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Antonella Appiano
CLANDESTINA A DAMASCO
Cronache da un Paese sull’orlo della guerra civile
ISBN: 978-88-7615-638-0
I edizione: novembre 2011
© 2011 Alberto Castelvecchi Editore Srl
Via Isonzo, 34
00198 Roma
Tel. 06.8412007 - fax 06.85865742
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[email protected]
Cover design: Sandokan Studio
Cover layout: Laura Oliva
Prefazione
Quando Egisto Corradi disse che il vero giornalismo si fa consumando la suola delle scarpe non esistevano i telefoni cellulari e la tecnologia digitale, né tanto meno il Web 2.0. L’unica connessione a disposizione dell’opinione pubblica erano gli inviati speciali. E i loro resoconti erano tanto più preziosi in quanto rappresentavano l’unico modo per
essere informati, anche sugli avvenimenti lontani. Oggi invece non è
più così. C’è semmai l’imbarazzo della scelta. Le notizie si sono moltiplicate a dismisura e viaggiano in tempo reale, veicolate non sempre e
non solo dai giornalisti. Eppure, anche in quest’era di infobesità, e anche se il mestiere del giornalista sta cambiando a velocità vertiginosa,
avere delle buone scarpe e riuscire a consumarle fa ancora la differenza. Me lo dice l’esperienza. E lo dimostra anche questo libro di Antonella Appiano, che di un avvenimento complesso come la crisi siriana
di oggi ci offre un resoconto straordinario, puntuale ed emozionante.
Da inviata vera. Secondo me proprio perché ha mangiato polvere per
quattro mesi, nei vicoli di Damasco e nei villaggi della Siria profonda,
senza risparmiarsi.
Immagino non sia stato un reportage facile. Perché fin dall’inizio
delle proteste di piazza, in marzo, il racconto della crisi siriana è stato
viziato da una vera e propria schizofrenia mediatica. Da un lato circolava cioè la versione delle autorità di Damasco, secondo cui era in atto
un complotto ad opera di piccoli gruppi di sabotatori ed estremisti
sunniti, al soldo di Israele, Stati Uniti e Arabia Saudita. Dall’altro c’era
invece la versione degli oppositori, secondo cui le manifestazioni erano
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spontanee e di massa, dirette contro il regime dittatoriale di Bashar alAssad e indette quindi in nome della libertà, uguaglianza e dignità. Difficile districarsi nel mare di propaganda con cui entrambi gli schieramenti hanno provato a inondare i mass media mainstream, in modo da
condizionare l’esito del confronto. Anche perché il governo ha subito
vietato l’ingresso in Siria ai giornalisti stranieri, per non avere fra i piedi testimoni scomodi e comunque non controllabili.
Antonella Appiano è riuscita a eludere con grande abilità questo divieto. Rischiando ovviamente tutti i giorni, costringendosi a cambiare
spesso identità e facendo poi i salti mortali pur di poter testimoniare
quanto stava succedendo, davanti ai suoi occhi, senza mettere in pericolo quanti la stavano aiutando. È stata brava e caparbia – come vedrete – e credo che l’abbia fatto non per il gusto del pericolo ma per l’amore profondo che la lega a questo Paese, alla sua storia e alla sua cultura. Ed è sempre questo amore che deve averle impedito di prendere
partito e di giudicare, a favore degli uni o degli altri, una volta calatasi
in mezzo agli avvenimenti. Antonella mi pare di un’altra pasta. Lei ha
scelto il dubbio, da giornalista di razza. E l’ha praticato fino alla fine,
convinta che il suo dovere fosse non solo quello di testimoniare ma anche di aiutare l’opinione pubblica a capire, distinguendo il vero dal falso ed evitando quelle facili scorciatoie che magari semplificano il lavoro ma lasciano l’amaro in bocca, quando non creano problemi di coscienza, a chi ancora ce l’ha.
