L`impossibile adozione

Transcript

L`impossibile adozione
L’impossibile adozione
Oreste Massari
SOMMARIO: 1. Premessa su un tema accademico. – 2. Alle origini di un tentativo. –
3. La Commissione bicamerale. – 4. Conclusioni.
1.
Premessa su un tema accademico.
L’unica finestra di opportunità di adozione di qualche forma di
semipresidenzialismo in Italia – attenzione, quando se ne è parlato
non ci si riferì solo al modello francese, ma anche all’Austria, al Portogallo, alla Finlandia, alla Repubblica di Weimar, come ha sottolineato Giuliano Amato nella sua relazione –, si è aperta fra il 1996 ed il
1998, per poi richiudersi subito dopo e, a mio avviso, non riaprirsi più.
Bisogna prendere atto che l’ipotesi di una riforma costituzionale
in senso semipresidenziale è in Italia oggi completamente uscita fuori
dall’agenda politica. Ma non è uscito fuori solo il tema della forma di
governo semipresidenziale, purtroppo è uscito fuori anche il tema
della riforma elettorale in termini di doppio turno in collegi uninominali. Il tempo è scaduto certamente per il semipresidenzialismo,
forse anche per il doppio turno di collegio (anche se quest’ultimo ha
avuto almeno ancora qualche leader politico, come Veltroni, come
sostenitore. Ma anche Veltroni è uscito dalla scena).
Non si tratta solo della rinuncia a una specifica forma di governo, ma soprattutto della rinuncia a un’ipotesi di ristrutturazione
del sistema partitico operata in forma graduale e flessibile e comunque coronata da successo innanzitutto in Francia, come i suoi cinquant’anni di semipresidenzialismo hanno dimostrato.
Non dobbiamo dimenticare, nelle discussioni che facciamo sulla
V Repubblica, che il doppio turno di collegio, introdotto con una soglia graduale, nel 1958 del 5%, nel 1967 del 10%, nel 1976 del
12,5% sugli aventi diritto, ha ristrutturato il sistema partitico prima
in forma di quadriglia bipolare, poi, con più difficoltà, in forma comunque di pluralismo moderato e bipolare.
84
LA V REPUBBLICA FRANCESE
La via seguita dalle dirigenze politiche italiane è stata radicalmente diversa. Non gradualità nell’approccio alla riduzione della
frammentazione partitica sul piano elettorale, e non flessibilità (implicita nelle forme di governo tanto parlamentari che semipresidenziali, ma non in quella cosiddetta neoparlamentare) nell’approccio
alla riforma della forma di governo. Nei primi anni della transizione
si è pensato di risolvere il problema della frammentazione all’interno
della riforma costituzionale saltando la legge elettorale, successivamente si è pensato di risolvere i problemi della riforma costituzionale
all’interno della legge elettorale, immettendovi surrettiziamente l’obiettivo, attraverso l’indicazione del candidato premier sulla scheda,
di ottenere una sorta di premierato (forte). Insomma, continua confusione di piani. Come che sia, oggi almeno il risultato di ridurre, sia
pure drasticamente, il numero di partiti – per l’effetto congiunto
della soglia di sbarramento del 4% e della scelta dei due partiti maggiori di correre da soli o quasi dopo le fusioni – è stato raggiunto, anche se non sappiamo se si tratti di un risultato acquisito durevolmente o se il fuoco della frammentazione e delle divisioni all’interno
dei due partiti maggiori non covi sotto la cenere del quasi bipartitismo raggiunto (sarebbe meglio parlare di pluralismo limitato).
Anche per questa nuova configurazione del sistema partitico (5
gruppi parlamentari alla Camera più il gruppo misto) e per la bocciatura referendaria della revisione costituzionale nel 2006, l’urgenza
di riformare la forma di governo in termini radicali e ampi, oggi non
c’è più.
Le questioni che oggi sono sul tappeto sul piano della forma di
governo sono soprattutto questioni attinenti ai regolamenti parlamentari, ossia ai rapporti governo-parlamento, e al ruolo dell’opposizione/i.
