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Didasfera - Ambiente didattico digitale
L'Infinito e l'infelicità: Schopenhauer e Leopardi II
Mappa dell'Unità
Piccolo popolo - Fermiamoci un momento.
- Sì, direi che è il caso …
- È tutto molto denso …
- Quasi romantico …
- Comunque, direi che abbiamo un po’ di carne al fuoco. Per esempio che Leopardi fosse un filosofo mi giunge nuova.
Ermetis - È così. Voglio dire: è un’idea ormai accettata. D’altronde non è un’illazione della critica, ma l’intenzione
autentica del poeta, come scrive nello Zibaldone: "La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come
può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua
natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i
quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili,
sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi come tutti gli altri,
ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge
l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi ec. ec.".
Ci troviamo, con Leopardi, in quel filone già esplorato qualche giorno fa del “filosofare come esercizio”,che accomuna il
pensiero dagli Stoici a Pascal e a Leopardi, appunto. Un esercizio di guarigione dalle passioni, in questo caso dalle
passioni mal indirizzate, rivolte contro l’oggetto sbagliato. Ma il discorso è ben più impegnativo, perché qui prende corpo
“il” problema della modernità, il problema del male, che è il rovesciamento della nostra conversazione nel suo “lato
d’ombra”.
Piccolo popolo - È quello che mi stavo chiedendo: che fine ha fatto il bene? Ormai sembra che stiamo parlando di tutto
e di più, che stiamo divagando.
Ermetis - Per niente! È la natura particolare del problema che ci costringe a questa specie di slalom. In realtà, in tutta
questa lunga vicenda di pensiero, è sempre mancata, se ci pensate, una vera definizione di che cosa sia il bene. È
come se, per afferrare il concetto, ogni volta fosse necessario “agganciarlo” a qualche altro concetto: la virtù, l’assoluto,
ma soprattutto la felicità.
Piccolo popolo - E Dio, of course ….
Ermetis - Già … forse l’unica “rappresentazione” del bene per così dire “autosufficiente”, perché a sua volta Dio
rimanda al concetto di bene.
Piccolo popolo - Ma allora, di cosa parliamo, quando parliamo del bene?
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- Grandioso! Eravamo partiti da questa domanda, e adesso che siamo quasi alla fine, eccoci da capo!
- Perché parliamo di qualcosa che non c’è. Parliamo di un’aspirazione, così come quando parliamo dell’immortalità
dell’anima o anche della felicità. È un inseguimento disperato che ci trattiene, al massimo, dal commettere il male.
- Allora il male esiste! Ma come può esserci il male senza il bene?
- Può, lo vediamo bene …
- Puoi spiegarci meglio, per favore, questa connessione tra Positivismo e pessimismo? Il Positivismo non è la filosofia
del trionfo?
Ermetis - I filosofi dell’età positivista non furono tutti filosofi … positivisti. Anzi. I positivisti veri e propri furono al più dei
sociologi, escluso Comte il “visionario” e i marxisti “deviazionisti”, quelli che tradirono l’umanismo di Marx in una visione
puramente economicistica del suo pensiero. In realtà, io stavo parlando di pensatori "di confine", alla Nietzsche, quelli
che colsero l’autentica disperazione della propria epoca, malamente velata da un ottimismo della volontà. L’aura di
pessimismo che avvolge la filosofia tra Otto e Novecento è il “grido di dolore” della filosofia nei confronti della
devastazione psicologica che connota il nichilismo occidentale.
- Nietzsche non mi pare che sia classificabile come pessimista. Dove lo metti il Superuomo?
- E neppure Leopardi, il Leopardi della Ginestra per lo meno.
©
Una fotografia del giovane Nietzsche
Ermetis - Qui bisogna distinguere. Un conto è il comune sentire di una èlite che ha elaborato un’etica alternativa, che si
colloca per così dire all’avanguardia del suo tempo, preannunciando quella coscienza del male di vivere che diverrà
universale solo di fronte alla catastrofe del Novecento; un altro è ciò che vi è di eccezionale nella sensibilità di alcuni
pochi veri pensatori, quali Leopardi e Nietzsche. Se il pessimismo “in generale” è portato ad assecondare la forza delle
cose, a guardarsi alla spalle nel tipico atteggiamento rassegnato di chi ricorre al mito del paradiso perduto in mancanza
di una prospettiva, la denuncia del pessimismo è l’alternativa del filosofo che si incarica di un progetto esistenziale. Ciò
che caratterizza questa denuncia non è il rifiuto del pessimismo, non è la sua ingenua negazione, il voler essere ottimisti
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a oltranza, come avviene nel campo del positivismo, ma è la presa d’atto della realtà come punto di partenza. Se “Tutto
è male”, come afferma Leopardi, ciò non significa che dobbiamo rassegnarci all’impotenza. La condizione umana è
quello che ci è stato dato, ed è a partire da questa consapevolezza che può avvenire un autentico progresso, che è
sempre progresso della coscienza.
