RIFORME DEL WELFARE - Gruppo PD Regione Lombardia

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RIFORME DEL WELFARE - Gruppo PD Regione Lombardia
GRUPPO
RIFORME
DEL
WELFARE
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Lo stato dell’arte
Questo governo sbandiera il federalismo come la risposta a tutti i problemi, ma è il Governo più
centralista degli ultimi anni della cosiddetta seconda repubblica.
Dopo quasi due anni di scontri con le Regioni per sottoscrivere il nuovo Patto per la Salute, che era
scaduto a settembre del 2008, con la Manovra economica del Luglio scorso il patto è stato rimesso
completamente in discussione.
I tagli più gravi riguardano il fondo per i nuovi LEA su cui così facendo è stato messo una pietra
tombale, saltano i fondi per gli investimenti in strutture sanitarie e tecnologie, l’attuazione dei contratti
viene bloccata, penalizzando le retribuzioni del personale sanitarie e le progressioni di carriera già
definite; l’impossibilità di rinnovare i contratti al 50% dei precari, penalizzerà i servizi più delicati e
dequalificherà ulteriormente un sistema salute messo a dura prova dalla precarizzazione del lavoro
che ormai è dilagante.
Se l’idea del federalismo che ha questo Governo è quella del risparmio, è chiaro che prevarrà la
proposta di Tremonti per cui i costi standard significano prendere a riferimento solo il costo più basso
delle prestazioni e non il risultato salute, Le Regioni hanno proposto un metodo di definizione dei
Costi Standard che è condivisibile, mettere a confronto 5 o 6 Regioni virtuose che erogano in modo
efficace e con buone performance per la salute i servizi e su quei parametri definire degli indicatori
per il calcolo dei costi standard. Solo così si potrà favorire una razionalizzazione dei costi ma anche
un miglioramento della qualità delle prestazioni.
Infatti nelle regioni del centro sud dove sono in atto piani di rientro voluti dal governo Prodi, non solo i
deficit e il debito sono elevati, in particolare nel Lazio oltre che in Calabria, Campania, Abruzzo,
Molise, ma i servizi ospedalieri sono dequalificati, e i servizi territoriali mancanti, tanto che 200.000
cittadini ogni anno devono emigrare al Nord per farsi curare, in particolare per malattie oncologiche e
cardiovascolari.
Ricollocare la spesa su obiettivi di salute e sulle migliori performance dei sistemi sanitari, serve per
evitare che si faccia solo una operazione al risparmio. Il risultato sarebbe l’avvilimento ancora di un
servizio sanitario che è tra quelli in Europa che incide di meno sul PIL e ha la spesa pro capite più
bassa. Inoltre avere obiettivi salute servirebbe per migliorare le performance della sanità del sud, ma
anche di quella del nord, dove anche nei territori delle regioni virtuose si possono leggere grosse
differenze di qualità.
La salute come hanno detto alla Conferenza di Tallin del 2008 i paesi europei che fanno parte
dell’OMS (organizzazione mondiale della sanità), è un obiettivo di sviluppo perché spendere in salute
non è un costo ma un investimento.
Lo stesso Obama ha investito 940 miliardi di dollari in dieci anni, per la riforma delle riforme, quella
sanitaria, dando diritto alla salute a trentacinque milioni di americani che ne erano privi.
In Italia l’industria farmaceutica e degli ausili produce per il 12% del PIL, innovazione e ricerca
passano essenzialmente da questo settore, inoltre la sanità significa professionalità elevate e
benessere per un popolo che è tra i più vecchi al mondo e che non ha un Fondo per la non
autosufficienza che alla prova dei fatti, non considera l’invecchiamento come un fattore sociale ed
economico, oltre che inedito per l’umanità intera.