Forse è un bene che sia così, o forse no, ma è un fatto che il
tema della V Repubblica francese, ossia il semipresidenzialismo, sia
solo oggi un tema accademico, come testimonia anche questo convegno internazionale.
2.
Alle origini di un tentativo.
Quando in Italia si comincia a parlare di semipresidenzialismo,
il problema è posto nel contesto di un sistema partitico frammentato
ORESTE MASSARI
85
e che aveva subito diversi traumi – crollo e destrutturazione del sistema partitico tradizionale nel 1992, referendum maggioritario del
1993 e conseguente passaggio ad un sistema elettorale a prevalenza
maggioritario e a turno unico, prima e rocambolesca prova fallimentare del maggioritario del 1994, poi nel 1995 formazione di un governo, quello guidato da Lamberto Dini, sui generis. Siamo così al
biennio cruciale, per il nostro tema, del 1996-1998.
Prima di questo biennio, l’unica iniziativa politica di rilievo era
stata nel 1979 il lancio da parte di Bettino Craxi, allora segretario del
PSI, del tema di una «grande riforma» e della governabilità in generale, «grande riforma» di cui l’elezione diretta del capo dello Stato
costituiva certamente il messaggio più dirompente.
Ma com’è noto, la proposta non fece passi in avanti, anche se
contribuì ad animare il dibattito a sinistra, dove il tema dell’elezione
diretta del presidente della Repubblica era sempre stato considerato
un tabù, associato com’era stato fino agli anni Settanta a posizioni
della destra ritenute eversive.
Dopo l’iniziativa di Craxi, in qualche modo, nei circoli intellettuali della sinistra comunista se ne parlò. Basti citare due esponenti,
Lucio Magri, che dalle colonne de Il Manifesto, apre al tema, e poi
Pietro Ingrao che, all’inizio degli anni Ottanta, pone, in uno scambio
di idee riservato all’interno del «Centro per la Riforma dello Stato»,
il problema di una possibile apertura rispetto alla proposta di Bettino Craxi, anche se poi non se ne fece niente. Ma un tabù era stato
certamente rotto.
L’insistere sulla governabilità da parte di Craxi ebbe, però, almeno l’effetto nel 1988 di produrre un’importante legge, la n. 400, di
riorganizzazione della Presidenza del Consiglio.
Come specifica proposta l’opzione semipresidenziale fu assente
anche nelle due prime Bicamerali, quella Bozzi (1983-1985) e quella
De Mita-Iotti (1993-1994).
Tale opzione ha fatto, invece, irruzione nel biennio 1996-1998,
prima sotto forma del tentativo del governo Meccanico, poi con la
Bicamerale D’Alema. Come mai? Perché si era all’incirca all’inizio
della cosiddetta transizione. Perché la prima prova del maggioritario
al governo era fallita brutalmente dopo appena sette mesi e mezzo.
Perché il sistema partitico non si era rinsaldato, anzi sembrava allo
86
LA V REPUBBLICA FRANCESE
sbando. Perché c’era stato il governo Dini, soprannominato «dei tecnici» o del «Presidente». E perché non s’intravvedevano nell’immediato futuro, approdi certi di stabilizzazione del quadro politico.
Com’è noto nella letteratura, scelte radicali sulla forma di governo o sugli assetti istituzionali futuri si pongono solo agli inizi delle
transizioni. Dopo, quando i rapporti di forza tra i partiti si stabilizzano oppure si chiariscono nei loro termini attuali, è assai più difficile introdurre innovazioni radicali.