Un’ultima nota sul racconto «minimalista» scelto da Antonella, che
trovo particolarmente appropriato ai fatti che racconta. C’è un racconto di Rudyard Kipling che ho molto amato. Si intitola A matter of fact
e in italiano è stato inserito nella raccolta I figli dello zodiaco. Racconta
la storia di tre giornalisti, un americano, un olandese e un inglese, che
si imbarcano su un piroscafo, a Città del Capo, per rientrare in Inghilterra. Durante la traversata c’è una mostruosa creatura degli abissi, se
non sbaglio un serpente marino, che prova a ghermire la nave, senza
per fortuna riuscirci. È uno scoop pazzesco – «perché un giornalista»,
scrive Kipling, «resta sempre e per sempre un giornalista» – anche se
in effetti ha dell’inverosimile. E infatti due dei tre giornalisti, soprattutto l’americano, entrano subito in fibrillazione, per poterlo piazzare,
non appena scesi. Non ci riescono, perché la storia non risulta credibi-
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le. E l’inglese, che non ha nemmeno provato a scrivere l’articolo, perché ritiene che quella storia sia più da racconto, consola così il collega
americano: «La Verità è una dama ignuda e se per caso è tratta dal fondo del mare è d’uopo darle una sottana di stampato o girarsi verso la
parete, giurando di non aver visto niente». Insomma, non tutto si può
raccontare allo stesso modo. E anche la verità ha bisogno di un linguaggio adeguato.
Amedeo Ricucci, giornalista Rai
PROLOGO
Nota sulla traslitterazione
È stato adottato un metodo semplificato di traslitterazione delle lettere arabe
con l’alfabeto latino per facilitare la lettura.
Nota dell’autrice
Tutti i personaggi citati sono reali. Ne è stato cambiato il nome per ragioni di
sicurezza e privacy.
Il piano
Damasco, giovedì 21 luglio 2011
Seguo Hisham che cammina veloce nei vicoli stretti e pieni di gente
del suq Hamiddye. Procede senza esitazioni, evitando ragazzini che
trascinano carretti zeppi di merci, venditori ambulanti, donne formose
che ondeggiano lente nelle abayye nere – i loro lunghi vestiti tipici – e
si fermano in gruppo a chiedere il prezzo di un velo, l’hijab, o un sandalo dorato. Imbocchiamo una via fiancheggiata da botteghe di stoffe.
Sovrastando suoni e rumori, da qualche parte, arriva la voce inconfondibile di Feiruz che canta «Eh, fi amal», ‘sì, c’è speranza’. È sera,
l’aria si è rinfrescata. Coppiette e famiglie passeggiano senza meta
mangiucchiando pistacchi e datteri ripieni. Passiamo davanti a un hammam, e riesco a vedere di sfuggita il barrani, il cortiletto interno con
belle lampade colorate, panchine e una grande fontana.
Poi abbandoniamo la strada per immergerci in un groviglio di viuzze.
Hisham passa sotto una volta, scendiamo pochi gradini e ci ritroviamo in
uno slargo. Si ferma davanti a una piccola bottega di bric-à-brac. «Siamo
arrivati. As-salamu ‘alay-kum», dice entrando. «Wa-‘alay-kum-as-salam»,
risponde lo shaykh Ahmad, un uomo robusto con una folta barba scura.
Ci fa sedere, indicando con un gesto un divanetto: «Tafaddalu». E
mentre prepara il the, Hisham gli chiede senza preamboli. «Domani?».
«Solo al-Midan. A Qaboun ci saranno troppi agenti di sicurezza», e rivolto a me con un cucchiaino nella mano: «Sukkar?».
Lo shaykh Ahmad sa che sono giornalista, con lui non devo fingere.
Gli chiedo se appartiene ai Comitati siriani di coordinamento locale,
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una piattaforma che, da maggio, ha riunito gli organizzatori delle manifestazioni anti-regime nel Paese. «No. Aderisco al movimento di strada. Agiamo da soli. Abbiamo la nostra rete». «E come fate a organizzarvi, a mettervi in contatto?». Sorride. Risponde Hisham per lui: «Siamo un piccolo gruppo, ci conosciamo tutti. Posti sicuri, parole d’ordine». «Per esempio?». «Fa caldo, vuol dire che stiamo organizzando un
corteo di protesta. Piove è un segnale di pericolo. Avvisa che in zona
c’è molta polizia segreta».