Il Governo di centro destra ha iniziato il suo lavoro eliminando il Ministro della Salute, quando tutti i
paesi del mondo, anche gli Stati Uniti, dove la sanità è per la maggior parte privata, hanno un
ministro che si occupa della salute. Quando anche su nostra richiesta è stato nominato Fazio, la
legge istitutiva l’ha posto sotto il controllo di Tremonti. Inoltre questo governo non rispetta il
parlamento e importanti leggi approvate in modo bipartisan giacciono nella commissione Bilancio del
Senato, che finanzia solo i decreti del Governo Berlusconi.
Abbiamo fatto denunce e iniziative per sbloccare la situazione, lottato perché si ponessero, per la
prima volta in questa legislatura obiettivi di salute anche per le donne, partendo dal fatto che il corpo
delle donne è diverso da quello degli uomini. Alcuni obiettivi sono stati raggiunti come quello di far
partire indagini sui costi della sanità, di cui presto potremo rendere noti i risultati e gruppi d’indagine
sui tumori al seno, sulle malattie artrosiche e reumatiche sulle malattie sessualmente trasmissibili
(HIV e AIDS) su cui si è voluto stendere il silenzio, mentre la malattia si diffonde anche fra gli
eterosessuali a ritmo crescente. Non abbiamo dimenticato i bambini, soprattutto per quello che
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riguarda il diritto alle cure palliative, perché particolari tipi di tumori sono diffusi anche fra i bambini,
per contrastare l’obesità e la mortalità natale.
Welfare
Costruire un orizzonte: partecipazione, sussidiarietà, democrazia politica, sociale ed economica per
un welfare comunitario e attivo.
I sistemi di welfare nascono per assicurare alle donne e agli uomini condizioni di vita dignitose,
autonomia e protagonismo nel condurre la propria esistenza, per rafforzare la coesione sociale.
Tra le grandi conquiste del XX secolo lo sviluppo del Welfare State va sicuramente collocato ai primi
posti. La sua attuazione ha rappresentato l’affermazione di un’idea solidale della società nella quale
nessuno viene lasciato solo con i suoi problemi, le sue difficoltà, le sue sofferenze e ha contribuito a
ridurre le “differenze “ fra le persone. Molti sono i cambiamenti che, in particolare negli ultimi tempi,
stanno intervenendo: stiamo diventando una società sempre più “anziana”, sempre più multietnica; la
famiglia, pur mantenendo un ruolo rilevantissimo nell’organizzazione sociale ha mutato molte delle
sue caratteristiche; gli effetti di un cambiamento repentino del quadro economico hanno introdotto
nuove emergenze quali la difficoltà dei giovani di inserirsi nel mondo del lavoro . Da qui la necessità
di modificare il nostro modello di welfare, tenendo conto dei cambiamenti sopravvenuti e delle nuove
esigenze. Così come è necessario continuare a pensare in modo sinergico lo sviluppo delle politiche
sociali con quelle sanitarie sviluppando un’idea di “benessere” complessivo. Per il Partito
Democratico è fondamentale riaffermare alcune idee cardine al riguardo.
Prima fra tutte la necessità di ribadire che servizi socio-sanitari efficienti sono un diritto delle persone,
di tutte le persone. Non è in alcun modo accettabile che lo stato economico o il territorio di
appartenenza siano una discriminante per accedervi.
L’organizzazione dei servizi socio- sanitari, pur nell’utile articolazione regionale deve rimanere una
delle priorità dell’azione dello Stato. Investire risorse sulle necessità primarie di tutti i cittadini significa
migliorare il modo di vivere di tutti, quindi significa migliorare la società. Le difficoltà economiche dei
conti pubblici non possono essere motivo per ridurre la quantità e la qualità dei servizi, ma motivo di
attenzione nell’abbattimento di sprechi o azioni inutili.
Gli Enti locali, a cominciare dai Comuni devono rimanere a pieno titolo protagonisti dell’attività
politica, sia contribuendo a delineare le strategie politiche, sia concorrendo alla verifica dell’utilizzo
delle risorse. È necessario sviluppare un federalismo “solidale”.
