Disobbedire al potere - Giornale Critico di Storia delle Idee
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Disobbedire al potere - Giornale Critico di Storia delle Idee
Disobbedire al potere: diritto individuale o dovere della collettività? di Roberta Sala Premessa Mi propongo, in questo breve contributo, di riflettere attorno al rapporto tra individuo e stato in riferimento alla possibilità, se non al dovere, che il primo possiede di resistere al potere che il secondo esercita in modo legittimo. In altre parole, intendo occuparmi della possibilità di dissentire dall’autorità nella forma della disobbedienza alle leggi. Benché possa sembrare che questa sia una forma superata di azione politica, penso, al contrario, che valga ancora la pena parlarne come di una pratica volta ad assicurare libertà e diritti in contesti democratici. Inoltre, nei luoghi in cui le democrazie non sono ancora al loro massimo stadio evolutivo, la disobbedienza civile riveste una possibilità per lo stesso sviluppo democratico. Infine, ma non da ultimo, ragionare sulla disobbedienza civile permette di discutere dell’idea stessa di cittadinanza. È in riferimento a una certa idea di cittadino che ha senso parlare di disobbedienza civile come di un diritto se non anche come di un dovere, come cercherò appunto di mostrare. La mia riflessione si svolge attraverso un ideale confronto tra tre autori che si sono diversamente posti la questione del dissenso: Socrate, Hannah Arendt e John Rawls. Cercherò di dire in che cosa il loro modo di dissentire rispetto all’autorità li accomuni e in che cosa invece essi si distinguano nettamente; quindi, alla luce degli esiti della loro riflessione intorno alla disobbedienza, concluderò con il dire che ogni tentativo di tracciare un netto confine tra ragioni di giustizia e ragioni di coscienza sembra destinato al fallimento. La disobbedienza civile risulta essere un modo assai ambiguo e controverso per parlare di libertà di partecipazione politica. Integrità morale e disobbedienza. L’esempio di Socrate Che tipo di disobbedienza è quella di Socrate? Direi, in generale, che per Socrate disobbedire non significa prendere genericamente le distanze dal sistema politico negandone la legittimità; significa, piuttosto, affermare la centralità della propria ‘coscienza’ e mantenerla di fronte alle leggi, specie a quelle che contrastino con essa. Esempi di disobbedienza sono quelli che videro lo stesso Socrate protagonista. Egli stesso ricorda, durante il processo celebrato da Atene contro di lui e riportato nell’Apologia [1], di aver disobbedito all’autorità per ben due volte: la prima volta quando, membro del Consiglio dei Cinquecento, si rifiutò di votare per la condanna a morte di alcuni generali che erano stati considerati colpevoli - nonostante la vittoria riportata contro Sparta nella battaglia navale delle Arginuse del 406 a. C., - per non aver salvato 17 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X dal mare i soldati naufraghi e i morti, a causa delle pessime condizioni atmosferiche. Sfidando il comando impartitogli dai membri del Consiglio, Socrate ritenne “più doveroso affrontare il pericolo dalla parte della legge e della giustizia che condividere per paura della prigionia o della morte l’ingiustizia della [vostra] decisione” [2]. La seconda occasione di disobbedienza fu quando Socrate, contro il volere dei Trenta – l’oligarchia che si instaurò in Atene nel 404 a. C. – si rifiutò di “condurre [ad Atene] da Salamina, per mandarlo a morte, Leone di Salamina […]. Anche allora” – dichiara Socrate – “non a parole ma con i fatti ho dimostrato che della morte non mi importa […]: sopra ogni altra cosa, invece, m’importa di non compiere azioni ingiuste o empie” [3]. Emerge già, da questa citazione, come Socrate decida di non eseguire gli ordini, cioè di disobbedire, per non commettere ingiustizia. Questo punto è saliente: Socrate adotta una posizione astensionistica, si esime cioè dall’obbedire a ingiunzioni non perché in contrasto con una certa visione della giustizia ma perché, obbedendo ad esse, commetterebbe ingiustizia [4]. Sembra cioè che il senso di giustizia – diciamo così - non prescriva a Socrate di ‘fare’ qualcosa ma si limiti a prescrivergli di ‘non fare’ qualcosa. Parlare di astensionismo non significa però, nel caso di Socrate, ‘lavarsi le mani’ e ritirarsi a vita privata; la decisione di Socrate di ‘andarsene a casa’ senza eseguire i comandi non implica infatti una sua estraniazione dalla vita pubblica; implica, semmai, la presa di distanza, comunque parziale, dalle faccende della città. Quel che Socrate fa è precisamente operare un distanziamento che non corrisponde tuttavia ad estraniamento. Socrate rivendica la possibilità di fare attività politica ma dal punto di vista filosofico. Il che non significa né assumere un atteggiamento impolitico né, tanto meno, un atteggiamento antipolitico. Semmai, se impoliticità si può chiamare la non acquiescenza con le ragioni della politica, essa è il segno del modo filosofico di fare politica, dell’abitare la politica filosoficamente. Fare politica dal punto di vista filosofico significa interrogarsi sulle condizioni di possibilità della convivenza, anzi della cittadinanza, nel rispetto della giustizia e nella ricerca senza sconti della verità [5]. Potremmo dire che, con la sua disobbedienza, Socrate rivendichi alla filosofia, ovvero alla capacità di pensare [6], uno spazio all’interno della città, una prospettiva dalla quale sottoporre al vaglio della ragione, cioè della filosofia, le usanze, le abitudini e le convenzioni. Non v’è nulla cui la filosofia non si possa applicare, non v’è luogo che si possa pregiudizialmente sottrarre al suo esame. La missione di Socrate è dunque