BORDONARO, Lorenzo, 2003, “Marginalità Transnazionali

Transcript

BORDONARO, Lorenzo, 2003, “Marginalità Transnazionali
BORDONARO, Lorenzo, 2003, “Marginalità Transnazionali. Modernità, migrazioni e
nostalgia tra l’Arcipelago dei Bijagó (Guinea Bissau) e Lisbona”, Afriche e Orienti, 3-4: 206222.
Lorenzo Ibrahim Bordonaro
ISCTE, Lisbona
[email protected]
Marginalità transnazionali.
Modernità, migrazioni e nostalgia tra l’Arcipelago dei Bijagó (Guinea Bissau) e
Lisbona1.
One can also ask whether the emergence of
Fortress Europe in 1992 may not also signal the
emergence of a new empire, as yet uncertain of
its boundaries and global reach’ (McClintock
1995: 13).
Molto è stato scritto su come nel mondo contemporaneo ‘i confini familiari tra “qui” e “là”,
centro e periferia, colonia e metropoli, diventano confusi (Gupta e Ferguson 1992: 10). L’idea
secondo la quale l’economia culturale globale non può più essere compresa secondo modelli
centro/periferia (Appadurai 1996: 32) è diventata estremamente comune (Chambers 1994, Hannerz
1996, Appadurai 1996), quanto quella che la globalizzazione non produce necessariamente
omogeneizzazione verso un unico modello culturale ‘occidentale’.
Tuttavia alcuni autori negli ultimi anni hanno avanzato perplessità a proposito di queste
ottimistiche previsioni, sottolineando come la celebrazione del consumo creativo locale dei prodotti
dell’industria globale della cultura non deve farci trascurare importanti assunti politici associati
all’influenza Euroamericana (si vedano ad esempio Gupta e Ferguson 1992, Escobar 1995, Lavie e
Swedenburg 1996, Ferguson 1999). Il permanere di forti asimmetrie nell’economia mondiale, la
sudditanza tecnologica e culturale dei paesi africani e le strategie imperialistiche del governo
Statunitense questionano infatti le previsioni di una prossima dissoluzione di centri e periferie. Per
quanto riguarda più strettamente i fenomeni migratori, la condizione sociale nel contesto di
accoglimento, la risposta della società ospite e le recenti politiche europee sul lavoro e sulle
migrazioni, sembrano a tutti gli effetti limitare se non escludere la possibilità di una reale
‘confusione’ di queste categorie (Lavie e Swedenburg 1996), pur non impedendo di fatto l’emergere
di atteggiamenti critici e contestatari e la rinegoziazione delle politiche identitarie.
In questo articolo, attraverso l’analisi di un caso particolare di migrazione transnazionale,
quella dei Bijagó della Guinea Bissau, vorrei verificare alcuni di questi assunti. In un primo
momento descriverò vari aspetti del contesto di origine, sottolineando come l’immaginazione
migratoria sia attivata da una precisa percezione della propria marginalità in relazione ai ‘fantasmi’
dei centri della cultura e dell’economia globale. In secondo luogo mi soffermerò sulle esperienze di
alcuni migranti Bijagó residenti nella periferia di Lisbona, evidenziando la loro sensazione di
esclusione e di marginalizzazione all’interno della società portoghese, e lo sviluppo di sentimenti
1
Questo articolo è parte di una ricerca più ampia dal titolo Living in the Margins. Youth and the Global in Bubaque
(Bijagós Archipelago, Guinea-Bissau), condotta nell’ambito del dottorato in antropologia sociale presso l’ISCTE di
Lisbona sotto la supervisione del prof. Robert Rowland, finanziato dalla Fundação Ciência e Tecnologia del Ministério
Ciência e Tecnologia portoghese.
nostalgici verso la Guinea Bissau2. In ultima analisi giungerò alla conclusione che il processo di
dissolvimento delle categorie binarie di margine/centro, qui/là, ecc., previsto e forse auspicato dalle
teorie postmoderne, non sembra realizzarsi nel caso in questione: al contrario, questi dualismi, per
quanto slegati da un preciso riferimento geografico, riemergono nei contesti locali come negli spazi
urbani delle città europee, riaffermando quelle differenze che il dislocamento dei migranti sembra
porre in questione. Di fronte al permanere di queste ineguali distribuzioni del potere e della
ricchezza, la marginalità dei migranti verrà tuttavia considerata come luogo privilegiato di
consapevolezza politica, di elaborazione di strategie contro-egemoniche e di contestazione delle
politiche identitarie dominanti.
La Guinea Bissau in crisi
La regione dell’Arcipelago dei Bijagó comprende alcune decine di isole, situate poche miglia
a ovest di Bissau, la capitale della Guinea Bissau. Questo piccolo paese dell’Africa Occidentale con
poco più di un milione di abitanti e una diversità culturale sorprendente, colonia portoghese fino al
1974, attraversa dagli anni Ottanta una situazione di instabilità, culminata nel 1998 con l’esplosione
di una sanguinosa guerra civile. Tale guerra e il governo successivamente eletto hanno portato un
paese già fragile a una situazione di profonda crisi economica e sociale. L’applicazione del piano di
aggiustamento strutturale del F.M.I., negoziato nel 1987, la crisi della scuola associata alla
massiccia disoccupazione dei diplomati dell’insegnamento superiore, un mercato del lavoro
praticamente bloccato, l’insolvenza dello stato nei confronti dei suoi dipendenti in ogni settore,
pongono con acutezza la problematica della socializzazione dei giovani e della loro emancipazione
sociale, soprattutto per le fasce urbane scolarizzate. L’attuale instabilità politica e il continuo timore
di un sollevamento dell’esercito determinano una situazione umanitariamente e economicamente
disastrosa, di fronte alla quale molti commentatori hanno parlato di un reale crollo dello stato3.
Anche l’arcipelago, per quanto già precedentemente quasi completamente ignorato dalle
attività dello stato postcoloniale a causa della sua posizione periferica, non è sfuggito a questa
situazione: più di otto ore separano Bissau da Bubaque, l’isola principale e sede degli organi del
governo, e il trasporto viene effettuato tramite piccole canoe, lente e poco sicure nella stagione delle
piogge; le linee telefoniche inoltre sono soggette a frequenti interruzioni, che lasciano l’arcipelago
isolato per vari mesi l’anno.
L’isola di Bubaque ospita l’unico centro urbano dell’arcipelago dei Bijagó, la cosiddetta
Praça. Originariamente un avamposto creato dai Portoghesi e successivamente sede
dell’amministrazione coloniale della regione, la Praça ha subito negli ultimi vent'anni una
espansione demografica notevole. È una contact zone (Pratt 1992: 4) in cui non solo Europei e
Bijagós continuano a incontrarsi da secoli, ma dove altri individui, provenienti da regioni diverse
della stessa Guinea Bissau o di paesi confinanti svolgono attualmente attività commerciali. La
Praça è inoltre il luogo nell’Arcipelago dove è maggiormente evidente la presenza, e quindi anche
la decadenza, dello Stato. La presenza di fattori di penetrazione culturale europea e non,
trasformano dunque quotidianamente la realtà della Praça, arricchendo l’habitat di significato e
l’immaginazione dei giovani che abitano sull’isola. Questi ragazzi costituiscono un piccolo
serbatoio di emigrazione: per quanto in realtà pochi potranno realmente permettersi di fuggire verso
l’Europa, i loro sogni e le possibilità di vita immaginate (Appadurai 1996, Beck 2000) sono
2
Non mi propongo di fornire una descrizione della situazione dei Bijagó alle isole o di quelli emigrati a Lisbona, quanto
di riportare alcune testimonianze, sguardi soggettivamente rivolti al contesto di origine, alla società ospite e
all’esperienza migratoria: sono fili di memoria, di speranza e di disperazione indispensabili per cogliere quelle
“dimensioni ‘nascoste’ e spesso omesse dalla letteratura sull’argomento, eppure fondamentali per comprendere quello
che succede quando si attraversa una frontiera” (Beneduce 1998: 16).
