate, (più che delle superfici)
come tubazioni, serbatoi, ecc.
I disinfettanti sono applicati vantaggiosamente solo su strutture pulite
perfettamente, poiché i residui di materiali diversi inattivano il disinfettante e/o
non gli consentono di raggiungere i microrganismi inglobati nei residui.
Dopo le operazioni di lavaggio con detergente, quindi, si applicherà un lavaggio
con acqua potabile, cui si farà seguire il trattamento con disinfettante. L'efficacia
microbicida di tutti i composti del commercio aumenta all'aumentare della
concentrazione e/o della temperatura. La scelta della concentrazione e della
temperatura di applicazione può essere effettuata sulla base delle indicazioni
fornite dai produttori dei diversi disinfettanti, oltre che, inalienabilmente,
da sperimentazione diretta della soluzione operativa più idonea.
CLORO
Si definisce comunemente "cloro" la quantità di cloro-derivato che
equivale a cloro elementare. Così una preparazione di Ca (OCl)2 col 70%
di cloro disponibile, ha una attività pari al 70% del suo peso in cloro
elementare. In realtà tale corrispondenza è solo convenzionale, e legata al metodo
di misurazione della capacità ossidante del composto.
La "dose di cloro" rappresenta la quantità di cloro aggiunta all'acqua ed è
espressa generalmente in ppm di cloro disponibile; non corrisponde alla
concentrazione di cloro attivo come germicida.
198
La "richiesta di cloro" di un'acqua in cui è solubilizzato, consiste nella quantità di
cloro immediatamente utilizzato nell'ossidazione delle sostanze inorganiche e
organiche dell'acqua. Il cloro infatti reagisce rapidamente con ioni ferrosi, ioni
manganosi, nitriti, H2S e, più lentamente, con composti aminati formando mono e
di cloro-ammine.
Il cloro che reagisce con la sostanza inorganica (e parte di quello che ha reagito
con la sostanza organica) non è più disponibile per l'attività battericida.
Soddisfatta la richiesta di cloro dell'acqua, il cloro microbiologicamente attivo
può essere presente nella soluzione come "cloro disponibile libero" e come
"cloro disponibile combinato". Per cloro disponibile libero si intende cloro
elementare, acido ipocloroso e ione ipoclorito. Per cloro disponibile combinato
si intende il cloro che ha reagito con gruppi azotati; a pH> 8.4 si formano
prevalentemente monocloroammine, e a pH>4.5, dicloroammine. Per "cloro
residuo totale" si intende l'insieme del cloro disponibile, libero e combinato.
La clorazione dell'acqua può essere eseguita con modalità differenti (e per scopi
differenti):
(1) si possono impiegare piccole quantità di cloro (0.5 - 1 ppm), senza tener conto
del cloro residuo né della persistenza più o meno prolungata di cloro disponibile;
(2) si può impiegare un eccesso di cloro ("superclorazione"), se non ci sono
problemi di corrosione;
(3) si adotta la tecnica del "break-point".
Con quest'ultima tecnica, che è la più idonea agli impieghi industriali
dell'acqua trattata, si fanno aggiunte successive di cloro e si rileva la presenza di
cloro residuo. Inizialmente viene soddisfatta la "richiesta di cloro" dell'acqua,
quindi il cloro comincia a combinarsi con composti azotati formando cloramine
e altri cloro-derivati di composti azotati. Con le successive aggiunte si ha un
aumento del cloro combinato disponibile, fino a che non si raggiunge una
concentrazione (variabile in funzione del tipo di acqua) oltre la quale la quantità
di cloro combinato disponibile, diminuisce. Tale diminuzione continua sino
a che non si raggiunge la concentrazione di cloro del break-point (punto di
rottura, o di flesso nella relazione tra cloro aggiunto e cloro residuo); oltre tale
concentrazione, si ha comparsa di cloro libero disponibile, che aumenta
proporzionalmente alla quantità di cloro aggiunto.
Prima che si raggiunga la concentrazione del break-point, sono presenti in
soluzione sostanze (N-CI- derivati) maleodoranti, del tutto eliminate oltre il
break-point. L'attività microbicida del cloro libero disponibile, è massima e
permane a lungo, visto che le sostanze organiche e inorganiche presenti
nell'acqua sono già state ossidate.