così sintetizzabile: mostrare ai concittadini la necessità di abbandonare ogni automatismo, ogni forma di deferenza acritica nei confronti della tradizione, ogni forma di credulità. Essa prevede anche il rivendicare un territorio di appartenenza per la filosofia che sia interno e non già esterno alla città; Socrate vuole vivere da cittadino dentro la sua città e vuole vivere in essa filosoficamente, impegnandosi per essa, per la sua rifondazione morale, anche con il suo esempio, perché venga ripensato il senso della cittadinanza come condivisione di un’appartenenza civica. A tal proposito, è significativa la risposta che Socrate dà ai suoi accusatori quando gli viene offerto lo scambio tra la condanna a morte e l’esilio o il carcere, ovvero, di aver salva la vita a condizione che egli smetta di filosofare: “vi 18 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X ribatterei che, pur nutrendo per voi amicizia ed affetto, concittadini, preferisco obbedire al dio piuttosto che a voi, e finché avrò vita e forze, non cesserò di far filosofia” [7]. Quel che Socrate rivendica è la sua adesione alla vocazione filosofica, una vocazione che è anche politica, dal momento che sottopone all’esame della ragione qualsiasi realtà, umana e non umana, qualsiasi legge ed istituzione. Si capisce dunque, ancor meglio, perché Socrate ribadisca di non essere un uomo politico o di fare politica nel senso consueto del termine, nel significato cioè di attività militante o partitica, secondo le dinamiche assembleari. Proclamare di non essere uomo politico nel senso tradizionale del termine non comporta però un suo disinteresse per la cosa pubblica, che è invece al centro del suo filosofare: di essa egli intende definire lo spazio, i confini, i criteri che la regolamentano, i valori su cui si costituisce. Se ciò ha senso, allora si capisce come, con la sua disobbedienza nei confronti degli ordini ricevuti, Socrate non metta in discussione il sistema di comando e obbedienza implicito nell’esistenza dell’autorità, ma neghi soltanto qualsiasi accettazione automatica delle ingiunzioni che l’autorità stabilisce. Socrate mostra, in sostanza, di non essere un anarchico ma un disobbediente civile [8]: egli non disobbedisce perché vede in qualsiasi autorità un abuso di potere; egli disobbedisce se e fintantoché l’autorità infrange la giustizia. In altre parole: non si può rispettare la legge se essa, sottoposta al vaglio della ragione, si riveli ingiusta [9]. Di fronte allo scontro tra due ordini di comando, quello imposto dall’autorità e quello impostogli dalla coscienza, Socrate sceglie il secondo, assumendosi però la responsabilità e le conseguenze del disobbedire al primo. Vediamo come la disobbedienza socratica possa essere intesa proprio come la posizione critica del filosofo nei confronti della vita pubblica: è parte della vocazione della filosofia la messa in discussione di ciò che è considerato indisputabile in quanto esito non intenzionale della storia di una comunità, in quanto frutto della sua evoluzione e prodotto della sua biografia. Ciò che il gesto socratico inaugura è dunque il compito politico della filosofia: la filosofia diventa con Socrate anima critica della città; essa include tra i suoi compiti anche un impegno militante a favore di un ripensamento degli stessi ideali fondativi della città, degli standard della convivenza e della cittadinanza onde valutare la coerenza della condotta della città rispetto a tali standard nonché la loro stessa ‘giustizia’. Verificare la giustizia degli standard della città, ovvero la giustezza delle istituzioni, significa vedere se la loro legittimità si esaurisca nella legalità con cui esse svolgono le loro funzioni o se per legittimità si debba intendere la conformità delle istituzioni medesime a compiti in qualche modo superiori, a criteri del giusto e dell’ingiusto trascendenti le istituzioni medesime, ovvero precedenti le regole da esse stesse poste. Ora, sembra che Socrate inviti i suoi interlocutori a perseguire la legittimità anche a discapito della legalità: non c’è legge della città né comando di chi la governa che possa prevalere sull’istanza insopprimibile di evitare l’ingiustizia. Come accennavo sopra, 19 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X di fronte a un conflitto tra l’ordine della morale e l’ordine della legge, Socrate opta per seguire il primo, considerato prevalente sul secondo. Torniamo ora alla considerazione precedente, quella secondo cui Socrate persegue la giustizia nel modo negativo del non commettere ingiustizia: l’assunzione del compito filosofico socratico non implica già la formulazione di un modello di giustizia, bensì solo l’affermazione della centralità dell’individuo come valutatore di leggi e di politiche. Socrate inaugura un nuovo mondo morale al cui centro c’è la coscienza individuale e non più il portato delle tradizioni, neppure quelle che si incarnano nelle istituzioni. L’individualismo socratico – chiamiamo così la posizione di Socrate con al centro l’individuo e la sua capacità di esaminare criticamente la realtà che lo circonda - è denso di conseguenze; indica, prima di tutto, come sia Socrate in quanto individuo a rapportarsi alle istituzioni e come dunque sia a partire dal suo individuale punto di vista che egli intraprende la lotta contro la corruzione di Atene perché torni all’eccellenza della sua tradizione eroica. Tra le conseguenze di tale individualismo si nasconde, eventualmente, una tendenza meramente distruttiva: Socrate potrebbe limitare cioè la sua missione alla decostruzione dei significati depositati nella vita cittadina, allo smantellamento dei pregiudizi e delle convenzioni, senza che alla pars destruens segua alcuna costruzione o ricostruzione di