3
Si vedano Rudebeck 1982; Cardoso 1999; Chabal 2002; Forrest 2002.
ostinatamente orientati in questa direzione4.
I giovani e il mito della modernità
Uno degli aspetti salienti della cultura giovanile5 urbana a Bubaque è la mitologia della
modernità. Come è stato spesso sottolineato, l’idea della modernità funziona essenzialmente come
un segno diacritico che crea un mondo sociale bipolare attraverso un discorso dicotomico (Rofel
1992, Pigg 1996, Ferguson 1999, Schein 1999). Definendosi ‘sviluppati’ i giovani della Praça si
contrappongono, a livello discorsivo prima ancora che a livello di pratiche quotidiane, al mondo dei
valori e alle pratiche rituali associate alla vita rurale dei villaggi e difese dagli anziani, indicate con
disprezzo come arretrate, non sviluppate, non civilizzate. Questa opposizione ideologica ribalta le
relazioni di gerarchia proprie della comunità di villaggio. La subordinazione dei giovani (iamgbá – i
bambini) agli anziani (iakotó – i grandi) rappresenta infatti un elemento essenziale
dell’organizzazione sociale: diventare anziano e acquisire i privilegi che derivano d questa
condizione è un processo complesso che comporta il passaggio attraverso numerosi gradi di età e il
pagamento continuo ai membri delle classi d’età superiori. L’iniziazione (maschile e femminile)
inoltre divide la popolazione del villaggio in due gruppi in contrapposizione: coloro che già sanno e
hanno acquisito lo statuto di uomo o donna adulto e quelli che invece sono ancora ‘bambini’6.
I giovani della Praça questionano il cammino previsto dagli anziani, criticando le norme
etiche e le istituzioni autoritarie del villaggio che non consentirebbero la realizzazione delle loro
ambizioni individuali e lo sviluppo dell’Arcipelago: le classi d’età, le iniziazioni, il pagamento agli
anziani rappresenterebbero delle sopravvivenze destinate a scomparire per consentire lo sviluppo.
L’opposizione ideologica tra tradizione e modernità, evidente nelle parole dei giovani,
acquista dunque un valore specifico e profondamente locale, dando voce e descrivendo in termini
riconosciuti una dialettica generazionale, fornendo un apparato discorsivo all’interno del quale
conferire senso e legittimità al desiderio di emancipazione. La posizione dei giovani della Praça si
configura come il risultato dell’articolazione di un’opposizione strutturale tra categorie d’età locali
con flussi di informazioni globali (Ortner 1995). Appropriandosi di termini chiave quali modernità,
progresso, sviluppo, inscrivendo i loro racconti, le loro vite e i loro sogni in spazi discorsivi più
ampi, i giovani pongono in comunicazione il loro orizzonte locale con una retorica globale il cui
potere e il cui potenziale si manifestano, in modo ai loro occhi indubitabile, nella supremazia
economica e tecnologica dell’Occidente7.
Marginalità e fuga
Se da un lato il mito del progresso pone i giovani che abitano in città in antitesi alla vita rurale
4
Molte delle idee e del materiale che propongo relativi al contesto di origine, sono il risultato di vari mesi trascorsi con
un gruppo di giovani, la cui età varia tra i 14 e i 25 anni, che abitano o orbitano intorno alla Praça. La maggior parte dei
ragazzi con cui ho conversato non sono nati nel centro urbano, ma vi si sono trasferiti insieme ai genitori o da soli, per
ragioni che vedremo più avanti.
5
La categoria di ‘giovane’ non viene qui adottata acriticamente: come mostro più avanti, l’opposizione tra giovani e
anziani è un elemento strutturale dell’organizzazione sociale al villaggio, essendo basata su definizioni marcatamente
sociali e culturali più che sulla effettiva età anagrafica. Sui problemi relativi alla categoria di ‘giovane’ si vedano
Comaroff e Comaroff 2000, Durham 2000, Argenti 2002.
6
Sulla cultura dei villaggi dell’Arcipelago si vedano Gallois Duquette 1983; Scantamburlo 1991; Henry 1994;
Bordonaro e Pussetti 1999; Pussetti 1999, 2001.
7
L’idea dell’“Occidente” è stata sottoposta negli ultimi anni a critiche severe. Scrivendo Occidente mi riferisco ad un
prodotto dell’immaginario locale, non a un luogo specifico con tratti culturali omogenei. In termini di dinamiche
economiche e culturali globali adotto invece il termine ‘Eurocentro’, suggerito da Lavie e Swedenburg (1996).
del villaggio, dall’altro situa l’Arcipelago e l’intera Guinea Bissau al ‘principio’ o ai ‘margini’ di
una narrazione teleologica il cui referente ultimo è l’Occidente. La percezione che i giovani di
Bubaque hanno della propria posizione all’interno del sistema del capitalismo globale è basata sulla
contrapposizione tra centro/periferia, misurando la propria modernità su una scala evolutiva lineare.
Come si espresse uno dei miei interlocutori, Fernando: ‘Qui a Bubaque, in Guinea, siamo secoli in
ritardo rispetto all'Europa’.
A questo proposito è importante non svalutare questa mappatura della realtà contemporanea
definendola ideologica, e imputandola quindi ‘semplicemente’ all’imposizione violenta di un ordine
interpretativo da parte dei sistemi di regolazione dei traffici economici/culturali del capitalismo
avanzato. Il discorso della modernità e della civilizzazione rappresenta chiaramente una eredità
dell’ideologia coloniale, che giunge ai giovani mediata (e certamente poco trasformata) attraverso le
idee di progresso e di sviluppo che hanno plasmato e continuano a plasmare non solo le politiche
degli stati africani nel periodo post-indipendenza, ma anche il tono delle relazioni internazionali tra
l’Eurocentro e il resto del pianeta (Ferguson 1992, 1999, Escobar 1995, Hodgson 1999, Thomas
2002). Tuttavia attribuire all’incorporazione passiva di una categoria dicotomica che è un’ipoteca
coloniale la percezione di marginalità da parte dei giovani di Bubaque, rappresenta una
semplificazione eccessiva che non riconosce la complessità delle relazioni tra contesti locali e
ordine globale. Piuttosto è importante sottolineare che ‘tutte queste categorie continuano ad avere
importanza perché esprimo qualcosa di fondamentale circa la geografia di una modernità
postcoloniale che esibisce delle continuità evidenti con le asimmetrie dell’epoca coloniale. [Queste
categorie] catturano le complessità dell’esperienza contemporanea e i processi sociali, culturali e
economici che hanno modellato la vita delle persone per oltre un secolo di storia coloniale e
postcoloniale’ (Thomas 2002: 367). In questo senso la continuità con l’epoca coloniale non è
semplicemente discorsiva, ma anche politica ed economica: la Guinea Bissau e Bubaque vengono
percepite come periferiche perché, indubbiamente, sono distanziate e escluse dai flussi politici,
economici e culturali mobilitati dal capitalismo globale. La marginalizzazione dell’Africa da parte
del colonialismo e del capitalismo occidentale non è solo un problema di rappresentazione, ma
anche e soprattutto di concrete strategie politiche ed economiche.
