rileggendo ORIENTaleggiando p. 105: da Beirùt la call

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rileggendo ORIENTaleggiando p. 105: da Beirùt la call
rileggendo ORIENTaleggiando p. 105:
da Beirùt la call-girl a Damasco la nobile dama
“ash-Shàm ... ash-Shàm”, gridava l’autista del taxi-service la mattina dopo a Place des Martyrs. ashShàm sapevamo essere l’antico nome della Siria e di Damasco, a indicare la parte nord del deserto
arabo, ma ci veniva nuovo che fosse usato tuttora. Era proprio così d’altronde. Damasco per gli
arabi è ash-Shàm. Salimmo sulla vecchia Mercedes e partimmo una volta messi insieme tutti e
cinque i passeggeri. Io e Ric sedevamo davanti, accanto all’autista, un tipo ciarliero cui non pareva
vero di poter far due chiacchiere con degli europei che masticavano un po’ d’arabo. Ci chiese subito
se fossimo anche musulmani. Al nostro cenno di diniego divenne serio per un attimo, ma solo per
un attimo. “Conosco dei cristiani al quartiere di Midàn di Damasco, dove abito e sono brava gente”.
Non sapevamo nulla di Damasco, allora. Il nome di Midàn per noi significava solo ‘piazza’ perché
tale era il suo uso in Egitto. Ma il nostro amico Abdallàh provvide a informarci che il quartiere con
quel nome era il più vasto della capitale siriana, “ed anche il più importante, oltre che il più eroico,
in quanto, durante l’occupazione francese, da lì partirono vari moti di ribellione, tanto che i francesi
lo bombardarono a più riprese”. Vien d’uopo precisare che per farci capire quanto esponeva, egli
dovette chiacchierare per un buon quarto d’ora, aiutandosi con gesti e con qualche parola francese.
Se avevamo acquisito un po’ di familiarità con l’arabo egiziano, quello siriano risultava ancora
alquanto ostico ai nostri orecchi. Ma qualcosa si capiva e Abdallàh continuò raccontandoci con
molta pazienza – il viaggio era lungo d’altronde e di tempo ce n’era – come suo padre fosse stato
imprigionato dai francesi e che se avessimo voluto saperne di più, bastava che andassimo a fargli
visita e ce l’avrebbe fatto conoscere. Facemmo sosta a Shtùra, l’ultima cittadina libanese prima
della frontiera, dove autista e compagni di viaggio riempirono l’auto di generi alimentari, sigarette,
alcolici e quant’altro. Al confine i poliziotti libanesi, tra il serio e il faceto, ci misero in guardia su
quanto avremmo trovato in Siria, descrivendocela più o meno come un paese di cannibali. Altro che
il Libano! Mi venne in mente che l’anno prima, passando dalla Tunisia all’Algeria, i tunisini
avevano espresso lo stesso giudizio nei riguardi del paese in cui stavamo entrando. Come avevo già
sottolineato, l’esperienza successiva aveva reso giustizia all’Algeria e sarebbe stato lo stesso questa
volta per la Siria.
Al posto di blocco siriano le lungaggini burocratiche presero un bel po’ di tempo. Noi dovemmo
farci il visto. Avevamo cercato l’ambasciata siriana a Beirùt, per scoprir che non esisteva in quanto
il governo di Damasco non riteneva d’averne una in Libano, paese che considerava territorio della
Grande Siria solo provvisoriamente separato. I doganieri accennarono a qualche contestazione per
la quantità di merci stivate nel taxi, rientrata in un attimo per il rapido passaggio d’una banconota da
una mano all’altra. Ci sembrò lo svolgersi di un gioco delle parti divenuto normale procedura.
Lasciato il confine alle spalle riferimmo ad Abdallàh la battuta dei poliziotti libanesi. L’autista
prese a inveire, sostenendo che il Libano non era altro che Siria e se ora ne era separato questo era a
causa dei “colonialisti francesi che avevano potuto mantenere un solido piede nella regione
attraverso quel paesetto di venduti”. Almeno questo, più o meno, c’era sembrato di capire.
Avevo preso un foglio abbandonato di giornale in francese al posto di polizia siriana. E mi cadde
l’occhio su questo brano che lessi a Ric: “Beirùt e Damasco: due nomi prestigiosi, due città
affascinanti, distanti tra loro solo 100 km, ma così differenti! Beirut è una specie di call-girl
internazionale, sfrontata e seducente, decisamente volta al piacere, al modernismo, alla civiltà dei
consumi. Pur vivendo dell’Oriente ella rinnega le sue origini orientali per copiare sistematicamente
l’Occidente.
Invece Damasco è la donna tradizionale dell’Oriente, riservata, trincerata nella sua dignità, di
difficile approccio, perfino deludente. Conquistarla non è facile. Bisogna meritarla con paziente
sforzo. Ma quando, dopo una corte discreta e assidua, ella, per te soltanto, solleva il velo che le
nascondeva le fattezze, appare una città meravigliosa che si scopre ai tuoi occhi estasiati, al tuo
animo rapito. Ed è l’inizio di una lunga e fervida fedeltà.
‘Lode a Dio che ha fatto di Damasco un verde neo sul volto della Terra!’ esclamava un poeta arabo
del Medio Evo.
Nel XII secolo il viaggiatore andaluso Ibn Jubàyr non esitava ad affermare: ‘Se il Paradiso si trova
sulla Terra, Damasco ne fa senz’altro parte. E se il Paradiso si trova in cielo, Damasco ne è la
replica e suo pendant sulla Terra’.
Damasco, la più antica capitale del mondo rimasta tale, grande rivale della Gerusalemme di
Salomone, deve la sua importanza ai doni offertile dalla natura. prima di tutto la ricchezza d’acqua,
fondamentale in queste terre desertiche bruciate dal sole. Damasco è il dono del Baradà, il fiume
che nasce a qualche chilometro nelle montagne dell’Antilibano. Il Baradà porta con sé verde e
freschezza: distribuendosi in molteplici canali egli forma senza dubbio una delle più grandi oasi del
mondo: la Ghùta”.
La zona montagnosa color ocra chiaro dell’Antilibano siriano s’era fatta ancor più brulla rispetto al
versante libanese. Riguadagnammo il verde poco dopo, come anticipatoci dall’articoletto appena
letto, entrando nella valle del Baradà col suo aprirsi nella Ghùta. Dalla grande piazza degli
Omàyyadi entrammo a Damasco, “la più antica città del mondo” osservò Abdallàh, “e nel periodo
del suo maggior splendore sotto i califfi Omàyyadi, capitale d’un impero che andava dall’Andalusia
all’India”.