uno scenario di vita cittadina. Potremmo dire che questo è il rischio dell’attività ‘disobbediente’ intrapresa da Socrate, quello di purificare con il suo scetticismo la sfera pubblica ma di lasciarla svuotata e vuota di nuovi significati e di nuovi simboli attorno ai quali ricreare e rinsaldare l’appartenenza civica. Socrate corre così il rischio di agire da profeta, ispirato dalla giustizia, ma senza entrare in alcun dettaglio circa ciò che essa preveda per i cittadini nel loro insieme, e senza la condivisione da parte di tutti e di ciascuno del significato di cittadinanza. In conclusione: con Socrate conosciamo un significato di disobbedienza come conseguenza di un’obbedienza originaria al gesto del filosofare, ovvero alla spinta interiore che vieta di accogliere acriticamente qualsiasi regola o modello di vita, che trattiene dal vivere, in sintesi, una vita automatica forgiata attorno a forme convenzionali di convivenza. Disobbedire significa allora aderire primariamente alla filosofia, obbedire alle sue ingiunzioni che sono l’unico comando degno di individui liberi in quanto guidati solamente dalla ragione. Il rischio di una deriva individualistica se non solipsistica è evidente: chi garantisce che, seguendo la propria ragione o la propria coscienza, si proceda in direzione della giustizia e della verità? Socrate non lo dice; quel che dice è che agire così è il suo modo di dare riscontro all’indicazione del dio, della coscienza diremmo ora, che gli impedisce di fare cose che causerebbero ingiustizia. La morale socratica, in sintesi, sembra consistere in prescrizioni negative, sembra ridursi in una morale del ‘non fare’ più che del ‘fare’. Tentando una critica a Socrate, potrei dire che la questione, in politica, è che non è sempre possibile disobbedire alle leggi per fedeltà alla propria 20 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X morale; la morale fatta valere nell’ambito della politica potrebbe persino rivelarsi inefficace, se non, addirittura, dannosa, quando per esempio le circostanze impongono un compromesso con i propri ideali per salvaguardare il più possibile gli interessi in gioco quando sono gli interessi di tutti. La questione sta dunque nel difficile incontro tra morale e politica, tra una posizione inflessibilmente critica e le circostanze che richiedono, a volte, una rinuncia anche tragica alla propria morale: essere buoni potrebbe non comportare essere anche giusti. Occorre riflettere sui casi in cui la legge non può rispettare la coscienza né tollerare alcuna forma di disobbedienza, su quei casi di emergenza, per dir così, in cui l’ordine e la stabilità, che sono fini squisitamente politici, sembrano prevalere sulla propria integrità morale, sui principi indisputabili della propria moralità [10]. La disobbedienza civile secondo Hannah Arendt Pensando al modo in cui Socrate disobbedisce alle disposizioni dell’autorità, Arendt nega che se ne possa derivare un modello di cittadinanza: la posizione di Socrate - afferma l’autrice nel saggio sulla “Disobbedienza civile” [11] – esprime la predilezione che il filosofo ha per la cura di sé e della sua anima, senza che ad essa corrisponda altrettanta cura per la politica o la città. Il dialogo che Socrate intraprende con la sua anima è un dialogo interiore, in cui essa gli dice che cosa non deve fare per mantenere la sua integrità. Ciò indica per Arendt l’esigenza che Socrate ha di essere in pace con se stesso, di realizzare l’accordo di sé con sé, senza attenzione per il mondo, termine con cui Arendt contraddistingue l’insieme dei significati che gli individui conferiscono alle modalità della loro convivenza pubblica. La critica arendtiana a Socrate e alla sua discutibile forma di dissenso è presente anche in opere precedenti: in “Philosophy and politics” [12], per esempio, Arendt sostiene che la formula socratica dell’appartenenza politica si incentra sulla dimensione dell’integrità morale basata sull’accordo di sé con sé e sulla coerenza interiore; ciò che in Socrate sembra acquisire massima rilevanza è innanzi tutto l’armonia fondamentale del singolo quando intrattiene un dialogo interiore con il proprio pensiero. Secondo Arendt il progetto socratico porrebbe enfasi sulla creazione di una cittadinanza coscienziale: la coscienza acquisisce lo status di condizione fondamentale e necessaria per parlare di cittadinanza; chi non sa articolare un dialogo interiore non è in grado di intrattenere una relazione costruttiva con i suoi concittadini. Nel 1971, nel saggio “Il pensiero e le considerazioni morali”, Arendt sottolinea l’importanza della capacità di pensare, laddove l’esperienza del totalitarismo avrebbe rivelato una totale assenza di pensiero. Fu proprio l’assenza di pensiero più che la malvagità o la stupidità di Eichmann a sorprendere Arendt in occasione del processo di Gerusalemme che lo vide imputato di crimini nazisti. La banalità del male da costui commesso va inteso correttamente: non si è trattato affatto di un male banale; banale è il fatto di averlo commesso senza alcun pensiero; banale fu il modo in cui l’ufficiale Eichmann, non particolarmente crudele né particolarmente stupido, commise il male. Nel corso del processo divenne sempre più evidente ad Arendt quanto necessario fosse 21 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X il legame tra il non pensare e la capacità di fare il male. Che fece concretamente Eichmann? Egli, dotato soltanto di capacità deduttiva, si attenne rigidamente alle regole. Durante l’interrogatorio Eichmann si richiamò, infatti, al dovere di obbedienza, all’esecuzione obbligatoria degli ordini ricevuti. Ora, il suo rinviare ossessivo a tale dovere non fu solo una strategia difensiva ma fu anche un’attenuante, e persino