Le categorie centro/periferia risultano dunque appropriate griglie interpretative perché ci sono
periferie e centri politici ed economici nel mondo contemporaneo e localmente la percezione di
questa impotenza politica e marginalità economica è drammaticamente viva8. L’apertura di
orizzonti più ampi attraverso il contatto con flussi globali introduce una nuova dimensione
all’interno dell’immaginazione sociale dei giovani di Bubaque: quella dell’esclusione e della
frustrazione. L’intera gamma di sentimenti che questa situazione genera può essere riassunta nel
sostantivo koitadesa, che indica la percezione di essere sfortunato, sfiduciato, la condizione di resa
di fronte alle sventure della vita: tale termine rappresenta un elemento chiave nella percezione di sé
in Guinea Bissau (Trajano Filho 2002) e si esprime frequentemente in kriol nelle espressioni jitu ka
ten (traducibile come: ‘accetta le cose come sono perché non c’è modo di cambiarle’) e n’sufri
(‘soffro, sopporto soffrendo’).
L’adozione di categorie binarie non ci parla dunque del successo del progetto modernista
coloniale. Tali categorie parlano piuttosto dell’esperienza di marginalità e privazione, e di ciò che i
8
Scrivendo ‘centri’ non intendo necessariamente ed esclusivamente luoghi di concentrazione del capitale, quanto
piuttosto regioni del sistema mondiale in cui si addensano e vengono prodotti o rielaborati i flussi culturali globali e le
politiche economiche mondiali. Altrettanto importante è precisare che i centri sono molteplici e non necessariamente
coincidenti con l’Eurocentro (Gardner 1995: 272). Allo stesso modo i ‘margini’ non sono luoghi geografici, quanto
piuttosto un ‘sito concettuale […] un posizionamento analitico che rende evidenti sia i caratteri di oppressione e di
limite propri dell’esclusione culturale sia il potenziale creativo di riarticolare, dare nuova vita, e riassemblare quelle
stesse categorie sociali che periferalizzano l’esistenza di un gruppo’ (Tsing 1994: 279). L’adozione delle categorie di
centro e periferia in un contesto di migrazione non ha necessariamente attinenza con la teoria neo-marxista della
dipendenza, accusata di dipingere i migranti come attori passivi, agiti da processi macroeconomici (Gardner 1995:12).
La mia intenzione infatti è piuttosto quella di evidenziare la percezione e le risposte locali e individuali di fronte a
fenomeni macrosociali, ossia le rappresentazioni locali della geografia globale del potere.
Comaroff (1999: 289) identificano come una delle caratteristiche chiave della difficoltà
postcoloniale in tutta l’Africa, il crollo degli schemi interpretativi del progresso e dello sviluppo.
Nonostante il discorso egemonico della globalizzazione e del transnazionalismo, l’ordine
economico mondiale crea marginalità tanto quanto connessioni. Come ha notato Mbembe, per i
poveri in Africa – come probabilmente anche altrove – globalizzazione sembra significare solo
‘leccare la vetrina’ (lécher la vitrine) (citato in Meyer e Geschiere 1999: 5): da un lato si assiste a
un ampliamento degli orizzonti, a nuovi stimoli all’immaginazione, dall’altro alla mancanza cronica
di mezzi. Paradossalmente, il risultato più immediato della globalizzazione, così come viene
percepita dai giovani di Bubaque, è una percezione acuta della propria marginalità, intesa come
limitazione a un contesto locale al quale è difficile sfuggire, come distanza dai luoghi dove
‘accadono le cose’, come la condizione di non-essere-connesso. La Guinea Bissau e, a maggior
ragione Bubaque, sono considerati luoghi dove ‘non capita nulla’, dove ‘non c’è nulla’.
Di fronte a una globalizzazione che si manifesta localmente come assenza, carenza ed
esclusione, delusi dall’inefficienza dello stato postcoloniale, molti dei ragazzi della Praça guardano
all’esperienza della migrazione come all’unica salvezza. Come ha acutamente osservato Arjun
Appadurai, ‘per molte società, la modernità è un altrove’ (1996:9). I percorsi migratori immaginati
portano anche verso Bissau, Dakar, Conakry, ma il sogno di tutti rimane l’Europa, in quanto
regione di produzione ufficiale della modernità, centro in opposizione a una moltitudine di periferie
più o meno distanti, fonte immaginata di potere e ricchezza. L’Europa diventa, attraverso
l’assemblaggio di frammenti di rappresentazioni, il luogo ideale dove ‘andare a formarsi per potersi
sviluppare’, l’opportunità di partecipare alla ‘cultura della modernità’. La migrazione viene
percepita anche come l’unico mezzo efficace per migliorare la propria situazione economica: in
questo senso, come ha sottolineato Katy Gardner, i migranti, più che come soggetti passivi di fronte
ai cambiamenti dell’economia internazionale, si configurano come ingegnosi ‘consumatori’ delle
nuove opportunità (Gardner 1995: 51). Tuttavia la migrazione a Bubaque rappresenta un lusso che
pochi possono permettersi. Nella maggior parte dei casi il desiderio di fuga viene frustrato e i
giovani rimangono intrappolati tra il villaggio e l’Europa nelle strutture deficitarie dello stato
postcoloniale, costretti a forme di sopravvivenza negli spazi urbani della capitale.
I Guineensi in Portogallo: elementi statistici e istituzionali
Prima di passare a descrivere la situazione di alcuni Bijagó che sono riusciti a intraprendere il
percorso migratorio, è importare fornire alcuni dati relativi alla situazione dei migranti in Portogallo
e degli immigrati Guineensi in particolare9.
Per quanto riguarda l’immigrazione in generale, si distacca in Portogallo quella che si
definisce abitualmente immigrazione lavorativa o economica, destinata a alimentare i settori meno
qualificati del mercato del lavoro. Si tratta di flussi migratori provenienti, soprattutto fino a pochi
anni fa, dai paesi PALOP, il cui incremento si è verificato a partire dalla metà degli anni ’80,
consolidandosi negli anni ’90. Il fenomeno dell’immigrazione è osservabile specialmente nell’area
metropolitana di Lisbona. A partire dagli ultimi anni ’90, la mappa dell’origine geografica dei
migranti si è significativamente allargata. Senza che sia cessata l’entrata di Africani lusofoni, è
aumentata la presenza brasiliana e soprattutto si è aperto il nuovo fronte dei paesi dell’est europeo.
Nonostante l’immigrazione abbia un carattere marcatamente non nazionale, essendo
prevalentemente concentrata nella zona di Lisbona, e abbia di fatto un volume ancora molto distante
da quello registrato in qualunque altro paese europeo, rappresenta tuttavia un fenomeno importante
per l’insieme della società portoghese (Machado 2002: 1-2; si veda anche Cunha 2001, SaintMaurice 1997, Beja Horta 2003).
9
Gli studi condotti sulla comunità guineense immigrata in Portogallo sono ancora molto pochi e spesso hanno un taglio
decisamente sociologico, fornendo un quadro di riferimento indubbiamente utile ma rimanendo molto distanti
dall’esperienza individuale dei migranti.