Il coinvolgimento del privato deve essere lo strumento per la crescita di una società “solidale” dove la
missione dell’imprenditore socio-sanitario è concorrere all’offerta del servizio non solo produrre
profitto come in altre attività economiche.
Il benessere dei cittadini e quindi l’attività socio-sanitaria hanno più che mai bisogno di un pensiero
“forte” che deve trovare nel Partito Democratico un riferimento per la proposta e ci auguriamo
l’attuazione di un’idea di politica adeguata. Sviluppare proposte, marcare l’opposizione a un modello
che da qualche tempo ci viene proposto sempre più teso a introdurre “differenze” fra le persone, è
uno degli strumenti che abbiamo per allacciare con i cittadini un rapporto di fiducia e di consenso.
Non è possibile ridurne lo spazio a quello dei servizi assistenziali o a meccanismi risarcitori. La
Costituzione ci dà la formula che complessivamente e in modo preciso dà conto dell'obiettivo
strategico del sistema di welfare: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico, sociale [e culturale] che
impediscono di fatto il pieno sviluppo della persona umana”.
Il welfare italiano si afferma come sistema assistenziale che attraverso trasferimenti interviene sui
danni e peraltro solo su quelli più manifesti e di coloro che hanno la forza di rivendicare il
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risarcimento. Con la riforma costituzionale del 2001 buona parte delle competenze in materia di
politiche che intervengono direttamente per difendere, tutelare o promuovere il benessere dei
cittadini sono passate alle Regioni; nonostante ciò la cornice di senso nella quale sono inserite è
rimasta la medesima.
Un sistema di welfare effettivo ed efficace non può non essere che chiamato in causa quando ci si
occupa di promozione culturale, di prevenzione dalla malattia, di tutela dell'ambiente, di cura del
patrimonio artistico e culturale, di favorire l'attiva partecipazione dei singoli alla vita delle Comunità, di
servizi territoriali per sostenere la conciliazione della vita degli individui, uomini e donne, fra lavoro
retribuito, lavoro di cura e vita personale.
Sappiamo che quello che viviamo è un tempo di grandi cambiamenti.
E il ritardo delle politiche sociali rischia di essere più profondo: rispondono oggi come rispondevano
cinquanta anni fa proponendo soluzioni antiche e “immobili” a domande che sono cambiate. Si sono
concentrate nell'assistere, e spesso nel bandire – nel doppio significato di nascondere e negare- sia
le situazioni di non autosufficienza, sia le nuove fragilità, sia il crescente drammatico diffondersi di
una sempre più diffusa e pericolosa vulnerabilità. Hanno bandito la domanda che l'evoluzione
demografica, sociale, culturale e del sistema produttivo ha posto.
Porre la questione in questi termini vuole dire contemporaneamente sia portare all'attenzione il
clamoroso deficit di analisi sulla base della quale si sarebbe dovuto costruire, implementare e quindi
applicare alle politiche di welfare sia registrare l'assenza della politica, di un adeguato esercizio delle
funzioni di governo, nella loro programmazione e progettazione. Sono così cresciute barriere che
hanno finito con l'impedire una scelta informata degli eventi e una fruizione consapevole del
patrimonio.
Cambiare significa anche evidenziare l’inefficacia di un meccanismo di programmazione che “non
pensa non vede e non sente”; che procede per automatismi e rinuncia all'analisi, propone le stesse
risposte, avanza le stesse proposte in un quadro di profondi cambiamenti. La difficoltà di applicare il
principio di sussidiarietà, sancito all'articolo 118 ultimo comma della Costituzione e per quanto attiene
la nostra Regione all'articolo 3 dello Statuto d'autonomia della Lombardia trova in ciò delle granitiche
fondamenta. Non è possibile favorire l'applicazione di un principio che ha nell'ascolto e nella presa in
carico delle esigenze e degli interessi più attuali e concreti dei cittadini la sua premessa quando la
cornice in cui i decisori pubblici iscrivono le politiche è la proiezione di una visione che ha poco o per
niente a che fare con la vita e le esperienze delle persone.
