Filosofia Contemporanea

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Filosofia Contemporanea
La Filosofia Contemporanea
La distruzione dell’epistème
Il carattere fondamentale del pensiero che si sviluppa nel mondo occidentale dalla seconda
metà dell’Ottocento ad oggi, è la distruzione dell’epistème filosofica – cioè del tentativo di costruire
un sapere assoluto ed innegabile. Ciò non significa che tutti i pensatori che vengono dopo Hegel
siano (o ritengano di essere) dei “distruttori”; così come non tutti i pensatori che vengono prima di
Hegel appaiono come “costruttori”: grandi figure della filosofia, come Ockham o Pascal (e molto
prima ancora i sofisti greci), avevano già messo in dubbio la capacità del pensiero di scorgere verità
eterne ed assolute. Ma si trattava di voci relativamente deboli, sovrastate da quelle che esprimevano
la convinzione opposta: le pur acute tesi dei sofisti sono messe in ombra dalla potenza speculativa
del pensiero platonico, così come la profonda riflessione di Pascal sui limiti della ragione umana ha
sulla cultura del Seicento un’influenza ben minore del pensiero di Cartesio o di Leibniz.
Quello che muta, a partire dalla metà (circa) dell’Ottocento è proprio il rapporto di forze tra
la voce dei “costruttori” e quella dei “distruttori”, che tendono a farsi sempre più numerosi ed
intransigenti, fino ad occupare quasi esclusivamente la scena. I “costruttori” sopravvivono in alcune
specifiche aree culturali (una delle più importanti e resistenti è rappresentata dal pensiero cattolico),
ma essi non formulano più, ormai, vasti ed innovativi modelli (paragonabili a quelli di Platone, o di
Cartesio, o di Hegel), bensì si limitano a riproporre le grandi “costruzioni” del passato. È invece il
pensiero “distruttivo” ad imporsi come novità, nel senso che esso presenta un’acutezza d’indagine
ed una radicalità inedite rispetto alle epoche precedenti: la statura di pensatori come Leopardi, o
Nietzsche o Gentile, per parlare solo di tre tra i più grandi “distruttori”, sovrasta in misura
incolmabile quella dei principali esponenti della tendenza opposta.
L’affermarsi dell’atteggiamento distruttivo indicato sopra, inizia già all’interno della scuola
hegeliana, ed è rappresentato dalla corrente che prende il nome di Sinistra (mentre la cosiddetta
Destra cerca di conciliare il pensiero di Hegel con i contenuti della dottrina cristiana, e quindi di
conservarne i caratteri di visione globale e definitiva della realtà). Ma la “distruzione” portata avanti
dalla Sinistra si presenta come rifiuto soltanto di un lato dello hegelismo: la pretesa di descrivere
compiutamente la realtà, di inserire ogni aspetto del mondo ed ogni vicenda storica in un Sistema
nel quale tutto è da sempre e per sempre previsto. Allo stesso tempo, tuttavia, si vuol mantenere la
sostanza del Metodo dialettico, cioè dello strumento razionale utilizzato da Hegel per indagare e
comprendere il mondo: con tale strumento potremmo ancora cogliere verità assolute. Feuerbach e
Marx, i maggiori esponenti della Sinistra hegeliana, sviluppano, in modo diverso, questo progetto.
Feuerbach e il “capovolgimento” della dialettica hegeliana
Secondo Ludwig Feuerbach (1804 - 1872), l’Infinito di cui parla Hegel non va inteso come
una realtà eterna (l’Idea) che si realizzi al di fuori del tempo (anche se non indipendentemente dal
tempo): l’unica vera infinità è quella rappresentata dal tempo stesso, nella sua indefinita apertura al
futuro. Ma ciò che esiste nel tempo è la Materia: la realtà di base che continuamente muta e si
sviluppa, producendo anche la vita e l’intelligenza, cioè tutto ciò che possiamo chiamare “Spirito”.
Non è lo Spirito (come pensa Hegel) a produrre la materia, ma viceversa. Si tratta dunque di
capovolgere la dialettica hegeliana, non di abbandonarla (ricadendo nel meccanicismo illuministico o nel “dualismo” di Cartesio e di Kant): la materia è per Feuerbach un principio dinamico,
che comprende anche la realtà “spirituale”, ed è quindi il vero principio unitario della realtà.
L’uomo – l’essere materiale più dinamico tra tutti, quello che rinnova di continuo se stesso,
e che quindi ha una storia – è “infinito” non perché possieda una natura compiuta ed immutabile
(come un’Idea, appunto, di tipo Platonico), ma proprio perché è capace di pensare l’Infinito, cioè di
proiettarsi e progettarsi di là da ogni limite fattuale. E l’“uomo” di cui parla Feuerbach non va
pensato come individuo ma, idealisticamente, come l’intera umanità: quest’ultima è il vero soggetto
della storia, e si esprime nella Ragione, nella Volontà, nel Sentimento (intesi non come funzioni
della psiche individuale, ma come forze universali che dirigono l’esistenza stessa degli individui).
Come ritiene anche Hegel, la storia dell’uomo procede per contraddizioni, ossia per errori e
deviazioni, che sono tuttavia (dialetticamente) necessari al progredire della società: è grazie a tali
errori che l’umanità prende coscienza della propria realtà e delle proprie potenzialità. L’uomo si
aliena, dimenticando la propria vera natura; ma è anche destinato a superare l’alienazione, in una
più profonda consapevolezza di sé. L’alienazione essenziale della nostra epoca – il cui superamento
può aprire una fase completamente nuova della storia umana – è, per Feuerbach, di tipo religioso:
l’uomo ha proiettato fuori di sé la propria potenza e la propria “infinità”, costruendo un’immagine
illusoria (Dio) a cui si è poi sottomesso, ritenendola espressione di una realtà “superiore”, che
esisterebbe eternamente al di fuori e al di sopra del mondo fisico.
Questa immagine virtuale rappresenta il Signore per eccellenza: il modello “ultraterreno” a
cui si conformano i “signori terreni” – e su cui si fonda ogni potere di certi uomini su altri uomini,
secondo il rapporto servitù / signoria già indagato a fondo da Hegel. E, come scorgeva quest’ultimo,
i “servi” sono storicamente destinati a smascherare l’alienazione che tiene in vita il potere dei
“signori”, e che divide l’umanità in privilegiati ed oppressi. Il superamento dell’alienazione è la
stessa costruzione di una società di uomini liberi ed eguali, che diverranno definitivamente coscienti
della loro potenza, cioè della loro capacità di costruire, senza limiti imposti “dall’alto”, il proprio
futuro. Si apre, con Feuerbach – o meglio: diventa ben visibile – la strada che conduce il pensiero
occidentale fino a Nietzsche ed alla “morte di Dio”.
Marx: la compiutezza del “capovolgimento”
Il pensiero di Karl Marx (1818 - 1883) parte da una prospettiva simile a quella di Feuerbach,
ma si propone poi di radicalizzare il “capovolgimento” dello hegelismo proposto da quest’ultimo:
se infatti la realtà di base è la Materia e se la storia umana non è altro che lo sviluppo di tale realtà,
anche ogni forma di alienazione dialettica deve scaturire da fattori materiali. Non è cioè accettabile
la prospettiva per cui l’umanità si alienerebbe essenzialmente sul piano ideologico (la religione):
bisogna invece capire che ogni alienazione di questo tipo (che certo Marx non nega né sottovaluta)
ha sempre radici economiche. L’economia non è altro, infatti, che l’ambito concreto della vita
umana: quello in cui si sviluppa storicamente il rapporto tra l’uomo e l’ambiente naturale: il lavoro
come produzione dei mezzi della propria esistenza, e dunque come costruzione del futuro.