Di fronte a tali flussi migratori il governo Portoghese ha adottato nel corso degli anni varie
misure legali: dopo la legge sulla nazionalità portoghese approvata nel 1981, che limitava l’accesso
a molti aspiranti provenienti dalle ex-colonie africane, nuove disposizioni restrittive seguirono nel
1982 e, dopo l’adesione al trattato di Schengen (1993), nel 1994 e 1997. Per controllare e vigilare
sugli immigrati presenti sul territorio sono stati promosse due campagne di legalizzazione (1992 e
1996). Nel 2000 sono state apportate modifiche alla legge che regola il soggiorno degli stranieri sul
territorio nazionale. Secondo queste nuove disposizioni, gli stranieri possono restare in Portogallo in
funzione del reale bisogno di manodopera, attraverso la concessione di un permesso di lavoro,
rinnovabile anno per anno fino ad un massimo di cinque (Cunha 2001). Secondo la nuova legge
quindi, il diritto al soggiorno viene subordinato al contratto di lavoro, condizione imprescindibile
per ottenerne il rinnovamento. Considerata l’attuale crisi del mercato del lavoro, l’immigrato viene
a trovarsi in una situazione precaria, nella quale le reali possibilità di integrazione sono
estremamente ridotte e il rischio di espulsione è sempre più concreto10. Una nuova disposizione del
12 marzo 2003 promulgata dall’attuale formazione di governo guidata da Durão Barroso, nega
qualunque tipo di regolarizzazione straordinaria e prevede l’espulsione per più di quarantamila
immigrati considerati irregolari.
I Guineensi sono diventati una delle popolazioni immigrate più numerose, non solo perché la
componente di lavoratori immigrati è cresciuta rapidamente durante la prima metà degli anni
Novanta, ma anche perché la situazione di guerra che la Guinea Bissau ha vissuto tra il 1998 e il
1999 ha portato verso il Portogallo alcune migliaia di rifugiati. Inoltre, la permanenza di una
situazione di instabilità politico-militare e di crisi economica, se non si tradurrà in nuove uscite dal
Paese, rimanderà per lo meno eventuali processi di ritorno, rappresentando un fattore ulteriore di
sedentarizzazione dei migranti (Machado 2002: 3). L’emigrazione costituisce un aspetto ormai
centrale dell’economia guineense che coinvolge principalmente i settori della classe media urbana,
scolarizzata e dipendente da un salario e quindi maggiormente vulnerabile al progressivo
deterioramento della situazione economica, cui le autorità governative non riescono a porre rimedio
(Machado 2002; Mbembe 1985).
Fernando Luís Machado propone la stima di 25-26.000 guineensi presenti sul territorio
nazionale portoghese nel 1998, contando anche coloro che si trovano in una posizione irregolare
(Machado 2002: 86; vedi anche Cunha 2001: 92-93). Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi
di immigrati di prima generazione, che istituiscono con il contesto di accoglimento una relazione
meramente economica, anche se non mancano casi di emigrazione per motivi di formazione
scolastica. Secondo il Censimento Nazionale dei Guineensi Residenti in Portogallo (1995), il 47%
adduceva come ragioni per aver intrapreso il percorso migratorio la ricerca di lavoro e di migliori
condizioni di vita, mentre il 22,1% indicava motivi di studio (citato in Machado 2002).
In confronto con l’emigrazione guineense in Portogallo, l’emigrazione dalle isole Bijagó è un
fenomeno recente e ancora molto contenuto: nel 1980 l’arcipelago non era ancora stato toccato in
modo significativo dal fenomeno della migrazione (Machado 2002: 77). Oggigiorno, se è innegabile
che i Manjaco e i Mancanha11 costituiscono la maggioranza degli immigrati guineensi,
l’emigrazione coinvolge persone delle più diverse origini etniche, appartenenti ai settori urbani e
scolarizzati della società (Machado 2002: 79). È importante comunque sottolineare che nel percorso
migratorio l’appartenenza etnica non rimane inalterata e indenne. Per quanto la Guinea Bissau abbia
una grande diversità etnica, religiosa e linguistica, la migrazione non traspone completamente in
Portogallo tale diversità mantenendone inalterati i confini (Machado 2002: 3. Vedi anche Contador
2001). Se infatti le reti intraetniche possono costituire un aspetto rilevante del processo migratorio
nel caso di comunità molto numerose (come nel caso dei già citati Manjaco e Mancanha), per
piccoli gruppi - come quello Bijagó - l’etnicità non è un quadro di riferimento significativo. Molti
dei migranti di origine Bijagó che ho incontrato ad esempio, hanno generalmente trascorso alcuni
anni a Bissau, dove rapporti di amicizia e di vicinato si sostituiscono a quelli basati sulla prossimità
10
11
Si vedano Neves 2003 e Lopes, Carvalho, Soares 2003.
Raggruppamenti etnici della costa guineense.
culturale e tendono a essere mantenuti anche nel contesto di accoglimento. Non ha quindi senso
parlare di una comunità bijagó di Lisbona, in quanto la più ampia dimensione nazionale tende ad
assorbire ed eludere differenze etniche (Machado 2002: 221)12.
La stanchezza dell’Europa: il grande inganno e la delusione
Nella prima parte di questo articolo ho cercato di mostrare le speranze e le aspettative che i
giovani di Bubaque coltivano nei confronti dell’Europa, i loro sogni relativi a una promozione
sociale attraverso il processo migratorio. Ma cosa succede quando la frontiera viene attraversata?
Come vengono rielaborate le categorie che strutturano il desiderio migratorio?
L’arrivo in Portogallo viene sempre descritto come un momento di profonda delusione, e
raccontato ironizzando sulla ingenuità delle aspettative. La percezione del ‘grande inganno’, della
mensonge collectif (Sayad 1999) si configura come una delle prime esperienze cui vanno incontro
gli immigrati. Marta, nata a Bubaque nel villaggio di Ankamona, risiede in Portogallo dal 1989. Il
suo impatto con l’offerta abitativa riservata ai migranti è significativo: ecco come racconta il suo
arrivo insieme a una amica, presso la casa di sua cugina, nella baraccopoli di Prior Velho, alle porte
di Lisbona:
Camminiamo, camminiamo, camminiamo… finché siamo arrivate e abbiamo visto quelle
baracche di Prior Velho, baracche proprio fatte con assi di legno, non erano quelle altre case, di
mattoni.
- E questo che cosa è?
- Neanch’io lo so.
[ride]
Andiamo, andiamo, andiamo…
- Qualcuno abita qui? In Europa?
Il posto dove abitava mia cugina, Nacia, il posto per il quale ce ne eravamo andate dal
paese, era proprio là, in quel posto in cui poche case erano di mattoni, il resto era tutto fatto con
tavole. Allora ci siamo dette:
- Ma come?! Ah… è così?
Ci siamo messe le mani nei capelli. Vedi l’illusione che la gente ha in Guinea? Perché
nessuno ti racconta nulla quando sei in Guinea! Nessuno, nessuno…
Il racconto di Marta esemplifica una situazione precaria a livello abitativo in Portogallo, e
nella regione di Lisbona in modo particolare, per gli immigrati provenienti dai paesi PALOP. I
‘quartieri sociali’ edificati negli ultimi anni alla periferia di Lisbona rappresentano la risposta
tardiva delle istituzioni a situazioni di degrado abitativo cui devono adattarsi gli immigrati nei primi
anni del loro soggiorno (Letria e Malheiros 1999, Beja Horta 2003).