Comunque sia, con le dimissioni del governo Dini nel gennaio
1996, l’alternativa era o voto anticipato o riforme tramite un governo
transitorio all’uopo sostenuto da larghe intese. Si tentò quest’ultima
via con l’assegnazione da parte del presidente Scalfaro dell’incarico a
Meccanico il 1° febbraio, al fine di evitare le ennesime elezioni anticipate, dopo quelle del 1992 e del 1994. La scommessa del tentativo
stava in una sorta di scambio fra la bandiera del centrodestra – il
presidenzialismo – e la bandiera del centrosinistra – il doppio turno
di collegio. Con questo scambio si pensava di poter quadrare il cerchio. Pertanto la base programmatica di questo eventuale governo
doveva consistere solo nel fare le riforme istituzionali, considerate
come la chiave di volta per uscire dalla e chiudere la transizione italiana. In un brevissimo testo, Meccanico fece riferimento al doppio
turno francese e al semipresidenzialismo, seppure, come recitava il
documento, «adattato alla tradizione parlamentare italiana». Di questo governo Meccanico circolavano ufficiosamente anche i nomi dei
ministri, tra gli altri Sartori alle Riforme, Amato all’Economia, Baldassarre alla Giustizia, e poi G. Letta e L. Berlinguer.
Ma la situazione politica entro cui si muoveva Meccanico era
della massima confusione. Basti ricordare che il 14 febbraio Meccanico dichiara al «Corriere della Sera»: «riscontro una larga adesione…» e appena due giorni dopo, il 16 febbraio, rimette l’incarico
perché «non ci sono più le condizioni».
Il tentativo era durato solo due settimane e probabilmente era
fragile sin dall’inizio. Esso fallì perché vi fu il gioco di sbarramento
delle varie forze politiche. In realtà non fu solo Fini – come sostiene
la vulgata – a far saltare l’accordo (e di questa responsabilità poi Fini
si pentirà, ammettendolo come un errore non secondario), ma vi furono altre cannonate, fra cui quelle sparate da Prodi e Veltroni, secondo i quali le riforme istituzionali dovevano essere fatte dal Parla-
ORESTE MASSARI
87
mento e non da un Governo costituzionale. Prodi e Veltroni erano
già in pista, il motore dell’Ulivo era già in moto e i protagonisti non
volevano fermare la corsa. Anche i centristi di Casini erano contrari.
Insomma, ci furono vari veti incrociati e i dissensi tra ed entro i due
poli erano palesi ed estesi al punto tale da far venire meno qualsivoglia base di consenso apprezzabile a un governo comunque composto non dai leader politici in prima persona.
3.
La Commissione bicamerale.
Nelle elezioni anticipate del 1996 per la prima volta abbiamo un
Governo de «L’Ulivo», che però non era autosufficiente e abbisognava dell’appoggio parlamentare di Rifondazione comunista, con
cui si era operata una desistenza elettorale. A questo punto entrano
in gioco la Commissione Bicamerale per le Riforme costituzionali e il
ruolo di D’Alema.
Infatti, subito dopo la vittoria elettorale, con Prodi Capo del
Governo, D’Alema (leader del principale partito della coalizione) è
incerto se fare il leader di partito a tutti gli effetti e impegnarsi nella
costruzione – allora – di un «partito maggioritario», oppure andare a
fare il Presidente della futura Commissione Bicamerale per le
riforme costituzionali. Ovviamente, ogni scelta avrebbe avuto delle
ricadute differenti; nel giro di pochissime settimane. D’Alema scelse
di andare a fare il Presidente della Bicamerale, e lo scrisse anche nel
suo libro, La grande occasione (Milano, Mondatori) del 1997, in cui
affermò che «… non mi entusiasmava affatto l’idea di apparire confinato – lo volessi o no – in un ruolo tipico della vecchia Italia, quello
del segretario di partito che, da dietro le quinte, organizza e gestisce
il potere. Questo ruolo non corrisponde alla mia visione della politica. Io penso che un leader politico debba avere una proiezione istituzionale, un ruolo pubblico, e che debba assumersi responsabilità
in prima persona» (p. 8).