Lo sviluppo della realtà economica – e quindi della storia, nella sua concretezza – procede
attraverso una costante interazione (che a volte diventa conflitto) tra le Forze produttive ed i
Rapporti di produzione: le prime consistono nella stessa potenza dell’uomo che, con la sua forza
fisica, ma soprattutto con il suo progettare e con gli strumenti tecnici che si è procurato, modifica di
continuo l’ambiente in cui vive; i secondi sono i modi in cui le forze produttive si organizzano, di
volta in volta, nel corso dei secoli, secondo particolari forme di società, di regole e di divisione dei
compiti. Quando nascono, i rapporti di produzione sono del tutto in armonia con le forze produttive
(perché ne esprimono la stessa capacità organizzativa); ma con il tempo – e cioè con lo svilupparsi
ed il crescere delle forze produttive, i rapporti di produzione (che per loro natura sono più statici e
rigidi) tendono a divenire inadeguati, ed infine addirittura ad ostacolare le forze produttive. Un po’
come quando un certo vestito, che inizialmente è utile ed anzi necessario al bambino che lo indossa,
diviene, dopo qualche tempo, troppo stretto e, se non si provvede a cambiarlo, può addirittura
soffocare il bambino ed impedirne lo sviluppo.
Un “vestito” di questo genere non è più, in effetti, un vero vestito, ma diviene piuttosto uno
strumento di tortura: così, i rapporti di produzione divengono col tempo strumenti negativi, che
anziché favorire lo sviluppo delle forze produttive, le bloccano e le danneggiano. Marx vede in
questa trasformazione di un elemento positivo nel proprio opposto negativo, la stessa struttura
dialettica individuata da Hegel, cioè il passare di una certa determinazione “A” (tesi) nel proprio
contrario “non-A” (antitesi). Ma, come previsto dalla dialettica hegeliana, ogni antitesi, cioè ogni
contraddizione del tipo descritto è destinata ad essere superata da un ritorno alla fase iniziale – ma
arricchita dalla stessa esperienza del negativo (e questo ritorno è la sintesi). Marx afferma che le
forze produttive distruggono ogni volta i vecchi ed ormai dannosi rapporti di produzione, per
costituirne dei nuovi: in questo modo la società umana si rinnova.
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Il processo dialettico appena indicato si è espresso, nel corso della storia umana, in certe fasi
critiche, che hanno segnato altrettante svolte decisive – com’è accaduto nel passaggio dalla società
antica a quella medioevale o da quest’ultima alla società borghese e capitalistica. In ognuna di tali
fasi, il conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione si è tradotto in quello tra due classi
sociali che hanno incarnato, rispettivamente, l’alienazione dei vecchi rapporti di produzione e il loro
superamento da parte delle nuove forze produttive. Ciò è accaduto ad es. quando la borghesia (cioè
la nuova classe sociale emersa nel corso del medioevo) ha scalzato il potere dell’aristocrazia (la
classe legata al vecchio sistema feudale); e ciò accadrà di nuovo, quando la classe operaia (la cui
crescita è stata promossa dal sistema produttivo dell’industria capitalistica) eliminerà il potere della
borghesia (cioè della classe che incarna tale sistema).
Ne consegue che Marx non vede nella borghesia solo un elemento negativo, solo un ostacolo
da togliere di mezzo per consentire il progresso dell’umanità: come ogni “negatività” dialettica,
anche il sistema borghese - capitalistico ha svolto un importante ed insostituibile compito storico;
che tuttavia adesso si è concluso, aprendo la strada alla nuova società comunista. Ma si tratta qui di
una novità estremamente più radicale rispetto alle grandi rivoluzioni del passato: mentre sinora ogni
classe vincitrice ha instaurato il proprio dominio sulle altre componenti della società, la classe
operaia (che rappresenterà sempre più la maggioranza degli uomini), prenderà il potere in vista del
superamento della stessa divisione della società in classi.
Dopo il compimento della rivoluzione comunista non esisteranno più “servi” e “signori”, ma
soltanto uomini liberi, e si aprirà così per l’umanità una nuova epoca, rispetto a cui i conflitti del
passato appariranno come “preistoria” (questa previsione è in sintonia con quella di Feuerbach,
anche se fondata su basi diverse). Marx non dice che, con la nuova società, sparirà ogni conflitto e
contraddizione (giacché la contraddizione è un momento fondamentale del processo dialettico, che
non può mai aver fine): sparirà per sempre, tuttavia, quel tipo di conflittualità che in passato ha
visto alcuni uomini sottomettere e sfruttare altri uomini. A chi chiede quali altre contraddizioni
potranno emergere nella nuova società, Marx risponde che questo sarà un problema dell’umanità
futura: gli uomini possono e devono affrontare solo le contraddizioni del proprio tempo.
Ma in che cosa consiste, specificamente, la contraddizione che, nelle diverse età del passato
e nell’attuale società borghese, porta allo scontro tra le classi? Per Marx la “lotta di classe” è
prodotta da una forma essenziale di alienazione, che consiste nel perdere di vista la natura sociale
dell’uomo: essa attraversa tutte le epoche, ma si fa massima nel mondo attuale, cioè nella società
capitalistica che nasce dalla rivoluzione industriale. Alla base del discorso di Marx sta la tesi –
propria del grande pensiero politico di Platone e di Aristotele (e presente, naturalmente, anche in
Hegel) – che l’uomo è per sua natura un essere sociale, ossia che l’individuo è parte di una realtà
più ampia (che è in definitiva l’umanità intera), in cui trovano senso ogni sua azione e pensiero.
Se l’uomo è invece visto – e trattato – come separato o separabile dal contesto sociale, la
figura che resta sulla scena sembra un uomo, ma in realtà è qualcosa di astratto, di alienato: un
“non-uomo”, appunto. Ma questo errore di prospettiva ha caratterizzato tutte le società del passato,
che si sono via via allontanate da un’originaria unione tra l’individuo ed il contesto collettivo, fino
all’estrema separazione che caratterizza il nostro tempo. Si tratta di una “decadenza” che potrebbe
ricordare quella formulata da Rousseau, ma che se ne distingue per almeno due motivi:
1) L’alienazione è vista da Marx come inevitabile ed anzi come dialetticamente necessaria alla
formazione di una più matura coscienza storica da parte dell’umanità.
2) L’alienazione non riguarda l’individuo e non è risolvibile – come s’illude invece Rousseau
(v. l’Émile) – sul piano dell’educazione individuale: essa può esser colta e risolta solo sul
piano collettivo, e consiste anzi proprio nel recupero di quell’essenza sociale dell’uomo, che
il pensiero contrattualistico (di cui lo stesso Rousseau è uno dei maggiori esponenti) ha
contribuito a nascondere.
Marx individua la chiave economica dell’alienazione nel valore di scambio che, sin dagli
inizi della storia, affianca e via via sostituisce il valore d’uso di ciò che l’uomo produce e consuma.
Il denaro, che è inizialmente lo strumento dello scambio, diviene infine lo scopo della produzione,
e ciò segna l’inizio dell’alienazione estrema. Nella società capitalistica, basata sul profitto, cioè
sull’accumulazione indefinita di denaro assunta come lo scopo supremo, l’uomo è definitivamente
isolato dalla società (a cui si lega ormai solo artificialmente, tramite un contratto), e viene sfruttato
come se fosse un semplice strumento di produzione (un “non-uomo”, come si diceva sopra).
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Schopenhauer: al di là del razionalismo dialettico
Col pensiero di Arthur Schopenhauer (1788 – 1860), la tendenza distruttiva di cui si è
parlato all’inizio diviene del tutto esplicita. In tale pensiero è infatti abbandonato proprio ciò che
Marx e Feuerbach intendevano conservare: la visione razionale della realtà – e dunque la capacità
della ragione umana di cogliere la legge (definitiva, innegabile) che guiderebbe il divenire, e che
quindi darebbe un senso alla vita ed alla storia dell’uomo.
Ma, se nessuna legge del genere è visibile, la filosofia non può che constatare la mancanza
di senso della realtà e quindi l’assoluta inutilità ed assurdità delle contraddizioni di cui la vita è
costellata (e che costituiscono la radice del dolore). Il pensiero contemporaneo imbocca così una
strada che lo allontana sempre più da pensatori come Spinoza, o Hegel – ma anche Feuerbach e
Marx – per i quali contraddizione e dolore avevano una giustificazione ed una funzione positiva.