Entra un ragazzo. Un ventenne, bruno, alto in blue jeans e una
maglietta gialla. Me lo presentano come Fares. «La sua famiglia vive a
Deir-ez-Zor», aggiunge lo shaykh. A Fares mancano solo due mesi per
terminare il servizio di leva ma è riuscito a corrompere un ufficiale e
ora è a casa. E fa parte della stessa «cellula» di Hisham e dello shaykh.
Ogni tanto, secondo gli accordi, si presenta in caserma e gira il Paese
con documenti falsi. La sua carta d’identità gli verrà consegnata solo al
termine del servizio militare.
Sono tornata a Damasco dopo un mese e mezzo e la situazione nella capitale è cambiata. Il mio amico Hisham, un architetto quarantenne disoccupato che ancora a maggio, pur dichiarandosi contrario al regime, non aveva mai partecipato attivamente alle manifestazioni, è sceso in piazza. Quanti come lui? Il movimento di protesta, incominciato
a metà del marzo scorso, è cresciuto. Le «manifestazioni del venerdì»
continuano settimana dopo settimana. E se all’inizio si chiedevano solo riforme, ora l’appello generale è per la caduta del regime. Secondo
gli attivisti per i diritti umani, sono stati uccisi, per strada, più di 1.600
dimostranti e almeno 10.000 sono stati arrestati. Il regime risponde che
400 fra poliziotti e militari sono stati assassinati «da bande armate».
Il primo di agosto comincia il Ramadan. Al tramonto i musulmani
consumano l’iftar, il pasto di rottura del digiuno e vanno in moschea a
pregare. Che cosa succederà quando ogni giorno, e non solo il venerdì, le folle si riuniranno?
L’opposizione siriana si è delineata meglio, anche se è ancora divisa
e frammentata. Laici, islamisti, attivisti dei diritti civili. Opposizione in
patria ed esiliati all’estero. Le correnti principali sono tre. In patria agisce quella dei dissidenti siriani, composta di circa duecento intellettua-
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li indipendenti, che, da marzo, si sono dichiarati disposti a tenere aperto il dialogo con la leadership di Damasco. Personalità fra cui il cristiano Michel Kilo e gli alawiti Lu’ay Husayn e Aref Dalilah. Gli ultimi
due, nell’aprile scorso, avevano incontrato Butayna Sha’ban, la consigliera presidenziale, in merito alla «Conferenza di dialogo nazionale»
promossa dal governo: una novità da parte della leadership al potere,
che, prima di oggi, non ha mai riconosciuto alcuna forma di dissenso.
Durante la conferenza, che si è tenuta a Damasco dal 10 al 13 luglio
2011, il governo ha ribadito l’impegno a intraprendere riforme politiche. Sono stati invitati esponenti dell’opposizione e della società civile,
intellettuali, artisti e religiosi. Ma Michel Kilo, Lu’ay Husayn e Aref
Dalilah non hanno partecipato dichiarando che «le condizioni necessarie per un vero dialogo sono la fine della repressione violenta e la liberazione di tutti i prigionieri politici».
Il gruppo di Aref Dalilah ha proposto al governo una soluzione politica in otto punti. La prima richiesta è, appunto, la fine delle violenze. E anche una conferenza nazionale in cui siano invitati rappresentanti di tutte le fazioni, anche chi organizza le proteste della strada.
Questa corrente vuole convincere le autorità di Damasco ad accettare
i punti del documento programmatico. E, nello stesso tempo, convincere chi manifesta che se il regime accetterà si aprirà una fase nuova. Il
gruppo sottolinea anche il pericolo di un cambiamento parziale, di un
regime change com’è avvenuto in Egitto, dove tuttora non si sono ancora svolte libere elezioni. La seconda corrente in patria è quella dei
Comitati siriani di coordinamento locale, di cui credevo facesse parte
Hisham e lo shaykh Ahmad. Anche questo movimento ha proposto un
programma politico. In sintesi, chiede, attraverso una transizione pacifica, la fine del mandato presidenziale di Bashar al-Assad e una riforma
totale del sistema politico. Secondo le dichiarazioni di un organizzatore della capitale «è necessario che le autorità accettino la richiesta, altrimenti il Paese rischia lo scoppio di una guerra civile».
Lo shaykh versa il the in piccoli bicchieri che ha riscaldato e si risiede.