gli accusatori di Eichmann erano disposti a riconoscerla: “che la difesa tentasse di far passare Eichmann per un semplice ingranaggio era cosa più che prevedibile; così come era plausibile che l’imputato stesso si vedesse in quanto modo, come fece fino a un certo punto. Ma la cosa davvero curiosa e sorprendente fu che l’accusa stessa tentò di farlo passare come un ingranaggio, anche se il più grande di tutti” [13]. Ciò che sconcerta Arendt, in sostanza, è che l’incapacità di pensare accomunò un’intera epoca, contagiò la maggior parte della popolazione; molti, forse la maggioranza, furono quelli che non intravidero in Eichmann responsabilità personale alcuna: era l’intero sistema a ‘soffrire’ ed egli ne era semplice manifestazione. Ma dire che ‘siamo tutti colpevoli’ perché è il sistema che non funziona significa dire che ‘nessuno è colpevole’; se siamo disposti a riconoscere che nessuno è colpevole significa che siamo anche disposti a difendere i malvagi, a stare dalla parte di coloro che si sono macchiati di crimini orrendi. La stessa mentalità innocentista o anti-colpevolista è quella che Arendt accusa in coloro che mal sopportarono i suoi giudizi, coloro che la criticarono con veemenza per essersi permessa, a distanza di spazio e di tempo, di giudicare l’imputato e i giudici, il singolo e la collettività. Scrive Arendt che era molta la paura di giudicare, ma – continua - “dietro il non voler giudicare si cela il dubbio che nessuno sia libero, il dubbio che nessuno sia responsabile o possa rispondere degli atti che ha commesso” [14]. Ma proprio contro la tendenza diffusa ad acquiescere, a giustificare qualsiasi criminale con il pretesto che non è semplice sottrarsi agli eventi e alle decisioni che alcuni prendono dispoticamente per tutti gli altri, Arendt sostiene la necessità di dismettere ogni automatismo e di intraprendere una vita esaminata. Proprio quel che Socrate diceva ai suoi interlocutori. Socrate ha mostrato – sottolinea Arendt - l’irrinunciabilità del pensiero per vivere bene con se stessi, per avere buoni rapporti con se stessi; il pensiero non è una tecnica bensì è il dialogo silente di sé con sé. L’interpretazione che Arendt dà di un Eichmann banalmente malvagio, malvagio per dovere professionale, suscitò numerosissime critiche, tra cui quelle dei superstiti e dei prossimi delle vittime: per costoro la visione di un carnefice ‘banale’ rendeva ancora più insensate le sofferenze patite. Altre critiche ancora furono sollevate nei confronti di Arendt da parte del popolo tedesco in generale, che preferì convincersi dell’eccezionalità del male perpetrato dai nazisti che non rendersi conto della disponibilità, forse anche inconsapevole, a consideralo un ‘errore di sistema’. Per la sua atroce banalità, per la sua sconcertante assenza di pensiero, Eichmann è l’espressione più inquietante dei tempi bui del totalitarismo. Il tipo sociale caratteristico del totalitarismo, infatti, è rappresentato dall’individuo automatizzato della società di massa, incapace di partecipazione civile, che trova la sua nicchia in un’organizzazione che ne annulla il giudizio. A questo è servito parlare di Eichmann, a mostrare l’inconsistenza teorica e pratica dei cosiddetti valori morali, derivante da una lunga tradizione morale che ha fissato nel tempo l’obbligatorietà dei precetti: obbedire senza 22 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X pensare è l’esito di questa antica abitudine all’obbedienza. Di fronte alla cecità dell’obbedienza, come antidoto alle sue più ‘banali’ conseguenze, unico rimedio è il ‘giudizio’: solo il giudizio riesce a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Hanno mostrato di avere capacità di giudizio coloro che non hanno aderito al regime, coloro che hanno detto di no; costoro hanno mostrato che la via della responsabilità personale non era preclusa neppure nei tempi bui del totalitarismo. Si tratta della strada, certamente rischiosa, percorsa da chi non era abituato ad attenersi al giudicato, al già esaminato, né intendeva cominciare a percorrerla allora. Per costoro non si trattava tanto di far trionfare altre leggi o altri precetti: si trattava piuttosto, proprio come Socrate, di non volere e di non potere convivere con se stessi se si fossero compiute alcune azioni, una volta commessa ingiustizia. Scrive Arendt: “quando tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che gli altri credono e fanno, coloro che pensano sono tratti fuori dal loro nascondiglio perché il loro rifiuto di unirsi alla maggioranza è appariscente, e si converte per ciò stesso in una sorta d’azione. In simili situazioni la componente catartica del pensiero (la maieutica di Socrate, che porta allo scoperto le implicazioni delle opinioni irriflesse e non esaminate, e con ciò le distrugge – si tratti di valori, di dottrine, di teorie, persino di convinzioni) ha un effetto liberatorio su un’altra facoltà, la facoltà di giudizio. La facoltà di giudicare ciò che è particolare, così come scoperta da Kant, rende manifesto il pensiero nel mondo delle apparenze […]. La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’abilità di discernere il bene dal male, il bello dal brutto. Il che, forse, nei rari momenti in cui ogni posta è in gioco, è realmente in grado di impedire le catastrofi, almeno per il proprio sé” [15]. Per non commettere il male non occorre cultura, occorre la capacità di pensare. E dove questa capacità è assente, là si trova, spontaneamente, la banalità del male. In tale prospettiva, resistere al male significa esercitare il pensiero a interrogarsi, impedendo che un precetto qualsiasi metta fine al dialogo interiore. Posta in questi termini, la questione è allora non già dire come sia possibile porre rimedio al crollo