Schopenhauer riprende la distinzione di Kant tra fenomeno e noumeno (che già stabiliva un
notevole limite alla conoscenza razionale), ma la sviluppa in maniera decisamente poco kantiana:
1) Il “fenomeno” è inteso qui soprattutto come illusione, Rappresentazione (anche nel senso di
“finzione teatrale”: Spiel, che in tedesco significa “Recita” ma anche “Gioco”). Il mondo
fenomenico kantiano aveva una sua solidità ed una sua struttura stabile, e la ragione, pur
non avendo in Kant funzioni conoscitive, costituiva il tratto più intimo e specifico dell’uomo.
Per Schopenhauer, intelletto e ragione sono solo due diversi gradi di organizzazione dei
fenomeni: ogni struttura logica o scientifica è un elemento del Gioco, del Sogno.
2) Il “noumeno” non è conoscibile per vie razionali (anche perché la ragione non è, come si è
visto, che un meccanismo superficiale), ma può essere conosciuto per esperienza diretta.
Il “noumeno” è infatti Volontà: ciascuno di noi, guardando dentro di sé (e sospendendo ogni
cognizione del mondo esterno) può cogliere direttamente un’energia vitale che non sta nello spazio
o nel tempo, e che costituisce la base profonda della coscienza.
Ma non si tratta di un principio individuale (come potrebbe essere la monade di Leibniz):
quella base profonda è unica, universale, ed è la forza che anima tutte le creature viventi – e che,
ancor più in generale, guida il divenire del mondo materiale. Non ha senso chiedersi perché essa
esista e tanto meno che scopo abbia: cause e scopi sono strutture “razionali” che valgono limitatamente al mondo fenomenico: la Volontà, semplicemente, esiste ed opera eternamente, producendo
il mondo che noi consideriamo “reale”, ma che costituisce solo la maschera della realtà.
Di conseguenza, nessuno degli obiettivi che possiamo perseguire nella vita è dotato di senso
e di valore: “successo” o “insuccesso” sono manifestazioni equivalenti della forza che muove la
rappresentazione (così come in un film c’è bisogno di chi vince e di chi perde, ed un finale tragico
equivale, a tutti gli effetti, ad un lieto fine). L’unico “fine” della Volontà è proprio il rappresentare,
cioè il produrre gli spettacoli del mondo fenomenico, attraverso una continua lotta tra tutti gli esseri
viventi (c’è qui un riferimento ad Eraclito: la vita come sogno / la vita come guerra).
In questa lotta, non c’è simmetria tra piacere e dolore, perché il piacere è effimero: appena
si ottiene ciò che si vuole subentra la noia, e subito cerchiamo qualcos’altro; il dolore, invece, è la
condizione normale degli esseri che desiderano e non hanno. Queste tesi ricordano il pensiero di
Leopardi (vedi Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta etc.) che, anche per altri motivi, è
stato spesso accostato a quello di Schopenhauer. Come vedremo, si tratta però di consonanze
parziali: la visione leopardiana si spinge ancor più a fondo, con un “pessimismo” più radicale.
Per Schopenhauer, infatti, esistono vie di salvezza dal dolore: la prima è costituita dall’Arte,
che consiste nella contemplazione delle Idee (modelli eterni che la Volontà produce prima del
mondo materiale): contemplare le Idee vuol dire guardare oltre le scene della Rappresentazione,
anche se tale sguardo non ci fa uscire del tutto da essa (come accade a chi, pur vedendo uno
squarcio di cielo sereno, in alto, rimane a bagnarsi sotto al temporale). L’arte più profonda è la
musica, perché in essa si può cogliere direttamente la stessa potenza creatrice della Volontà.
Ma l’autentica via di salvezza consiste nell’uscire completamente dal Gioco: ciò è possibile
seguendo anzitutto l’istanza etica, che si fonda sulla compassione per tutto ciò che vive e soffre, e
sospende così l’egoismo che guida le nostre azioni quotidiane. Il passo ulteriore è lo spegnimento
definitivo di ogni desiderio, che ci proietta in una dimensione ancor più profonda della Volontà: la
Noluntas, che s’identifica col Nirvāna degli induisti, e che costituisce il vero risveglio dal sogno.
4
Kierkegaard: la fede come ultimo possibile “rimedio”
Anche Søren Kierkegaard (1813 – 1855) non crede nel potere conoscitivo della ragione:
egli segue Pascal, per cui la parte autentica della mente umana sta nel sentimento e nell’intuizione.
Ma se tali facoltà possono consentirci esperienze profonde, esse non ci mostrano alcuna verità certa
e definitiva: sicché è per noi impossibile cogliere il significato e lo scopo della nostra esistenza.
L’esistenza è infatti la condizione di chi si trova “gettato” nella vita, senza potersi ancorare
ad alcuna essenza stabile (questa è la tesi di fondo di quella corrente che prende appunto il nome di
“esistenzialismo”, e che ha in Kierkegaard uno dei suoi grandi anticipatori).
Esistere vuol dire scegliere di continuo la propria strada; ma, in assenza di verità visibili,
nessuna scelta è fondata e giustificata. La nostra condizione è un’assoluta libertà, che è insieme
angoscia: l’avvertire la mancanza di fondamento delle nostre azioni e del nostro stesso vivere. Da
questo punto di vista, tutte le scelte sono equivalenti (così come, per Schopenhauer, tutte le possibili
mosse dei viventi stanno egualmente sul piano superficiale del Gioco).
Si può, ad esempio, scegliere una vita estetica (dedicata cioè all’arte e alla bellezza), e in
questo caso vivremo nella ricerca dell’attimo – cioè del momento magico in cui ci sembra di aver
raggiunto la bellezza che stavamo cercando (ma che, come anche per Leopardi, non può durare
appunto che per un attimo illusorio): una simile vita consisterà in una continua fuga da se stessi.
Oppure si può scegliere una vita etica, accettando la propria condizione e le proprie
responsabilità sociali, quali lavorare e farsi una famiglia. In questo caso possiamo dare alla nostra
esistenza quella continuità che manca all’esteta; ma c’è il rischio di cadere nella routine e divenire
una sorta di “pecora del gregge”, di professare valori in cui, in fondo, non si crede sinceramente.
Si apre così la prospettiva di una scelta estrema, che nasce dal fallimento di tutte le altre: la
vita religiosa, basata sull’incondizionata fede in Dio, vista come l’ultima chance di salvezza. Non è
il Dio dei filosofi, ma quello della fede, sul quale, come già vedeva Pascal, si può solo scommettere.
Al di là di ogni “rimedio”
La constatazione, presente in Kierkegaard come in Schopenhauer, dell’incapacità da parte
dell’uomo di dimostrare l’esistenza di una realtà eterna o di conferire un significato stabile e certo
alla propria esistenza, resta appunto una constatazione: l’osservazione di una situazione di fatto, di
cui non è facile mostrare l’insuperabilità. Chi non crede che la ragione sia uno strumento effettivo
di conoscenza, non può fondare in via definitiva le proprie convinzioni: né Schopenhauer né
Kierkegaard hanno del resto la pretesa di farlo, sicché le forme di “salvezza” da essi individuate
restano legate ad una scelta sostanzialmente immotivata (anche se è soprattutto Kierkegaard che
mette in luce la drammaticità di questa situazione).
Questi due grandi pensatori – così lontani tra di loro per i “rimedi” che propongono –
restano appunto accomunati dalla convinzione che esistano rimedi (alle contraddizioni della vita, al
dolore). Essi sono cioè “distruttori nostalgici” dell’epistème filosofica, della quale, dopo averne
constatato il fallimento, conservano tuttavia la prospettiva di pervenire (certo, per altre vie) alla
visione di qualcosa di eterno e di salvifico.
I “distruttori radicali” (soprattutto Leopardi, Nietzsche, Gentile) non si limitano a
constatare il fallimento del progetto filosofico e l’incapacità umana di cogliere realtà eterne ed
immutabili: essi giungono a scorgere l’impossibilità dell’esistenza di queste ultime, e quindi la
definitività del fallimento dell’epistème – ma anche di qualsiasi altra forma di “rimedio”. Questi
“distruttori” non possono definirsi semplicemente “irrazionalisti” (titolo abbastanza legittimo nel
caso di Schopenhauer o Kierkegaard), perché è proprio il loro rigore speculativo a condurli alle tesi
che caratterizzano quella distruzione estrema.