Ciò che ha portato in chiaro questa assenza e che ha reso manifesta l'inadeguatezza dell'analisi sulla
quale si sarebbero dovute programmare le politiche è l'impetuoso cambiamento che ha caratterizzato
questo periodo.
In un'epoca di profondi cambiamenti è possibile che quello che eravamo in grado di comprendere e
interpretare fino a ieri oggi non sia più nemmeno riconoscibile; da ciò il richiamo a investire
nell'analisi e l'invito ad affrontare con coraggio e senza pregiudizi la fase di interpretazione e di
intervento.
Dobbiamo ritrovare la capacità di toccare e muovere le passioni delle persone, lavorando
sull'entusiasmo delle comunità per mobilitare le risorse del territorio.
Questo richiamo alle passioni, all'entusiasmo e a risorse del territorio valutabili ma non misurabili e
nemmeno immediatamente monetizzabili pone il problema della sostenibilità del sistema di welfare
prendendo atto che anche il quadro delle relazioni economiche è sostanzialmente cambiato. È chiaro
che la fonte di finanziamento del sistema delle risposte ai bisogni sociali che proviene direttamente o
indirettamente dal sistema fiscale è in crisi. Possiamo e dobbiamo dire di non essere d'accordo con
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chi ritiene le risorse destinate alle politiche sociali esclusivamente un costo da minimizzare, possiamo
e dobbiamo continuare ad avanzare proposte perché le politiche sociali abbiano le risorse che
servono per costruire vere opportunità per donne e uomini che li mettano in grado di organizzare e
realizzare propri e autonomi progetti di vita, di crescita e di realizzazione umana, sociale e
professionale.
La progressiva diminuzione delle risorse messe a disposizione per il sistema di welfare è una politica
che va contrastata. La contro obiezione che viene mossa da chi parte da questo assunto è che le
risorse non ci sono, che diminuiscono e che quindi bisogna fare i conti con quelle disponibili.
Crediamo invece che sia necessario superare la distruttiva contrapposizione fra gli investimenti e gli
obiettivi a breve periodo e quelli a lungo periodo, generando invece una complementarietà e
un’ecologia dei tempi e degli investimenti progettuali ed è ancora più necessario non distruggere nel
presente le condizioni necessarie allo sviluppo futuro.
Politiche pubbliche
È necessario che il ruolo del pubblico cambi: deve saper assumere un compito promozionale, in
grado di far parlare i diversi interessi e così mobilitare le risorse del territorio, delle imprese e dei
singoli trovando punti di convergenza. Le istituzioni pubbliche devono influire non in modo dirigistico,
ma con un’azione di guida, sulle direzioni di sviluppo, per orientare la crescita a obiettivi di qualità
tecnica e sociale, di sicurezza e di eguaglianza.
Lasciare crescere le disuguaglianze, oltre a essere distruttivo della coesione sociale, è limitativo delle
potenzialità di sviluppo complessivo del nostro Paese.
Il problema non è solo data dalla quantità delle risorse a disposizione ma dalla capacità di impiegarle
come fattori di mobilitazione delle energie del tessuto sociale e produttivo, di innescare grazie ad
esse meccanismi di sviluppo endogeno nei territori.
La frammentazione degli interventi non è solo il prodotto della situazione cui si è fatto cenno, è
diventata tratto identitario delle politiche, una caratteristica quasi obbligata e ragione primaria
dell’inefficacia sostanziale di cui abbiamo detto. La frammentazione si è alimentata del progressivo
scollamento dei diritti individuali dal Diritto. Questo ha allontanato sia la possibilità di lavorare al
rafforzamento della coesione sociale, sia di integrare e attivare forze in grado di far convergere le
dotazioni del territorio per lo sviluppo locale.