Mettere il male all’origine è ben diverso dal metterlo come effetto delle nostre azioni: nel primo caso abbiamo a che fare
con un’idea di destino a cui si oppongono la nostra libertà e le nostre scelte; nell’altro è in gioco un’idea di moralità, cioè
qualcosa di molto diverso. Direi che il male come condizione umana ha una natura ontologica, esso cioè non è
connotato di moralismo, è un principio metafisico assoluto che, nello stesso tempo, ci deresponsabilizza e ci coinvolge
totalmente; il male come valore è invece l’apparire di un dualismo di tipo trascendente, della coppia bene/male, che
implica una scissione della coscienza, l’immobilità della ragione tra ciò che è semplicemente dato una volta per tutte.
Leopardi e Nietzsche si oppongono al male assoluto; ma come si fa ad opporsi tra l’andare di qua o l’andare di là?
Piccolo popolo - Cioè: il bene e il male “pre-confezionano” le nostre azioni, ci condizionano a certe scelte che non
dipendono totalmente da noi … che sono come strade tracciate su cui dobbiamo semplicemente incamminarci.
- Io direi di più: come si fa a “volere” il male? È ovvio che la visione moralistica del male non è libera. Non ci lascia
liberi. In qualche modo, salvo eccezioni, noi desideriamo il bene, e lo desideriamo sempre nella forma che ci viene
indicata dal contesto in cui viviamo. E così si spiega tutto il faticoso dibattito sulla felicità.
Mentre il male "assoluto" ci scaraventa nel vuoto, nel non senso. E qui viene fuori il carattere! La capacità di opporsi al
proprio destino.
- Chiaro. Ma allora di cosa parliamo, quando parliamo del male? Zibaldone, 4428.
nichilismo (non com. nihilismo) s. m. [dal fr. nihilisme, der. del lat. nihil«niente»]. – In filosofia, termine introdotto, nella
forma ted. Nihilismus, negli ultimi decennî del sec. 18° all’interno delle polemiche sul criticismo kantiano e sull’idealismo
per indicare l’esito di ogni filosofia che voglia tutto dimostrare, costretta, quindi, a tutto dissolvere in pure e vuote
astrazioni; più in generale, denominazione moderna di un atteggiamento ricorrente nel pensiero filosofico, comune a
molte dottrine anche antiche, secondo il quale, una volta stabilita l’inesistenza di alcunché di assoluto, non ci sarebbe
alcuna realtà sostanziale sottesa ai fenomeni di cui pure si è coscienti, risultando quindi l’intera esistenza priva di senso.
In partic., n. russo, ideologia e insieme di comportamenti tipici dei giovani intellettuali piccolo-borghesi nella Russia della
seconda metà dell’Ottocento (diffusi soprattutto attraverso i romanzi di I. S. Turgenev e di F. M. Dostoevskij), improntati
a un’entusiastica fiducia nella scienza, a un’accettazione del materialismo e del positivismo come strumenti polemici
contro ogni forma di cultura tradizionale, spec. morale e religiosa, con esiti, spesso, di individualismo esasperato, di
anarchismo, di immoralismo (più dichiarato che vissuto), ma con sbocchi anche politici, di tendenza all’emancipazione
sociale collettiva. Con riferimento soprattutto al pensiero e all’opera di F. Nietzsche, il termine designa la presunta
inarrestabile decadenza della cultura occidentale greco-cristiana, e insieme la denuncia di questa decadenza e la
distruzione teorica e pratica dei valori della tradizione. Per estens., e al di fuori di contesti filosofici, il termine definisce in
tono polemico atteggiamenti o comportamenti ritenuti rinunciatarî oppure volti alla distruzione di qualsivoglia istituzione o
sistema di valori esistente. [Treccani.it]
nota di copyright: immagine di pubblico dominio
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In questa unità
Testo: Storia delle idee
Autore: Maurizio Châtel
Curatore: Maurizio Châtel
Editore: BBN
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