Dei tre filosofi in questione, Nietzsche (che del resto si ricollega direttamente al discorso di
Schopenhauer) è il solo a cui di solito si attribuisca una visione “irrazionalistica”: lo stesso stile dei
suoi scritti principali, e certe sue tesi che anticipano potentemente il modello psichico freudiano, si
prestano certamente a tale interpretazione. Eppure – forse a dispetto delle stesse intenzioni di questo
pensatore – proprio nelle sue dottrine più profonde (l’oltre-uomo, l’eterno ritorno) affiora il senso di
una necessità, che ha poco da invidiare a quella dei più grandi filosofi razionalisti.
E infatti, la distruzione dell’epistème è solo in apparenza la vittoria dell’“irrazionalismo”
contemporaneo sul “razionalismo” della tradizione: se scendiamo più a fondo (se cioè seguiamo i
passi di questi più grandi e radicali distruttori) possiamo intravedere il significato effettivo di tale
processo – che si può definire piuttosto come “il suicidio dell’epistème”.
5
Leopardi: il confine estremo del nichilismo
In un Dialogo pubblicato nel 1858: Schopenhauer e Leopardi, Francesco De Sanctis rileva
profonde analogie tra i due pensatori – anche se considera solo il primo un “filosofo” in senso stretto:
…Quasi nello stesso tempo l’uno creava la metafisica e l’altro la poesia del dolore.
Leopardi vedeva il mondo così, e non sapeva il perché.
Anche se De Sanctis dichiara di preferire il pessimismo leopardiano (giudicato più sincero
ed umano, e persino più coerente), egli ritiene che la visione della realtà da cui esso scaturisce sia
sostanzialmente identica a quella di Schopenhauer, e magari non altrettanto consapevole. Ma questa
tesi, che dà il via ad una serie di valutazioni analoghe, divenute poi quasi luogo comune, fa un grave
torto al pensiero filosofico di Leopardi, ignorandone e nascondendone la profonda originalità.
Indichiamo gli elementi che impediscono di assimilare le posizioni dei due pensatori:
1) Il rigore razionalistico leopardiano è del tutto estraneo all’irrazionalismo di Schopenhauer.
2) Per Leopardi, la vita non è un Gioco illusorio, ma l’unica realtà (anche se altrettanto priva di
senso e di fondamento); di conseguenza egli non vede vie d’uscita dal dolore.
Riguardo al primo punto, Leopardi scorge che il fallimento dei grandi sistemi filosofici del
passato non è soltanto un fatto, ma una necessità, le cui profonde radici emergono, per la prima
volta, proprio nelle pagine dello Zibaldone (l’imponente indagine speculativa che il poeta-filosofo
condusse per circa 15 anni – e per un totale di oltre 4.500 pagine). Circa mezzo secolo prima di
Nietzsche – che lesse ed apprezzò l’opera di Leopardi, ma soprattutto ne fu profondamente
influenzato – egli abbandona la prospettiva platonica (che ha guidato l’intero sviluppo della cultura
tradizionale dell’Occidente), affermando l’impossibilità delle Idee, cioè delle essenze eterne,
immutabili, che esisterebbero prima e al di sopra del mondo materiale – e che anche Schopenhauer
ammette, sia pure in un’ottica diversa da quella di Platone.
In un pensiero dello Zibaldone, del 1821, si legge “Distrutte le forme platoniche preesistenti
alle cose è distrutto Iddio”: in quest’affermazione è già presente quella “morte degli Eterni”, di cui
solitamente si attribuisce l’annuncio a Nietzsche. E, con non minore lucidità di Nietzsche, Leopardi
mette in luce i motivi che ne rendono inevitabile ed irreversibile la “distruzione”: se esistesse
l’Eterno, il divenire sarebbe in fin dei conti illusorio, giacché ogni possibile futuro sarebbe già
contenuto e previsto nell’eternità del Tutto (sicché si potrebbe “giudicare delle cose avanti le cose”
– come ha infatti preteso la cultura filosofica, fino a Hegel). Ma il divenire delle cose è l’evidenza
immediata, innegabile, che sta davanti agli occhi di tutti: nessun pensatore dell’occidente (a partire
da Platone) l’ha mai messa in dubbio. Quindi si deve negare l’Eterno.
Si noti che Schopenhauer considera illusorio il mondo dell’esperienza (cioè proprio il
mondo del divenire), e lo vede fondato su una sottostante realtà eterna, che starebbe di là dallo
spazio e dal tempo: anziché “ripetere” questa tesi de Il Mondo come Volontà e Rappresentazione (il
capolavoro di Schopenhauer, che esce nel 1818), Leopardi, più o meno nello stesso periodo, ne
rovescia addirittura la prospettiva: l’Eterno è illusione / il mondo del divenire è la sola realtà.
Anche Kierkegaard sostiene che la sola cosa evidente è il mondo dell’esperienza, e considera
illusorio ogni Eterno “dimostrato” dalla filosofia (vedi le Idee platoniche, o il Dio degli aristotelici);
ma egli non esclude l’esistenza dell’Eterno: la ragione umana non può dare senso e scopo alla vita,
ma forse Dio (il Dio della pura fede) lo può. Il pensiero leopardiano – circa venti anni prima – ha
già scorto il fallimento anche di questa estrema speranza.
Leopardi raggiunge così il pessimismo più radicale: se tutto diviene, non c’è simmetria ed
equilibrio tra essere e nulla: il primo è sempre, infatti, qualcosa di precario ed inafferrabile; il
secondo è di gran lunga lo stato “normale” delle cose (che esistono soltanto come “solido nulla”).
A differenza di Schopenhauer o Kierkegaard, Leopardi crede nel potere conoscitivo della
ragione; ma quest’ultima mostra all’uomo qualcosa di terribile: la mancanza di senso e in definitiva
la nullità della vita (un “punto acerbo”, un baleno arcano nell’eterna notte del nulla). Sicché resta
capovolta quella funzione positiva del conoscere che, a partire da Socrate (e forse da ancor prima),
si identificava con la felicità, o era la condizione necessaria della felicità: l’umanità di un tempo era
felice appunto perché non sapeva. Mangiando il frutto della conoscenza (questo sarebbe il vero
senso del “peccato” di Adamo) l’uomo ha perso il paradiso, il giardino, e si è risvegliato nel deserto.
Evidente, anche qui, la distanza da Schopenhauer, che vede il risveglio come cessazione del dolore.
6
Secondo Leopardi, la natura, al suo fondo, non s’interessa alle proprie creature (vedi il
Dialogo della Natura e di un Islandese, nelle Operette Morali) – tuttavia essa le fornisce spesso di
protezione: si tratta di un livello relativamente superficiale, che comprende la stessa volontà di
vivere e la ricerca della felicità. In questo senso, la natura (rappresentata simbolicamente dal Dio
della Genesi) era stata “pietosa” con l’uomo, nascondendogli la verità. Ma la razionalità filosofica e
scientifica hanno ormai distrutto tale protezione, sì che anche il “volto benevolo” della natura si è
dileguato, come una maschera; e purtroppo è ormai impossibile tornare indietro.
Non ci sono vie di salvezza – come sperano ancora Schopenhauer o Kierkegaard – perché
questa vita materiale è l’unica ed insuperabile realtà. Leopardi si accorge che neanche la “civiltà
delle macchine” – la nuova società basata sul progresso tecnico e scientifico, che ai suoi tempi era
appena agli inizi – potrà restituire all’uomo la primitiva felicità, il “paradiso” che la sua stessa
intelligenza gli ha fatto perdere: nessuna “tecnica” è capace di offrire all’uomo un riparo dal nulla.
Da questo punto di vista, si può dire che Leopardi scorga già anche il fallimento della volontà di
potenza che sarà incarnata, mezzo secolo dopo, dall’“oltre-uomo” di Nietzsche e che quindi, ancor
più di Nietzsche, egli si proietti verso gli estremi confini del nichilismo (la visione per cui,
tramontato ogni Eterno, il nulla resta l’unico fondamento delle cose).