Mentre beve, con l’altra mano fa scorrere i grani del tasbeeh di avorio.
«Chi dovrebbe guidare la transizione secondo voi?». «Nel manifesto
dei Comitati di coordinamento locale si legge che il compito spetta a
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un consiglio composto di rappresentanti civili e militari, per un periodo non più lungo di sei mesi», risponde lo shaykh, «noi non abbiamo
formulato una proposta». «Che cosa pensate di Lu’ay Husayn e Aref
Dalilah?». «Sono intellettuali», risponde Hisham, «lontani dal popolo». «Io non sono d’accordo sul dialogo», aggiunge Fares. Invece lo
shaykh Ahmad, che vede chiaramente «i rischi della transizione da un
sistema-regime a un sistema democratico in un Paese come la Siria» li
considera personalità autorevoli in grado di «servire la causa». Il the è
finito e lo shaykh lava la teiera con acqua calda per prepararne altro e
aggiunge: «Noi continueremo a manifestare. Ormai siamo a un punto
di non ritorno. Mi rendo conto delle difficoltà. La Siria, se riusciamo
nel nostro intento, dovrà ricominciare da zero. Abbiamo sfidato il sistema, è vero, vogliamo uno stato di diritto, libere elezioni. Però, parlo
per il mio gruppo, stiamo navigando a vista».
C’è anche l’opposizione all’estero. Molti dei loro esponenti hanno
partecipato alla conferenza di Antalya, in Turchia, che si è tenuta dal
31 maggio al 2 giugno di quest’anno. Fra i promotori, i firmatari
dell’«Iniziativa nazionale per il cambiamento». Un gruppo di circa 150
dissidenti siriani – creato da Radwan Zyaada, un trentacinquenne che
vive negli Stati Uniti da quattro anni, ricercatore alla George Washington University – che esclude ogni possibile trattativa con Bashar alAssad e ne chiede le dimissioni. Circa trecento esiliati si sono riuniti di
nuovo, sabato 16 luglio in una Conferenza di salvezza nazionale a
Istanbul, per redigere una road map e creare una Struttura di coordinamento permanente dell’opposizione. La conferenza è stata promossa da personalità indipendenti e partiti politici, fra cui l’avvocato e dissidente storico Haithem al-Maleh. La Turchia – che ospita anche esponenti dei Fratelli Musulmani in esilio – è stata quindi di nuovo sede di
un incontro dell’opposizione siriana.
Che ne pensano i miei interlocutori? Di nuovo pareri diversi. Hisham è diffidente. Lo shaykh esprime qualche riserva: «L’incontro di
Antalya ha fatto emergere divisioni su alcuni temi, per esempio il ruolo dell’intervento straniero. Io sono favorevole solo alle pressioni sul
regime. Anche se le sanzioni economiche possono rivoltarsi, indirettamente, contro le fasce povere. Un’azione militare mai. Sarebbe disastrosa». Fares si accalora: «Qualcuno, come Burhan Ghalioun, profes-
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sore di Scienze politiche alla Sorbonne, ha rifiutato di partecipare. Ha
dichiarato infatti che il meeting rappresentava solo un “fascio di gente
che vuole approfittare dalla rivoluzione per interessi privati”. E ci sono in gioco anche interessi di Paesi stranieri». Scuote la testa. «Ascolta, chi davvero è disposto a sacrificarsi per la rivoluzione? Noi che
scendiamo per strada. Noi siamo i veri protagonisti».
Lo shaykh si scusa, deve ritirarsi a pregare: «Ci rivediamo più tardi».
E Hisham propone di andare a mangiare qualcosa in un piccolo Caffè
vicino. Ci facciamo portare fattush e felafel. Hisham e Fares incominciano a chiacchierare fitto in dialetto damasceno. Sono confusa. Altri elementi. Altre testimonianze. Un intrecciarsi d’ipotesi. Di dubbi. Nella
mattinata ho incontrato di nuovo l’avvocato Siham, che avevo conosciuto durante il mio precedente soggiorno in Siria. Lo avevo lasciato a
maggio abbastanza fiducioso di fronte alla possibilità di una svolta democratica e pacifica nel Paese. Convinto che il presidente «avrebbe agito per il bene della Siria». Ci siamo visti nel suo studio. Mi è apparso
cupo e pessimista. «Le mie previsioni si stanno rivelando sbagliate.