dei valori, bensì come sia possibile resistere al conformismo di un ethos collettivo. Nessun richiamo al dovere verso l’ethos di una determinata comunità può giustificare la non assunzione di responsabilità, il non avvenuto giudizio. Ora, in questo contesto, il rinvio arendiano a Socrate corrisponde alla riabilitazione della filosofia come attività critica, prima e al di qua di qualsiasi teorizzazione. Di Socrate Arendt richiama l’impegno mai concluso di non commettere ingiustizia: è ingiusto non solo colui che fa ingiustizia ma anche colui che non prende posizione contro di essa, colui che non si assume in prima persona la responsabilità del proprio pensare per vagliare criticamente prescrizioni e ingiunzioni e per dire se siano giuste oppure no. Arendt torna su questo punto in “Il pensiero e le considerazioni morali”, sottolineando, ancora sulla scia di Socrate, come l’ascoltare la propria coscienza, nell’inesausto confronto interiore con se stessi, possa condurre anche a disobbedire, a negare il proprio consenso [16]. Vorrei soffermarmi ancora sul rapporto tra Arendt e la vicenda socratica. Ricordo come per Arendt Socrate non sia il migliore esemplare di disobbediente civile: ciò che gli sta a 23 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X cuore è la propria coerenza interiore più che l’impegno ad onorare la verità. Ora, la critica di Arendt non è del tutto sottoscrivibile; per essere compresa va collocata nella sua visione della politica, secondo la quale non sarebbe in alcun modo ‘politica’ l’esposizione in pubblico della propria coscienza e delle sue ragioni. Il dialogo che Socrate intraprende con se stesso, cioè con la sua coscienza, e il conseguente suo distanziamento dalle ragioni della città quando in contrasto con la coscienza medesima, non è per Arendt un modo di agire politicamente. La premessa arendtiana, per cui non è un agire politico quello che mette in campo le ragioni della propria coscienza, spiega perché per l’autrice la disobbedienza socratica non possa essere intesa come disobbedienza civile ma, semmai, come una forma di obiezione di coscienza, dettata dalle ragioni individuali della coscienza. Ora, diversamente da Arendt, penso che rinviare alla coscienza non sveli necessariamente un intento di sottrarsi agli impegni con il mondo; non è detto che il richiamarsi alla coscienza, come sostanzialmente Socrate fa, equivalga ad assumere un atteggiamento pregiudizialmente impolitico. Arendt sembra trascurare, o non sottolineare abbastanza, la dichiarazione di Socrate secondo la quale non rientrava affatto tra i suoi propositi vivere da privato la propria vita laddove, al contrario, suo intento era viverla pubblicamente, ancorché lontano da luoghi convenzionali e da acritiche appartenenze. Solo lontano dalle logiche dell’appartenenza, cui ben si confanno le varie ideologie ma non già la ricerca disinteressata della verità, Socrate avrebbe potuto portare avanti la sua missione filosofica e politica ad un tempo, contribuire al ripensamento dei valori fondativi della città una volta lasciatasi alle spalle povertà e corruzione [17]. Tornando ad Arendt, e avendo visto in che cosa la sua posizione si differenzi da quella socratica, possiamo chiederci che cosa sia per lei la disobbedienza civile. In primo luogo, si tratta di un atto non individuale né isolato: “la disobbedienza civile si manifesta ed esiste solo tra i membri di un gruppo” [18]. Costoro sono mossi da una condivisione di opinioni e non già di interessi; si oppongono alla politica governativa anche quando essa è sostenuta dalla maggioranza. Arendt, come Socrate, manifesta insofferenza per le logiche maggioritarie ma, a differenza di Socrate, non favorisce alcuna iniziativa che non sia il prodotto di una decisione comune. Scrive: “colui che fa atto di disobbedienza civile, pur essendo generalmente in disaccordo con la maggioranza, agisce in nome e per conto di un gruppo. Lancia una sfida alle leggi e all’autorità costituita non perché voglia personalmente beneficiarne, ma sulla base di un disaccordo fondamentale” [19]. È una sfida all’ordine e all’autorità per restaurare il senso vero della politica, quell’agire di concerto che per Arendt è il suo senso più autentico. La disobbedienza civile esprime la volontà di opposizione, sulla scorta di un’opinione condivisa, diretta nei confronti di leggi che risultano contrarie all’interesse generale; essa è definita proprio come “la forma nuova più recente dell’associazione volontaria [che si accorda] perfettamente con le più antiche tradizioni del paese” [20]. In conclusione, in Arendt la disobbedienza civile mostra la sua dimensione collettiva; per quanto al fondo ci siano opinioni individuali, a disobbedire sono nel loro insieme i membri di una collettività, decisi a contrastare logiche maggioritarie contrarie agli interessi di tutti, in altre parole, al bene comune. 24 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X Ragioni di coscienza e ragioni pubbliche per disobbedire alle leggi: considerazioni a partire da John Rawls Rawls affronta il duplice tema della disobbedienza civile e dell’obiezione di coscienza distinguendone le motivazioni e gli effetti attesi [21]. L’obiezione di coscienza – spiega Rawls - è una delle due specifiche forme di resistenza alla legge ingiusta, previste dalla pratica e dalla teoria della democrazia liberale. L’altra forma di resistenza è la disobbedienza civile. Entrambe si configurano come forme di resistenza non violente né sovversive, dal momento che non mettono in discussione l’obbligo generale di obbedire all’autorità. Ciò che esse mettono in discussione è una determinata legge che al dissenziente appare ingiusta. In entrambi i casi si tratta di forme civili di resistenza dal