Anche la poesia è in fondo una tecnica (téchne, in greco significa “arte”), ed è anzi la
tecnica suprema, la più potente: Leopardi afferma che le azioni utili procurano mediatamente – cioè
in forma differita – il piacere (cioè il superamento del dolore), mentre la poesia lo procura
immediatamente. Ma si tratta di un piacere effimero: già Eschilo avvertiva che la tecnica è “troppo
più debole della necessità”, e quindi è incapace di salvare veramente l’uomo; tuttavia Eschilo ritiene
che la salvezza sia possibile e che sia affidata alla verità filosofica: la “necessità” di cui egli parla è
infatti l’esistenza degli Eterni. Leopardi scorge invece che l’unica “necessità” mostrata dalla ragione
è proprio l’impossibilità dell’Eterno, e la conseguente precarietà di tutto ciò che esiste. All’uomo
rimane allora soltanto la consolazione della poesia, che (troppo più debole del divenire, cioè della
natura, della materia*) non cancella il dolore, ma lo rende almeno sopportabile.
Vi sono, tuttavia, due distinte fasi della produzione poetica leopardiana, nelle quali la
consolazione di cui si parlava sopra assume una struttura diversa: nella prima fase, di cui può essere
un’espressione il canto L’Infinito, è il contenuto della poesia (l’illusione, appunto, dell’Infinito e
dell’Eterno) che consola l’animo, facendolo “naufragare” in una sorta di sogno.
Nella seconda fase – quella della Ginestra – anche questo sogno, questa illusione (che
nell’Infinito vengono consentiti dalla siepe), sono tramontati, e davanti allo sguardo del poeta resta
solo il deserto. Il deserto è adesso il contenuto del canto: la solitudine assoluta dell’uomo, che è la
stessa radice del dolore, e che non può dunque offrire alcuna consolazione. Quest’ultima è tuttavia
data dal canto stesso, dal fiore che, nonostante tutto, cresce nel deserto e lo profuma: la profondità e
la forza dello spirito che ha il coraggio di guardare e cantare il deserto creano “un’aura di
prosperità” in cui si può trovare un estremo rifugio. Due dei versi più belli della Ginestra dicono:
… In purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle
Il secondo verso esprime il contenuto della poesia: il fuoco distruttore che, come il vulcano,
incombe sul deserto, e rappresenta la potenza invincibile della natura (e del dolore); il primo verso
indica la cornice poetica: la forza e la limpidezza dello spirito, del genio che guarda il deserto e che,
senza distogliere gli occhi, ne consola le creature, provando pietà per tutto ciò che soffre.
Anche in Schopenhauer appare il tema della compassione e della solidarietà tra gli esseri
viventi, ma viste come tappa provvisoria verso la salvezza definitiva, e come ben distinte dall’arte.
Per Leopardi, la compassione è invece tutt’uno con la poesia: l’estremo dono del genio all’umanità.
Ma tutti gli uomini sono poi destinati alla poesia e alla compassione: a farsi carico della condizione
umana non è, come per Pascal o Kierkegaard, una minoranza di individui più sensibili o dignitosi,
che si isolano dalla moltitudine. Per Leopardi l’umanità intera affronterà infine la propria condizione:
aprirà gli occhi e sarà portata ad abbandonare l’ottusità dell’egoismo e della violenza. La poesia è
quindi tutt’uno con l’etica (anche se questa parola assume qui un significato diverso dal solito).
*
“Necessità” è uno dei significati del termine platonico “chora”, che indica appunto la materia priva di forma, il caos
primordiale – che tuttavia, secondo Platone, è sovrastato e dominato dall’eterna perfezione delle Idee.
7
Nietzsche: il “rovesciamento” del nichilismo
Mezzo secolo dopo Leopardi, Friedrich Nietzsche (1844 – 1900) ne ripercorre in buona
parte il cammino, a partire dalla tesi, fondamentale, che l’esistenza dell’Eterno esclude la realtà del
divenire – e che, data l’evidenza di quest’ultimo, è necessario negare l’Eterno. Anche per Nietzsche,
dopo la “morte di Dio” (annunciata per la prima volta in un passo della Gaia Scienza, composto nel
1881) l’uomo si trova a vivere nel deserto – immagine che ricorre di frequente nelle sue opere
maggiori). Ma la solitudine ed il dolore di questa condizione hanno anche un risvolto positivo:
l’assoluta libertà dell’uomo, che può finalmente esplicare la sua volontà di potenza, accettando il
divenire delle cose, e addirittura identificandosi con esso. Il nichilismo “si rovescia” così in un
nuovo senso della vita, e il deserto “fiorisce” in modo diverso da quanto accadeva nella visione di
Leopardi. Resta da stabilire, poi, chi tra i due pensatori veda più lontano.
Molto leopardiana è anche la tesi di Nietzsche per cui tutti i valori e tutte le “verità eterne”
formulate dalla filosofia o dalle varie religioni, sono tentativi di nascondere il dolore e la mancanza
di senso che caratterizzano l’esistenza. Sia Nietzsche che Leopardi conoscono bene il mito greco in
cui Sileno, interrogato dal re Mida, gli rivela una verità che quest’ultimo avrebbe certo preferito
ignorare, cioè che la cosa migliore per l’uomo sarebbe “non esser mai nato”. Questa verità terribile
mostra che l’uomo è “figlio del caso e del dolore”, e che dunque la vita non ha alcun senso e non
può garantire alcuna felicità: agli occhi di chi cerca la conoscenza, appare infine il deserto.
Ma secondo Nietzsche, i greci hanno saputo sopportare la visione del deserto dandole (e si
tratta di un altro grande tema leopardiano) la forma luminosa ed armonica dell’arte: dall’unione di
Apollo (che rappresenta appunto tale armonia), con Dioniso (la potenza oscura ed angosciante del
divenire) è nata la grande poesia tragica. Tuttavia – e qui il discorso di Nietzsche comincia a
divergere da quello di Leopardi – Dioniso non va visto solo come angoscia e dolore, ma possiede un
volto, forse ancor più profondo, di ebbrezza gioiosa: si tratta dell’energia vitale e primordiale che
muove il divenire. Questa energia assomiglia molto alla Volontà di Schopenhauer (di cui Nietzsche
si considera infatti allievo) ma, come si è detto, essa presenta anche lati positivi. Si tratta inoltre una
dimensione che non può essere oltrepassata: Dioniso è il fondo ultimo della realtà, oltre il quale non
esiste alcuna Noluntas (“filastrocca della demenza” è chiamato da Nietzsche il progetto di interrompere l’azione della Volontà – un giudizio non tanto benevolo nei confronti del “maestro”).
L’unione tra Apollo e Dioniso, che ha rappresentato il culmine della cultura greca, è stata
però, successivamente, abbandonata: a partire dalla filosofia socratica, il pensiero occidentale ha via
via dimenticato Dioniso, lo ha “rimosso” (secondo un meccanismo che anticipa il modello psichico
di Freud) occultandone l’oscura e terribile potenza tramite rassicuranti schemi razionali. La cultura
occidentale ha cioè cercato dei “rimedi” (le “verità” ed i “valori” di cui si è parlato all’inizio)
all’angosciosa imprevedibilità del divenire. Ma tutti questi “rimedi” si sono rivelati infine “peggiori
del male” che volevano affrontare perché, senza risolvere davvero il problema di fondo (si può non
guardare Dioniso, ma non lo si può certo eliminare), hanno imprigionato la libertà dell’uomo,
rendendolo schiavo di false immagini di eternità e di perfezione (cfr. le tesi di Feuerbach).
Si tratta dunque di ritrovare quella dimensione profonda (indicata a volte anche con il
termine “Es”), comprendendo che il nostro “Io”, cioè la nostra coscienza “razionale”, non è che una
manifestazione di superficie, come la “realtà” in cui crediamo di vivere, e che consiste solo in una
serie di interpretazioni. A guidare la vita cosciente sono motivazioni – o “pulsioni” (altro termine
che sarà ripreso da Freud) ben più profonde, che a tratti percepiamo confusamente ma che di solito
ignoriamo: esse hanno carattere vitale, istintuale: costituiscono il lato “dionisiaco” della nostra
psiche, che solo in apparenza può essere controllato, o addirittura soppresso, dal lato “apollineo”.