Dopo l’arrivo la delusione si trasferisce presto anche ad altri ambiti della vita del migrante. Si
instaura immediatamente una relazione estremamente pragmatica con il contesto di accoglimento,
ritenuto utile perché consente una formazione scolastica migliore e la possibilità di guadagnare
meglio, per quanto con lavori che non corrispondono alle aspettative o alle qualifiche degli
individui. Provocate, messe di fronte alle parole dei giovani di Bubaque le cui illusioni, i cui sogni
sono così simili a quello con i quali loro stesse sono partite dalla Guinea, le persone con cui ho
avuto occasione di parlare a Lisbona, adottano un atteggiamento molto cauto, non negando i
vantaggi del Portogallo, ma invitando a farsi poche illusioni in merito alla possibilità di una felice
12
Questo contributo non ha quindi la pretesa di fornire dati statistici, di individuare modelli generalizzati di
comportamento, quanto quello di esplorare in profondità pochi casi che, come antropologo e amico, ho avuto modo di
conoscere da vicino e che rivelano dinamiche emotive e immaginative significative.
integrazione, del conseguimento di una posizione lavorativa di rilievo, all’idea di condurre una vita
serena a Lisbona. La grande maggioranze degli immigrati vive infatti una esperienza di ‘rottura
professionale’ (Machado 2002: 112, 176), svolgendo spesso impieghi poco qualificati e non
coerenti con il loro livello di scolarizzazione: si tratta per lo più di attività nelle costruzioni civili,
per gli uomini, e nella ristorazione, nel settore alberghiero o nei servizi domestici e personali
(badanti, personale di servizio), per le donne.
Marta: io continuo a lavorare qui per riuscire a crescere i miei figli, perché continuino i loro
studi, per dare loro appoggio, appoggio che non avrebbero se stessero in Guinea, perché la Guinea
non funziona a livello di stipendio dei lavoratori. Se funzionasse, allora tutto bene. Ma non
funziona a livello di lavoratori. Un tempo la scuola era diversa. Ma attualmente la scuola della
Guinea non è al 100%. Quello che è buono, se c’è un ragazzo in Guinea che vuole venire a
formarsi in Europa, qui in Portogallo, o in Inghilterra, in Francia o in Italia … che venga a
formarsi. Poi trarrà le sue conclusioni su quale è il suo futuro.
Ho altri quattro figli a Bissau, e vorrei portarli qui, perché possano andare a scuola e
formarsi bene. La mia intenzione è che vengano a studiare, per cercare un giorno di tornare in
Guinea a lavorare. Perché qui in Europa, in Portogallo, non c’è futuro per noi. Ci sono giovani che
pensano che se vengono a formarsi qui poi troveranno lavoro per rimanere qui…conosco molta
gente, ingegneri e altro, colleghi, figli di colleghi, che si sono formati e poi non trovano, e non
fanno nulla. La mia idea è che il nostro futuro qui, non è un futuro…non è una vita con futuro. Tu ti
formi e poi il nostro mercato del lavoro qui è molto limitato. Puoi formarti, ma non trovi lavoro
nella tua area di formazione. Per questo dico che non c’è futuro.
È buono conoscere altri luoghi. Se no rimani con quell’illusione. È difficile dire a qualcuno
in Guinea: ah non andare in Europa, perché in Europa la nostra vita è limitata. È difficile. È buono
che uno veda, se ha la possibilità, perché è difficile affrontare il viaggio. È necessario guardare ciò
che è buono per parlarne bene, ciò che è cattivo per parlarne male.
La limitazione della vita del migrante nel contesto di accoglimento è uno degli aspetti salienti
che emergono, la delusione più cocente. Si tratta della scoperta di quelle che Carlo Capello
definisce ‘prigioni invisibili’ (Capello 2003). Per Clara, la principale preoccupazione è la difficoltà
di inserimento nella società portoghese, il confinamento a una posizione marginale, tanto nelle
strutture di educazione superiore quanto nel futuro ambiente lavorativo. Clara è nata a Bubaque, ha
fatto gli studi superiori a Bissau, poi ha raggiunto sua madre a Lisbona nel 1998, sfuggendo alla
guerra civile. Attualmente studia gestione di impresa. Dalle sue parole emerge la dimensione
dell’esclusione, della segregazione e dell’intolleranza13.
Quelli che vogliono andarsene dalla Guinea… hanno ragione, perché quando stai là pensi
che non c’è niente e che invece è qui che c’è tutto. Ma non è così. Là è difficile, ma se qualcuno ha
il modo di studiare là, di rimanere là e di formarsi e di trovare lavoro, è meglio. Qui la scuola è
buona, è migliore. In Guinea non ci sono i professori, non c’è nulla. Ma solo che qui… non c’è
futuro. Ogni giorno ci si trova di fronte a una sfida. Io dico: visto che ora c’è l’università in
Guinea, se uno ha la possibilità di studiare in quella facoltà, nel corso che vuole … è meglio
piuttosto che uscire per venire a studiare qui.
Perché qui, noi stranieri, abbiamo un campo molto limitato di manovra. A scuola per lo meno
hai l’aiuto dei tuoi compagni, studiate insieme, fate tutto insieme, ma anche così è difficile. Perché
ci sono i bianchi che non vogliono unirsi ai neri. Si vive dentro questa cosa, anche dentro una
stanza, i neri siedono da un lato e i bianchi dall’altro, non sembra neanche di essere in
un’università! E per questa divisione tu ti senti male, ti senti male…
Io non consiglio a nessuno di restare qui. Perché non riuscirebbe mai a vivere… tu non vivi
13
Sulla campagna diffamatoria condotta dai quotidiani contro l’immigrazione africana si veda Cunha 2001.
secondo la tua realtà, non riesci a inserirti nella società portoghese, loro non vogliono. Non
vogliono… è difficile… io stessa, se finisco gli studi, anche se lavoro qui, non avrò mai quello
statuto di manager, o di economista o di che…no. Per avere quello statuto devo tornare in Guinea.
Quando arrivo là mi verrà data la mia collocazione con il mio posto il mio lavoro.. ma qua non si
riesce. Ma qui sempre ti mettono in basso, in qualunque posto tu stia, perché sei nero… è difficile.
Ce ne sono tanti, dottori, ingegneri, dicono che non hanno lavoro, sono tanti che vanno a spasso,
professori, medici, avvocati…
Se qualcuno in Guinea vuole venire a studiare qui, che non si immagini di terminare gli studi
e di poter lavorare nella sua area. Ci sono tante persone che si sono formate e non hanno lavoro.
Noi veniamo qui per studiare. Anche perché per farti lavorare quasi tutti esigono la nazionalità.
Noi che stiamo qui abbiamo una vita ma non abbiamo un futuro davanti. Poi se stai qui diventi un
prigioniero qui, se lavori e rimani qui diventi prigioniero del lavoro, per tutta la vita, non hai alcun
tempo per riposarti o per qualcosa… I soldi, soldi ne hai…
Sui rapporti difficili tra immigrati di origine africana e società portoghese pesa indubbiamente
l’ipoteca dell’esperienza coloniale e, soprattutto, delle penose e sanguinose guerre coloniali,
attraverso cui il regime di Salazar prima e di Caetano poi, tentarono fino al 1974 di opporsi ai
processi di indipendenza delle colonie africane. Le guerre coloniali rappresentano un trauma
rimosso nel tessuto sociale portoghese, che condiziona le relazioni con gli immigrati. Inoltre
l’ideologia diffusa durante il regime di Salazar, che descriveva il colonialismo portoghese come una
indispensabile missione civilizzatrice (Castelo 1998), costituisce una pesante eredità che la società
portoghese non ha ancora metabolizzato, né tantomeno elaborato criticamente.