momento che non si mette in discussione la giustizia generale dell’ordinamento, bensì soltanto la giustizia di una legge; l’intento è adeguare al senso di giustizia singole leggi ovvero disobbedire ad esse quando considerate ingiuste. A distinguere disobbedienza civile e obiezioni di coscienza è il fatto che la prima si configura come un’azione collettiva contro la legge ingiusta con l’obiettivo di migliorarla, laddove la seconda non mira a rinnovare la legge ma ad ottenere il permesso di essere esentati dall’obbedirvi. Se nel caso dell’obiezione di coscienza si tratta di rivendicare immunità dall’interferenza pubblica per condotte contrarie alla legge ma non rinunciabili, onde salvaguardare la propria integrità morale, nel caso della disobbedienza civile l’idea è che gli individui rivendichino un diritto di partecipazione nella formazione delle scelte collettive [22]. Vediamo giocare nella prospettiva rawlsiana della disobbedienza civile qualcosa di assai simile a quanto sostenuto da Arendt: ammettere margini di resistenza nei confronti della singola legge nella forma della disobbedienza civile significa non già tradire il senso di giustizia ma, al contrario, fare appello ad essa. Scrive Rawls: “inizierò definendo la disobbedienza civile come un atto di coscienza pubblico, non violento, e tuttavia politico, contrario alla legge, in genere compiuto con lo scopo di produrre un cambiamento nelle leggi o nelle politiche del governo. Agendo in questo modo, ci si rivolge al senso di giustizia della maggioranza della comunità […]. Si fa […] appello alla concezione della giustizia pubblicamente condivisa che sottostà all’ordinamento politico” [23]. Diversamente, l’obiezione di coscienza “non fa appello alle convinzioni della comunità e, in questo senso, [essa] non è un atto compiuto in pubblico” [24]. Messa la questione in questi termini, è come se la disobbedienza civile permettesse al cittadino di ribadire – invocando il senso di giustizia presente in ciascun cittadino - le ragioni per cui l’autorità è legittima; è in base a tale appello alla giustizia che chi disobbedisce pretende che l’autorità rimanga o torni fedele al suo mandato morale che potrebbe essere individuato, in una parola, nella giustizia. La disobbedienza civile è così interpretabile come una prova di fedeltà alla legge; questa, infatti, viene violata perché paradossalmente se ne riconosce il fondamento, l’istanza morale che sostanzia l’ordinamento nel suo insieme [25]. Sembra qui riecheggiare l’insegnamento socratico impartito nei modi della 25 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X disobbedienza: non si possono fare cose ancorché comandate quando facendole si commetterebbe ingiustizia. La disobbedienza civile può essere intesa, ad un livello più profondo, come il modo paradossalmente più autentico di far trionfare la giustizia contro coloro che, abusando della posizione di potere, la violano; se è così, la possibilità della disobbedienza civile sembra permettere d’altro canto all’autorità di rinnovare l’impegno a rendere conto delle sue decisioni, a confermare il suo mandato nei confronti della cittadinanza cui deve corrispondere con responsabilità [26]. Ammettere la disobbedienza civile significa per le istituzioni aprire una dialettica politica laddove gli ideali politici richiedono un continuo sforzo di declinazione nelle circostanze della giustizia, quando, cioè, ciò che si può realmente fare è sempre meno di quel che l’ideale prescriverebbe [27]. Dicevo che c’è affinità fra Arendt e Rawls sul tema della disobbedienza civile. Un confronto tra le loro posizioni può essere fecondo nell’intento di ripensare la cittadinanza e l’idea di partecipazione politica in un contesto fortemente pluralistico sotto il profilo morale. Per entrambi il problema della disobbedienza civile sta nella contraddizione di una pratica insieme illegale e legittima, perché portatrice di istanze giuste. Costituendosi per entrambi come azione politica, e potendo essere intesa come forma di appello politico ed espressione di una convinzione politica profonda, la disobbedienza civile rappresenta l’apertura di uno spazio pubblico di discussione. L’idea che la giustizia e le istituzioni debbano essere sempre oggetto di valutazione da parte dei singoli individui è condivisa da entrambi gli autori. In questo senso, essi sono similmente convinti che la politica abbia bisogno di un suo proprio spazio in cui possano instaurarsi relazioni fra i cittadini e in cui la discussione pubblica sia garantita. Ciò che inoltre accomuna Arendt e Rawls è l’idea che il punto di vista pubblico vada “costruito” tramite una sorta di presa di distanza da se stessi. La convinzione di Arendt, per cui agire politicamente significa innanzitutto non far giocare nella sfera pubblica la dimensione della propria coscienza, assomiglia molto all’istanza della ragione pubblica secondo Rawls: agire da cittadini significa mettere tra parentesi le proprie appartenenze per condividere una medesima sorte di cittadinanza. Nell’un caso come nell’altro si innesca un processo di neutralizzazione delle convinzioni private per lasciare posto a ragioni politiche. Sia Arendt sia Rawls, mettendo tra parentesi le questioni morali in quanto non rilevanti pubblicamente ma solo privatamente, rivendicano all’agire politico una sua propria originalità. Sostiene Rawls che, adottando il punto di vista della ragione pubblica, i cittadini riconoscono la prevalenza di valori politici: ciò non corrisponde ad alcuna rinuncia alle proprie particolari ragioni ma semplicemente alla loro depoliticizzazione negli spazi della decisione collettiva [28]. Torniamo ora al tema della disobbedienza civile per vedere come sia per Arendt sia per Rawls essa corrisponda ad una rivendicazione di libertà di partecipazione al processo deliberativo. 