Anche Nietzsche, come Leopardi, capovolge la visione platonica della realtà (l’Eterno, si è
visto sopra, è prodotto da ciò che diviene, e non viceversa): in questo caso, potremmo dire, si
rovescia il rapporto di forze tra le componenti dell’animo umano. Il “cavallo nero” di Platone
(l’oscura forza legata alla materia e all’imperfezione del mondo diveniente) non solo assume ora la
guida del carro – anziché lasciarsi “persuadere” dall’intelligenza dell’auriga – ma riduce addirittura
l’auriga stesso, ed il cavallo bianco suo collega (che rappresenta l’istanza morale, il sentimento
illuminato dalla verità) a creature della propria volontà, o persino a semplici immagini virtuali di
superficie. {O forse, già il carro di Platone era trainato solo dal cavallo nero, e l’auriga e l’altro
cavallo non erano che maschere. Ma anche il cavallo nero potrebbe infine rivelarsi una maschera}.
8
Nel suo primo discorso, Zarathustra (il personaggio ispirato ad un antico sapiente persiano,
che Nietzsche utilizza per esporre il proprio pensiero) parla di tre metamorfosi dello spirito, che
diviene successivamente cammello, leone e fanciullo. Il cammello (creatura del deserto, che si
carica di pesanti fardelli) è l’immagine del dolore: solo accettando quest’ultimo fino in fondo
l’uomo può sperare di superarlo. Il leone rappresenta la volontà di potenza che, dopo aver accettato
incondizionatamente il dolore, si libera da ogni autorità e da ogni dovere: il leone ha appunto il
compito di combattere vittoriosamente contro il “grande drago” che si chiama “tu devi”: questa
vittoria rappresenta la definitiva “morte di Dio”, che rende l’uomo assolutamente padrone del
proprio destino. Ma il leone è solo capace di distruggere (anch’esso è una creatura del deserto): per
questo è necessario che esso si trasformi in fanciullo. Quest’ultimo simbolo, il più enigmatico ed il
meno definito dei tre, indica ciò che sta oltre la distruzione ed il nichilismo: il fanciullo è un libero
creatore, il protagonista di un Gioco che non segue più le vecchie regole, ed ha la forza di
trasformare il deserto in un mondo completamente nuovo.
Anche l’immagine del fanciullo è già presente in Leopardi, ma priva di questi tratti positivi:
il “fanciullo invitto” (= invincibile) della Palinodia, che gioca con dei pezzetti di legno, costruendo
e distruggendo in piena libertà, è la stessa “natura crudele”, cioè il divenire incessante delle cose,
che produce la vita, la morte e il dolore. Nietzsche parte da questa stessa prospettiva, ma pensa di
cogliervi un lato ottimistico: anziché dolersi per la libertà senza regole del divenire, l’uomo può
immergervisi, fino a far coincidere la propria volontà con quel libero Gioco, con l’inarrestabile
scorrere del tempo (anche Eraclito, enigmaticamente, identifica il tempo ad un fanciullo). Ma, se ciò
accade, il tempo diviene, a sua volta, tutt’uno con la volontà dell’uomo – o meglio, dell’oltre-uomo
(Übermensch)**: ciò che l’uomo diviene quando oltrepassa l’umanità di oggi, che si sente ancora
sottomessa al tempo, e la sua volontà si fonde con l’energia cosmica che guida il divenire.
In tale fusione, la volontà si deve liberare anche dal peso del passato: neppure ciò che è
accaduto dev’essere una catena, un ostacolo alla sua potenza. Anche il passato (il “così fu”) è visto
adesso come un voluto (un “così io volli che fosse”): la vera e definitiva liberazione della volontà è
il suo eterno coincidere con tutto ciò che è avvenuto ed avverrà. E ciò è possibile solo se il tempo
non è una linea retta, ma un circolo che ritorna eternamente su di sé, un’eterna ruota che gira mossa
solo da se stessa. Quest’ultima espressione è appunto riferita al fanciullo che appare con la terza
metamorfosi, e che è definito “innocente” perché il suo Gioco non riconosce regole né valori
precostituiti: esso non è “violento” perché non vi sono più leggi da “violare”. Il Fanciullo sta al di là
del bene e del male: tutto ciò che accade, o è accaduto, o accadrà, fa parte di un Anello che dice
eternamente “sì” a se stesso e a tutto ciò che contiene, compresi gli aspetti più dolorosi della vita.
È questa la dottrina dell’Eterno Ritorno, che Zarathustra (e quindi Nietzsche) definisce il
suo “pensiero abissale”: in tale dottrina (che costituisce l’aspetto più originale del pensiero di
Nietzsche, rispetto a quello di Leopardi) volontà e divenire s’identificano. Se da un lato la volontà
accetta, senza condizioni, il divenire, dall’altro il divenire (e tutto ciò che diviene) appare come
eternamente e liberamente scelto dalla volontà. Il passo più celebre in cui viene esposta questa
dottrina è il capitolo di Così parlò Zarathustra, intitolato: “Della Visione e dell’Enigma”. Il tempo
(cioè la base del divenire e del dolore) è rappresentato da un orribile serpente, che si è infilato nella
gola di un uomo (un pastore, che appare in un paesaggio desertico – e anche qui, volutamente o
meno, Nietzsche cita Leopardi) e lo sta soffocando. Ma l’uomo, con un morso, stacca la testa del
serpente (si impadronisce del tempo, e lo trasforma da rettilineo in circolare): l’uomo appare quindi
trasfigurato, “risvegliato”, e non è più neanche un “uomo”, ma “oltre-uomo” (o uomo-dell’oltre).
Ma può la dottrina dell’eterno ritorno liberare veramente e definitivamente l’uomo (o l’oltreuomo) dall’angoscia per la precarietà dell’esistenza? Può davvero il nichilismo rovesciarsi in una
nuova e suprema forma di Eternità? Una risposta negativa a questa domanda riaprirebbe la
prospettiva della malinconica “soluzione” leopardiana; ma è comunque nella visione di questi due
grandi pensatori – e di pochissimi altri – che la cultura occidentale raggiunge i suoi estremi sviluppi
e può trovare le sue estreme “soluzioni”. Oppure – e qui si avvierebbe un discorso del tutto nuovo –
si potrebbe andare a vedere se c’è qualcosa che non va, nel carro di Platone.
**
Il tedesco “Übermensch” è stato spesso tradotto con l’espressione “Superuomo”; ma, a parte i rischi “ideologici” che
si annidano in quest’ultimo termine, la stessa simbologia utilizzata da Nietzsche (ad es.: il ponte su cui si deve passare
per istituire il nuovo mondo), ci autorizza ad assumere la preposizione “über” nel significato di “oltre” (anziché di “sopra”).
9
Freud: il nuovo modello psicologico
Sigmund Freud (1856 – 1939) non può essere considerato un filosofo a tutti gli effetti: le
sue teorie sono ricavate più dall'esperienza di medico – e quindi dall’osservazione empirica – che
da una pura analisi teorica. Ma è appunto di estremo interesse il fatto che egli approdi, seguendo
un’impostazione di tipo scientifico, a risultati molto vicini a quelli conseguiti da filosofi come
Nietzsche o Schopenhauer – della qual cosa lo stesso Freud si mostra ben consapevole, come
quando, nelle sue Neue Vorlesungen (1932), riferendosi appunto a Schopenhauer, egli scrive:
…E perché mai … un audace pensatore non dovrebbe aver indovinato ciò che una
spassionata e faticosa ricerca di dettaglio conferma?
L’elemento chiave della dottrina freudiana non consiste tanto nella “scoperta” dell’inconscio
(l’esistenza di meccanismi psichici non coscienti era già nota a Platone, ed era stata poi indagata a
fondo da pensatori come Leibniz), ma piuttosto nella formulazione di un nuovo modello psichico
che, seguendo appunto Schopenhauer e Nietzsche ribalta la prospettiva cartesiana.
Cartesio (ma lo stesso vale per i grandi pensatori razionalisti antichi e medioevali) aveva
visto nella ragione il nucleo della mente umana: la parte fondamentale dell’intera vita psichica.