Nostalgia e mito del ritorno
La delusione per il contesto di accoglimento conduce molti a concepire l’esperienza
migratoria come una fase circoscritta, un periodo di esilio indispensabile per supplire alle carenze
del contesto di origine. I vantaggi del contesto di accoglimento vengono pertanto pensati in
funzione di un ritorno, spesso solo immaginato, poiché a nessuno sfugge la situazione drammatica
della Guinea Bissau. L’esperienza della migrazione porta a riconsiderare la società di origine,
evidenziandone il valore identitario e la migliore qualità di vita. Il legame con il contesto di origine
viene coltivato e descritto come fondamentale per la propria identità e per il proprio futuro,
suscitando in molti sentimenti nostalgici: il contesto familiare della Guinea viene al contempo
riconosciuto come frustrante (non si lavora, la scuola non funziona, ecc.) e rimpianto in quanto
luogo di origine e di identità14. La nostalgia prende spesso la forma di pratiche di consumo
particolari, privilegiando prodotti alimentari importati direttamente dalla Guinea e rivenduti a caro
prezzo al Rossio, una delle piazze centrali di Lisbona.
Marta, in Portogallo dal 1989, se da un lato progetta di portare altri suoi figli in Portogallo,
non smette di ripetere che solo in Guinea si sente bene, a casa, e che attende con ansia di tornare a
Bubaque:
L’idea di fermarsi in Portogallo, di dire non ho più nulla a che vedere con la Guinea,
indipendentemente dal fatto che ho mia madre là, che ho la mia famiglia là, indipendentemente da
14
Diversi autori hanno sottolineato come la nostalgia rappresenta un sentimento ambivalente, presupponendo in ultima
analisi non solo l’impossibilità ma anche il non desiderio di riconquistare ciò che si è perduto, il mantenimento
volontario di una distanza tra il soggetto e l’oggetto del desiderio (Ivy 1995. Si veda anche S. Stewart 1984, K. Stewart
1988). La stessa ambivalenza è riscontrabile in alcune comunità di migranti relativamente alla possibilità del ritorno nel
contesto di origine (Clifford 1994, Constable 1999). Sul problema del termine ‘nostalgia’ e sulla sua applicazione in
contesti culturali diversi, vedi Beneduce 1998.
tutto questo, nel mio sentimento in quanto Guineense o come figlia della terra dei Bijagó, il mio
desiderio era di rimanere là, se c’erano le condizioni mi sarei fermata. In Guinea, nella mia terra.
Sotto la mia palma: è là che desidero stare.
Se voglio tornare a Bubaque? Voglio tornare sì, appena si creano le condizioni. Quando i
miei figli lavorano, e ciascuno si prende carico della sua vita, non devo più preoccuparmi di
qualcuno, che ha un luogo dove stare…allora non mi importerebbe, anche fosse oggi stesso. Anche
fosse oggi stesso. Ma se mi dicessero oggi ‘la Guinea è a posto, c’è lavoro, si trova lavoro…’.
Allo stesso modo Clara, delusa dalle difficoltà di integrazione nella società portoghese, pensa
a un ritorno in Guinea, dove spendere le capacità e le conoscenze acquisite in Europa.
Ho tanta nostalgia, ho troppa nostalgia. La mia intenzione non è di finire il corso e di
rimanere qui. Questo è fuori discussione. Io finisco il corso e vado in Guinea, vado in Guinea per
lavorare, magari se trovo un lavoro a Bubaque.
Ciò che emerge e che definisce la condizione dell’emigrato è la coscienza che l’emigrazione è
una necessità imposta dal contesto di origine, una violenza cui è necessario sottoporsi, un esilio
forse temporaneo cui si è costretti dalla situazione drammatica della Guinea Bissau. Chiaramente gli
emigrati che ho incontrato non possono essere considerati esiliati a tutti gli effetti, in quanto, come
ho mostrato, manifestano il preciso desiderio di partire per l’Europa. Tuttavia, una volta nel
contesto di accoglimento, la loro condizione sembra avvicinarsi maggiormente a quella degli
esiliati, sentendosi spesso obbligati dalle circostanze economiche e politiche a lasciare il loro paese
(dinamiche simile sono state evidenziate da Nicole Constable (1999) tra le emigrate filippine a
Hong Kong).
Marta: Perché il Guineense non ha mai avuto intenzione di immigrare…Se hai quello che
vuoi là non hai bisogno di venire qui. A nessuno interessa rimanere qui. Se si stesse bene in
Guinea, nessuno vorrebbe restare qui. Quello che porta uno qui è che non riesce a vivere là. Uno
pensa che si senta bene, o che sta bene qui, e per questo che non vuole tornare indietro… non è
così. Noi che non abbiamo la possibilità di avere un buon lavoro in Guinea, diciamo ‘aspettiamo,
rimaniamo ancora qui, ancora un po’. Ma non c’è nulla come la tua terra.
Clara: Non è che qui ci sia un ambiente più bello per rimanere, un buon luogo dove
stare…Quelli che possono stanno in Guinea.
L’emigrazione viene vissuta come sofferto distacco dal proprio contesto di origine, spaesamento
irrimediabile in un ambito destinato a rimanere alieno, distante, in ultima analisi inaccessibile.
Mentre l’Europa perde i caratteri mitologici per trasformarsi in mera opportunità economica o
scolastica, l’ambiente di origine acquista invece i caratteri della familiarità, dell’identità perduta,
diventa una casa cui voler ritornare. I poli del discorso dei migranti si sono invertiti. La mappa dei
sogni porta nella direzione opposta e la migrazione non è più una fortuna ma un sacrificio imposto.
Pedro: Credo che tu debba rispettare la tua cultura…Se esci, vedi come niente è meglio di
quello nel quale sei nato, che ti hanno insegnato.
Non c’è niente come la tua terra. Stai più a tuo agio di quando stai in un altro posto. È dove
sei nato, sei cresciuto, conosci i costumi, sei già inserito in quella società, in quel posto tu stai più a
tuo agio rispetto a qualunque altro posto. In un altro posto ci vai magari per andare a cercare dei
soldi, o per andare a studiare, per poi tornare indietro a lavorare.
Conclusione: contestando il centro
Le testimonianze dei miei interlocutori a Lisbona mostrano, a volte con drammaticità a volte
con ironia, come le dinamiche sociali e politiche proprie del contesto di accoglimento mantengono i
migranti in una condizione marginale, riconfermando in parte i rapporti tra centri e periferie.
Come accennavo, molte dei lavori recenti dedicati ai fenomeni diasporici, al
transnazionalismo e alla criolizzazione, tendono a sottovalutare o ignorare l’importanza che le
politiche degli Stati nazionali continuano ad avere sulle dinamiche globali, e le gerarchie (vecchie e
nuove) che l’economia globale crea e mantiene. Non è chiaramente mia intenzione negare
l’esistenza di reti transnazionali o di fenomeni di connessione globale. Credo sia tuttavia
fondamentale considerare come questi fenomeni non implichino necessariamente la dissoluzione di
categorie discriminanti: uno sguardo etnografico ai contesti specifici fa spesso emergere il
permanere o l’insorgenza di gerarchie e ineguaglianze, a dispetto delle narrazioni ottimistiche sulla
progressiva democratizzazione/globalizzazione del pianeta. Secondo Susan Silbey, il termine
globalizzazione non sarebbe abbastanza forte per descrivere i tipi di interconnessioni tra il locale e
le istituzioni transnazionali: non trasmetterebbe infatti l’idea della gerarchia di centri transnazionali
che controllano i flussi di capitale finanziario, immagini culturali e merci. Secondo Silbey, gli
scambi sociali transnazionali sarebbero meglio descritti con il termine ‘colonialismo postmoderno’
(Silbey 1997. Si veda anche Escobar 1995 e Stiglitz 2002 per una analisi critica non ‘sospetta’ dei
meccanismi del capitalismo globale).