Bashar ha reagito male al movimento di protesta. È stato lento a capirne
la portata, le richieste della gente. L’uso delle armi contro i manifestanti
è una follia. Sto seguendo la Tunisia e l’Egitto e capisco che è difficile
realizzare una transizione da un regime a partito unico al pluralismo democratico. In Siria non abbiamo, non ricordiamo neppure che cosa siano, partiti politici veri, un parlamento vero, sindacati, una magistratura
indipendente. E anche noi, come in Egitto e Tunisia, dobbiamo affrontare un grande problema. Come integrare i movimenti islamici in un sistema politico democratico?». «Nel caso di caduta del regime, quindi?», chiedo. «Certo, le forze religiose vorranno svolgere un ruolo politico nella guida del Paese, anche se non sono all’origine della sollevazione. Il Movimento islamico indipendente, attraverso i suoi leader, ha dichiarato di non essere tanto interessato a instaurare la shari’a. Credo però che gli ulama più importanti siano ancora legati all’idea dell’applicazione della legge divina. In generale, le forze conservatrici sunnite spaventano i laici, le classi medio-alte educate all’occidentale. Anche se la
Turchia, con il partito Akp (Partito per la giustizia e lo sviluppo) di Erdogan, sta dimostrando che l’Islam è compatibile con la democrazia».
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«Allora?». Scuote la testa. «Stiamo vivendo un momento buio. Le manifestazioni sono incominciate troppo presto. Avremmo dovuto aspettare, organizzare un’opposizione operativa. Ora c’è disaccordo se dialogare o no con il governo. Una scelta difficile. Quasi una sfida impossibile.
Tutti vogliamo una Siria migliore. Che fare a questo punto? Sai che non
amo il regime ma se la leadership e lo Stato baathista cadono da che cosa saranno sostituiti? Dall’altro lato, c’è la proposta di negoziare con il
regime. È possibile? Se fosse davvero intenzionato a collaborare… Possiamo dire che fino ad ora non è stato convincente».
Mentre mi accompagna alla porta, aggiunge ancora: «Credi che il regime siriano cadrà senza lottare? Una guerra civile settaria è, come
sempre, il mio incubo. Ci deve essere un modo per uscire da questa crisi che sta logorando il Paese. Ma quale?».
Hisham mi è sembrato molto sereno a proposito di uno scenario simile all’Iraq o libanese. «Non succederà, noi siriani siamo uniti». Avrà
ragione o è solo incosciente? È un uomo, non un ragazzo arrabbiato. È
colto eppur sembra sottovalutare i problemi. Come nel piano che stiamo organizzando per andare a Deir-ez-Zor, la cittadina sulle rive dell’Eufrate, che in questo mese di luglio è stata uno degli epicentri della
rivolta. Anche Hisham ha parenti che vivono lì. Ricordo Deir-ez-Zor
qualche anno fa, una cittadina particolare, di frontiera, al confine con
l’Iraq. Avevamo fatto una sosta sulla rotta per le zone archeologiche di
Dura Europos e di Mari, fermandoci a mangiare in un locale kitsch pieno di fiori finti e mosaici con odalische. Ricordo la passeggiata lungo il
fiume, il profumo di gelsomini. Il mercato affollato di contadini che arrivano dalle campagne per vendere frutta e verdura.
Non riesco a immaginarla circondata dai carri armati. E la proposta
di Hisham mi sembra importante, mi offre la possibilità di vedere in
prima linea che cosa sta succedendo. Hisham insiste sul fatto che posso viaggiare da turista. «Dichiari di voler visitare Mari». «Chi potrebbe crederci, Hisham? Una turista, a luglio con quarantacinque gradi, la
stagione peggiore per viaggiare, e in un momento così pericoloso?».
Anche secondo Fares, che interpelliamo a tavola, il piano non funzionerebbe. «Le faresti correre troppi pericoli, comunque torniamo dalla
shaykh Ahmad e sentiamo che cosa ne pensa».