Essa appariva infatti come l’aspetto dell’uomo che si collega all’Eterno, la diretta manifestazione
dell’eterna verità dell’Essere (questo è il senso profondo del “cogito” o della prova ontologica). Il
resto della psiche, la parte irrazionale – quella che Cartesio chiama “volontà” – costituiva invece la
zona “periferica”, secondaria (anche se non trascurabile) del soggetto pensante, che la ragione aveva
il compito di indagare e di dominare. È insomma il modello raffigurato nel solito carro di Platone:
l’elemento “biologico”, istintivo, collegato all’instabilità del mondo materiale (e quindi estraneo
alla perfezione dell’Eterno) è subordinato alla razionalità, che è la sola guida possibile.
Nel nuovo modello, è invece la ragione (l’Io) ad apparire come elemento periferico,
secondario, mentre l’energia che dirige l’intera vita psichica ha sede nell’Es. Il “processo primario”
(o “principio del piacere”) è appunto l’esplicarsi del fondo istintivo, pulsionale, della psiche, mentre
l’Io, che esprime il “processo secondario” (o “principio di realtà”) rappresenta solo un “derivato”
dell’Es, la punta visibile di un iceberg la cui parte di gran lunga maggiore resta sommersa.
Si è già rilevato il legame di simili tesi con quelle di Nietzsche (il cui stesso linguaggio
suggerisce alcuni termini chiave della dottrina psicoanalitica – vedi ad es.: Trieb, pulsione), ed è
molto vicina al discorso di quest’ultimo anche la teoria freudiana per la quale tutti i nostri valori
morali e le nostre credenze religiose (che costituiscono il Super-Io) sono altrettante difese contro la
potenza oscura, spesso angosciante e distruttiva dell’Es. E si tratta, anche per Freud, di illusioni, che
tuttavia consentono l’esistenza e lo sviluppo di ciò che chiamiamo “civiltà”.
Su questo punto, il pensiero di Freud si discosta alquanto da quello di Nietzsche (nel senso
che non può né intende seguirlo nei suoi aspetti più profondi): le inibizioni della vita istintiva,
rappresentate dal “Super-Io”, non si possono eliminare del tutto, perché esse mantengono in vita la
civiltà. Quest’ultima, pur comportando inevitabilmente un disagio, è in fondo il “male minore” (in
confronto ad una vita senza regole, mossa solo dalla soddisfazione degli istinti). Il padre della
psicoanalisi ha una visione decisamente pessimistica dell’esistenza umana: né la libera spontaneità
dell’Es, né i vincoli del Super-Io potrebbero consentire all’uomo una vita felice.
In questa situazione, l’Io, la coscienza razionale, può solo destreggiarsi tra le richieste
pulsionali della “natura” ed i freni morali della “cultura” – tenendo insieme conto, naturalmente,
della “realtà esterna”, cioè delle condizioni di fatto in cui ci si trova a vivere. L’Io è cioè descritto
da Freud come un malcapitato “servitore di tre padroni”, costretto a cercare un continuo
compromesso tra istanze che vorrebbero condurlo in direzioni diverse – e spesso opposte – tra loro:
questo difficile e sempre precario equilibrio è ciò che chiamiamo “vita”.
Da quanto si è detto, è facile capire perché, secondo Freud, la distinzione tra “normalità” e
“malattia mentale” è una questione in gran parte convenzionale: tutti noi siamo in buona misura
nevrotici – o magari persino psicotici (la guerra non è forse una follia distruttiva che coinvolge
ormai l’umanità intera? – si veda la lettera scritta, su questo tema, ad Einstein). Di conseguenza, la
psicoanalisi non si presenta soltanto come una tecnica medica, la cui applicazione sia ristretta alle
patologie mentali più evidenti: essa intende essere piuttosto un grande sforzo di capire l’uomo in
generale e la società in cui vive – e di aiutarli, se possibile, a tirare avanti un po’ meglio (anche se,
su questo punto – cioè sull’efficacia pratica della psicoanalisi – i pareri restano discordi).
10
Bergson: Dio è il divenire infinito
Anche secondo Henri Bergson (1859 - 1941) l’io cosciente e razionale con cui di solito
l’uomo s’identifica non è che la manifestazione di superficie della vera Soggettività: quest’ultima,
tuttavia, non è concepita tanto come “irrazionale” o “inconscia”, quanto come una forma più ampia
e profonda d’intelligenza, qualcosa di super o ultra-razionale, che sfugge per sua natura agli schemi
statici e limitati della “razionalità” – o, piuttosto, dell’intelletto – che sembra organizzare e guidare
la vita quotidiana. Questa prospettiva non è lontana dalla contrapposizione hegeliana (ma ripresa
anche da Marx) tra la staticità astratta dell’intelletto e la dinamicità della ragione dialettica, anche se
in Bergson è accentuato il carattere di libertà, di assoluta apertura al futuro da parte dello Spirito.
La forza che governa il divenire è Slancio vitale (Élan vital) o Evoluzione creatrice, e non
ha altro scopo che il proprio libero esplicarsi. Anche se Bergson pensa di poter identificare tale
forza col Dio cristiano, essa ricorda da vicino il Fanciullo che, in Nietzsche, guida eternamente,
senza sottostare ad alcuna regola, lo scorrere del tempo. Il tempo stesso non dev’essere inteso come
successione di momenti statici (secondo una prospettiva che si può definire “cinematografica”), ma
come durata, ossia come flusso inarrestabile e indivisibile del divenire.
Le regole, gli schemi a cui quest’ultimo sembra a volte adeguarsi, sono creati dall’intelletto
(astraente), che cerca di organizzare e controllare il reale. Tale è la funzione delle norme sociali, dei
valori, delle teorie scientifiche: tutti strumenti con cui l’uomo vuol garantirsi un terreno “stabile” e
“sicuro”, rispetto all’imprevedibilità – a tratti disorientante ed angosciante – dell’energia creatrice
(ed è evidente la matrice nietzscheana, e prima ancora leopardiana, di questa concezione). Per
cogliere il flusso della realtà, occorre reagire all’esigenza che sta dietro a tali configurazioni statiche,
tramite un atto di intuizione, che vada contro gli interessi “economici” immediati del vivente.
Tuttavia ogni schema statico, è pur sempre prodotto dallo Slancio vitale: la “necessità” in cui
anche per Bergson consiste la materia, è una sorta di “riflusso” che, anche se a volte sembra opporsi
al movimento della corrente, è comunque subordinato ad esso e non può mai arrestarlo. L’energia
che guida il divenire del mondo ha nell’uomo la sua manifestazione più dinamica e potente (già
Sofocle affermava che “molte sono le cose formidabili, ma nessuna è più formidabile dell’uomo”),
e l’uomo stesso è quindi chiamato – anche se il compito è tutt’altro che semplice – a riconciliarsi
con se stesso, integrando la sua superficie con l’elemento vitale più profondo.
Gentile: il pensiero come libertà assoluta
Nietzsche e Bergson paragonano la realtà allo scorrere di un fiume, e le produzioni statiche
dell’intelletto a banchi di ghiaccio, o a riflussi, che sembrano frenarne il corso. Giovanni Gentile
(1875 – 1944) esprime un’analoga concezione utilizzando la metafora del fuoco (l’energia che di
continuo crea e distrugge) e della legna (il materiale che il fuoco via via consuma, e con cui si
alimenta). La scienza – come del resto la religione – è portatrice di una visione alienata, per la quale
l’attuarsi dello Spirito sembra subordinato a regole o autorità esterne (così come la legna sembra
limitare la viva forza del fuoco); ma lo Spirito si esplica, in realtà, attraverso regole, immagini e
modelli statici: li produce e li distrugge di continuo, senza mai lasciarvisi imprigionare.
La riduzione della scienza a momento astratto, intellettuale (che va superato e recuperato in
una visione dinamica) è uno dei punti essenziali del pensiero hegeliano: ricollegandosi a Hegel,
Gentile ne sviluppa poi le tesi in una direzione che ha molte affinità con quella in cui si muovono
Nietzsche e Bergson. Ciò sta a indicare che già nella filosofia di Hegel esistono spunti che aprono la
strada a quella “distruzione dell’epistème”, che di solito – ma abbastanza superficialmente – è
intesa piuttosto come reazione al razionalismo idealistico.