Il break-point non è sempre rilevabile con facilità in tutti i tipi di acqua,
cosicché spesso si mantiene semplicemente il livello di cloro intorno a 5 - 7
199
ppm per gli impieghi correnti e intorno a 15 - 20 ppm durante le operazioni
di sanitizzazione.
Per quanto attiene in particolare l'acqua di raffreddamento delle scatole, si
raccomanda di mantenere, nell'acqua che scola appunto dalle scatole
sterilizzate, il livello di cloro sia pari almeno a 0,5 ppm.
Il cloro gassoso (solubilità = 0,7% a 20°C) è molto usato come fonte di acido
ipocloroso, anche per il costo ridotto. L'ipoclorito di calcio, molto usato un
tempo, è attualmente sostituito con l'ipoclorito di sodio.
L'ipoclorito di sodio è commercializzato in soluzioni normalmente al 2- 6%
di cloro disponibile, al 10 - 18% di cloro disponibile, per uso industriale.
Opportuni dosatori provvederanno ad immettere nel circuito idrico le
previste quantità di cloro.
Gli ipocloriti, in polvere o in soluzione, sono relativamente instabili e cedono
cloro per effetto della luce, dell'umidità e del calore. La stabilizzazione ottenuta
con sostanze alcaline, ne riduce l'attività.
La cloramina-T è la più nota e impiegata cloramina del commercio; è una
polvere cristallina bianca con un debole odore di cloro, solubile in acqua (12%
a 25°C), meno attiva dell'acido ipocloroso (occorrono tempi di contatto maggiori,
a parità di concentrazione) nei confronti dei microrganismi.
La diclorodimetilidantoina è una polvere bianca con debole odore di cloro,
spesso usata in miscela con altre cloramine, poco solubile in acqua, più attiva
apparentemente dell'ipoclorito a basso pH e meno attiva a pH elevato.
Le cloramine sono ritenute poco adatte per il trattamento dell'acqua
industriale, ma poiché cedono lentamente il cloro, trovano applicazione
preferenziale quando sono possibili, o addirittura auspicabili, tempi lunghi di
contatto e/o attività microbica nel tempo, o elevate temperature di trattamento.
200
ANNESSI
PASTORIZZAZIONE
LOW HEAT TREATMENT, LHT
Ma forse non sarà inutile cercare di far riemergere anzitutto i criteri ai quali
dovrebbe riferirsi un più generale impiego della tecnica cosiddetta di
pastorizzazione. Per distinguere l'impostazione proposta di seguito – più
razionale, basata sulle conoscenze acquisite di D e z dei diversi batteri patogeni
non sporigeni - e i risultati che ne derivano, da quelli dei trattamenti
convenzionali, il termine "pastorizzazione" sara' sostituito con LHT (da Low
Heat Treatment).
Obbiettivo primario di un trattamento LHT dovrà essere la riduzione della
probabilità di sopravvivenza dei microrganismi di alterazione dei prodotti
pastorizzati, a livelli sufficientemente ridotti. Tale trattamento comporterà
necessariamente anche la riduzione della probabilità di sopravvivenza dei
microrganismi patogeni, a livelli almeno altrettanto minimi.
Qualunque prodotto può essere stabilizzato con un trattamento LHT. In funzione
del valore di pH e di attività dell'acqua (Aw) del prodotto, la stabilità sarà
ottenibile solamente con il magazzinaggio a temperature di refrigerazione, oppure
anche a temperatura ambiente.
Due trattamenti termici LHT (LHT-1 e LHT-2) si possono prevedere (come si
vedrà in seguito), in funzione della loro entità (LHT-1 < LHT-2) e quindi dei
risultati che consentono di raggiungere.
A - Prodotti
con aw ≥ 0.94 :
A.1 - Se il pH > 4.6 la stabilità è ottenibile solamente accoppiando l'LHT1
con il magazzinaggio a temperature T < 1°C.
A temperature di magazzinaggio inferiori a 1°C i prodotti trattati con
LHT-1 possono essere microbiologicamente stabili per piu di tre mesi.
201
A.2 - Se è 3.7 ≤ pH ≤ 4.6 un trattamento LHT-2 consente di ottenere la
stabilità microbiologica indefinitamente, anche a temperatura
ambiente (shelf life).