26 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X Per entrambi la disobbedienza civile rappresenta “uno dei meccanismi di stabilizzazione di un sistema costituzionale” [29] e la sua introduzione a livello politico può costituire il migliore rimedio contro “l’erosione progressiva della autorità governativa [...] e dell’incapacità degli ingranaggi governativi di assolvere la loro funzione” [30]. La disobbedienza civile è per entrambi esempio di cittadinanza attiva, vero antidoto contro ogni forma di dispotismo. Stanti così le cose, esiste un rischio connesso alla disobbedienza civile? Certamente sì, ed è la minaccia che il dissenso esprima non interessi collettivi bensì auto-interesse, che ciò che si invoca non sia il senso di giustizia – che è una ragione pubblica – ma una convinzione morale, magari largamente condivisa, che non si colloca però, per dirla con Rawls, nello spazio di intersezione delle morali ragionevoli entro cui realizzano l’accordo politico [31]. In altre parole, il rischio implicito nell’accoglienza della disobbedienza civile e nella sua valutazione positiva come modo autentico di partecipare alla vita politica consiste proprio nella difficoltà, nel concreto, di distinguere le ragioni pubbliche della dissidenza dalle ragioni private del dissenso. Sembra difficile tracciare il confine tra le ragioni di giustizia che i disobbedienti invocherebbero a miglioramento della legge e le ragioni di coscienza cui gli obiettori si appellano per poter disobbedire ad essa. Per converso, il rischio è anche quello di escludere dal dibattito pubblico le ragioni della coscienza, costrette in un certo senso a funzionare privatamente come principi ispiratori della condotta morale individuale, condannata quest’ultima, a sua volta, ad essere politicamente irrilevante. Potremmo facilmente comprendere le ragioni per cui Rawls scrive che “né religiosità né ragioni di coscienza sono sufficienti a proteggere [pratiche ingiuste]” [32]; la sua preoccupazione è che non ci sono ragioni di coscienza, dettate da una qualsiasi religione o da una qualsiasi morale, che possano prevalere sulle ragioni della giustizia, ovvero sulle ragioni del reciproco rispetto o della tolleranza. Ma, nonostante Rawls, non è sempre giustificata l’interferenza della legge nei confronti di ideali morali o religiosi che si intendano far valere politicamente. La spoliticizzazione delle ragioni religiose e morali può equivalere, per i loro portatori, a una pregiudiziale messa a tacere delle loro ragioni che sono per costoro irrinunciabili ragioni di giustizia. A loro, come a chiunque altro, sta a cuore la difesa pubblica delle proprie ragioni, quelle che Rawls giudica private ma che sono, per costoro, le ragioni di tutti [33]. La questione è ora se le ragioni di coscienza possano ricevere adeguato spazio nella deliberazione pubblica o se invece sia loro eventualmente concesso uno spazio ad hoc, considerate come eccezioni alla legge, proprio quel che accade nei casi in cui si riconosce un diritto all’obiezione di coscienza. A questo quesito non posso ora fornire una risposta, la cui formulazione richiederebbe ben altro spazio e ben altri argomenti; mi basta per ora aver posto il problema, orientandomi tuttavia, sulla scia di Rawls, verso un’identificazione delle circostanze in cui le ragioni di coscienza possano attraversare il confine della sfera privata e imporsi come ragioni che pretendono pubblico riconoscimento. Dal momento che agire secondo la propria coscienza a tutela dell’integrità morale potrebbe significare, in alcuni contesti dell’agire, andare contro la 27 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X giustizia quale salvaguardia generale degli interessi della comunità e dei singoli membri che la costituiscono [34], il diritto di chiedere esenzione dall’obbedienza alla legge non può che essere un diritto morale condizionale, ovvero un diritto che l’ordinamento concede a determinate condizioni; tali condizioni potrebbero essere sintetizzabili nel divieto di causare, come esito del proprio ‘disobbedire’, danni diretti o indiretti ai diritti degli altri [35]. Conclusione Sono giunta alla conclusione di questa riflessione. Ho cercato di capire che significato abbia la disobbedienza alla legge in Socrate, Arendt e Rawls. Ho scelto questi autori non a caso. Socrate è l’esempio del diritto e del dovere di disobbedire a leggi ingiuste, del diritto e del dovere di astenersi dal fare ingiustizia anche quando questa fosse prescritta dalle leggi dello stato. Arendt, attenta lettrice di Platone, condivide l’idea secondo la quale la filosofia, anzi la capacità di pensare, sia l’unico antidoto al male, specie a quello banalmente commesso, ovvero alle ingiustizie perpetrate ai danni dell’umanità in ossequio acritico e automatico alle leggi, senza alcun pensiero per la loro dimensione morale. Rawls mostra di condividere la medesima idea di Arendt circa la priorità della sfera pubblica rispetto alle istanze private delle morali particolari, perseguendo le quali obbedendo alle quali - si rischia di non essere abbastanza giusti, o di non esserlo affatto, di non trattare gli altri, portatori di altre morali, da eguali. La difesa della disobbedienza come difesa estrema di uno spazio pubblico in cui far valere le ragioni della giustizia è un’impresa ardua, a tratti pericolosa: le ragioni per disobbedire vanno sottoposte al vaglio della ragione pubblica, vanno verificate perché siano autentiche ragioni di giustizia. La debolezza dei confini tra giustizia e coscienza è però visibile, intuibile, in tutti quei contesti in cui ciò che si crede si voglia far valere come valore universalmente condivisibile, come una ragione per tutti e non per qualcuno, senza vera considerazione della pluralità dei punti di vista. NOTE: 1. Platone, Apologia di Socrate, a cura di M. Sassi, Bur, Milano 2005, 2. Platone, Apologia di Socrate, cit., p. 149 (32c). 