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Lo shaykh è perplesso. Già aveva espresso le sue riserve nei miei
confronti. «Una giornalista donna. In questo caos. Perdonami, non
potevano mandare un uomo? Un uomo forte?». E c’è il problema della scadenza del visto. Un rischio andare a farlo rinnovare. Pollice verso, dunque. «Fra l’altro», mi confida, «sembra che la città non sia più
sotto il controllo del governo. I carri armati circondano la città ma alcune zone sono in mano ai dimostranti. Hanno ricevuto armi attraverso il confine iracheno». Fares aggiunge: «Per ora i militari non osano
avventurarsi all’interno. L’esercito potrebbe però decidere di bombardare. Ha ragione lo shaykh, è troppo pericoloso». «Ti ringraziamo»,
conclude lo shaykh Ahmad, «ma non possiamo esporti così, non abbiamo garanzie. Non saremmo in grado di proteggerti».
Non insisto, però propongo di cambiare il piano. «Prima avete parlato di Midan, domani ci saranno manifestazioni, avete detto. Midan
non mi sembra così azzardato». «Sì», annuisce lo shaykh. Hisham si anima. «Ho una proposta. Ci diamo un appuntamento in città nuova. Tu
vieni vestita come ora, con il tuo passaporto. Dopo andiamo nel
quartiere vicino, a Qabr A’tekah. Ci vive una famiglia di amici. Gente
fidata. Lì ti cambi, indossi il niqab, lasci il passaporto. Te ne procuro
uno io, russo. Sarai mia moglie». «Perfetto», approva lo shayk, «una
moglie russa musulmana. E con il niqab nessuno potrà riconoscerti.
Può funzionare, inshallah».
Ci salutiamo. «Grazie e ma’-is-salame». «Allah ysalm-ak», rispondo.
Usciamo. Il sole è tramontato. È quasi buio. I negozi sono chiusi,
poca gente. Ombre. Inciampo e Hisham mi sorregge. Davanti a noi
sbuca da una viuzza laterale un uomo tarchiato che zoppica leggermente. Ha in mano un cavalletto fotografico. «Lo vedi», bisbiglia
Hisham, «è un artista, un fotografo famoso. Lavora per gli Assad». Lo
sorpassiamo e si salutano «As-salamu ‘lay-kom, w-‘alay-kom-as-salam».
Saranno i discorsi che abbiamo fatto, non so, ma il suq che pure ho
percorso tante volte di sera, e da sola, mi sembra minaccioso. Appena
arriviamo sulla via principale, fuori dalla cittadella, Hisham ferma un
taxi. Salgo in fretta. «A domani, alle dieci e mezzo, in piazza Arnous,
anzi è meglio davanti al Centro culturale russo, va bene?». « Ci sarò».
E questa volta sono io ad aggiungere sottovoce, inshallah.
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Damasco, venerdì 22 luglio 2011
Da: Massimo
Data: 22/07/2011
A: Antonella
Oggetto: dove sei?
Antonella, io non mi preoccupo... però mi preoccupo. Non ho più ricevuto notizie. Se puoi, scrivi. Bose kbire. Un abbraccio.
Hisham suona due volte il campanello. Due suoni brevi. Ci aprono
subito la porta e Hisham mi presenta Mouna, una giovane donna che
indossa una jellabieh lunga colorata e un hijab bianco. Ci fa accomodare in un salotto con i divani ricoperti di plastica. Alla parete un
grande pannello di legno con la scritta Alhamdulillah (‘grazie a Dio’).
«Ibrahim?». «È già uscito», risponde Mouna. Tre bimbetti arrivano di
corsa e mi guardano incuriositi. Mentre Hisham tira fuori dalla tasca
due passaporti russi.
Mi mostra le fotografie. «Guarda. A chi assomigli delle due?». E per
la prima volta da quando ci siamo incontrati stamattina gli scappa un
sorriso. Anche a me. «Hisham, a nessuna, speriamo che non ci fermino. Comunque scelgo Natasha, almeno ha i capelli chiari».
Mouna è rientrata con un vassoio con il caffè che appoggia sul tavolino davanti a Hisham e mi fa segno di seguirla. In camera sua, steso sul
letto, c’è il niqab. Me lo mostra. «L’ho chiesto a un’amica irachena di
mia cugina».