B - Prodotti con aw < 0.94:
Tutti i prodotti con aw < 0.94 possono essere resi stabili a temperatura
ambiente con un semplice trattamento LHT-1.
Definizione dei parametri tempo-temperatura di
pastorizzazione LHT.
La totalità dei prodotti alimentari può essere alterata da mezza dozzina almeno
di muffe, capaci di formare ascospore molto termoresistenti: D70°C > 10 h, con
valori di z compresi tra 7 e 12°C.
Le spore batteriche possono essere talmente resistenti al calore, che non possono
essere prese in considerazione, nella loro totalità, dai trattamenti LHT. Solo un
gruppo di sporigeni anaerobi, i clostridi butirrici, e di Bacillus appartenenti al
gruppo Macerans-Polymyxa, può essere coinvolto.
Il batterio patogeno che forma le cellule vegetative più termoresistenti è la
Salmonella senftenberg 775 W: D70°C > 2 min ad aw = 0.94.
I due fattori fisico-chimici di maggiore rilevanza nella stabilizzazione
microbiologica dei diversi substrati, sono il pH e l'attività dell'acqua. Per quanto
concerne la termoresistenza microbica, l'attività dell'acqua nel substrato esercita
un'influenza certamente predominante.
È noto che la termoresistenza microbica aumenta al diminuire dell'aw. Purtroppo,
le evidenze sperimentali riguardanti questo fenomeno sono scarse, talvolta
discordanti e comunque incomplete. Tale incompletezza riguarda sia la variazione
del valore di D(T) in funzione dell'aw, sia la variazione del valore di z in funzione
sempre dell'aw. Cosicché' non è possibile, sulla sola base dei risultati sperimentali
disponibili, ottenere una relazione che ci consenta di individuare la relazione che
intercorre tra i tempi di riduzione decimale e temperatura, in funzione dell’attività
dell’acqua.
L'unico modello fisiologico-matematico che consenta di mettere in relazione la
resistenza termica dei microrganismi con la temperatura di trattamento e il
contenuto d'acqua nel mezzo, è il Modello Generale, proposto precedentemente
(Casolari, 1981, 1988), secondo il quale :
1/(1 + M * t)
Ct = Co
(P13)
ed essendo:
202
M = exp (A - 2 * Ed/(R*T)
la (P4) diventa:
[(1+t*exp(A - 2 * Ed/(R*T))]-1
Ct = Co
(P14)
(P15)
dove Ct e Co sono le concentrazioni cellulari dopo il tempo t (min) di
esposizione alla temperatura T (°K) e la concentrazione iniziale (tempo zero);
Ed è l'energia letale, ossia l'energia richiesta per la distruzione dei diversi tipi
di microrganismi; R è la costante universale dei gas (1.987 cal/mole/grado); ed
infine:
A = 94.519 + 2 * Ln W
(P16)
dove W sono i grammi d'acqua presenti in 100 g di substrato.
Dalla (P13) deriva che il tempo di trattamento Ë necessario per ridurre al valore
Ct la concentrazione iniziale Co dei microrganismi che interessa distruggere
(quelli che richiedono l'energia letale di valore Ed) è dato da :
Ë
= [(Log Co/Log Ct)
-1
]/M
(P17)
in cui l'unica incognita rimasta è :
N = ( Log Co / Log Ct )
-1
Poiché secondo il Modello Generale l'inattivazione microbica non è esponenziale,
è necessario svincolarci dal modo usuale di considerare il problema della
definizione del valore di N. Considerando che il massimo numero di batteri che
12
può essere contenuto in un grammo è pari a 10 , e che è necessario (secondo il
Modello) che sia presente più di un microrganismo per unità considerata, perché
il microrganismo possa svilupparsi (e alterare così il prodotto in cui si sviluppa)
con una probabilità accettabile, poniamo Ct = 10, cosicché sarà N = 11.