La globalizzazione dei significati (già di per se basata su rapporti sbilanciati di potere) non
implica un incremento della possibilità di circolare per tutte le persone allo stesso modo, e la
possibilità di dislocarsi non coincide comunque con l’eliminazione delle differenze economiche e di
potere. Come ha sottolineato Mary Mills, le migrazioni portano le persone al centro della
‘modernità’, ma spesso la vita e il lavoro che conducono ‘semplicemente confermano la loro
marginalità all’interno della cultura del consumatore urbano’ (1997: 55). In questo senso, è
determinante considerare le politiche sull’immigrazione dal punto di vista suggerito da Gupta e
Ferguson: ‘se riconosciamo che la differenza culturale è prodotta e mantenuta in un campo di
relazioni di potere in un mondo sempre già interconnesso, allora le restrizioni all’immigrazione
diventano percepibili come uno degli strumenti principali attraverso cui coloro che sono privi di
potere vengono mantenuti tali’ (1992: 17).
Ma le parole dei miei interlocutori rivelano anche un altro aspetto dei fenomeni migratori. Se
l’esperienza migratoria non porta a una dissoluzione delle divisioni tra centro/periferia, tuttavia
spinge gli attori a un riposizionamento di fronte ad esse, spesso in direzione anti-egemonica: la
percezione della marginalità si fa coscienza politica e i margini diventano luoghi ideali per
l’elaborazione di strategie di resistenza e di opposizione all’ordine dominante (Tsing 1994). ‘Nello
scollamento tra significati dominanti e esperienza vissuta – scrive Mary Beth Mills – e tra
possibilità immaginate e opportunità limitate, esiste un potenziale per la produzione di nuovi
significati e pratiche. William Roseberry (1989:45 in Mills 1997) sostiene che la coscienza di tale
distanza tra significati culturali dominanti ed esperienza vissuta fornisce ai gruppi subordinati spazi
fondamentali per contestare le forme egemoniche e per produrre interpretazioni alternative’ (Mills
1997: 41).
Lungi dal configurarsi come vittime inconsapevoli del capitalismo globale e delle sue
strategie di potere, i migranti si pongono dunque come agenti attivi e critici di fronte alle dinamiche
transnazionali di cui fanno inevitabilmente parte. Le parole dei miei interlocutori mostrano
chiaramente un alto livello di coscienza e un atteggiamento critico di fronte alle strategie
marginalizzanti innegabilmente in atto in Europa. Inoltre, la cultura giovanile urbana degli emigrati
o dei figli di emigrati in Portogallo, indica una graduale crescita in direzioni alternative, riattestando
e rivendicando (e spesso creando) una specificità culturale ‘africana’ in opposizione ai centri del
capitalismo Europeo (si veda ad esempio Contador 2001). Il potere e la superiorità del ‘centro’
viene continuamente messo in discussione da forze che si muovono in direzione opposta, e in
questo movimento trova spazio una nuova interpretazione del sentimento della nostalgia, del
desiderio di ritorno verso il paese di origine descritto più sopra.
La nostalgia rappresenta una manifestazione del fallimento dell’ordine dominante, in quanto
sintomo di un legame imprescindibile con il contesto di origine (o con la sua ricreazione
immaginata) che si manifesta di fronte al progressivo sostituirsi della quotidianità di Lisbona, della
‘stanchezza dell’Europa’, ai fantasmi dell’Occidente. La dinamica centro/periferia sembra dunque
acquisire una luce meno totalizzante, poiché la nostalgia contesta la supremazia del centro
riportando il desiderio (se non gli individui) verso il paese di origine. Se le dinamiche tra centro e
periferia tendono a presupporre un movimento in un’unica direzione, la nostalgia e le scelte di
consumo a essa associate si muovono in direzione opposta, sfidando la direzione egemonica dei
flussi culturali. Il mito del ritorno, per quanto ambivalente e ambiguo, si presta a essere interpretato
come una forma di resistenza, una critica evidente al ‘centro’ condotta dalla sua periferia, una
inversione dei desideri in direzione contro-egemonica. Alla metropoli rimane certo la prerogativa di
consentire (talvolta) un miglioramento della propria situazione economica, ma la visione teleologica
descritta tra i giovani di Bubaque, è interamente decostruita. L’Eurocentro non costituisce più un
modello ma una risorsa, una opportunità economica che le strategie transnazionali dei migranti
inseguono, districandosi attraverso i labirinti istituzionali che il protezionismo degli Stati europei
mette in atto per ostacolarli o per trasformarli in mera forza lavoro a proprio esclusivo vantaggio. I
migranti guineensi in Portogallo diventano pertanto attori sociali a tutti gli effetti, riconoscendo e
contestando i tentativi marginalizzanti e alienanti delle istituzioni dello stato. Numerose riviste,
canzoni, forum Internet sono dedicati alla condizione dei migranti e diventano arene di aspri
dibattiti sulle politiche migratorie dello stato portoghese, sulla condizioni di lavoro, sulla
concessione dei permessi di soggiorno. È proprio con le parole di una e-mail inviata da Ricardo
Rosa al forum dedicato alla Guinea Bissau che vorrei concludere. Riferendosi al fenomeno delle
migrazioni, Rosa scrive:
‘Questo movimento di migliaia di esseri […] è la traduzione inequivocabile di quello che dovrebbe essere la reale
globalizzazione, ma le barriere visibili e invisibili che sempre di più la circondano sono il riflesso del fallimento di
questa globalizzazione’ (Rosa 2003).
Bibliografia (non formattata)
Appadurai, Arjun. 1996. Modernity at Large. Cultural Dimensions of Globalization. Minneapolis:
University of Minnesota Press.
Argenti Nicolas (2002), ‘Youth in Africa: a major resource for change’. In: de Waal Alex e Argenti
Nicolas (a cura di), Young Africa. Realising the rights of children and youth. Trenton e Asmara:
Africa World Press, Inc., pp. 123-153.
Beck, Ulrich, 2000, What is Globalization?, Polity, Cambridge
Beja Horta A. P., Transnational networks and the local politics of migrant grassroots organizing in
post-colonial Portugal, Working Paper, Transnational Communities Programme, Oxford, 2003.
Beneduce, Roberto, Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un
mondo creolo, Franco Angeli, Milano, 1998
Bordonaro Lorenzo I. e Pussetti Chiara G., Tori e piroghe. Genere, antropo-poiesi e koino-poiesi
tra i Bijagó della Guinea Bissau, in Remotti Francesco (ed.), Forme di Umanità, Torino, Paravia
Scriptorium, 1999, pp. 97-130.
Capello, Carlo. 2003. ‘Le prigioni Invisibili. Riflessioni sulle politiche dell’alterità’. Passaggi. In
corso di pubblicazione.
Cardoso, Carlos, La crisi della Guinea Bissau, in «Afriche e Orienti», n. 1, primavera 1999, pp. 5355
Castelo, Cláudia, 1998, ‘O modo português de estar no mundo’. O luso-tropicalismo e a ideologia
colonial portuguesa (1933-1961), Porto, Afrontamento.