Nella Commissione Bicamerale operavano, tra l’altro, non solo i
leader politici ma anche molti professori/parlamentari, e devo dire
che da questo punto di vista ci fu un coinvolgimento serrato di molti
di essi in tutto il processo, anche perché esisteva una «Consulta per
le Riforme costituzionali» che il Pds aveva messo in piedi e che aveva
raccolto almeno un centinaio di costituzionalisti, giuristi, intellettuali
88
LA V REPUBBLICA FRANCESE
vari, sindaci, magistrati etc., per avere una forma di coinvolgimento
– a mio avviso – mai più raggiunta.
Comunque nel «Comitato Forma di governo» della Commissione Bicamerale si andò, sin dall’inizio, con due griglie alternative:
a) premierato forte e b) semipresidenzialismo. Bisogna tener presente che la gran parte dei leader politici – di destra così come di sinistra –, in realtà, aveva una nozione vaga, in termini dottrinali, sia
del premierato forte sia del presidenzialismo, categorie onnicomprensive e generiche entro cui facevano rifluire le più disparate
istanze (personalizzazione della politica, rafforzamento dell’esecutivo, legittimazione popolare diretta dell’esecutivo, etc.), ma senza
cogliere le differenti logiche istituzionali e politiche che i due modelli
rispettivamente implicavano. Ciò che per i leader era importante era
il mantenimento del bipolarismo, l’alternanza, la legittimazione diretta dell’esecutivo, evitare i «ribaltoni», blindare le maggioranze,
etc. Come questo compito fosse raggiungibile in termini d’ingegneria
costituzionale era relativamente poco importante. In definitiva, l’un
modello valeva l’altro. Il confronto non era tanto sulle specifiche logiche istituzionali, quanto sui diversi richiami simbolici. Grosso
modo – e scontando l’esistenza di posizioni trasversali all’interno dei
due schieramenti – per il centro-destra era importante richiamare
simbolicamente la bandiera del presidenzialismo, senza capirne le
conseguenze logiche, come quella di rafforzare i poteri del parlamento in un quadro di separazione delle istituzioni; per il centro-sinistra comunque quella del parlamentarismo, anche se il modello del
premierato forte (neoparlamentarismo) lo avrebbe stravolto in una
forma di rigidità assoluta.
Da parte dei leader politici non c’era, insomma, distinzione fra
le diverse logiche comportamentali che una determinata scelta di
forma di governo avrebbe implicato, quantomeno, sul sistema partitico. Tra gli intellettuali che parteciparono, vi era una minoranza favorevole a una soluzione semipresidenziale adattata all’Italia, altri
erano per il neoparlamentarismo, la maggior parte era disponibile
purché vi fosse una coerenza interna in ciascuno dei due modelli.
Devo dire che il relatore della «Commissione sulla Forma di governo», Cesare Salvi, all’inizio debuttò come premieratista convinto,
per cambiare, via via, posizione, fino ad abbracciare l’opzione semipresidenzialista in maniera definitiva. D’Alema, sempre nel libro ci-
ORESTE MASSARI
89
tato, osserva che Salvi operò in sede di Comitato con malizia, perché
presentò il modello del premierato in maniera complicata e confusa
– si prevedevano innumerevoli varianti –, mentre in maniera più lineare il semipresidenzialismo.
Comunque, l’opzione semipresidenzialista fu approvata nella seduta del 4 giugno 1997 grazie all’irruzione della Lega, che non aveva
partecipato ai lavori della Commissione e che era entrata per rompere il tavolo. Passò con 36 voti a favore (con i 6 voti a favore della
Lega) contro 31 l’opzione semipresidenziale. C’è da dire che subito
dopo questa votazione, Walter Veltroni, allora Vice Presidente del
Consiglio, dichiarò pubblicamente in un’intervista che il voto doveva
essere superato, annullato. D’Alema commenterà causticamente che
non è che ci si poteva svegliare la mattina e dire: «Abbiamo scherzato». Nonostante la posizione di Veltroni, il gruppo dirigente Pds
tenne invece ferma la scelta semipresidenziale.