Si potrebbe impiegare un valore di Ct molto più prossimo a 1, per ridurre in
misura maggiore la probabilità di sopravvivenza. Ma se si accetta che
l'inattivazione microbica non sia esponenziale, ma occorra tanto più tempo per
distruggere i microrganismi, quanto minore è il loro numero (come propone il
Modello Generale), allora non si può ridurre ulteriormente il valore di Ct, senza
che aumenti troppo vistosamente il tempo del trattamento termico. Come è noto
infatti (Casolari 1981, 1988) le ‘code’ che si riscontrano nelle curve di
inattivazione dei microrganismi sono determinate dalla progressiva diminuzione
della probabilità di inattivazione, che si verifica al diminuire della concentrazione
cellulare.
203
D'altra parte, un valore di N = 11 è vicinissimo al classico valore delle 12
riduzioni decimali richieste nella ‘sterilizzazione’ convenzionale, per le spore del
Cl.botulinum.
Dunque N = 11 può essere accettato anche dagli animi più sospettosi. Anche
perché, come si vedrà, il Modello applicato qui impone trattamenti termici di
maggiore entità, soprattutto alle temperature inferiori, rispetto a quelli suggeriti
dal modello convenzionale della inattivazione esponenziale.
Quindi la (P17) diventa:
N = 11 / M
(P18)
Come indicato nell'eq. (P16), il Modello Generale consente di prevedere la
variazione della termoresistenza in funzione della quantità d'acqua contenuta
nel mezzo. Tuttavia, può essere più utile fare riferimento al valore di attività
dell'acqua, Aw, piuttosto che al contenuto totale di acqua. A tal fine, dall'esame
di 35 isoterme di assorbimento di prodotti alimentari, si riscontra sostanzialmente
che, in generale, i valori di aw compresi tra 0.80 e 0.99 (intervallo di aw entro
il quale è applicabile con vantaggio evidente l'LHT) si registrano con contenuti
d'acqua compresi tra 40 e 80 g per 100 g di materiale commestibile. In
particolare, si puo' ritenere con una approssimazione sufficiente ai nostri scopi,
che valga la seguente relazione, tra contenuto percentuale di acqua negli alimenti
(FW) e aw:
FW = 210.658 * AW - 128.93
(P19)
Quindi la relazione (P18) diventa, se si conosce il contenuto percentuale d'acqua
(W) del mezzo da trattare [A]:
Ë = 11 / exp [ A - 2 * Ed/(R*T)]
(P20)
Ë = 11/exp[(94.519 + 2*Ln W) - 2*Ed/(R*T)]
(P21)
da cui:
Il trattamento termico LHT da applicare alle diverse temperature, in funzione
invece dell'attività dell'acqua del substrato [B], è definito invece dalla relazione
(P22):
LHT = 11/exp[(94.519+2*Ln(210.658*aw-128.933)-2*Ed/(R*T)]
(P22)
Per applicare la (P22) ai due gruppi di prodotti individuati precedentemente, è
solo necessario definire il valore di Ed da utilizzare nei due casi; vale a dire,
occorre stabilire quali microrganismi è necessario inattivare, nei due gruppi di
alimenti. Infatti, il valore di aw nella (P22) è quello del prodotto che si intende
trattare; R è una costante definita precedentemente e T è la temperatura alla
204
quale si intende trattare il prodotto, espressa in gradi Kelvin (T = °K = 273.15 +
°C). I prodotti inclusi nel gruppo A possono essere alterati da alcuni ceppi di
Clostridium botulinum, quindi debbono essere magazzinati a temperature
inferiori a quelle di sviluppo dei ceppi più psicrotrofi della specie, e quindi
a meno di 1°C (per maggiore sicurezza, considerate le incertezze connesse alla
precisione dei termometri). Con un trattamento LHT appropriato, si può
determinare l'inattivazione di tutte le Salmonella, applicando un trattamento
adeguato alla distruzione (più di 11D) della Salmonella senftenberg 775 W, la
Salmonella più resistente al calore. I valori di termoresistenza della Salmonella
senftenberg riportati in letteratura sono interpretati dalla eq. (P13) assumendo un
valore di Ed = 35.75 kcal/mole.
Detto LHT1 il tipo di trattamento meno energico, ma sufficiente alla
distruzione di tutte le cellule vegetative patogene, si avra':
ËLHT1 = 11/exp[(94.519+2*Ln(210.658*aw-128.93))-35750/T]
(P23)
Nella Tabella LHT1 sono riportati i tempi (minuti) di trattamento equivalenti, in
funzione della temperatura, dell'attività dell'acqua e del contenuto percentuale di
acqua, ottenuti con la ËLHT1.