Chabal Patrick ed. 2002. A History of Postcolonial Lusophone Africa. London: Hurst.
Chambers, Iain, 1994, Migrancy, culture, identity, London and New York, Routledge
Clifford, James. 1994. Diasporas. Cultural Anthropology 9(3): 302-338.
Comaroff and Comaroff. 1999. Occult economies an the violence of Abstraction. American
Ethnologist 26(2)
Comaroff Jean e Comaroff John. 2000. Réflexions sur la Jeunesse. Du Passé à la Postcolonie.
Politique Africaine 80: 90-110
Constable, Nicole. 1999. At Home but Not at Home: Filipina Narratives of Ambivalent Returns.
Cultural Anthropology 14(2): 203-228.
Contador A. C., Cultura Juvenil Negra em Portugal, CELTA, Oeiras, 2001
Cunha I. F., Immigration africaine et est-européenne au Portugal. Deux traitements médiatiques, in
«Lusotopie», 2001, pp. 91-102
Durham, Deborah. 2000. Youth and the Social Imagination in Africa. Anthropological Quarterly
73(3): 113-120.
Escobar, Arturo. 1995. Encountering development: the making and unmaking of the Third World.
Princeton, NJ: Princeton University Press.
Ferguson, James. 1992. The Country and the City on the Copperbelt. Cultural Anthropology 7(1):
80-92.
Ferguson, James. 1999. Expectations of Modernity. Myths and Meanings of Urban Life on the
Zambian Copperbelt. Berkeley: University of California Press.
Forrest, Joshua. 2002. Guinea Bissau. In A History of Postcolonial Lusophone Africa, ed. Patrick
Chabal. Pp. 236-263. London: Hurst.
Gallois Duquette Danielle, Dynamique de l’art Bidjogo, Lisbona, Instituto de Investigação
Cientifica Tropical, 1983.
Gardner, Katy. 1995. Global Migrants Local Lives: Travel and Transformation in Rural
Bangladesh. Oxford: Clarendon Press.
Gupta, Akhil and Ferguson James. 1992. Beyond “Culture”: Space, Identity, and the Politics of
Difference. Cultural Anthropology 7(1): 6-23.
Hannerz, Ulf. 1996. Transnational Connections. Culture, People, Places. London and New York:
Routledge.
Henry Christine, Les îles où dansent les enfants défunts. Âge sexe et pouvoir chez les Bijogo de
Guinée-Bissau, Parigi, Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, 1994.
Hodgson, Dorothy L. 1999. ‘Once intrepid warriors’: modernity and the production of Maasai
masculinities. Ethnology 38 (2): 121-150.
Ivy, Marilyn. 1995. Discourses of the Vanishing. Modernity, Phantasm, Japan. Chicago: University
of Chicago Press.
Lavie, Smadar e Swedenburg, Ted. 1996. Displacement, Diaspora, and Geographies of Identity.
Durham and London: Duke University Press.
Letria P., J. M. Malheiros, À descoberta dos novos descobridores, Comissão Nacional para as
Comemorações dos Descobrimentos Portugueses, Lisbona, 1999
Lopes A. L., M. Carvalho, S. Soares, Tempo de expulsão, in «África Lusófona», n. 14, Aprile 2003,
pp. 32-35
Machado, Fernando L., Contrastes e continuidades. Migração, etnicidade e integração dos
Guineenses em Portugal, CELTA, Oeiras 2002.
Mbembe J. A., Les jeunes et l’ordre politique en Afrique Noir, L’Harmattan, Parigi, 1985.
McClintock, Anne. 1995. Imperial Leather: Race, Gender and Sexuality in the Colonial Contest.
New York and London: Routledge.
Meyer, Birgit e Geschiere, Peter. 1999. Globalization and Identity. Dialectics of Flow and Closure.
Introduction, in Meyer, Birgit e Geschiere, Peter (Eds). 1999. Globalization and Identity.
Dialectics of Flow and Closure. Oxford: Blackwell.
Mills, Mary Beth. 1997. Contesting the Margins of Modernity: Women, Migration, and
Consumption in Thailand. American Ethnologist 24(1): 37-61.
Neves A., Nova lei de estrangeiro, in «África Lusófona», n. 14, Aprile 2003, pp. 36-37
Ortner, Sherry B. 1995. Resistance and the Problem of Ethnographic Refusal. Comparative Studies
in Society and History 37 (1): 173-193.
Pigg, Stacy Leigh. 1996. The Credible and the Credulous: The Question of Villagers’ Beliefs in
Nepal. Cultural Anthropology 11(2): 160-201.
Pratt, Mary Luise, 1992, Imperial Eyes, London & New York, Routledge
Pussetti C.G. 2001, Il teatro degli spiriti. Possessione e performance nelle isole Bijagó della Guinea
Bissau, Antropologia, 1, 1: 99-118.
Pussetti Chiara G., Le piroghe d’anime. L’iniziazione dei defunti presso i Bijagó della Guinea
Bissau, in «Africa», 1999, LIV, 2, pp. 159-181.
Rofel, Lisa. 1992. Rethinking Modernity: Space and Factory Discipline in China. Cultural
Anthropology 7 (1): 93-114.
Rosa, Ricardo. 2003 (30 giugno). Imigração ... Um Fenómeno Sem Fim ! Forum Guiné-Bissau,
www.portugalnet.pt
Roseberry, William. 1989. Anthropologies and Histories. Essays in Culture, History, and the
Political Economy. New Brunswick, NJ e London: Rutgers University Press.
Rudebeck, Lars. 1982. Problèmes de Pouvoir Populaire et de Développement. Transition difficile
en Guinée-Bissau. Uppsala: Scandinavian Institute of African Studies.
Saint-Maurice A. de, Identidades Reconstruidas: Cabo-verdianos em Portugal, CELTA, Oeiras,
1997
Sayad A., La double absence. Des Illusions de l’émigré aux souffrances de l’immigré, Seuil, Parigi,
1999
Scantamburlo Luigi, Etnologia dos Bijagós da ilha de Bubaque, Lisbona, Instituto Nacional de
Estudos e Pesquisa (I.N.E.P) e Instituto de Investigação Cientifica Tropical (I.I.C.T.), 1991.
Edizione originale, The ethnography of the Bijagós people of the island of Bubaque (Guinea
Bissau), MA, Wayne State University, Detroit, 1978.
Schein, Louisa. 1999. Performing Modernities. Cultural Anthropology 14 (3): 361-395.
Silbey, Susan. 1997. Let Them Eat Cake: Globalization, Postmodern Colonialism and the
Possibilities of Justice. Law and Society Review 31(2): 207-235.
Sontag Susan, Contro l’interpretazione, Mondadori, Milano, 1998 (1961)
Stewart, Kathleen. 1988. Nostalgia – A Polemic. Cultural Anthropology 3(3): 227-241.
Stewart, Susan. 1984. On Longing: Narratives of the Miniature, the Gigantic, the Souvenir, the
Collection. Baltimore: John Hopkins University Press.
Stiglitz, Joseph. 2002. Globalization and its Discontents. London: Penguin.
Thomas, Philip. 2002. The river, the road, and the rural-urban divide: a postcolonial moral
geography from southeast Madagascar. American Ethnologist 29(2): 366-391.
Trajano Filho, Wilson. 2002. Narratives of National Identity in the Web. Etnográfica 6(1): 141-158.
Tsing, Anna L. 1994. From the Margins. Cultural Anthropology 9(3): 279-297.