Ciò che fa di Gentile un protagonista della filosofia contemporanea è proprio la consapevolezza (solo abbozzata in Nietzsche, e sostanzialmente estranea a Leopardi) di dover conservare un
aspetto chiave dello hegelismo: la riduzione di tutta la realtà a pensiero. Gentile scorge cioè, più di
ogni altro, che l’esistenza di una realtà “in sé” (ma tale sarebbe in qualche modo anche l’Idea
hegeliana, esistente al di fuori del tempo) è la riproposizione di uno di quegli “Immutabili” che
bloccherebbero il libero corso del divenire: di qui l’impossibilità che una qualche realtà “oggettiva”
esista prima o al di fuori del pensiero in atto. Se Bergson si limita, tutto sommato, a riproporre in
altra forma (e spesso in forma edulcorata) la sostanza del discorso di Nietzsche, Gentile fa compiere
a tale discorso un passo ulteriore verso la coerenza del pensiero occidentale.
11
La filosofia della scienza
Gli autori sin qui trattati non esauriscono certo il quadro della filosofia contemporanea – che
se vede la progressiva crisi del pensiero tradizionale, conosce anche una proliferazione di autori e di
correnti inedita rispetto alle precedenti epoche. I pensatori di cui si è parlato sopra rappresentano,
insieme a pochi altri, la punta avanzata del processo distruttivo che è appunto il filo conduttore della
cultura attuale: essi ne sono i più lucidi e radicali esecutori.
Ma, parallelamente all’apparire di queste forme radicali d’indagine, la crisi dell’epistème si
esprime – anche se in maniera non altrettanto consapevole, almeno all’inizio – negli sviluppi di una
riflessione sulla scienza, che intende la filosofia non più come ricerca globale sulla verità, ma come
strumento critico funzionale al progresso della scienza stessa. Quest’ultima è vista sempre più come
la principale via verso la conoscenza, o almeno verso la soluzione dei problemi dell’uomo.
I pensatori di cui ci siamo occupati (e prima di loro i filosofi idealisti) muovono invece una
critica al pensiero scientifico ed allo sviluppo tecnologico, ritenendoli sostanzialmente incapaci di
risolvere concretamente tali problemi – almeno finché scienza e tecnica si vogliano indipendenti
dalla conoscenza filosofica. Solo Leopardi (ed è questo uno degli elementi che conferiscono
originalità al suo pensiero) scorge che il fallimento della scienza e della tecnica è tutt’uno con
quello della filosofia (di qualunque filosofia), ed affida infine alla poesia (la più potente delle
tecniche) il compito di offrire all’uomo un ultimo “quasi rifugio”.
D’altra parte, mentre la filosofia contemporanea sviluppa il suo discorso, la scienza e la
tecnica si vanno di fatto imponendo sempre più nella società occidentale, grazie ai loro spettacolari
successi pratici. Dopo Hegel, la divaricazione tra scienza e filosofia sembra procedere quindi in
modo inarrestabile, fino ad oscurare persino il fatto che, nonostante tutto, la scienza è figlia della
filosofia, essendo nata e poi cresciuta su di un terreno indiscutibilmente filosofico. Si è parlato
spesso di “due culture” (quella umanistico-filosofica e quella scientifica) dotate di statuto diverso e
difficilmente conciliabili tra di loro: molti esponenti dell’una e dell’altra hanno sostenuto
l’inapplicabilità reciproca dei criteri d’indagine che stanno alla base di ciascuna di esse.
Nonostante ciò, esiste un’analogia – che ancor oggi resta in ombra – tra lo sviluppo della
scienza e quello della filosofia contemporanea: entrambe, a modo loro, si vanno allontanando dalla
tradizione, e cioè anzitutto dall’epistème che ne costituiva l’ossatura. La scienza non si allontana
cioè solo dalla “filosofia”, ma anche e sempre più dalla tradizione scientifica (in cui la scienza
stessa era vista come sapere assoluto): la stessa tradizione da cui anche la filosofia, distruggendo il
proprio passato, va prendendo le distanze. Gli appunti mossi alla “scienza” da pensatori come
Nietzsche o Bergson, non sono in fondo diversi da quelli che essi rivolgono alla “filosofia”.
Alla base della scissione tra le “due culture” c’è insomma un equivoco di fondo: sia la
scienza che la filosofia tendono a scorgere l’una nell’altra il proprio passato: un sapere dogmatico,
statico, astratto, che impedirebbe il libero sviluppo dell’indagine. Tutto questo può spiegare certe
convergenze “inattese” tra gli esiti di quel pensiero filosofico che diffida della scienza e del
pensiero filosofico che si mette invece al servizio della scienza: entrambi, magari senza rendersene
conto, lottano contro lo stesso avversario. Esempi significativi di questa situazione, le consonanze
tra Nietzsche e Dewey, tra James e Kierkegaard, o tra Spencer e Bergson.
Gli inizi del positivismo – cioè della filosofia che si vede come riflessione critica sulla
scienza – sono un richiamo al mondo dell’esperienza, e quindi una messa in discussione, di poco
posteriore a quella leopardiana (anche se non altrettanto lucida e radicale), delle verità ideali di
stampo platonico. In Comte, considerato il fondatore di questa corrente, c’è ancora la fiducia nella
possibilità di stabilire leggi e criteri fissi del conoscere; ma già in John Stuart Mill (che riprende del
resto alcune tesi di Hume) si prospetta l’impossibilità di un sapere globale e definitivo. Ciò viene
ancor più in luce nell’empiriocriticismo o nel pragmatismo americano, che progressivamente
mettono in dubbio anche l’esistenza di una “realtà oggettiva”.
Si fa strada, in queste correnti, anche la crisi del soggetto cartesiano, cioè dell’ “Io” inteso
come elemento stabile ed unitario della psiche: questo tema è approfondito, in particolare, dal
neopositivismo. In quest’ultimo movimento si fa particolarmente chiaro l’abbandono dell’epistème:
partiti da un tentativo epistemico di distruggere le “verità” tradizionali, autori come Wittgenstein o
Carnap approdano infine ad una visione essenzialmente pratica della conoscenza, e ripropongono il
tema nietzscheano per cui ogni atto conoscitivo non è altro che interpretazione.
12
La scienza va così rinunciando al proprio statuto epistemico, e alla speranza di scoprire
infine l’ordine “oggettivo” e definitivo della realtà (Einstein è uno degli ultimi grandi scienziati che,
sulle orme di Galilei e Newton, crede nell’esistenza e nella conoscibilità di un simile ordine). Ma in
questo modo il sapere scientifico si avvia per la stessa strada già tracciata dai grandi “distruttori”
dell’epistème; il che sembra destinato a riconciliare le “due culture”: in pensatori come Popper ed
ancor più come Feyerabend, si fa strada la consapevolezza che tutto ciò che l’uomo pensa o inventa
è inserito in un unico ambito (la cultura storica dell’umanità), in cui la distinzione tra ciò che è
“scienza” e ciò che non lo è ha, al massimo, solo valore metodologico.
La scienza criticata da Nietzsche o da Gentile è quindi la scienza del passato, la scienza
(scientia) galileiana o newtoniana (ma anche einsteiniana) che, volendo irretire il divenire in leggi
definitive ed assolute, si presenta come un residuo della tradizione che il pensiero contemporaneo
sta definitivamente superando. Oggi la filosofia può riavvicinarsi alla scienza senza limitarne la
forza ma, anzi, mettendola definitivamente in moto; così come la cultura tecnico-scientifica può
cogliere nella filosofia contemporanea non un ostacolo al suo sviluppo, ma addirittura la propria
anima più profonda, che nessuna “teoria scientifica” potrebbe raggiungere, e che consiste nella pura
vocazione alla potenza, alla produzione illimitata del nuovo.
Ma, avverte Leopardi, alla fine dell’età della tecnica, l’uomo è atteso dal deserto.
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13
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