L O W H E A T T R E A T M E N T, LHT-1 .
-------------------------------------------------------------------------------Aw Acqua
T E M P E R A T U R A °C
%
71
73
75
77
79
81
-------------------------------------------------------------------------------.80 40. 160.8
88.0 48.4
26.8 15.0 8.4
.8l 42. 145.0
79.2
43.6 24.2 14.5 7.6
.82 44. 131.4
71.8
39.5 21.9 12.2 6.9
.83 46. 119.6
65.4
36.0 19.9
11.1 6.2
.84 48. 109.3
59.8
32.9 18.2
10.2 5.7
.85 50
100.3
54.8
30.2 16.7
9.3 5.2
.86 52.
92.4
50.5
27.8 15.4
8.6 4.8
.87 54.
85.4
46.7
25.7 14.2
7.9 4.5
.88 56.
79.1
43.3
23.8 13.2
7.4 4.1
.89 59.
73.5
40.2
22.1 12.3
6.8 3.8
.90 61.
68.5
37.5
20.6 11.4
6.4 3.6
.9l
63.
64.0
35.0
19.3 10.7
6.0 3.3
.92 65.
59.9
32.7
18.0 10.0
5.6 3.1
.93 67.
56.2
30.7
16.9
9.4
5.2 2.9
.94 69.
52.8
28.9
15.9
8.8
4.9 2.8
.95 71.
49.7
27.2
15.0
8.3
4.6 2.6
.96 73.
46.9
25.7
14.1
7.8
4.4 2.5
.97 75.
44.3
24.2
13.3
7.4
4.1 2.3
.98 78.
42.0
22.9
12.6
7.0
3.9 2.2
.99 80.
39.8
21.7
12.0
6.6
3.7 2.1
-------------------------------------------------------------------------------Salmonella senftenberg 775 W; nD = 11; Ed=35750 cal/mole;
z = 7.82; Q10 = 19.01.
--------------------------------------------------------------------------------
205
Come si può rilevare dai valori di ËLHT1, le spore di Bacillus e Clostridium non
sono inattivate da tali trattamenti. Ma tutte le altre cellule vegetative, patogene e
non patogene, subiscono rilevanti distruzioni.
I tempi di trattamento LHT1 equivalgono ad alcune centinaia di D per Listeria,
Pseudomonas, Vibrio, Campylobacter, Yersinia, Mycobacterium tuberculosis,
Virus FMDV; ci si può aspettare che siano inattivati la Legionella (≥11 D); lo
Staphylococcus aureus (≥20 D) e l'E. coli (≥100D). I batteri non patogeni, di
alterazione, e più resistenti al calore, appartengono ai Generi Lactobacillus e
Streptococcus. Ci si può attendere che per effetto dei trattamenti LHT1 il
Lactobacillus plantarum e L. casei subiscano da 5 a 11 D; almeno 20 D gli
Streptococcus faecalis.
Tutti i prodotti con aw ≥ .94 e 3.6 ≤ pH ≤ 4.6 possono essere resi stabili
anche a temperatura ambiente, con un trattamento LHT2, adatto alla distruzione
delle spore dei clostridi cosiddetti butirrici. Sulla base della termoresistenza delle
spore del clostridium più termo-resistente del gruppo, il Cl. pasteurianum ,
(D95°C = 3.95 minuti, z = 10°C), si puo' ricavare un valore di Ed pari a 38.250
cal/mole, cosicché il trattamento basato sulla loro distruzione, LHT2 appunto,
sarà ottenibile dalla relazione:
ËLHT2 = 11/exp[(94.519+2*Ln(210.658*aw-128.933))-38250/T
(P15)
Nella Tabella LHT2 sono riportati i valori dei trattamenti termici equivalenti,
sulla base dell'aw e della temperatura, tratti dalla (P15). Applicando i trattamenti
LHT2, ci si può aspettare la distruzione (> 11 D) anche delle ascospore di
Neosartoria e Talaromyces, oltre che delle spore di un gran numero di specie
batteriche.
I tempi di trattamento previsti da LHT-1 sono circa 2.5volte superiori, a 71°C, e
più di 5 volte superiori, a 81°C, a quelli indicati nella Tabella P1 e previsti (su
basi incerte, come si è detto, e contraddittorie) dalla legislazione USA e dalla
pratica corrente.