Da ciò derivano due nodi politici ineludibili: la definizione di un quadro di diritti sociali che diano la
certezza necessaria a giustificare la richiesta di un impegno ai cittadini singoli o associati e
l'applicazione dei principi di trasparenza, partecipazione e sussidiarietà.
Vanno definiti i livelli essenziali di assistenza sociale perché le energie civili e sociali possano
orientarsi: sappiano dove concentrare gli sforzi e soprattutto in quale sistema di relazioni giocare un
ruolo.
Non ci sfugge che l’allargamento degli orizzonti del welfare ha altre implicazioni, oltre a quelle già
delineate, su tutte le politiche sociali: dall’impianto strutturale, ai destinatari e alle strategie di
intervento nei vari settori, sia quelli tradizionali (pensioni, tutele del reddito) sia quelle da sviluppare
(politiche dell’infanzia, della famiglia,dell’invecchiamento attivo).
Serve infine un'applicazione rigorosa del principio di trasparenza senza il quale i cittadini, le loro
espressioni organizzate, il sistema delle imprese e le parti sociali non sono nelle condizioni di capire
dove e come impegnarsi. Senza una ricerca continua della trasparenza sia nel linguaggio, sia
nell'analisi sia nelle formule organizzative non è immaginabile non solo una partecipazione attiva sul
lato della produzione e offerta delle risposte ma anche di una più chiara e manifesta espressione
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delle domande e delle esigenze in grado di migliorare il meccanismo di coordinamento fra bisogni
sociali e sistema di risposte.
L’immigrazione in Lombardia:, la forza dei fatti e l’eloquenza dei numeri “parlano da soli”:
La Lombardia è la regione più multietnica d’Italia: il 10% della popolazione, il 20% degli occupati
stranieri in Italia, 1 minore su 4 a Milano è figlio di immigrati, 1 neoassunto su 2 negli ultimi 2 anni,
solo per riferire alcuni dati tra i più eclatanti.
Questi numeri, e lo stesso vale naturalmente a livello nazionale, ci interpellano ormai da tempo con
tale forza che anche la destra, suo malgrado, sta cominciando a considerarli facendoci i conti.
Occorre cambiare prospettiva per costruire un ragionamento utile a inaugurare una stagione politica
significativa.
Il PD accetta questa sfida e propone una strategia: cambiare approccio al tema dell’immigrazione,
scommettendo su una via italiana alla convivenza che parta dai territori.
“….C’è un’Italia della paura degli immigrati e un’Italia che ha saputo combattere la paura e sta
tracciando la strada della convivenza.
Ne sono protagonisti i datori di lavoro, i lavoratori, gli insegnanti, i sindacati, gli enti locali, il
volontariato. E’ un’integrazione che non è stata indicata dall’alto, ma è nata dal basso, dai territori e
dalle comunità, è espressione di un inedito welfare locale e di un’inedita democrazia partecipata
attraverso un’integrazione tra ruolo delle istituzioni e ruolo della società civile…. …Partire dai territori,
far conoscere i successi dell’integrazione, valorizzare le buone pratiche, attivare una sorta di
“pedagogia dell’esperienza” è la strada vincente per combattere gli stereotipi e le semplificazioni. Può
sollecitare una emulazione positiva “se ce l’hanno fatta loro possiamo farcela anche noi”. Il PD deve
conoscere e raccontare questa nuova Italia. Accendere i riflettori su di essa. Farla diventare una
narrazione pubblica….”
Non tanto quindi una strategia politica in funzione dell’immigrazione, quanto piuttosto nella
prospettiva di contribuire a edificare e incrementare la cultura della civile convivenza tra italiani e
immigrati e “nuovi italiani” (la cosiddetta “seconda generazione” quelli che sono nati qui e, magari
ventenni sono considerati e trattati addirittura come “clandestini” se i loro genitori hanno perso il
lavoro e ancora vergognosamente non è stata concessa loro la cittadinanza!).