Il niqab copre il viso lasciando scoperti solo gli occhi. Ne esistono diversi modelli. Quello che Mouna mi aiuta a indossare è in due pezzi. Il
primo si chiama litham, un fazzoletto di stoffa leggero, che va messo al
di sotto degli occhi per coprire naso e bocca, e poi si lega al di sopra
delle orecchie. Il secondo è uno scampolo di stoffa molto più ampio del
primo, che nasconde i capelli e buona parte del busto. Si lega dietro alla nuca e si lascia cadere morbido lungo le orecchie.
Pantaloni neri e maglia nera e sopra una abaya. Mouna mi mostra lo
specchio e mi guardo.
Una sconosciuta. Potrei essere chiunque, avere qualunque età. Faccio qualche passo. Sono già abituata a portare l’abaya. Ma vedere il
mondo da una fessura cambia le prospettive. Le limita. Restringe il
campo visivo.
Dall’hotel al Centro culturale russo ci vogliono solo quindici minuti a
piedi. Incrocio due passanti, uno tira dritto, l’altro mi guarda incuriosito. Il tragitto sembra infinito. Per fortuna Hisham è già ad aspettarmi davanti al Centro. Senza dirmi niente mi guida lungo la strada per
arrivare a Qabr A’tekah. Camminiamo lentamente, fianco a fianco, restando in silenzio.
A casa, la sera prima, con un fazzoletto, avevo fatto molte prove per
riuscire a bere con il litham. L’anno passato, in un Caffè della città vecchia con la mia amica Fatima, avevo osservato con attenzione una donna bere un succo di frutta. Alzava rapida un angolo del litham e beveva usando una cannuccia. «È senza dubbio una irachena o una saudita», mi aveva detto Fatima. «Qui a Damasco poche portano il niqab».
Ho dormito poco questa notte. Il richiamo del muezzin per l’adan,
l’appello alla preghiera, mi sveglia all’alba. Impossibile riaddormentarmi. Ripasso il piano nei minimi particolari. Leggo, riguardo la cartina.
Alle nove sono già pronta, pantaloni e casacca, ballerine nere. Nere, mi
aveva raccomandato Hisham. «Per il niqab. Non so se i miei amici ne
hanno un paio della tua misura». Tolgo dalla borsa la macchina fotografica. Guardo fuori. La città è deserta, i negozi e i Caffè chiusi
come ogni venerdì. E, come negli ultimi quattro mesi, l’atmosfera è
tesa, inquieta. Il frigorifero è vuoto e per far colazione vado all’Hotel
Armitage in piazza al-Arnous. Ci sono già stata altre volte. «Oggi non
serviamo il buffet», mi avvisa subito il cameriere quando entro. «Ci
sono solo dolci, pane e marmellata». Prendo qualche biscotto alle mandorle e ordino un caffè. Nella sala una coppia di mezza età, vestita all’europea. Cerco di capire in che lingua parlano ma bisbigliano. Le
nove e mezza. Ordino un altro caffè. Meglio partire all’ultimo minuto.
Nessuno gira da solo il venerdì mattina. Ho portato un libro di grammatica araba e cerco di studiare. Le dieci. Chiedo al cameriere se posso accedere alla sala business con i computer. Va a chiedere ma ritorna
scuotendo la testa. «Mi spiace oggi è chiusa». Ritorno a casa, voglio
controllare la posta. E le ultime notizie. C’è un messaggio di Massimo.
Non gli ho raccontato nulla, ma ha intuito qualcosa.
22 ANTONELLA APPIANO
In un anno però la situazione è cambiata. Ritornando a Damasco ho visto in giro molte donne con il velo integrale, anche nella città nuova, in
quartieri dove non mi capitava mai d’incontrarle.
Riprovo ora, mimando i gesti. È il massimo che riesco a fare. Bere
con una cannuccia. Mangiare sarebbe troppo complicato. Mouna fa un
cenno di approvazione, poi mi gira intorno osservandomi con attenzione. «Va bene, ricorda di non sistemare il niqab in continuazione, cerca
di essere naturale». Mi sforzo di respirare con regolarità anche se non
è facile. Ho caldo e sento che la faccia si sta arrossando.