Si scelse una forma di semipresidenzialismo «temperato», con
pochissimi poteri che furono poi ridotti nel corso delle votazioni sugli emendamenti. Ciò che però fece pendere negativamente il piatto
della bilancia, anche dell’opinione pubblica informata, fu che a sorreggere quest’accordo sul semipresidenzialismo non fu un accordo
sul sistema elettorale basato sul doppio turno di collegio – che sarebbe stato più coerente –, ma ci si accordò, nella famosa cena a casa
di Gianni Letta (svoltasi il 18 giugno 1997 e a cui parteciparono Marini, Fini, Berlusconi, D’Alema, Salvi)), detta il «Patto della crostata», su un Presidente di garanzia e su un sistema elettorale a doppio turno coalizionale, con l’indicazione del premier all’interno di
questo modello elettorale. È bene notare che su questa ipotesi si ritrovarono tutti i piccoli partiti (Popolari, Rifondazione comunista,
Verdi). Che stava succedendo? Che approvato dapprima un semipresidenzialismo «temperato», subito dopo lo si stemperò a tal
punto da ridurlo di fatto all’elezione diretta del presidente e a poco
più. I poteri del presidente vennero via via ridotti, il sistema elettorale ipotizzato non era più il doppio turno di collegio, il premierato
riappariva surrettiziamente entro l’involucro semipresidenziale. Ne
uscì, quindi, fuori un pasticcio. Non a caso si materializzò immediatamente la cosiddetta «ribellione dei professori» (Barbera, Sartori,
Panebianco, Cheli, Pasquino ecc.), che firmarono un manifesto in
90
LA V REPUBBLICA FRANCESE
cui chiedevano coerenza, perché il progetto, a quel punto, non ne
aveva più.
Nel contesto del dibattito sul semipresidenzialismo approvato,
vi fu un interessante confronto dottrinario fra le varie opzioni, in
particolare fra Leopoldo Elia e Giovanni Sartori. Il primo criticava la
concentrazione enorme di potere nel Presidente, il pericolo d’instabilità del Governo a causa della possibile coabitazione, l’apertura alla
personalizzazione della politica con il possibile ingresso di personaggi carismatici e demagogici, l’indebolimento del sistema delle garanzie e così via. Sartori rispose che «si vede la pagliuzza negli occhi
dei semipresidenzialisti, e non ci si avvede della trave negli occhi dei
neoparlamentaristi», perché molte di queste accuse potevano essere
rivolte benissimo all’altro modello forte.
Tuttavia, questo confronto teorico, molto civile, non impedì poi
a Sartori ed Elia di essere assieme nella critica alla riforma costituzionale del 2005 – introdotta dal Governo di centrodestra –, che riproponeva l’opzione per il premierato, più o meno forte.
Una critica ricorrente al semipresidenzialismo da parte dei contrari era il richiamo al dibattito francese proprio in quello stesso periodo, in cui si esprimevano critiche verso il funzionamento delle istituzioni della V Repubblica. Non a caso si discuteva proprio di
riforme costituzionali e legislative al fine di evitare l’eventualità della
coabitazione (riforme poi effettivamente introdotte con la riduzione
del settennato presidenziale al quinquennato e con l’inversione del
calendario elettorale in modo che le elezioni legislative seguissero
quelle presidenziali). L’argomentazione in Italia allora era del tipo:
«Ma i francesi sono contro la coabitazione, mentre noi la vogliamo
introdurre …». È un tipo di argomentazione, a mio avviso, scivolosa.
Altrettante pezze d’appoggio si potrebbero trovare se andassimo a
prendere il dibattito esistente in Inghilterra nei confronti del premierato. Le critiche verso il premierato (così come verso il bipartitismo e il plurality) in Inghilterra non sono da meno. Basti citare l’accusa al premierato di essere una sorta di «elective dictatorship»
(Lord Hailsham), con una grande concentrazione di potere in capo
al primo ministro e con un ruolo ridotto al parlamento, o quella al sistema elettorale plurality – su cui il modello Westminster si regge –
di essere profondamente antidemocratico o ancora quella al bipartitismo di essere una costruzione artificiosa, etc.