Entrando nel merito della Piattaforma nazionale sinteticamente i punti trattati sono:
-
promuovere una politica comune con l’Europa come previsto dal trattato di Lisbona del 2007 in
materia di permessi di soggiorno, lavoro stagionale, diritto di asilo
promuovere la Cooperazione allo sviluppo;
rendere conveniente l’ingresso regolare per lavoro,
evitare la competizione fra gli immigrati e le fasce deboli di italiani;
riformare la legge sulla cittadinanza per investire sui figli dell’immigrazione rendendoli
protagonisti senza che perdano le loro radici,
promuovere la loro partecipazione al servizio civile perché si sentano parte e si mettano al
servizio del nostro-loro Paese;
promuovere un programma obbligatorio di lingua e cultura italiana e i ricongiungimenti familiari,
riconoscere il diritto al voto amministrativo e il diritto costituzionale alla libertà religiosa.
Le nostre proposte che grazie all’esperienza contenuta nei documenti del libro bianco per la
Lombardia emergono:
Politiche degli ingressi:
sperimentare un dispositivo simile a quello introdotto da Francia, Gran Bretagna e Germania: un
sistema a punti, volti a far entrare un certo numero di immigrati ad alta qualificazione con il vantaggio
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di promuovere un’immagine più positiva degli immigrati in una regione dove si fa fatica nei loro
confronti perché, svolgendo spesso lavori umili, tendono a diventare invisibili al di fuori del posto di
lavoro.
Mercato del lavoro:
1) evitare “l’abusivismo di necessità” praticato da anziani con basse pensioni e bisognosi di
assistenza che non riescono a reggere il carico economico di un’assistenza regolare. Una
strategia appropriata sarebbe la fiscalizzazione dei costi e l’introduzione di incentivi all’emersione
con priorità legata al bisogno di assistenza.
2) Regolazione del mercato dell’assistenza domiciliare attraverso cooperative, fondazioni, imprese
sociali che assicurino selezione del personale, formazione, supervisione, sostituzione;
introduzione di norme che consentano di valutare le competenze effettivamente possedute
dall’immigrato; repressione più severa del lavoro nero; per ottenere la collaborazione delle vittime
si potrebbe concedere il permesso di soggiorno a chi denuncia il datore di lavoro che lo ha
impiegato senza contratto per un periodo protratto.
Politiche di integrazione:
- “Contratto d’integrazione” diverso dalla versione punitiva introdotta dal “pacchetto sicurezza” e
nota come “permesso a punti” in cui non ci sia solo l’aspetto punitivo, ma anche quello premiale.
L’accesso al welfare locale potrebbe avvenire gradualmente in funzione del punteggio
conseguito;
- Una campagna obbligatoria di alfabetizzazione alla lingua, alle istituzioni e al patrimonio culturale
italiano potrebbe prevedere benefici per chi la supera.
- Riconoscimento dei titoli di studio;
- Istituzione di un’Autorità regionale per la lotta contro le discriminazioni e di un organismo
consultivo per il rapporto con le minoranze religiose che preveda la formazione alla cultura
italiana dei responsabili.
Politiche di ricongiungimento familiare:
Previa severa verifica di una serie di condizioni, promuovere i ricongiungimenti familiari contrasta gli
effetti perversi di una immigrazione sradicata e induce la comunità italiana a considerare con occhio
più tollerante la comunità immigrata.
Occorrerebbe perciò investire nell’apprendimento della lingua in classi normali, in infrastrutture
sportive, centri di aggregazione e servizi educativi, educatori di strada.
Attuare forme di cooperazione internazionale a sostegno dell’educazione nei Paesi di origine per i
figli che in un secondo tempo raggiungeranno i genitori che hanno sottratto loro affetto: ciò
eviterebbe il ricongiungimento di giovani socialmente difficili e a rischio devianza, soprattutto nelle
periferie di mescolanza interetnica dove i segni del disagio non si debbano tramutare un domani in
manifestazioni del tipo “banlieues francesi”.
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