3. Platone, Apologia di Socrate, cit., p. 149 (32d). 4. Su questo tema della disobbedienza socratica come forma di astensionismo si veda D. Villa, Socratic citizenship, Princeton University Press, Princeton 2001, cap. 1. Si veda anche G. Kateb, “Socratic integrity”, in Nomos, vol. 40 “Integrity and conscience”, a cura di I. Shapiro, New York University Press, New York 1998, pp. 77-112, in particolare le pp. 97-98. 28 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X 5. Vedi A. Tagliapietra, Il dono del filosofo, Einaudi, Torino 2009, pp. 31-36. 6. Sulla capacità di pensare come requisito dell’agire politico, si veda H. Arendt, “La responsabilità personale sotto la dittatura” [1964], in Id., Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2010, pp. 15-40. Si veda anche H. Arendt, La vita della mente [1978], Il Mulino, Bologna 2009, pp. 259-89. 7. Platone, Apologia di Socrate, cit., p. 141 (29d). 8. Le ragioni degli anarchici sono spiegate in R. P. Wolff, In difesa dell’anarchia [1970], Elèuthera, Milano 1999. Parliamo di anarchismo filosofico per indicare l’anarchismo come l’esito dell’incompatibilità tra autonomia del soggetto e autorità legittima. Se vale il principio dell’autonomia, non può esistere per gli anarchici filosofici alcun potere legittimo. 9. Ciò è tanto più vero se si pensa alla vicenda personale di Socrate: condannato a morte dalla città di Atene, Socrate non prende neppure in considerazione la possibilità di fuggire dal carcere nell’auspicio di salvarsi la vita; suo intento è rispettare il verdetto, benché ingiusto, poiché emanato da una giuria che ha il potere e l’autorità di emetterlo. Il disobbediente civile, infatti, non sfugge alla legge ma si batte per migliorarla, per restituirla alla sua vocazione originaria di promuovere la giustizia eliminando l’ingiustizia. È un disobbediente civile in quanto al suo disobbedire segue l’accettazione della sanzione prevista per l’infrazione della legge. 10. Si veda la riflessione sul politico e le mani sporche di M. Walzer, “Azione politica: il problema delle mani sporche”, in Id., Il filo della politica. Democrazia, critica sociale, governo del mondo, Diabasis, Reggio Emilia 2002. 11. H. Arendt, “La disobbedienza civile” [1970], in Id., La disobbedienza civile e altri saggi, Giuffrè, Milano 1985, pp. 31-88. 12. H. Arendt, “Philosophy and politics” [1954], Social Research, 57, 1, 1990: 73-103. 13. H. Arendt, “La responsabilità personale sotto la dittatura”, cit., p. 26. 14. Ivi, p. 17. 15. H. Arendt, La vita della mente, cit., pp. 288-89. 16. H. Arendt, “Il pensiero e le considerazioni morali” [1971], in Responsabilità e giudizio, cit., pp. 137-63. 17. D. Villa, Socratic citizenship, cit., pp. 52-53. 18. H. Arendt, “La disobbedienza civile”, cit., p. 36. 19. Ivi, pp. 58-59. 20. Ivi, p. 81. 21. J. Rawls, Una teoria della giustizia [1971], Feltrinelli, Milano 2002, pp. 302-24. 22. Vd. anche J. Raz, The authority of law, Oxford University Press, Oxford 1983, pp. 276-89. 23. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 303. 29 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X 24. Ivi, p. 307. 25. A. Sabl, “Looking forward to justice: Rawlsian civil disobedience and its non-rawlsian lessons”, Journal of Political Philosophy, 9, 3, 2001: 331-49. 26. Se sia consensuale l’origine dell’autorità legittima è oggetto di discussione. Per un’introduzione completa a questo tema si veda J. Horton, Political obligation, Palgrave MacMillan, New York 2010. 27. V. Ottonelli (a cura di), Leggere Rawls, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 228-29. 28. J. Rawls, Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, Torino 1994. 29. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 318. 30. H. Arendt, La disobbedienza civile e altri saggi, cit. p. 51. 31. J. Rawls, Liberalismo politico, cit. 32. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 307. 33. Valga su tutti l’esempio annoso della discussione intorno alla legge che regolamenta l’aborto; Rawls esclude dal dibattito politico le ragioni dei sostenitori della posizione pro-life, poiché le ritiene non ragionevoli, cioè non rispondenti all’ideale della ragione pubblica che ingiunge a ciascuno di addurre ragioni che siano condivisibili da tutti. Le reazioni a questa posizione di Rawls furono immediate, e in generale tese a dimostrare che le ragioni dell’embrione non sono ragioni private ma sono piuttosto ragioni pubbliche. La controversia mostra la difficoltà di tracciare qualsiasi confine pregiudiziale tra ciò che vale privatamente e ciò che invece vale o dovrebbe valere pubblicamente. Sul punto mi permetto di rinviare a R. Sala, Bioetica e pluralismo dei valori, Liguori, Napoli 2003, cap. 7. 34. Un esempio è il caso dell’obiezione di coscienza nel caso dell’aborto: come giudicare il diritto all’obiezione in un contesto in cui i medici fossero tutti obiettori? Non si verificherebbe nel caso una parallela violazione dei diritti della donna di richiedere, ai sensi della legge, un’interruzione di gravidanza? Sul tema vd. F. Zuolo, “Conscientious objection in Italy”, in C. Gideon and E. Ceva (eds.) Diversity in Europe: dilemmas of differential treatment in theory and practice, London, Routledge 2010, pp. 11125. 35. A. E. Galeotti, “The place of conscientious objection in liberal democracy”, in C. Gideon, E. Ceva (a cura di), Diversity in Europe: dilemmas of differential treatment in theory and practice, cit., pp. 17-31. 30 GCSI – Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X