I vantaggi che offrono i trattamenti LHT, rispetto a quelli tradizionali di
pastorizzazione, sono soprattutto di maggiore aderenza alle conoscenze acquisite,
sia teoriche che sperimentali; ciò dovrebbe conferire loro una superiore
affidabilità, sia in relazione alla probabilità di stabilizzazione, sia di
sopravvivenza e diffusione dei microrganismi patogeni.
La possibilità di modulare il trattamento LHT in relazione al valore di aw del
prodotto, pur mantenendo l'equivalenza della letalità nei confronti dei
microrganismi, non possono che accrescerne affidabilità e convenienza.
206
L O W H E A T T R E A T M E N T (minuti) LHT-2 .
-------------------------------------------------------------------------------Aw Acqua
T E M P E R A T U R A °C
%
92
94
96
98
100 102 104
-------------------------------------------------------------------------------.80 40.
386.97 217.89 123.46 70.38 40.36 23.29 13.51
.8l
42.
348.86 196.43 111.30 63.45 36.39 20.99 12.18
.82
44.
316.12 178.00 100.85 57.49 32.97 19.02 11.04
.83
46.
287.77 162.04 91.81 52.34 30.02 17.32 10.05
.84
48.
263.08 148.13 83.93 47.85 27.44 15.83 9.19
.85
50
241.43 135.94 77.02 43.91 25.18 14.53 8.43
.86
52.
222.35 125.20 70.94 40.44 23.19 13.38 7.76
.87
54.
205.45 115.68 65.54 37.36 21.43 12.36 7.17
.88
56.
190.40 107.21 60.74 34.63 19.86 11.46 6.65
.89
59.
176.94 99.63 56.45 32.18 18.46 10.65 6.18
.90
61.
164.87 92.83 52.60 29.98 17.20 9.92 5.76
.9l
63.
153.99 86.71 49.13 28.00 16.06 9.27 5.38
.92
65.
144.15 81.17 45.99 26.22 15.03 8.67 5.03
.93
67.
135.22 76.14 43.14 24.59 14.10 8.14 4.72
.94
69.
127.10 71.57 40.55 23.12 13.26 7.65 4.44
.95
71.
119.69 67.39 38.19 21.77 12.48 7.20 4.18
.96
73.
112.91 63.58 36.02 20.53 11.78 6.79 3.94
.97
75.
106.69 60.07 34.04 19.40 11.13 6.42 3.73
.98
78.
100.97 56.85 32.21 18.36 10.53 6.08 3.53
.99
80.
95.70 53.88 30.53 17.40 9.98 5.76 3.34
-------------------------------------------------------------------------------------------Cl. pasteurianum ; nD = 11; Ed = 38250 cal/mole; z = 8.21; Q10=16.53.
--------------------------------------------------------------------------------------------
207
QUALITY STERILIZATION
Con la QUALITY STERILIZATION (QS) ci si propone di privilegiare
tempi e temperature di trattamento termico, che pur assicurando una conveniente
distruzione delle spore del Cl. botulinum e delle spore dei termofili, consenta allo
stesso tempo di determinare la minore degradazione possibile delle caratteristiche
chimico-fisiche in generale, e/o in particolare di determinati componenti
privilegiati - come possono essere alcune vitamine - profittando del valore
di ‘zeta’ dei composti chimici che interessano, generalmente molto più elevato sia
di quello delle spore batteriche dei mesofili sia di quello dei termofili.
Anzitutto, occorre trovare a quale temperatura TQ il tempo di trattamento ËQ sarà
equivalente al valore di ËR alla temperatura di riferimento R.