ORESTE MASSARI
4.
91
Conclusioni.
Concludo richiamando alcuni punti.
Perché fallisce la possibile adozione del semipresidenzialismo in
Italia? Personalmente credo che il semipresidenzialismo sia stato risucchiato all’interno del fallimento più generale della Bicamerale, il
cui compito era quello di riformare non solo la forma di governo, ma
anche la giustizia e il sistema delle garanzie, e la forma di Stato. La
Bicamerale D’Alema fallisce per l’incapacità della classe politica di
allora di raggiungere un accordo, perché troppi erano i temi in
gioco, e fallisce, quindi, la necessità stessa di avere un cambiamento
radicale della forma di governo. Inoltre, come specifica opzione il semipresidenzialismo non ha avuto mai un consenso diffuso e sufficiente all’interno della classe politica e all’interno dei costituzionalisti e dei politologi. A mio avviso, poi fallisce comunque anche l’ipotesi del premierato, perché nel 2006 viene rigettata dal corpo
elettorale nel referendum confermativo, anche se non in modo specifico in quanto il testo complessivo della riforma includeva altre materie, come quella del federalismo (con la modifica del bicameralismo perfetto). Le ragioni politiche del no hanno superato quelle sul
merito.
In definitiva, l’atteggiamento sulle due opzioni è stato molto
strumentale; la realtà è che un sistema partitico estremamente frammentato e la natura conflittuale delle coalizioni non permisero di arrivare ad un accordo alto sulla forma di governo. Troppi i giochi politici contingenti tra e dentro le due coalizioni.
Dopo un decennio dal momento apparentemente più propizio
per modificare radicalmente la forma di governo, il tema sembra ora
uscito dall’agenda politica, anche per una ragione fondamentale: perché stiamo assistendo ad un tentativo di ristrutturazione del sistema
partitico non più esclusivamente in chiave istituzionale e dall’alto,
ma dal basso da parte degli stessi partiti politici. L’intuizione di costruire partiti maggioritari in se è giusta e sacrosanta, perché è evidente che non vi può essere democrazia maggioritaria senza partiti
maggioritari (come in Germania e in Spagna, ad esempio, oltre che
in Gran Bretagna).
Non sappiamo se questo tentativo andrà in porto, però si è spostato l’accento dalle grandi riforme istituzionali ai processi di ristrut-
92
LA V REPUBBLICA FRANCESE
turazione politico-partitica, i quali, ovviamente, possono essere aiutati da sistemi elettorali ben congegnati, da rimaneggiamenti vari, da
forme di razionalizzazione del parlamentarismo, etc. L’ambizione
prometeica, e forse un po’ ingenua, all’inizio della transizione di
grandi riforme costituzionali sembra ora esauritasi, sia per una sorta
di stanchezza dei protagonisti politici di quella stagione, sia per l’assuefazione all’anormale normalità del funzionamento del governo
italiano. Si convive con e ci si adatta a ciò che passa il convento del
paese Italia.
Mi piace terminare citando una bellissima relazione di Augusto
Barbera (uno dei principali protagonisti del dibattito istituzionale), I
principi della Costituzione repubblicana: dal «compromesso» al «radicamento progressivo», che ha svolto il 24 gennaio 2009 come prolusione all’apertura dell’anno accademico 2008-2009 dell’Università
degli Studi di Bologna, nella quale viene ridimensionata la necessità
oggi di un intervento radicale sulla forma di governo, indirizzando
l’attenzione, invece, verso la riforma del parlamento (bicameralismo)
e verso il rafforzamento del governo, obiettivo raggiungibile attraverso la riforma dei regolamenti parlamentari. Non so se questo sia
un bene o un male, però è così, e prevedibilmente, per il futuro noi
ci troveremo di fronte più a problemi politici e partitici che a problemi di grande ingegneria istituzionale.