Ancora un respiro profondo e sorrido. La bocca è nascosta ma agli
angoli degli occhi la pelle s’increspa. E Mouna ricambia il sorriso. «Andiamo». Hisham mi guarda soddisfatto. «Jamila, ‘bella’», mi prende in
giro. Lascio il mio passaporto a Mouna. Hisham posa la tazzina di caffè. «Come ti senti? Ancora decisa?». Faccio un cenno di assenso con la
testa. «Usciamo, allora».
Per strada Hisham mi guida tenendo una mano appoggiata al mio
gomito. Cerco di camminare disinvolta ma senza Hisham non ce la
farei. Siamo arrivati a piazza Mousalla. Da qui parte la strada principale, al-Midan. La polizia in tenuta anti-sommossa è schierata, insieme
alle guardie di sicurezza, come ogni venerdì.
Al-Midan, antico quartiere sunnita conservatore, a Sud-Ovest della
città vecchia è da mesi sede di manifestazioni anti-regime. Non ci fermano. E sento Hisham allentare la pressione sul gomito.
In passato questa era la zona da cui partivano le carovane di pellegrini dirette alla Mecca, perciò si trovano numerose moschee. « È sempre stato un quartiere turbolento», mi aveva spiegato Hisham, «ribelle
anche durante la dominazione ottomana e l’occupazione francese. La
gente di Midan combatteva per la libertà e il quartiere fu bombardato
dai francesi, durante la rivolta siriana del 1925».
A Midan c’è un suq famoso per i dolci. Piramidi di baklava costruite con arte nelle vetrine e bancarelle di kanafa. Le pasticcerie sono
chiuse ma l’aria profuma di anice, pistacchi e miele. Sento l’aroma acuto anche sotto il velo.
È l’una e gli uomini sono ancora a pregare nelle moschee. Giriamo
in una via laterale. In un’altra ancora. Hisham segue un percorso complicato per avvicinarsi alla moschea di Zein al-Abdeen.
CLANDESTINA A DAMASCO 23
Si ferma davanti a un portoncino e suona un campanello. «Finalmente siete arrivati. Tutto bene?» «Ma fi muskile, Abid, nessun problema, saliamo». Dalla terrazza vedo il fiume di gente nella strada. Sembrano sbucati all’improvviso dalle vie intorno. Piccoli gruppi che si
uniscono ad altri. Come rivoli che si riversano in un fiume. Formano
un corteo che si gonfia. Immagini. Chiare. Confuse. Sollevo il litham
che ostacola la vista. Non riesco, sono nervosa, cerco di strapparlo ma
Hisham mi ferma. Le immagini si sovrappongono. Uomini, ragazzi.
Braccia alzate. Mani chiuse a pugno. Sento gli slogan che inneggiano
alla libertà, all’unità. «Meglio la morte che l’umiliazione».
Le forze di sicurezza attaccano con i gas lacrimogeni. I manifestanti
si disperdono, scappano veloci. Arrivano altre forze di sicurezza. Camionette. Qualche dimostrante viene preso.
Hisham non ha smesso un attimo di guardarsi intorno. Controlla le
altre terrazze, i tetti, le finestre. «Se sparano, buttati a terra».
Non ci sono state sparatorie. Come d’incanto le strade si sono svuotate. Ma non so quanto tempo è passato.
Alla sera ci vediamo con Ibrahim e Mouna, nel quartiere di Salhiyya.
Scegliamo un ristorante semplice per mangiare qualcosa e commentare
la giornata. Solo due tavoli sono occupati. C’è silenzio. La televisione è
sintonizzata su Aljazeera. Scelgo il pollo al limone mentre gli altri ordinano saj al formaggio, seguendo attenti le immagini sullo schermo.
Sono stanca e affamata. Il cameriere mi porta il piatto.
Cinque, li conto, cinque pezzetti di pollo annegano in un mare di salsa e di patate fritte. Guardo Hisham, Ibrahim e Mouna. E ricordo la
sera del mio arrivo a Damasco, a marzo. Anche quella sera eravamo andati a mangiare in gruppo, festosi. Pieni di allegria. Rivedo Fatima e il
fidanzato Salah, seduti con me in un locale affollato. Avevamo fatto la
fila per sederci.
Anche quella sera avevo ordinato dajaj bil-laimun.