Dalla (101) si ha che:
ËQ = ËR * 10 (TR-TQ)/z
(181)
Per i microrganismi sarà:
ËQm = ËRm * 10 (TR-TQ)/zm
(182)
Mentre per le caratteristiche qualitative sarà:
ËQC = ËRC * 10 (TR-TQ)/zc
(183)
I due trattamenti comporteranno i valori corrispondenti di ËQ , alla temperatura TQ
alla quale ËQm = ËQC, ossia, quando:
ËRm * 10 (TR-TQ)/zm = ËRC * 10 (TR-TQ)/zc
(184)
Da cui:
Log ËRm + (Tr-Tq)/zm = Log ËRC +(TR-TQ)/zc
(185)
(TR-TQ)/zm – (TR-TQ)/zc = Log ËRC - Log ËRm
(186)
da cui:
208
da cui
(TR_TQ)*(1/zm -1/zc)
(187)
(TR-TQ)*zc –(TR-TQ)*zm = Log ËRC - Log ËRm
(188)
(TR-TQ)(zc-zm)/zm*zc = Log ËRC - Log ËRm
(189)
TR-TQ = (Log ËRC - Log ËRm ) *zm*zc/(zc-zm)
(190)
Da cui:
-TQ = (Log ËRC - Log ËRm ) *zm*zc/(zc-zm) – TR
TQ = -(Log ËRC - Log ËRm ) *zm*zc/(zc-zm) + TR
(191)
(192)
Ossia:
TQ = (Log ËRm - Log ËRC ) *zm*zc/(zc-zm) + TR
(193)
A questo punto, occorre stabilire i valori di ËRC e ËRm.
Tali valori saranno evidentemente il valore irrinunciabile per la sterilità
microbiologica ËRm , pari poniamo Fo=10, ossia ËRm =10; mentre per il valore di
ËRc si potrà scegliere quale caratteristica fisico-chimica privilegiare; il carotene,
ad esempio, ha un D121.1° = 44 minuti e uno z = 25°. Se si intende limitare la
degradazione del carotene ad un centesimo del D, si avrà ËRc = 0.44.
Dalla (193) si ha:
TQ = (1+0.3565)*(250/15) +121-1 16.7*
= 1.3565*16.67+121.1
= 22.61 + 121.1
= 143.71
In effetti, alla temperatura T = 143.76, i valori di entrambi ËRC e ËRm sono pari a
0.054 minuti=3.24 sec, come si ottiene calcolando il valore di ËQ sia mediante la
(171) sia la (170), indifferentemente.
Poiché lo zc è sempre superiore allo zterm, tale trattamento termico avrà un’
efficacia molto elevata nei confronti dei termofili termoresistenti che hanno z = 4,
e può quindi essere qualificato come QUALITY STERILIZATION
TREATMENT (QST).
Se si scegliesse un valore di ËRC = 0.044, ossia la degradazione di solo lo 0.1% del
carotene, pur mantenendo un Fo=10, si avrà, dalla (193):
209
TQ = (1 +1.3565)*16.67+121.1
= 2.3565*16.67 + 121.1
= 160.384°C
E il tempo di trattamento ËRC = 0.00118 min =0.07 sec.
Un trattamento di solo 0.07 secondi richiederebbe una tecnologia attualmente non
disponibile. Quindi, per ËRC deve essere scelto un valore di 0.44 o di poco
inferiore e comunque superiore a 0.044, vale a dire che non è possibile nella
pratica della sterilizzazione che sia distrutto meno dell’1% del carotene.
ËQ
COMPOSTO D121.1
ND
Vitamina C
246
2.46
50.5
128.69
Tiamina
158
1.58
31.0
132.93
Carotene
43.6
0.44
25.5
143.42
Clorofilla
13.2
0.13
38.8
160.02
Imbrunim.
12.5
0.13
26.0
151.75
Z
TQ
……………………………………………………………….
210
DETERMINAZIONE DEL TRATTAMENTO TERMICO DA
APPLICARE NELLA PRATICA, PER OTTENERE UN
DETERMINATO VALORE DI Fo.
Sono riportate di seguito alcune windows - tratte dal software MicroBioFood
scaricabile gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html - utilizzabile per ottenere una valutazione dei tempi di trattamento termico necessari
per applicare il valore di F72° – F85° scelto per la pastorizzazione, oppure il valore
di Fo, per la sterilizzazione dei diversi prodotti.
Si possono trovare in commercio attrezzature idonee alla rilevazione
dell’evoluzione della temperatura all’interno dei contenitori, e comunque
direttamente nel prodotto, nel corso del trattamento termico – termocoppie di
diverso tipo e dimensione (data trace) –accoppiate a sistemi di calcolo dell’entità
dei trattamenti termici applicati.
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FINE